Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte/Sonetti d'alcuni arcadi più celebri
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SONETTI
D’ALCUNI ARCADI PIU’ CELEBRI
GIO. GIROLAMO ACQUAVIVA.
Io veggio ben siccome acerbo e rio
È quello stato in cui mi pose Amore,
Donna, qualor da tuoi begli occhi fuore
L’acuto stral che mi trafisse uscìo.
5Da quel momento ahi lasso! è il viver mio
Continua morte: e pur l’aspro dolore
Fuggir potrei ma nol consente il core:
Sì traviato è il folle mio desìo.
Conosce gia sotto qual scorta infida
10Va camminando e per qual duro calle
Ei segue Amor che al precipizio il guida:
Nè a sì crudo Signor volger le spalle
L’alma risolve: e spera e in lui s’affida,
In lui, che strazio solo e angoscia dalle.
I1
Mira l’eroe che tutto in se raccolto
Cuopre col petto l’assalite porte,
E l’acerba ferita ond’egli è colto,
Men gagliardo fa il braccio e il cor più forte.
5Mira qual vario lume abbia nel volto
Onde atterri i nemici, e i Suoi conforti:
E quinci e quindi lo vedrai rivolto,
Ove è più di periglio, e più di morte.
Morte barbara morte alzarsi il crudo
10Tuo braccio io vedo, e lui sparger di gelo,
E v’oppone virtù ma in van lo scudo.
Nè lui già piango nò che vive in Cielo,
Ma il secol nostro, e il basso mondo ignudo
Di senno, di valor, di santo zelo.
II2
Chi fu che d’Austria alla città reina
Sciolse le mani a vendicarsi pronte,
E assicurò la libertà Latina
Esangue omai del gran periglio a fronte?
5Chi fu che di barbarica ruina
Empiè la valle e alzò sul piano un monte?
E qual tempra di marmo adamantiva
Ruppe a Bisanzio il fier’orgoglio in fronte?
Ben tu, Sarmato re, festi di gelo
10Parer l’armi dell’Asia e lei respinta
Oltre del mare le mostrasti il laccio:
Ma pria che fosse o spada o lancia tinta,
Sparse voti Innocenzio: indi al tuo braccio
Donò le piaghe meditate il Cielo.
III
Quando chiari e tranquilli i giorni nostri
Ne gian di pace fra soavi inganni,
Da Dio lontana e in braccio a fiere, e mostri
Passasti, Italia, in grave sonno gli anni.
5Iddio ti scuote: apre i tuoi saldi chiostri
Urto di guerra a innumerabil danni:
Ma perchè senso a’ suoi rigor non mostri
Dono ti fè d’altri novelli affanni.
Cadono tocche le Città dal forte
10Braccio e un giorno le copre d’erba, e un giorno
Spinge gli aratri in sù l’avanzo informe.
Stridono or mille a te saette intorno
D’inestinguibili strage: e ancor si dorme?
Italia Italia è questo sonno, o morte?
IV3
Non per veste superba, e per altero
Moto di penne eccelse all’aura sparse,
Chiaro e noto il real giovane fero
Agli occhi miei fra mille schiere apparse:
5Ma dove io veggio sotto ’l gran destriero
Cader armi ed armati e strada farse
Fra le più folte turbe il valor vero,
E cieca polve incontro al Sole alzarse:
E correr sangue le rive vicine
10De’ fiumi, e al lampo del veloce acciaro
Pallido farsi anco a’ più forti il viso:
Là tra il sangue le morti e le ruine
E le stragi distinto assai ravviso
Il re, cui l’opre di sua man fan chiaro.
ISABELLA GIROLAMI AMBRA.
Odio invidia vendetta avete vinto:
Io getto l’armi e mi sottraggo al campo:
Non perchè io speri, e nè pur brami scampo
Da sì fieri nemici dond’io son cinto.
5Io vedo il carro a cui verronne avvinto,
E del rogo feral m’arrendo al lampo:
Che l’aspro duol per cui gelo ed avvampo,
A morte il cuore e non a guerra ha spinto.
Tempo già fu che d’archi e di bandiere
10Non temer seppi, e di baldanza armato
Risimi a fronte di nemiche schiere.
Che un Nume altier, ben sallo Amore, a lato
Stavami sempre e mi fea franco: ahi fere
Stelle, che il feste omai ver me sdegnato!
I
Lasso ben mille volte in tutte l’ore
Tacito, e solo meco io mi consiglio:
Vedi, a me dico, il tuo sì lungo errore;
Torna a te stesso omai dal duro esiglio.
5Ma fo come augellin ch’indarno fuore
Cerca scampar dal forte e fiero artiglio,
Ragion seguendo: poichè contra Amore
Misero! non mi val forza, o consiglio.
Piangendo esclamo allor: da queste pene
10Tu sol’ a trarmi sei Morte bastante,
Tu d’un core che langue ultima spene.
Quando (oh gloria, oh favor!) soffri costante
Par che mi dica Amor, l’aspre catene:
Sarai ’l più fido, e ’l più felice amante.
II
Più volte il piè rivolgo in altra terra.
Lungi da gli occhi che mi negan pace:
Ma quella pur mi chiama all’aspra guerra,
Che nutre i miei martir cura mordace.
5Men fuggo in folte selve, ove si serra
Ombra che rasserena, orror che piace:
E tosto veggio quanto il pensier erra,
Se nel silenzio più l’alma si sface.
Torno nelle cittadi: ivi mi fiede
10Crudo affanno vie più: poichè permesso
Non m’è sfogarlo, o ’l narro a chi nol crede.
Ahi che loco non v’è dove concesso
Mi sia ristoro: ovunque porto il piede,
Porto (misero me!) sempre me stesso.
TOMMASO D’AQUINO
Allor ch’il superbo Ilio, e l’alte mura
Giacean di Troia incenerite ed arse,
La bella Greca in mezzo al foco apparse
4Quasi fra tant’orror scarca e sicura.
Languì la terra insieme e la natura,
A tanti stragi, a tante moli sparse:
Pur lei fiamma non punse, e stral non arse
8Mercè d’Amor ch’i suoi ministri ha in cura,
Tal leggiadretta donna il cor mi punse,
E sovente trattò la face e l’arco
11D’Amor, nè strali o fiamma al suo cor giunse.
Amor noi giunti insieme al dubbio varco,
Armata lei lasciò, me inerme aggiunse
14Con gli altri ancor sotto il gravoso incarco.
FULVIO ASTALLI.
I4
Nel tempo ch’accingeasi all’alta impresa
Eugenio, presentossi a lui Fortuna
E disse: io t’offro il crin per tua difesa
Ten servi a incatenar la Tracia Luna.
5Io sarò teco: e nella pugna accesa
Non ti si appresserà sventura alcuna,
Ed appena faranno a te contesa
Tutte le forze che Bizanzio aduna.
Stringi quel crin che ti può far felice,
10E il tuo gran nome ancor più memorando,
Che senza me nulla sperar ti lice.
Eugenio allor: va finto mostro errando;
Và pel mondo a ingannar volgo infelice:
Son la vera fortuna il senno e il brando,
TRADUZIONE DEL PRECED. SONETTO
di
AGOSTINO ISIMBARDI
Tempore, quo Eugenius sese accingebat ad arma,
Fortuna ante suos visa repende oculos.
En crinem, dixit, quo defendaris: in isto
Agnoscat laqueos barbara Luna suos.
Tecum ero, ne dubita et pugnæ dum creverit ardor,
Evenient armis prospera quæque tuis.
Quin etiam tibi tot quamvis vix ipsa resistent
Agmina quæ Thracum Regia mittit ovans:
Qui tibi, qui famae pretium dabit? arripe crinem;
Nil sperare tibi me sine in Orbe licet.
Tunc vero Eugenius: sparsis errare capillis
Perge, ait, o monstrum, noxia perge lues.
Perge super Terras infelix fallere vulgus,
Sors etenim verax, mens, gladiusque mihi est.
II5
Pallante, ho quanto è giusto il tuo furore:
E il pianto che t’inonda e gli occhi e il seno,
Se la stessa natura al grand’orrore
Di sì crudo spettacolo vien meno.
5All’empio che ancor spira astio e terrore
Presso cui Stigia Furia orrida è meno,
Dì pure che quel suo barbaro core
Il latte che succiò, cangia il veleno.
Ma d’Agrippina il sangue allor che fea
10Dal suo carcere sciolto, il suolo vermiglio,
Col pianto universal misto correa.
Frena dunque lo sdegno, e tergi il ciglio:
Che aver pietà di madre iniqua e rea
Opra fu sol dell’empietà del figlio.
III
Roma ch’ergesti le tue moli altere,
Dove campi dell’aria hanno il confine,
Dimmi, perchè sull’alte tue ruine
Ridon ora de’ fior tutte le schiere?
5Se cadde a terra quel superbo crine,
A che serti intrecciar le Primavere?
Solo dovean qui meste piante e nere
Delle grandezze tue piangere il fine.
Roma, le tue cadute io piango ognora
10E vò che questa destra ora recida
Sovrà i sepolcri tuoi Aprile, e Flora.
Errai. Superbia ancora in te s’annida:
Ti vinse il tempo è ver, ma vinta ancora
Delle perdite tue par che tu rida.
GIUSEPPE BARTOLI
Oh s’io potessi all’onorato monte
Giunger col tardo piede ov’ho il pensiero,
Or che di novo lume eterno e vero,
Van le tue rime, Ulipio, adorne e conte!
5So ben, ch’udrei tra ’l verde lauro e ’l fonte
Dolce cantarle il cigno stesso altero,
Cui già correan nel bel tempo primiero
Le ninfe d’Arno ad ascoltarlo pronte.
Vedrei da Febo accorle, anzi nel grembo
10Porle di Gloria, e per maggior suo scorno
Mostrarle al Tempo, e ragionar con lui
Queste pur fien tue spoglie e fregi tui,
Quando vedremo a quel tuo carro intorno
(E ten rallegra) il gran Petrarca, e ’l Bembo.
GIROLAMO BARUFFALDI
I
Cieca di mente, e di consiglio priva
Scende giù l’alma avvolta in fragil manto,
E peregrina finchè giunga a riva
Questa prende a passar valle di pianto.
5Ivi talor non sa se muoia, o viva
Fra le tempeste, che l’assedian tanto
Ma se di Fè l’occhio più interno avviva
Qual mai si vede alto soccorso accanto
Spirto immortal, che il Ciel di sè innamora,
10Fassi a lei guida, e presso lei riluce,
E trarla cerca dal periglio fuora.
Ma guai, se dietro l’orme sue di luce
Pronta non segue, e cade assorta: allora
Folle di sè dorrassi, e non del Duce.
II
Io no, non credo, che il morir sia danno,
Nè che per morte il nero obblìo si varchi:
Anco di là templi, teatri ed archi
All’alme grandi per onor si fanno.
5E mentre il dì fatal colà n’andranno
Gl’invitti Eroi del mortal fango scarchi,
Per lo sentier de’ Regi e de’ Monarchi
L’immago dell’antiche opre vedranno:
Chè le tante, onde fu la Terra angusta,
10Eterne imprese il Ciel pinge e colora
Su l’ampia strada luminosa e augusta.
Tal del gran Re, ch’esce d’albergo fuora,
Per quella via de’ suoi trionfi onusta
Passa l’Ombra superba e gode ancora.
III6
Quel raggio, che mostrommi il cammino destro,
Per cui correr dovea con franchi passi,
Poichè svanimmi, io mi trovai fra i sassi,
E n’ebbe tema il carcer mio terrestro:
5E, come suole un animal silvestro,
Lasciai la via co’ pie tremanti e lassi,
E con gl’occhi tra ’l buio umidi e bassi
N’andai tentone in quel deserto alpestro.
E ricercando pur qualche contrada,
10Torna, o lume, gridai, troppo m’affiligi,
Se più t’indugi, e non so dove i’ vada.
Quando il fausto splendor de’ tuoi vestigi,
E la tua voce mi scoprìo la strada,
E mi tolse dai laghi averni e stigi.
IV.7
Finchè questi occhi aperti il Sol vedranno,
E la mia lingua a favellar fia sciolta,
E l’intelletto dall’oscura e folta
Nebbia scevro n’andrà d’ombra e d’inganno:
5Vergine eccelsa, da quel primo danno,
Che ogni alma tiene in aspro modo involta,
Te giurerò dal divin braccio tolta
Fin dall’eterno incominciar d’ogn’anno.
E ’l giurerò con fronte alta e sicura,
10E ’l ridirò ad ogn’ora, ovunque io passi,
Sebben laggiù nella prigione oscura
Chè in que’ d’Ombre sepolcri orridi e bassi
Sarìa felice ancor la mia ventura,
Purchè là dentro il tuo candor lodassi.
V.8
Ben veggio il marmo, il simulacro, e l’urna,
Ma l’ossa no del mio Cantor primiero:
Deh chi mi schiude per pietà il sentiero
A quella fredda polve e taciturna?
5Vorrìa veder la tromba, e in un l’eburna
Cetra come sen giaccia, e ’l pungol fiero,
E ’l Socco umìle, onde coperse il Vero
In sembianza ridevole e notturna.
Trar le vorria fuor dalla notte al die,
10E, certe occulte note mormorando,
Ravvivar quelle spoglie, e farle mie:
Poi lieto andar per queste vie cantando
Nov’arme, novi amor, nove follìe,
Maggiori ancor delle follìe d’Orlando.
GIACOPO BASSANI
I.
Gentil Vinegia
Degna d’impero.
Dovunque il vero
Valor si pregia:
5Tua virtù egregia
Del Trace fiero
L’ardir primiero
Gia frange e spregia.
Corcira il dica,
10Dove or fa nido
Tua gloria antica;
E in ogni lido
L’oste nemica
Ne tema il grido.
II9.
O Italia! o Roma! Se ’l valore antico
Non raccendea la mia real cittade,
Qual riparo alle vostre, alme contrade?
Chi vi scampava dal crudel nemico?
5Ogni ampia riva, ogni bel colle aprico
Di mille ingombro e mille inique spade;
Qual per l’Unno furore all’altra etade,
Tutto scorrea del gentil sangue amico.
Vinegia nol sofferse, e ai danni e all’onte
10Vostre fè saldo impenetrabil scudo,
La bella difendendo egra Corcira:
Chè il Trace già d’ardir e speme ignudo,
Gran duol portando e gran vergogna in fronte,
Ne fuggì, al Cielo ed a sè stesso in ira.
LORENZO BELLINI
I
Ahimè, ch’io veggio il carro e la catena,
Ond’io n’andrò nel gran trionfo avvinto:
Già ’l collo mio, di sua baldanza scinto,
Giro di ferro vil stringe ed affrena.
5E la Superba il carro in giro mena,
Ove il popol più denso insulti al vinto:
E strascinato, e d’ignominia cinto,
Fammi l’empia ad altrui favola e scena.
Quindi mi tragge in ismarrito speco,
10Ove implacabil regno have vendetta
Fra strida disperate in aer cieco.
E col superbo piè m’urta e mi getta
Dinanzi a Lei, con cui rimango; e seco,
Chi puo pensar qual crudeltà m’aspetta?
II
Ed or qual volta del mio stato indegno
Sdegnoso a me l’antico me richieggio,
E i gran recinti a ricercar ne vegno,
Che fur di lui tant’anni albergo e seggio:
5Ahi che, qual va per desolato regno,
Più di quel che già fu nulla vi veggio,
E in van qualche memoria o qualche segno
A un cheto orror, che v’abita, ne chieggio.
Onde vegg’io ch’ei tutto in abbandono
10Gito è del mondo, e nulla più n’avanza
Se non dell’opre e del suo nome il suono;
E in questa spoglia, e in questa sua scordanza
Niuna parte di lui son’io, ma sono
Una confusion senza possanza.
MARCH. CORNELIO BENTIVOGLIO.
I
Ecco Amore: ecco Amor. Sia vostro incarco;
Occhi, chiudere il passo al Nume audace,
Che a turbarmi del sen la cara pace
Sen vien di sdegni e di saette carco.
5Ecco Amore: ecco Amor. Vedete l’arco,
Che mai non erra e la sanguina face:
Già la scuote la vibra e già mi sface:
Occhi... Ah voi non chiudeste a tempo il varco.
Ei già mi porta al sen crudele affanno,
10E dell’error ch’è vostro, o lumi, intanto
Il tormentato cor risente il danno.
Ma d’irne impuni non avrete il vanto;
Poichè, in questo sol giusto, Amor tiranno
Se il core al fuoco, e voi condanna al pianto.
II
L’anima bella, che dal vero Eliso
Al par dell’alba a visitarmi scende,
Di così intensa luce adorna splende,
Che appena io riconosco il primo viso.
5Pur con l’usato e placido sorriso
Prima m’affida, indi per man mi prende,
E parla al cor cui dolcemente accende
Dell’immensa beltà del Paradiso.
In lei parte ne veggo; e già lo stesso
10Io più non sono, e già parmi aver l’ale:
E già le spiego per volarle appresso.
Ma sì ratta s’invola e al Ciel risale,
Ch’io mi rimango, e dal mio peso oppresso
Torno a piombar nel carcere mortale.
III
Vidi (ahi memoria rea delle mie pene!)
In abito mentito io vidi Amore
Ampio gregge guidar, fatto pastore,
Al dolce suon delle cerate avene.
5Il riconobbi all’aspre sue catene
Ch’usciano un poco al rozzo manto fuore;
E l’arco vidi che il crudel signore
Indivisibilmente al fianco tiene.
Onde gridai: Povere greggi! ascoso
10Il lupo in vesta pastoral fuggite,
Pastor, fuggite il suono insidioso.
Allora Amor: Tu, che le insidie ordite
Scopristi, ed ami sì l’altrui riposo,
Tutte prova in te sol le mie ferite.
IV
Poichè di nuove forme il cuor m’ha impresso,
E fattol suo simil la mia Nicea
Con uno sguardo, onde non sol potea
Far bello un cor ma tutto ’l mondo appresso,
5Da quel letargo, ove pur dianzi oppresso
Dalle fallaci brame egro giacea,
Si scuote sì, così s’avviva e bea,
Che a chi ’l conobbe più non par quel desso
Fortunato mio cor, più quel non sei:
10E salendo per l’orme degli eroi,
Stai per nuova virtù non lunge ai Dei.
Gentilezza e valor son pregi tuoi:
Nè già te lodo, anzi pur lodo lei,
E solo in te l’opra degli occhi suoi.
V
Tra i lascivi piacer dell’empia Armida
Giace in ozio avvilito il buon Rinaldo:
Ed ei, ch’in guerra fu sì ardito e baldo,
Or torpe in sen d’una fanciulla infida.
5Ma il Ciel, che ’l serba a maggior’opre, guida
A lui per strade ignote il forte Ubaldo,
Che collo scudo adamantino il saldo
Incanto rompe e il neghittoso sgrida.
Lo sgrida, e desta nel feroce petto
10La sopita virtù, che omai non lenta
Dell’amoroso error lascia il ricetto.
Così Ragion lo scudo a me presenta
Ov’io mi specchio, e il cor l’orrido aspetto
Del suo passato amor fugge e paventa.
VI
Contrario affetto il cor m’assale, e stringe,
Che mi punge talor, talor m’affrena:
Affetto di piacer misto, e di pena,
Ch’ora m’avviva, ed ora a morte spinge.
5Al pensier lieto Amor promette, e finge
In dolce servitù vita serena:
Mi dimostra il timor di qual catena
La tiranna dell’alme ogni alma cinge.
Corre il desio dove l’invita un seno:
10Ma un ciglio maestoso impongli il morso,
E nato appena, il mio sperar vien meno.
Ah ch’io son qual destrier, cui prema il dorso
Cavaliere inesperto, e il tenga a freno,
Mentre co’ sproni lo sospinge al corso.
VII
Donde il nuovo colore, e i nuovi canti
Dell’erbe molli, e de’ lascivi augelli,
E ’l gajo mormorar de’ bei ruscelli,
Che parean mesti, e taciturni avanti?
5Donde il lieto belar dell’agne erranti,
E ’l saltellar pe’ capri allegri, e snelli?
Perchè i più crudi, ed ad amor rubelli
Pastor fra noi oggi son fatti amanti?
Donde il dolce spirar della fresch’ora,
10Ch’oltre l’usato gli animi ricrea,
E di rose novelle il suolo infiora?
Perchè il mio cor, che vive in doglia rea,
D’insolito piacere or si ristora?
Donde tanti stupor? Tornò Nicea.
VIII
Sotto quel monte, che il gran capo estolle,
E protegge coll’ombra il rivo e ’l fiore,
Stav’io con Fille, e parlavam d’amore,
Ambo sedendo in su l’erbetta molle.
5Scriver col dardo suo la ninfa volle
Su la polve la fè, ch’avea nel core,
Ed anch’io impressi il mio fedele ardore
Nel tronco di quel faggio appiè del colle.
Quando l’impressa arena agita e volve
10Turbo importun d’aura rapace e fella,
E la mia speme e la sua fè dissolve.
Ma la stessa giustissima procella
Porta nel tronco la commossa polve,
E con la sua la fede mia cancella.
IX
O troppo vaghe e poco fide scorte,
Che ’l primo varco apriste al crudo Amore,
Onde con seco nel domato core
Tutta introdusse sua funesta corte:
5Gelosie, tradimenti, e mal accorte
Brame, eterni sospetti, e reo dolore,
Breve speranza con perpetuo errore,
Odio di vita, e gran desio di morte.
Or che farem, poichè il crudel tiranno,
10Di noi s’è fatto donno, e con baldanza
Ragione ha tratta dal regal suo scanno?
Questo non so; so ben, ch’ancor n’avanza
Nel nostro grave irreparabil danno
De’ disperati l’ultima speranza.
FRANCESCO BERETTA.
Già misuro anelante i spazj immensi,
Per dove il volo, o mia Nicea, spiegasti;
Sien questi versi miei gl’ultimi incensi,
La mia morte ti siegua ove n’andasti.
5Ma tu rispondi: O misero, che pensi
Correr dietro a quel fral, che tanto amasti?
Questo è il Ciel; qui non hanno ingresso i sensi,
Nè il tuo amor saggio è una ragion, che basti.
Amami d’altro amor, che non sia vano;
10Troppo mi duol, che nel sentier, che tieni,
Più che cammini, e più sarai lontano.
Ama i bei raggi in me di gaudio pieni,
Ama la bella patria, ama la mano,
Che ti stendo a venir; ama, e poi vieni.
LUIGIA BERGALLI.
I10
Se rivolgo il pensiero al non bugiardo
Chiaro suono, onde fama a noi vi mostra,
Gran donna, siete tal, che all’età nostra
Solo forse per voi, s’avrà riguardo.
5Quindi, se bene ardita all’altrui sguardo
Degl’incolti miei carmi osai far mostra;
Or che spiego il mio canto all’alta vostra
Mente già di rossore avvampo ed ardo.
Nè per senno maggior di porlo in bando
10Spero; che non avrò da lui men guerra
Me stessa, e questi verdi anni mutando;
Chè per voi tanta il Ciel virtù disserra,
Alma regal, ch’io non so come, o quando
Ne fia cortese ad altra donna in terra.
II11
Alma Vittoria, che del Tebro in riva
La voce in sì bei carmi un dì sciogliesti,
Che mille volte, e mille altrui potesti
Dubbio recar, se fossi donna, o diva;
5Questa, che da tua stirpe alta deriva,
E ch’or col dolce viso, e gli atti onesti
L’Adria innamora, ben dal Ciel vedesti
Qual sia di tua virtude immagin viva.
Io chiederei lo stil, che teco ai santi
10Cori portasti, esso che sol potrebbe
Spiegar di Agnese i pregi eccelsi e tanti:
Ma chi sa mai, se sua modestia avrebbe
Agrado poi di udire i propri vanti?
Ed allor quale stil se le dovrebbe?
III12
Muse, se di spogliar mio stile impetro,
Vostra mercè, di modi incolti e bassi,
Fa che col nome un dì forse io trapassi
L’ultimo lido, e invidia io vegga indietro.
5Non già le crude fiere, e i sordi sassi,
Come il tracio Cantor, vò trarmi dietro:
Nè cerco già verso l’ardente e tetro
Empio regno di Dite aprirmi i passi.
Alle mie rime, or da viltade oppresse,
10Lume darò coi pregi del più altero
Spirto, che in mortal velo il Ciel mai desse.
E allor, ch’io giunga in parte a dirne il vero,
Ben quanti Apollo ad alte imprese elesse
Per questo sol vincer di fama io spero.
IV13
Forse dirammi alcun: tu, che de’ vanti
Altrui sovente usi spiegar le lodi,
E perchè mai di onesto onor de’ Prodi
Le famose talora opre non canti?
5Nè sa quell’un, che in celebrando i tanti
Suoi merti invano ognor la lingua io snodi;
L’ingegno è corto, poca l’arte, i modi
Mancano tutti al gran soggetto innanti.
Che se gli alti suoi fregi io co’ miei carmi
10Spiegar potessi, oh come, oh quanto avrei
A goder di me stessa, ed a vantarmi.
Poichè so ben, che fama allor torrei
A Chi cantò d’Ilio e di Grecia l’armi,
E so, che in ciò m’han fede uomini e Dei.
PIETRO ANTONIO BERNARDONI
I14
Al rozzo stato suo volgendo il ciglio
Quel dì, che assiso in Vatican ti scorse,
Stette pensosa, e fu l’Arcadia in forse
Se chiamarti dovea Signore, o figlio.
5Ma nel grave per lei d’errar periglio
Una voce d’Italia a lei soccorse,
Onde sicura in un balen risorse
Da quel, dove giacea dubbio consiglio.
Ecco, Italia dicea, l’eroe beato,
10Che tanto attesi; eccol da Regno e Regno
Stender l’impero, a cui lo scelse il fato.
Ecco, dicea l’Arcadia, il mio sostegno.
Tu, che lor figlio, e difensor sei nato,
Deh non aver suoi puri voti a sdegno.
II
Qualor di nuovo e sovruman splendore
In me Nice rivolge i lumi ardenti,
Nè degnando mirar su l’altre genti,
Tutto prova in me solo il suo valore;
5Ognun de’ sguardi suoi mi passa il cuore
Per la via, che ben sanno i rai lucenti;
E giunto a lui, con non so quali accenti
Si ferma seco a ragionar d’amore.
E solo Amor, che in compagnia di quelli
10M’entrò nel sen, potrìa ridire altrui
Di quai gran cose ognun di lor favelli.
Già nol poss’io, perchè in mirar que’ dui
Fonti della mia fiamma, occhi sì belli,
In lor fuori di me rapito io fui.
III15
Questa, che tien sopra il tuo cuore il vanto,
Di ben regger se stesso inclita brama,
E quel d’imperi no, ma sol di fama
Chiaro pensier, che nel tuo cuor può tanto;
5E il zel del divin culto acceso, e santo,
Per cui la fè suo difensor t’acclama;
E la pietà, ch’a rasciugar ti chiama;
De’ tuoi vassalli in su le ciglia il pianto
E mille altre virtù, ch’hai teco in trono,
10Di trar da Lete un bel desìo m’accende,
Ma le forze al desìo pari non sono.
Nè perciò tua bontade a sdegno prende,
Anzi rozzo qual è de’ Carmi il dono
De’ gran tributi al par grato ti rende.
CESARE BIGOLOTTI
Idalgo, andrai là, dove al Sol nascente
Il ricco Gange l’alma cuna indora,
E vedrai da vicin bella e lucente
Dall’indico Oceàn sorger l’Aurora.
Vedrai nuovi costumi e nuova gente;
Qual segno il polo antartico colora;
E di quai frutti e di quai fior ridente,
Rendon la spiaggia Eoa Pomona e Flora:
E ricche di smeraldi e d’adamanti
Vedrai le rupi, e quai dal mar natìo
Escan dell’Alba i preziosi pianti.
Allor dirai pien d’un più bel desìo:
Terra felice in tanti pregi, e tanti,
Solo ti manca riconoscer Dio.
II
Quel dolce strale, onde piagar solea
Per l’uom sè stesso l’increato Amore,
Dal sen si trasse, e lo sospinse al core
Della più vaga Verginella ebrea.
Ella fè scudo al colpo, e armata ardea
Di santo sdegno e d’innocente errore;
E cinti i bei pensier di casto orrore
All’alto spirito suo guerra movea:
Ma l’eterna sua idea quei le scoprìo
Pietoso del fallir nostro primiero,
Ed appagolle il verginal desìo;
Talchè in umil voler di speme altero
Ella chinò le luci; e si adempìo
Di Vergine e di Madre il gran Mistero.
OTTAVIO BOLGENI.16
Se piangi lei ch’uscì del mondo fuore,
È gran torto lagnarsi del suo bene;
Chè lamentar, perch’altri esce di pene,
4Nè giustizia il sostien, nè ’l vuole amore
Se ’l tuo danno deplori, è grande errore;
Chè perduta chiamar non si conviene
Quella che in ciel beata un seggio tiene,
8Onde a giovarti ha più brama e valore.
Dunque sia fine al tuo lungo martire,
E, se ti vuoi lagnar, lagnati meco;
11Che siam rimasti in sì nojosa vita;
O, se a te pesa tanto il suo partire,
Non piangere perch’ella or non è teco,
14Ma perchè tu non sei dov’ella è gita.
ANTONIO BONINI.
I
Dov’è la bella età, che gigli e rose
Sulle tenere guance vi dipinse?
Dov’è l’oro del crin, che in pregio vinse
4Quel, che natura sotto i monti ascose?
Dove son le pupille luminose,
Ch’ogni amante guatando in sè si strinse,
Gridando, che per farle Amore estinse
8In Ciel due stelle, e in fronte a voi le pose,
Or se potete, o Filli, richiamate
Sì che tornino a voi così begli anni,
11Onde sì vaga un’altra volta siate.
Ah che ben puote de’medesmi panni
Rivestirsi ciascun, ma dell’etate
14Veste non v’è, che ci ricopra i danni.
II17
O superbetto mio picciolo Reno,
Deh lascia, lascia omai questo costume
Di tor ninfe or a questo, or a quel fiume,
4Se di sì bella il Cielo ornò il tuo seno.
Tu poi sospiri, perchè gonfio e pieno
A romper vai fra boschi le tue spume,
E perchè giaci, insin che ti consume
8Sparso l’ardente Sol nel tuo terreno.
Non senti ancor, che il Tebro oggi si duole,
Che non contento di rapirgli due
11Figlie d’un sol pastor, la terza invole?
Non sai, che questi ha in man le sorti tue?
O mio Ren, quando è irato! ed ei non vuole,
14Ch’io gli rammenti le Sabine sue.
III18
Costei, che, o Pellegrino, in marmo scolta,
Pien di stupore a riguardar t’arresti,
Ninfa non è, che al dolce suon di questi
4Cadenti fonti sia dal sonno colta.
Dalle sue vene molto pria che sciolta
Quest’acqua fosse, i dolenti occhi e mesti
Ella avea chiusi; e li chiuse sì presti,
8Che assai di gloria al Tebro allor fu tolta:
Qual dal fier’angue morsa estinta giacque
La Reina bellissima d’Egitto,
11Tu miri, o Pellegrin, sopra quest’acque.
Il veder questo sasso oh quanto afflitto.
Fe’ il campidoglio! oh quanto a Roma spiacque!
14Leggilo in quel bel volto, ov’egli è scritto.
IV19
Chi è costei, che a mezza notte è desta,
E in via s’è posta con sì chiara lampa,
E sì nel suol rapidi passi stampa,
4Che mortal occhio dietro lei s’arresta?
Delle vergini sagge è certo questa
Una, che da vergogna e sonno scampa,
Onde lo sposo, di cui tanto avvampa,
8Non abbia a dir: di fuor, pazza, ten resta;
Ma qual rumore intorno l’aer rompe!
Ecco lo sposo per sentier di luce,
11Che vienle incontro, e suo corso interrompe,
Seguite o Verginelle, ora costei,
Cui sua prudenza a tanto onor conduce.
14Oh quanto ogni altra è tarda al par di lei!
V20
Che guardi, e pensi, Pellegrin divoto?
Questo è avello d’Antonio, e sono questi
Di lui gli alti prodigi, e manifesti,
4Che appesi stanno al sacro tempio in voto.
Guarda: quei son navigli, ch’Austro e Noto
A franger dal lor rege invan fur desti,
Quei sono i naviganti afflitti e mesti,
8Questo è un nocchier, che sta confuso e immoto.
Guarda quanti a perigli e a morbi tolse,
Quanti a maligni spirti! oh quanti a morte!
11Vè quanti lacci, e quanti ne disciolse!
Guarda quella di gravi anella attorte.
Catena infranta! Una al mio piè ne sciolse,
14Ben mi ricordo: ahi quanto era più forte!
VI
O Mopso, Mopso, quella tua sì ardita
Giovenca, per dir vero, a me non piace;
Quel gir fra tori sì lasciva, e audace
O mal frutto, o mal fine in lei n’addita.
5Vè là, com’or que’ tori al salto invita
Inarcando la coda, e come face
L’arena alzar del suol con piè vivace,
Bassando il corno inver l’erba fiorita.
Io so, pastor, che del tuo ricco armento
10Perdendo ancor costei, non t’è gran danno;
chè più belle di lei n’hai cento e cento;
Ma se fra lor que’ tori un giorno fanno
Sanguinosa battaglia, ah che pavento
Vederti pien di scorno, e d’alto affanno!
MARIA SELVAGGIA BORGHINI.
I
Abito eletto e sovra ogni altro altero,
Che l’interna bellezza orni e non celi,
In cui par che Natura altrui riveli
Dell’eterno soggiorno il Bello intero:
5S’io rivolgo talor l’occhio, o ’l pensiero
In ciò, che in te ripose il Re de’ Cieli,
Veggio come a Mortai chiaro si sveli
Del gran poter di lui l’Immenso e ’l Vero.
Onde se un dì fia, che l’età futura
10In carta legga quanto ha il Ciel raccolto
Nella tua rara angelica figura;
Dirà colma di duol: misero e stolto
Mortale, or chi ti guida e t’assicura
Se a te vedere il vero lume è tolto?
II
E fermo il piè sulle superbe sponde,
Che il gran Bavaro Eroe famose ha rese,
Mira a gemer l’Obblìo presso quell’onde,
E la Fama esultar tra mille imprese;
5Mira di fiori il suol sparso e di fronde,
Mira eretti trofei, bandiere appese,
E i monti alti ingombrare, e le profonde
Valli armi infrante, e schiere vinte e prese;
E mira Africa oppressa ed Asia doma
10Inchinarsi al gran Re, che in alto soglio
Di serto trionfal cinta ha la chioma:
Come spirando un valoroso orgoglio,
Vide stupida un tempo Italia, e Roma
Gli alti Cesari suoi nel Campidoglio.
ALESSANDRO BOTTA-ADORNO.
Più rime io vaneggiando avea già spese
Dietro a un dolce bensì, ma vil lavoro,
E nel natìo d’Arcadia umil paese
Serti io cogliea di non volgare alloro:
5Quando fama immortal per man mi prese,
E a te mi trasse, e mi diè cetra d’oro,
E mi additò tue sante eccelse imprese,
Onde mio novo stil volgessi a loro.
Ma in lor tal luce e maestà mirai,
10Che per stupor di suon la cetra priva
Di man mi cadde, e muto anch’io restai.
E dissi appena: ah virtù vera e viva,
Deponi alquanto i sovrumani rai,
Se vuoi del tuo Signor ch’io parli e scriva.
GIAMBATTISTA BRANCADORI.21
Di tua mente uno sguardo almo, e giocondo
Volgi dall’alte cure al nostro canto,
Ond’ei con lume sì soave, e santo
Chiaro divenga, e più gradito al mondo;
5Forse che allor fatto da te facondo
Anch’io dirò di tue virtudi il vanto,
E qual pena soffrir ne fe’ quel pianto,
Di tua rara umiltà segno profondo.
Quindi i bei pregi tuoi raccolti insieme,
10Se avvien, ch’a’ voti miei fortuna arrida,
Del mare andran sino all’arene estreme.
Tanto speriam, Signor, benigna guida
Offrendo il tuo gran nome all’alta speme:
Odi qual per noi parla, e qual n’affida.
CARLO IRENEO BRASAVOLI
I
Non la corona, che la fronte allaccia,
Non la ferita, che gli squarcia il petto,
Non le percosse, e non l’afflitto aspetto
Della sparuta sanguinosa faccia
5Io guardo sol: guardo le aperte braccia
Del mio Signore, e n’ho gioja e diletto:
Tal scuopre il Padre l’amoroso affetto,
Quando il figlio a lui torna e il figlio abbraccia,
Io così, che finor da lui fuggendo
10Per sentier ciechi andai, dopo error lungo
Alle sue braccia pure alfin mi rendo;
Ma non ancora al caro amplesso io giungo,
Perchè all’antiche nuove colpe unendo,
A i primi chiodi nuovi chiodi aggiungo.
II
S’egli è mai ver, che per vie cupe e ascose
Passando al mar s’incontrin l’acque e i fiumi,
E le sembianze vestano, e i costumi
Di tante oblique lor vene arenose:
5Oh come il Tebro io veggio le spumose
Linfe, e con seco mille algosi Numi
Spinger per valli, e monti, e sassi, e dumi
Del Pò a cercar le altere onde orgogliose!
E giunto ove ’l gran Re superbo siede
10Presso sue torri, e presso i lidi suoi
Apre alla bella copia albergo, e sede;
Rendi, gridar, rendi gl’illustri Eroi:
Questi d’Amor bei modi, e questa fede
Son trionfi di Roma, e non son tuoi.
III22
Isola bella, del valor più vero
Sede e fonte d’invitti illustri Eroi,
Dove Europa ripone i figli suoi,
E lor v’apre d’onor nobil sentiero.
5Ecco, ecco sorge un fiero turbin nero
Contra di te dagli empi lidi Eoi:
Ecco s’accosta, e già minaccia i tuoi
Mari e già turba il tuo felice impero.
E tu pur t’assicuri, e le sì forti
10Braccia, ch’hai fuora, a te ritiri e stai
Meditando ruine e stragi e morti?
Deh, se vuoi vinto il fiero nembo, omai
Alza sol sulle mura, alza su i porti
La tua candida Croce; e vinto avrai.
IV
Io ben l’udìa, ma non credea poi tanto
Del bel garzon, della gentil donzella;
Ch’ei così vago, ed ella così bella
Fosser, come correa d’intorno il vanto.
5Or ch’io li veggio colle Grazie accanto,
E con gli Amori, e sento la favella,
Benedico quel dì, che quello, e quella
Strinsero il nodo prezioso, e santo.
E chiamo quei, che dopo noi verranno,
10Che guardin fisso i duo vaghi sembianti,
Se di fiamma sublime arder vorranno;
Nè sien mai stanchi di tenere innanti
Quelle due vaghe idee, che in lor vedranno
Lo specchio degli Amori, e degli Amanti.
MICHEL BRUGUERES.
I23
Tu, che dal freddo polo al polo adusto
Gran monarca trionfi, e gran guerriero,
Ch’hai per scettro temuto il brando augusto,
E del Mondo ogni parte hai per impero;
5Deh perchè contend’oggi il tuo pensiero
Col pescator di Roma un lido angusto?
Ferma, o Gallo immortal, che non è giusto
Di far, che pianga, or ch’innocente è Pietro.
Se gl’arbìtri del Mondo il Ciel, ch’è pio,
10A te donò, perchè donar non puoi
Poca parte di Roma al Cielo, a Dio?
Se pur parte di Roma in Roma vuoi,
Ti basti il Campidoglio: ah non s’udìo,
Che altra parte di Roma abbian gli Eroi.
II
Vidi l’uom come nasce, e chi sostiene
Del freddo cranio il necessario ardore,
D’onde i nervi ramosi uscendo fuore
Son delle membra mie salde catene.
5Vidi per quali strade il sangue viene
Nella fucina a ribollir del core,
E per l’arterie il conservato umore
Con perpetuo girar torni alle vene.
Vidi pronto a nudrir chilo vitale,
10E come prenda un sonnacchioso oblio
In sì bella prigion l’Alma immortale.
Venga chi poscia ha di mirar desìo
L’eterna Provvidenza in corpo frale,
E osservi l’uom chi non conosce Iddio.
III24
Invittissimo Sire, al cui valore
Le superbe cervici il Mondo inchina,
Alla cui maestà pronta destina
La Fama istupidita eterne l’ore;
5Or che dal suo covile uscito è fuore
Il tracio mostro ad apportar ruina,
A empier l’Istro di sangue e di rapina
E di strage e di lutto e di terrore;
Sire, la clava tua, che i mostri atterra,
10Non l’uccide, e nol fuga? e quai litigi
Fan, che non voli a trionfarlo in guerra?
Soffrirai spettatore entro Parigi,
Che le future età dicano: in terra
V’erano i mostri, e pur vivea Luigi?
IV25
Vergine, tu, sotto il cui manto aurato
Fu ne’ perigli suoi Roma difesa,
E scuotendo la terra un Dio sdegnato
Fu dal tuo pianto assicurata, e illesa;
5Oggi, che l’Asia infida è tutta intesa
A condur sull’Italia un Mondo armato,
Mentre col suo Pastor piange la Chiesa,
Porgi al nostro dolor lo scampo usato.
Perchè il tuo soccorso omai si scopra,
10Tu i Re discordi in sagra guerra aduna,
Pronti già per tua gloria alla grand’opra.
Nè chiedo io già con supplica importuna
La tua possente man, ma solo adopra
Quel piede avvezzo a calpestar la Luna.
FRANCESCO BRUNAMONTI
I
Fermare a i fiumi il corso, a i venti il moto,
Trar gli alti monti, e l’alte selve seco,
Far, che i tigri, e cignai non guardin bieco,
E ch’ogni serpe di venen sia vuoto;
5Fin là, ve l’uman stame attorce Cloto,
Gir, e far guerra, o Re di stige, teco,
E trar mill’alme dal tuo bujo speco
Fin sul Ciel, che pur troppo a te fu noto;
E dar lassuso a quelle eterne menti
10Con prodigi non mai visti finora
Nuovi di maraviglia ampi argomenti;
Opre sono di lui, che qui s’adora:
Il sa l’Egitto, il san tutte le genti
Nate, e ’l sapranno le non nate ancora.
II
Astrea, dice talun, stava fra nui
Quando il vecchio Saturno ci reggea,
E per li boschi in pace si vivea,
Senza dir: questo è mio, quello è d’altrui.
5Ma poi, ch’il vizio uscì dagli antri sui,
E quella buona gente si fè rea,
Partissi, e nel partir pur si volgea
Dicendo: non vo più tornar fra vui.
Io no ’l dico però, che già la veggio
10Più, che mai lieta circondar d’allora
Due belle fronti al picciol Reno in riva;
E fra poco vedrò sul primier seggio
Lei coll’altre compagne, e affatto viva
La rimembranza dell’età dell’oro.
MARIA BUONACCORSI.26
Giva Febo di se fastoso un giorno
Per l’arti sue sì rinomate, e rare,
Per cui, coll’una fa l’alme sì chiare,
Coll’altra scaccia i rei malor d’intorno;
5Quand’ei mirando dal gran carro adorno
Là ’ve corre il bell’Arno al tosco mare,
Vide l’istesse sue virtù preclare
Splender nel Redi, e n’ebbe invidia, e scorno.
Di sdegno allora, e di livor dipinto
10Il volto, ei disse: E che dirà mai Delo,
Se un Mortal mi pareggia, e forse ha vinto?
E preso a un tempo il più terribil telo,
A lui vibrollo, e ’l pose a terra estinto;
Ma poi pietoso lo ripose in Cielo.
GIULIO BUSSI.
I27
Sognata Dea, che da princìpi ignoti
Avesti pria tra ’l volgo ignobil cuna,
Indi crescendo i creduli divoti
T’ersero altari, e ti nomar Fortuna:
5Superba sì, che quanti il Ciel raguna
Negli ampi giri astri vaganti, e immoti
Chiami tue cifre, e senza legge alcuna
Per dar legge a i Mortali usurpi i voti.
Su base istabil di rotante sfera
10Di confondere il Tutto hai per costume,
Sorda, cieca, ostinata, ingiusta, altera.
Tu Dea non già: ma chi teme o presume,
Mentre vile paventa, o indegno spera,
Per incolparne il Ciel ti finse un nume.
II28
Signor, tempra l’affanno, e al ciglio augusto
Rendi il sereno, onde gioisca il mondo:
Grav’è l’incarco, è ver, ma al grave pondo
Chi di se men confida è più robusto.
5Sgridar potriasi il tuo timor d’ingiusto
Dal tuo gran cor d’ogni virtù fecondo;
Ma, s’ei tace modesto, odi facondo
Dirti il Cielo: Io ti scelsi, ed io son giusto.
E ben mirasti a i primi albor del regno
10Scintillare improvisa Iri di pace,
Di fortunato impero e dono, e pegno.
Deh, mio Signor, perdona al labbro audace:
Della Chiesa di Dio farti sostegno
Se il Ciel vuol, s’a Noi giova, a Te dispiace!
III
Signor, non già perchè l’eterne, e belle
Gioie tu doni ai puri spirti e santi,
O perchè al regno degli eterni pianti
Danna la tua giustizia alme rubelle,
5Fia, che tema, ò speranza a queste, o a quelle
Opre rivolga i miei desiri erranti
Nè che affetto servil vincer si vanti
Alma simile a te, nata a le stelle.
Ma di santa superbia acceso il core
10Ciò, che non piace a te, fugge sdegnato,
Per pugnar quanto può teco in Amore.
Io bramo più di riamarti amato
Che l’acquisto del Cielo, ed ho in orrore
Più dello stesso Inferno esserti ingrato.
IV.
Raggio dello splendor sommo immortale
Che il basso Mondo ad illustrar discendi,
Bella virtù, che dove infiammi, e splendi
Quasi togli al Mortal l’esser mortale;
5A te ricca di te null’altra cale,
Ma di te stessa in te paga ti rendi,
E fuor di te nulla bramare intendi,
Perch’a te nulla è in paragone eguale.
Appo a te son mendichi e l’Indo, e ’l Moro;
10E la forza, e l’ardir perde fortuna,
Che tu la sorte sei, tu se’ il tesoro;
Il Bel, diviso in altri, in te s’aduna;
Tu gloria, tu piacer, pace, e ristoro;
Se v’è felicità, tu sei quell’una.
V.
Invidia rea di mille insanie accesa,
Veggio i tuoi lampi, anzi che i tuoni ascolto,
Ma non fia già, che sbigottito in volto
Io de’ fulmini tuoi tema l’offesa.
5Qual folgore, che a rupe alta, e scoscesa
Squarciando il sen scopre un tesoro accolto
Tale, se il tuo livor barbaro, e stolto
Lacera altrui, le altrui virtù palesa:
S’oltraggiare i migliori è tuo talento,
10Mentre oggetto d’invidia esser degg’io
Superbo andrò dell’ira tua contento.
E per rendere eterno il nome mio,
Nell’aringo d’onore, a gloria intento,
Invidia, altri ti teme, io ti desìo.
VI.
Questa vita mortal, ch’altri sospira,
E dice per error fugace, e breve,
S’occhio saggio a mirarla in lei s’aggira,
Perchè lunga è così doler ne deve.
5Lunga è al fanciul l’età, che in fasce il gira;
La sferza altra ne rende a lunga, e greve:
Lungo è poi il vaneggiar d’amore, e d’ira,
Lunga è vecchiezza ed a soffrir non lieve.
Così lunga ogni età sembra a chi vive;
10Ma giunto il fin, ne duole, e un punto solo
Poi sì varie lunghezze ogn’uom descrive.
Onde dico al mio cor: Sorgi dal suolo;
Che dà il Mondo, se i dì, ch’ei ne prescrive,
Vivergli è pena, e terminargli è duolo?
VII29
Donna real, cui diè Senna la cuna,
Sarmatia il Trono, e Roma t’apre il Cielo,
Che con alma sì bella, in sì bel velo
Già di te festi innamorar Fortuna.
5Ella un serto ti diè; ma te n’aduna
Altro di stelle la pietade, e ’l zelo:
Emula al gran Consorte, egli col telo,
Co’ voti tu festi ecclissar la Luna.
Manca per maggior gloria al figlio un regno;
10Sorte l’offrì; ma il genitor, non voglio,
Gridò dal Cielo; e fu pensier più degno.
Io, disse, gli mostrai come l’orgoglio
Si domi al trace. Ha di regnar disegno?
Vada a ritorre al gran tiranno il soglio.
VIII
Poi che superbia rea l’alme più belle
Rapì dal Cielo, e fè cangiare in mostri,
Mille colà dentro i tartarei chiostri
Nacquer da incesti rei furie novelle.
5Frode ed invidia al ben oprar rubelle,
Spargeste allor primiere i toschi vostri:
Avarizia, e lascivia a’ danni mostri
Sorsero, al lusso e all’interesse ancelle.
Ma per unir d’ogn’altra in una i mali,
10In cui tuto stillossi il pianto eterno,
Ebbe l’ingratitudine i natali;
Deforme sì, che con obbrobrio, e scherno
Abborrendola in se, fra noi mortali
Pieno d’orror la rigettò l’Inferno.
IX
Gloria, che sei mai tu? per te l’audace
Espone a i dubbi rischi il petto forte;
Su i fogli accorcia altri l’età fugace,
E per te bella appar l’istessa morte.
5Gloria, che sei mai tu? con egual sorte
Chi ti brama, e chi t’ha perde la pace;
L’acquistarti è gran pena, e all’alme accorte
Il timor di smarrirti è più mordace.
Gloria, che sei mai tu? sei dolce frode
10Figlia di lungo affanno, un’aura vana,
Che fra i sudor si cerca, e non si gode.
Tra i vivi, cote sei d’invidia insana:
Tra i morti, dolce suono a chi non l’ode:
Gloria flagel della superbia umana!
X
Qual aprono al mio sguardo amore, e sdegno
Sui monti di Giudea teatro atroce!
Reso è Gesù dell’altrui rabbia il segno,
Ma più dell’altrui rabbia amor gli noce;
5Oltraggia il sacro sen furore indegno;
Amor tormenta il cor vie più feroce;
L’ira tronco crudel diegli in sostegno;
Amore al cor del suo desìo fè Croce.
Così lui in Croce, e il cor ne i desir sui
10Trafissero ad un tempo ira, ed amore:
Rassembra un Crocifisso, e sono dui.
Quindi è, ch’il seno, aperto un doppio umore
Sparger si vede a beneficio altrui,
Il sangue delle vene, e quel del core.
XI30
Poichè la bella Ebrea l’alto pensiero
Per la fè, per la patria in se rivolse;
Tutta piena di Dio, con guardo altero
Quindi a beltà, quincia virtù si volse.
5Voi siate meco, disse; e il lusinghiero
Viso, e ogni vezzo in lei beltade accolse:
Virtù dielle il vigore, e così il fiero
Duce trafisse, e il patrio suol disciolse.
Oggi torna Giuditta, e tanto appaga
10Colle dolci armonie di stil sì degno,
Ch’io non so se in Betulia era sì vaga.
So, che l’ire rivolse a più bel segno:
Se un Duce uccise, or l’Obblìo cieco impiaga,
Mostro là di fortezza, e quì d’ingegno.
XII31
Qual mi destano in petto alto stupore
Queste, che gran pennello in tele avviva,
La romana Lucrezia, Elena argiva,
L’una d’amor trofeo, l’altra di onore!
5Quella, perchè la colpa ebbe in orrore,
De Regi suoi l’augusta Patria ha priva;
Questa, perchè gradì d’esser lasciva,
Fè la famosa Troia esca d’ardore.
Oh scherzo di destin troppo spietato!
10La potenza di Priamo allor fu doma
Sol da ciò che ai Tarquini avria giovato.
Tebro, avriano i tuoi Re serto alla chioma,
Santo, vivrebbe ancor Troia, se ’l fato
Dava Lucrezia a Sparta, Elena a Roma.
XIII
Su’ lacci, e reti, Elpino, al colle, al piano;
Sen riede autunno a dar le fere ai campi;
Del men fervido Sole a i dolci lampi
Torna ogn’augello a noi da Ciel lontano.
5La vana lodoletta, e il tordo insano
Corron delusi ai preparati inciampi,
E sembra già, che di bell’ira avvampi
L’astuto veltro, ed il veloce alano.
Si desti a pronta fuga il lepre vile:
10Il rabbioso cignale a fier cimento:
Cerchiam le caute volpi entro il covile.
Chi vuol goder, s’armi a i lor danni intento,
Che pur troppo è del Mondo usato stile
Trar dall’altrui periglio il suo contento.
XIV
Al prato, al prato Elpin: flauti, e zampogne
Recate, o ninfe; ecco ritorna Aprile;
Zingaretta del Nil vaga e gentile,
Già lo venne a predir garrula progne.
5Sembra, ch’ogn’altro fior sgridi e rampogne
Di tarda, e villa violetta umile;
E deposto di neve il crin senile
Par, che le nuove frondi il bosco agogne.
Già tesse filomena ai figli il nido:
10Esce al tepido Sole ape dorata:
Bacia il ruscel dal giel disciolto il lido.
La Terra, e il Ciel ride a stagion sì grata.
Ridiam; mancato è il verno. Ah di che rido!
È alla mia vita una stagion mancata.
XV
D’un limpido ruscello in sulle sponde
Scherzando un dì sedean Clori, e Daliso;
Quando inchinar sul rivo ambo il bel viso,
Egli lei vide, ed ella lui nell’onde.
5Mira, disse il pastor, come nasconde
Perle, e coralli il rio, quand’apri un riso:
Ma tu non vi mirar, s’altro Narciso
Non vuoi cadervi, allor Clori risponde.
Lieto ei gridò; sì vi cadrei, poi tacque;
10E mormorò: se fossi tu Salmace;
Ma passò il gregge, e intorbidò quell’acque.
Pur Clori udillo, e a raffrenar l’audace,
Disse: apprendi, o pastor; quel rio, che piacque
Fin che puro correa, torbido spiace.
RUGGERO CALBI.
I
Or che del lustro ottavo alfine omai
Son giunto, do un’occhiata al tempo scorso,
Ed al presente, che ’l vital mio corso
Affretta, ed è di pria più ratto assai;
5E seco trae gl’empi piaceri, e i guai
Che soffrii, per non porre ai sensi il morso
Indi fa cenno a Morte, e invan soccorso
Chieggio, e mercè, che non s’ottenne mai.
Onde grido: oh felici Giovanetti,
10Ch’aprite gl’occhi a sovraumano lume,
E soffocate i caldi, e ciechi affetti!
Misero me, che in preda a rio costume
Parmi, che in me rivolga uniti, e stretti,
E tempo e morte inesorabil Nume.
II
Quella, che nel mio cor trionfa, e regna
Alma beltade, a rio malor già cede;
E nel bel volto, ch’è d’Amor la sede,
Tenta morte spiegar l’orrida insegna.
5Padre del Ciel, per lei che a noi disegna
Quella, che ne prometti alta mercede,
Per lei, che a noi fa del tuo Bello fede,
S’arte non puote, la tua destra impegna.
Ch’ora, che conosciano esser mortale
10Valore, gentilezza, e leggiadria,
Che quà nel Mondo non conosce eguale,
A te, Padre immortal, l’alma s’invìa:
Ma lei ci serba, che a svegliar sì vale
La nostra mente a tanto vol restìa.
FERDINANDO CAMPEGGI.
I
Elpino, esce il leon fuor delle orrende
Sue selve, e a monti e valli intorno gira,
E anelando, e ruggendo il furor spira,
Che in lui, natura, e più la fame accende.
5Trova al fine un destrier, che il pascol prende
Sì lontani dal pastor, che appena il mira:
Tosto l’incalza, e vie più acceso d’ira
L’ugne interna nel dorso, e al suol lo stende.
Spuma egli, ed urla invano, invan percuote
10L’aria co’ calci, e si dibatte, e freme
Ch’ei lo lacera, e squarcia a brano a brano.
Vedi, ’ve libertà trasse l’insano
Destriero. Elpin, quel giogo, ch’or ti preme,
Forse a gran danno tuo date si scuote.
II32
Perchè trarmi, Signor, dal sen materno,
S’esser dovea, qual mi vedesti ingrato?
Di quant’onor per te fora mai stato,
Ch’io mi stessi entro il gran pensiero eterno!
5O perchè almen non far, che a pena entrato
In questa luce io vi restassi scherno
Di morte, e fosse il mio nome celato
Colà tra le più cieche ombre d’Averno?
Che non vedresti a te rivolto l’empio
10Re degli abissi andar dicendo: questi,
Che uscì dalle tue mani, or’è mia preda.
Ma se fia mai, la tua mercè, ch’io veda
Dell’armi sue farsi ruina e scempio,
O quanti avrai d’intorno inni celeste.
GIACOMO CANTI.
I
Serio voler di crude stelle irate
Mi toglie a forza al dolce suol natìo,
Non siete voi, che lagrimar mi fate,
Pastori amici, ch’or lasciar degg’io:
5Nè queste piagge sì fiorite e grate,
Nè il caro armento, e il fresco ombroso rio:
Sol cagioni del mio duol sono l’amate
Luci leggiadre del bell’Idol mio.
Che se lontan da lor fia pur, ch’io viva,
10Spingami il mio destino ovunque vuole,
Troverò ciò che perdo, in altra riva.
Ma voi pupille del mio vago Sole,
S’iniquo Ciel de’ vostri rai mi priva,
Dove più troverò, se siete sole?
II
O Pastorella che su verde riva
Siedi sol di te paga, e fuggi Amore,
Chinando gl’occhi sdegnosetta, e schiva,
Se a te volge lo sguardo alcun pastore;
5Cangia, cangia pensiero e nel tuo core
Amor ricevi, e il suo bel foco avviva:
Andrai, se provi sì gentile ardore,
Piangendo il tempo, che ne fosti priva
Ama ogni pianta; ne’ più folti, e densi
10Boschi ogni fera, e ’n Cielo ama ogni stella,
E sola senz’amar viver tu pensi?
Cangia, cangia pensiero, o pastorella
Folle, non sai, com’a te mal conviensi
L’esser priva d’amore, e l’esser bella?
III
Odo talor da chi passarmi vede
Col viso smorto, e gl’occhi mesti, e bassi,
Dir: costui certo arde d’amore, e stassi
In pene, e guai senza sperar mercede.
5Pur l’aspra mia nimica ancor non crede
Ciò, ch’altri dice, e ch’ancor sanno i sassi,
E spargo al vento le parole, e i passi,
Se cerco al mio gran male acquistar fede.
Talchè sono già presso a uscir di vita;
10Nè mi cale il morir, che so, ch’io porto
Purtroppo al core aspra mortal ferita.
Ma vorrei ben giacchè mi muoio a torto,
Che la crudel dopo la mia partita
Credesse almen, che sol per lei son morto.
IV
Io so ben la cagion, perchè senz’onde
Voi siete, o fonti, e l’erbe il lor vigore
Non hanno, e i fiori il bel natìo colore,
E son questi arboscei privi di fronde;
5Mancata è loro la virtù, ch’infonde
Con quei begl’occhi, ove risiede Amore,
Colei, che per mio grave aspro dolore
Noiosa lontananza or mi nasconde.
Ma se fia mai quel dì, ch’io non lo spero,
10Ch’elle ritorni in questa secca arena,
E volga intorno il suo bel guardo altero;
Torneran l’acque ai fonti, e di fior piena
Vedrem la terra in suo stato primiero,
E cangiarsi in contento ogni mia pena.
PRUDENZA GABRIELLI CAPIZUCCHI.
I
Ragion, tu porgi alla confusa mente
Della tua luce un raggio almo e sereno:
E mostri a quanti error disciolga il freno
Un cor, che a vil caduco amor consente.
5Onde del Bel, che a lagrimar sovente
N’astringe, io fuggo il rapido baleno:
Che non sì tosto il vedi, egli vien meno,
10E brev’età tutte sue forze ha spente.
Faccia pur altri a se meta fatale
Lo splendor d’un bel volto; ed in poch’ore
Abbia il Bello, e l’amor la sorte eguale.
Io che nobil racchiudo in petto ardore,
Non fò pago il pensier d’oggetto frale,
Perchè eternar bramo nell’alma amore.
II
Di duolo in duolo e d’una in altra pena
Vago del mio martir mi tragge Amore:
E il grave incarco, ond’è sì oppresso il core
È tal, che tempo, nè distanza affrena.
5E di tai tempre ei mi formò catena,
Che disper’io di trarre il piè mai fuore:
Tanto può in me l’inusitato ardore,
Ch’ormai me stesso io più ravviso appena.
Il rio timor, la gelosia m’attrista,
10La falsa speme, il dispietato sdegno,
La brevissima gioia al dolor mista.
Sol tra gli affanni arsi d’Amor nel regno:
Che fia non so s’ei maggior forza acquista;
So, che ad ogni suo stral son fatto segno.
III33
Signor, se irata contra te risorge
Con nuovi assalti suoi l’istabil sorte
Non già t’opprime, anzi teatro or porge
A tua invitta costanza al petto forte.
5Un nobil core infra i martir si scorge,
E i perigli alla gloria apron le porte:
Io già ti veggio appo l’età, che sorge,
Signor degl’anni, e vincitori di morte.
So ben che invidia rea solo a’ tuoi danni
10Tutti muove gli abissi a mortal guerra;
Ma non val contra te forza d’inganni.
Così quand’Eolo il freddo antro disserra,
Di sue frondi non men carca, che d’anni
Scuote quercia talor, ma non l’atterra.
ANTONIO CARACCIO
I34
Poichè l’emula immago alfin compita
Carlo ne offrì della silvestre Diva;
E si vedea dipinta nò, ma viva
La tela, che il pennello ha colorita:
5Colei, che della frale umana vita
Gli stami avvolge, e lor filando avviva,
Gettò le rocche, e dispettosa, e schiva
Per tutto il Ciel fu querelarsi udita.
Deh, Giove, deh! dell’animar si cessi
10Più le lane quassù; scorger tu dei,
Ch’anima han colaggiuso i lini stessi.
Giove rispose sorridendo a lei:
Cessi timor, ch’a far le vite elessi.
Sol per gli uomini voi, lui, per gli Dei.
II
In quella età, che al giuoco intenta e al riso,
Liberi d’ogni cura i vanni scuote,
lo vidi Amor con spesse e varie rote
Volar, qual’ape, intorno ad un bel viso.
5Ed or restarsi in fra due poma assiso
Del petto, che oscurar l’avorio puote,
Or sopra i fior delle vermiglie gote
Pascersi d’uno sguardo, o d’un sorriso.
Io con desir pur fanciullesco e vano,
10Tanto il tracciai d’uno in un’altro errore,
Che per un’ala alfin mi venne in mano.
Mi avvidi allor di quel, che fosse Amore;
Che nel pigliarlo, ei m’impiagò la mano,
Ma dalla mani corse il veleno al core.
FRANCESCO MARIA CARAFFA.
I
Lasso! E quando! fia mai; che un sol momento
Di non caduca pace abbia il mio core?
Vivo tra fiamme, e al pertinace ardore
L’onda del pianto mio porge alimento.
5E se tra mille strazi un sol contento
Talor mi dona ’l mio tiranno Amore:
Tosto il piacer degenera in dolore,
E dal diletto mio nasce il tormento.
Così la serie de’ miei casi il fato
10Di rotte fila ha di sua mano ordita,
Che manca e muore il bene appena nato.
Mista alla gioia mia doglia infinita
Ritrovo sempre; e in sì penoso stato,
Vivendo io moro, e sol morendo ho vita.
II
Sin da primi anni or vilipeso: or grato
Servii pien di speranza, e di timore;
Molt’oprai, nulla ottenni; onde il mio core,
Vano conobbe il contrastar col fato.
5Quindi lasciando nel bel volto amato
Tutta la speme mia, meco il dolore
Peregrinando io trassi, e meco Amore,
L’alma accesa, il piè avvinto, e ’l cor piagato.
Giunto nell’Adria alfine, in fra quell’acque
10Spensi il foco primier, ma quivi ancor
Vie più cocente ardor poi ne rinacque.
E sento Amor, che mi ridice ognora:
Se un antico desìo già teco nacque,
Vuò, che nuovo dolor teco si more.
III
Per voi dal primo dì, chi vi mirai,
D’inestinguibil fiamma arse il mio core;
E in quel sublime, e prezioso ardore,
E martiro e diletto in un provai.
5Ma ben tutto il poter de’ vostri rai
Sentii, quando per me vi punse Amore,
Poichè da’ vostri allor preso vigore,
Crebbero nell’alma, e s’innasprir miei guai.
Quindi d’ingiusta e cieca gelosia
10Preda vi vidi, ond’è, che nel mio stento
Provo la sorte ed or ad or più ria.
Sì d’ogni vostro mal fò mio tormento,
Che del vostro fallir la pena è mia,
E del vostro dolor l'affanno io sento.
TIBERIO CARAFFA
I
O Re de’ fiumi, ch’in tributo accogli
Mille d’Italia fiumi alti sonori,
Questi tratti da duol tepidi umori,
Che per gli occhi a te porto, a grado togli,
5Forse al più cupo fondo ti raccogli,
Mentre gonfio di sangue, e di sudori,
Sparso d’ossa insepolta, e d’altri orrori,
Ti rendon d’aspro Marte i fieri orgogli.
Così rida, la pace alle tue sponde,
10Ove le sacre Ninfe spaventate
Più non osano alzar le trecce bionde!
I miei caldi sospir deh! per pietate
Odi, ed ergendo il bianco crin dall’onde
Dimmi: Vedrò mai le luci amate?
II
O de’ fuggiti miei dolci contenti,
A cui tristo il pensier fa ognor ritorno,
O del soave altero lume adorno,
Avanzi amari, empie reliquie ardenti;
5Voi larve, voi de’ miei piacer già spenti
Ombre, e del ben, che mi fea chiaro il giorno;
Or di flagelli armate entro e d’intorno
Siete ministre, ohimè! de’ miei tormenti.
Lasso! che son? che fui? Dal terzo Cielo
10Fra le grazie e i diletti e i dolci amori,
Come nel foco alfin caddi, e nel gelo!
Dell’inferno d’Amore i cupi orrori
Han di stige il rigor: ma (quel, che anelo)
Non han di Lete i disperati umori.
III
Filli, ti sacrai l’alma, e non fu mai
Di quel, che a te mi strinse, amor più bello,
Ma nè pur del tuo core un più rubello
Sotto più belle forme unqua mirai.
5Che mentre per fallaci infidi rai
Mi tralucea sì vago, io corsi a quello:
Ma, come a chiaro specchio incauto Augello,
Trafitto in aria al bel lume restai.
E caddi semivivo, e prigioniero
10Mi ritenesti in gabbia d’oro, e invano
Salute e libertade indi più spero.
Pur non men dolsi; ma ben fu inumano
Strazio, quando il mio cibo lusinghiero
Porger’io vidi altrui dalla tua mano.
PIETRO PAOLO CARRARA.
I
Frema pur di fortuna il mare irato
Contra il naviglio dell’afflitto core,
E muova a danni suoi pien di rigore,
Con orride tempeste avverso fato:
5Ch’io di coraggio, e sofferenza armato
N’andrò bersaglio del crudel furore,
E piegandomi umìl nel gran terrore,
Farò core al mio cor se fia turbato.
So, che gir fra gli scogli, e le procelle
È un estremo periglio; ma si faccia
L’alto voler di chi creò le stelle.
Un’Alma è grande, se allorchè minaccia
Irato il Ciel sorti crudeli o folle,
Lor mostra lieta invariabil faccia
II
Quel, che vedi colà languido Rio
Volgersi intorno alle gran ripe oscuro,
E denso quasi stagno, egli è l’impuro
Lete, che da la valle inferna uscìo.
Tuffansi l’Alme pria nel flutto rio,
Quando s’appressa il lor viver futuro;
Poi fan ritorno al nuovo carcer duro,
Ogni Passato lor posto in obblìo.
Nasce quell’onda in seno a Dite immondo,
E tal ria porta qualità dal fonte,
Che del Passato ogni memoria toglie.
Quivi non sol, ma in grembo ancor del Mondo
Un rivo di tal’acqua il corso scioglie
E a ber ne son l’ingrate Anime pronte.
III
O Tu, che del mio Ben l’almo sembiante
Con vivaci colori esprimer dei,
Dimmi perchè sì tarde e lento sei.
E par stringhi il pennel con man tremante?
Forse l’arte non ha luce bastante,
O pur non reggi a mirar fisso in lei?
Simil sorte provar gli sguardi miei,
E sullo Amor, che ancor mi ride avante.
Ma se dal mio bel Sol ritrar non puoi
L’esterna spoglia, cui forza è che adore,
Come quell’alma pingeresti a noi?
Pigro Pittor, già ti prevenne Amore,
Che con gli acuti alati dardi suoi
Scolpì la bella immago entro il mio cuore.
IV
Forte pensier ne’ miei desiri affiso
Mi spinse un giorno alla magion d’Amore
E giunto all’inuman fiero Signore,
Ch’era sul tron cinto di fiamme assiso:
5Vidi il barbaro tetto, e tutto inciso
Era a note di pianto e di dolore,
Mentre d’intorno un indistinto orrore
Scorreva ognor per tener lungi il riso.
Folte schiere d’Amanti afflitte e smorte
10Alto quivi piangeano, e fin la speme
Io vidi mesta, e in volto umìl la sorte;
E il crudel, che d’ognuno udìa la pena,
Sai mio cuor, che facea? Dannava a morte
Chi soffrir non volea la sua catena.
MONSIGNOR GIO. DELLA CASA.35
Cura, che di timor ti nutri e cresci,
E più temendo maggior forza acquisti,
E mentre colla fiamma il gelo mesci,
Tutto il regno d’Amor turbi e contristi:
5Poichè ’n brev’ora entro al mio cor hai misti
Tutti gli amari tuoi, dal mio cor esci:
Torna a Cocito, ai lagrimosi e tristi
Campi d’inferno; ivi a te stessa incresci.
Ivi senza riposo i giorni mena,
10Senza sonno le notti; ivi ti duoli
Non men di dubbia che di certa pena.
Vattene: a che più fiera che non suoli,
Se ’l tuo venen m’è corso in ogni vena,
Con nove larve a me ritorni e voli?
GIO. BARTOLOMEO CASAREGI.
I
Poichè la mia spietata aspra sventura
Vuol, che ognor dal mio Ben lontano io viva,
Amor della mia vita acerba e dura
Col dolce rimembrar in stato avviva.
5Farmi presente ad or ad or procura
Quella, di cui convien, che spesso io scriva,
Sicchè vicina già la raffigura
Il senso stesso nell’immagin viva.
Se volgo al Ciel lo sguardo, e miro fiso
10Cinto di pura luce il Sol, tal sei
Mirzia, grido, tal sei nel tuo bel viso.
Se veggio un fior, parmi veder colei,
Se guardo il mar, nel mare io lo ravviso;
Onde lei trovo in Tutto, e Tutto in lei.
II36
L’immensa luce, onde veggiam Natura
D’oro il Sole, e d’argento ornar la Luna,
Oh come è vaga, e bella! e pure alcuna
Ombra, o nebbia talor l’ingombia, e oscura.
5Ma tu bella sei tutta, e tutta pura,
Vergine intatta, e il tuo candor pur’ una
Macchia non guasta un sol’ istante, o imbruna
Ombra di colpa originale impura.
Se di tal pregio adorna era colei,
10Che l’immagin divina in noi disfece,
Tu nol sarai, Tu che avvivarla or dei?
Il suo gran fallo oltraggio a te non fece;
Di Dio Madre ab aeterno eletta sei:
Madre insieme, e nemica esser non lece.
III
Se mai non fu largo perdon conteso
A cor piangente umìl, mira, Signore,
Questo, che, scosso di sue colpe il peso,
Sull’ali alfin sen vola a te d’Amore.
5Non perchè te d’altra vendetta acceso
Ei vegga, i suoi delitti ave in orrore:
Che Ciel? che Inferno? Ah per un Nume offeso
Da più nobil cagion nasca il dolore.
Te solo in te, non il tuo bene io bramo;
10Nè il mio mal temo, e solo i falli miei,
Perchè nemici all’amor tuo, disamo.
Nè perchè m’ami, io t’amo; io t’amerei
Crudele ancor, come pietoso io t’amo;
Amo, non quel, che puoi, ma quel, che sei.
IV
Colti v’ho pur, fischiando allor qual angue,
Polifemo gridò; ne l’empia tresca;
Ma se l’usato in me vigor non langue,
Aci, non fia, che tu di mano or m’esca.
5Dal seno il cor strapparti, e del tuo sangue
Vuo’, che la spiaggia e ’l mar rosseggi, e cresca,
E la perfida vegga il caro esangue
Corpo giacer, di fere orribil esca.
Tacque, e gran sasso svelse, e giù dal monte,
10Poichè sopra a se tutto alzato l’ebbe,
Lo scaglia, ond’Aci allor percosso in fronte
Cadde, e di Galatea tanto gl’increbbe,
Che per seguirla trasformossi in fonte,
E nuovo fiume al suo bel mare accrebbe.
V
Oh dolce vin, mio solo amor, mia Dea,
Sommergitor d’ogni altra cura avversa!
Viva Bacco, evoè, che il cor mi bea
Evoè, spandi, spandi, versa, versa
5Or vada, si precipiti dispersa
La greggia mia, purchè a ribocco io bea;
Purch’io bea, m’odi ognor quella perversa,
E Polifemicida Galatea.
Ma ve’ laggiù, com’ella in riva opaca
10Il mio nemico alto piangendo impazza,
E crinisparsa per dolor s’indraca.
Ecco già tutta la nereida razza
Contra me spinge; ma già già si placa,
Se impugno sol la mia possente tazza.
VI
Aci, non ti partir, stiam cheti e bassi,
Che mille aguati il traditor ne tende:
Carpone or salta, or per alpestri sassi
Brancolando s’aggrappa, e sale e scende.
5Dietro a un cespo talor furtivo stassi,
Gli orecchi aguzza, e il collo innanzi stende;
Quindi celeremente i lunghi passi
Volge là dove alcun susurro intende.
Ve’ tu quell’alta rupe? or quella è donde
10Guatar ne suol; però l’appiatta, e copri
Quà sotto, ch’ei non può vederne altronde,
Poi le sue forze insidiando adopri.
Pur temo ancor: che quel ch’amor nasconde:
Tu spesso invidia e gelosìa discopri.
VII37
Ma qual orrendo risonar bisbiglio
Odo d’intorno a quest’alpestre roccia?
Ov’è l’invitta mazza; Ecco s’approccia
L’insidioso di Laerte figlio.
5Non mai ghermì con dispietato artiglio
Rapace nibbio la tremante chioccia,
Com’io già l’empio afferro ed arronciglio,
Insin ch’io veggia di suo sangue goccia.
Al fiero pasto dei compagni aggiunto
10Sarai ben tosto, maledetta volpe,
S’avvien, che sii da queste man raggiunto.
Vuo, che il mio dente ti smidolli e spolpe,
Col resto dello stuolo a te congiunto,
Vendicatore di tue sozze colpe.
VIII38
Per via de’ sensi entra il malvagio oggetto,
E la nervosa region percote;
Quindi unito a vapor sottile eletto
Le fibre del cervello agita e scuote.
5Come in cera suggello impresso e stretto,
Ivi lascia le forme ognor commote
Da spiriti, che egilissimi ricetto
Anvi per mille strade a noi mal note.
L’alma, ahi dura union! l’impeto sente,
10E le agitate immagini le fanno
L’oggetto ad or ad or vivo e presente.
Ivi incauta s’affissa: ed ecco ond’hanno
Vita i pensier gli affetti e ogni altr’ardente
Voglia, per cui sì spesso ho guerra e danno.
IX
Nel cupo sen di quella orribili fossa,
Che fia del corso mio termine e centro,
Con questa spoglia fral di spirto scossa
Per mezzo del pensier talora io entro.
5Già sciorsi e imputridir mie membra ed ossa
Fra vermi io veggio, e già mi scarne e sventro;
Già in polvere mi struggo, oh fiera possa
Del tempo! e nel mio Nulla al fin rientro.
Tetro silenzio, insopportabil lezzo,
10Perpetua notte, eterno obblìo profondo
Stan laggiù meco, e nausea orror disprezzo:
Ma il pensiero, allor ch’io più mi profondo,
A sì funeste idee non bene avvezzo,
Mi lascia, e ai primi inganni io torno al Mondo.
X39
Rabbioso mare infra Cariddi e Scilla
Nell’onde sue voraginose assorba
Chi l’alma vite, onde ogni ben distilla,
Gode in veder digrappolata ed orba;
5Nè stella per lui mai lieta e tranquilla,
Ma sempre roti fulminosa e torba.
Su, Galatea, quella gran botte spilla,
E ’l suo nettare in Ciel Giove poi sorba.
In quello, in quello ambrispumante pozzo
10Meco t’immergi, e lascia d’Aci il gorgo
Povero d’acque limaccioso e sozzo.
Per te non poco e vile umore accozzo;
Porporeggiante mare ecco io ti porgo:
Ecco cent’otri albibeanti ingozzo.
XI
Se, pria che gli occhi a questa luce aprissi,
Dato a veder m’avesse il Ciel la fiera
De’ miei futuri mali immensa schiera,
Onde ognor cinto io vò vivendo, e vissi;
5E posto avesse in mio poter, che uscissi
A batter via sì dura e menzognera,
Certo ancor mi sarei dov’io non era,
Là del mio nulla entro gli oscuri abissi.
Che tosto di mia vita in sulle porte
10Trovai pianto e travaglio, indi fui giuoco
Or d’amore, or d’invidia, or della sorte;
E fuori e dentro, e in ogni tempo e loco
Peno, e il fin del penar non fia che morte;
E questo ancora a quel che io temo e poco.
XII
Ahi ch’io son morto, ahi che infernal Vesuvio
M’arde il petto in seguir la costui traccia!
Che fai scarso Sileno? Omai t’avaccia
Di sbottar, di sgorgar di vino un fluvio.
5Col tuo soave assonnator profluvio
Ogni mia pena micidial discaccia;
Sdegno, sete, ed amor sommerso giaccia
Dentro a questo di Bacco almo diluvio.
Così, poich’ebbe tracannato a iosa
10Cento gran giare e cento, tombolando
Di quà di là, senza trovar mai posa,
Sdraiato al fine, e di se tutto in bando,
Ei s’addormì, coll’ampia abbominosa
Bocca terribilmente rimugghiando.
XIII40
Se te di ferro armato e di bell’ira,
Gran duce invitto, or soggiogar d’Orano41
L’empia rocca, or d’Italia il Mare e ’l Piano
Segnar di più trionfi altri rimira:
5E se quindi a tuoi scritti il guardo gira
Pieni di guerrier foco in stil sovrano,
E a quel ch’opri col senno e colla mano:
Novo Cesare te chiama ed ammira.
Se non ch’ei di se scrisse, e per se vinse:
10Altrui tu scrivi, e per altrui vincesti,
Che per te novi scettri Iberia strinse.
Sol d’età, non di merto indietro resti:
Ei per la via d’onor primo si spinse,
Tu l’onor d’esser solo a lui togliesti.
XIV42
Novo Calvario in sul Calvario istesso,
Fiero non men benchè men noto, Amore
Apre nel corpo nò, ma in mezzo al core
Di lei, che stassi al duro tronco appreso
5Ahi come per secreto alto riflesso
Ivi tutto del figlio entra il dolore!
Tal più vivo a ferir passa l’ardore
Se terso vetro incontro al Sol vien messo.
È mio quel sangue, e quella Croce è mia,
10Dice; e fia pur, ch’ei muoia, e lui seguire
Non possa, e senza vita in vita io stia?
Se all’aspro duol di sì crudel martire,
Gran Dio, tu stesso muori, e che mai fia
Il soffrirlo, esser madre, e non morire?
XV
Quando la Fè, Signor di sfera, in fera
Sovra de’ Cieli il mio pensier conduce,
Te scopro in mezzo a grande alata schiera
Entro a tua somma incomprensibil luce.
5E se quindi alla mia notte primiera
Io torno, e solo a me Ragione è duce,
Pieno il Tutto di te veggio, e la vera
Tua bella immago, che nell’uom riluce:
Veggio il tuo spirto, che vigore infonde
10A questa immensa mole, e spuntar fuore
In erbe il veggio, in frutti, in fior, in fronde.
Te sulle penne di piacevol’ ore,
Spaziar per l’aere, e te del mar sull’onde:
Ah! ma sol te non veggio entro il mio core.
XVI
In quel gran dì, che a disserrar le porte
De’ Cieli il Verbo ascese, e al divin Padre
Tornò festoso, vincitor di morte,
Con mille a lei rapite alme leggiadre;
5Correan cantando giù dall’alta Corte
Ai luminosi Spiriti immense squadre:
Vieni, delle virtù Re sommo, forte,
Vieni; ma dove è senza te la Madre?
Quanta parte di Cielo, al Cielo e quanti
10Mancan fregi al trionfo! Ah del bel dono
Fia, che l’ingrato Mondo ancor si vanti?
Verrà tra poco, Ella verrà; ma sono
Noti a me sol, dicea, suoi pregi; avanti
Io però vengo a prepararle il Trono.
NICCOLÒ CASONI.43
Mira là quella fredda scolorita
Spoglia, o tu, che ten vai coll’arco d’oro;
E vanta poi, ch’alma non v’è sì ardita,
Che schivar possa il dolce tuo martoro.
5Morta è colei, che già coll’infinita
Sua belà ti porgea forza, e decoro,
E seco tragge nella sua partita
Il più nobile, e ricco suo tesoro.
In lei, com’in suo albergo ognor fiorìa
10Spirto real, vaghezza, ed onestate;
Alto saper, amabil cortesìa,
E pur giacque costei preda all’irate
Voglie di morte invidiosa, e ria!
Voi piangetela meco, Alme ben nate.
GIO. BATTISTA CATENA
I44
Veggio il Ronco salir di vena in vena,
Portando ognor sovra la terra l’onde,
E perchè la Città non guasti e inonde,
Si cerca altrove una più larga arena.
5Ma intanto l’acque sue volge, e rimena
Perpetuo flusso all’infelici sponde,
E da capo le versa, e le diffonde
L’augusta conca sua sempre più piena.
Così pur’io dall’oceano interno
10Delle vostre bellezze altere, e rare
Cerco lo scampo, e ancor non lo discerno.
Mi dice Amore: un dì potrai sperare.
Ma intanto i miei sospir con giro alterno
Vengono, e van, come va il Ronco al Mare.
II45
Morte non più: dall’arco tuo fatale
Restò colpito un volto il più perfetto.
Non feristi giammai più nobil petto,
Or che dal Mondo hai tolta Alma reale.
5Morta è colei, che non parea mortale,
Poichè da’ lumi angelico intelletto
Traspariva così, che umano affetto
Non era premio a sue virtudi eguale.
Come presto la miro infra le stelle,
10Or che il gran varco a sua bell’Alma aperse
Colpo inuman, ch’ogni gran pianta svelle!
Degl’occhi il pianto in sangue si converse,
Così fiero è il mio duolo, Anime belle,
Il Cielorevide colpo, e lo sofferse?
III46
Mentre al riflesso de’ tuoi lumi ardea,
Filli tanto crudel quanto vezzosa,
Come a fior di beltade ape ingegnosa
Al tuo bell’ostro ad or ad or scendea,
5E mentre il cor di gioia si pascea,
Come di brina la vermiglia rosa,
E fra dolci ripulse ognor ritrosa
L’ira tua col mio amor guerra facea;
Chiamommi Amor sdegnato, e disse: io voglio
10Punirla di costei cruda fierezza,
E quel superbo, e dispettoso orgoglio.
Di morte è rea: mora chi Amor non prezza;
Quest’è il Decreto, e scritto è dal mio soglio
Tu lo porta a colei, che ti disprezza.
IV
Quando di vaghe donne eletta schiera
Veggio, e non quella, ch’io veder vorrei,
Pietoso Amor degl’aspri affanni miei,
Perchè senza il suo ben l’alma non pera,
Il Bel mi mostra, ond’è ciascuna altera,
E qual pittor da questi volti, e quei
Tragge il più Bello, e poi ritratto in lei
Forma al desìo l’immagine sua vera.
Onde il Bel, che Natura in mille sparse,
Accolto sol nella mia donna io miro,
Che per miracol nuovo in terra apparse.
Ma non basta a far pago il mio desiro
Veder l’immago, ed ella altrove starse,
Se pensoso m’arresto, e poi sospiro.
V47
Signor, che scorgi il nostro mal presente
Fa, che men gonfio entro l’angusta sponda,
Sen vada il Ronco, ma fugata l’onda
Cerchi, per nostro scampo, altro torrente.
Ecco Ravenna a’ piedi tuoi languente.
Quella, che fu di tanti Eroi feconda:
Nel periglio vicin, che la circonda,
Apri del tuo saver l’alta sorgente.
Così per arricchirci e i campi, e il cuore,
Se farai declinar quest’onde e quelle,
Sarai tu sol del secol nostro onore.
E se potrai sovra le rie procelle,
Che mancherà, Signor, al tuo valore?
L’Impero sol sovra l’ardenti stelle.
VI48
Cinto il crin biondo di novelli fiori
Giacea nobil Garzon presso ad un rio;
Ivi sedea la sua vezzosa Clio,
E un vago stuol di Ninfe, e di Pastori.
Tre Donzelle col canto i dolci amori
Sfogavan sì, che Apollo a lor s’unìo,
E disse a quelle: come ben vegg’io
Le Grazie unite a’ miei diletti Eori!
Al crin poi del Garzon formò un innesto
Di sagri allori, e di dorate piume,
Ond’ei levossi in maestade onesto.
L’aere allor balenò di nuovo lume,
E udissi intorno dir: Ulisse è questo,
E risuonar Ulisse il prato, e ’l fiume.
VII
Solo co’ miei pensieri all’aria bruna
Passeggiando una sera al Tebro in riva,
Donna vidi appressarsi a me giuliva,
Dicendo: non temer, son la Fortuna.
Per man mi prese, e poi guidommi in una
Città, che per Entello allor fioriva;
Quando altra donna dispettosa, e schiva
S’armò contro di noi d’ira importuna.
Era l’invidia, e con maligno cuore
Discacciò la Fortuna, ond’io restato
Son come uom cieco in faccia allo splendore.
Or la richiamo, ed al primiero stato
Tornami, dico; non è già tuo onore
Prendermi, e poi lasciarmi abbandonato.
VIII49
Era di Filli al cor dolce ristoro
Un Canario gentile a lei diletto,
Che mostrava col canto aver nel petto
Di musici contenti un nobil coro.
5Di man fugille, e sopra un verde alloro
Volò, che di sua traccia avea sospetto;
Ratto poi s’inoltrò dentro un boschetto,
Lieto cantando l’augellin sonoro.
Quand’ecco un cacciatore in quell’istante
10Ferillo, e quasi a lei chiedesse aita,
Svolazzando al suo piè cadde spirante,
Dolente il prese, e disse: ecco finita
Tua libertade. Ahi quante volte, ahi quante
La troppa libertà costa la vita!
BARTOLOMEO CAVA.
I
Se fui, sono, e sarò sempre costante
In adorar colei, ch’ho dentro il core,
Perchè contro di me, tiranno Amore,
Scoccando vai tante saette, e tante?
5Io già son tuo; e già l’anima errante
Il tributo non nega al suo Signore:
Oh Dio! lasciala in pace, e ’l tuo valore
Mostra con chi ricusa essere amante.
V’è dal tuo laccio ancor chi sciolse il piede;
10Con questo aver tu dei doppia tenzone;
Col mio core aver dei doppia pietade.
Che siccom’è virtù con chi si oppone
Far pompa del valor, così è viltade
L’animo incrudelir con quel, che cede.
II
Quante fiate mi dicesti, Amore,
Servi, che del servir n’avrai mercede!
Lasso! ma da che entrò lo strale al core
Le promesse d’Amore il cor non vede.
5Io seguo intanto a vivere al dolore,
Ingrato guiderdone alla mia fede;
E ben mi accorgo del mio primo errore,
Che ingannato riman chi troppo crede.
E quel, ch’è peggio, ritornar vorrei
10A vivere a me stesso; ma non puote
Sciorsi dal forte nodo il cor, ch’è frale.
Per vedere alla fin se Amor si scuote,
Cerco mostrare in carte i torti miei;
Ma contra forza la ragion non vale.
III
Stancato già di più vedermi intorno
Gente, c’ha mele in bocca, assenzio in core,
A voi, selve rommìte, amico orrore,
Stanza de’ Semidei faccio ritorno.
5Col soffrire, e tacer sperava un giorno
Vedere al genio mio sorte migliore:
Ma ingannato alla fin dal dolce errore,
Prendo me stesso, e la mia vita a scorno.
Più non sia, che l’invidia in torvo sguardo
10Contra rozza capanna il dente arrote,
Nè che più mi lusinghi un finto Amico.
Tardi mi avveggio dell’error; ma tardo
Non fu già pentimento, allor che puote
Virtù nuova sgridare il fallo antico.
IV
Che sperasti di fare, o ingiusta Morte,
In togliermi colei, ch’io chiamo invano?
Forse mostrar, che ’l tuo valore insano
A i Numi stessi fa l’ore più corte?
5T’inganni: ella contenta di sua sorte
Più che mai vive al piè del suo Sovrano:
Rimango io sí, come da lei lontano,
Non morto ancora, ma condotto a morte.
Anzi splender tu fai tanto più bello
10Quello spirto gentile, al quale il velo
Di cieca umanità molto togliea.
Ricco di nuova stella io veggio il Cielo;
Privo di Lilla il Mondo, e non potea
Più perder questo, nè acquistar più quello.
GIO. BATTISTA CIAPETTI.
I
Questo è il ruscello? Ah secchisi nel fonte
L’alpestre vena, onde tu sei ruscello,
E s’acque stagneranno al piè del monte
Gravi alimentin sol selce e nappello.
5L’albero è questo? Ah la tua verde fronte
Arda fiamma dal Ciel, albero fello,
E sopra i rami tuoi corrano pronte
L’upupe, e ogn’altro augello.
Queste le rupi sono? A sì son queste,
10Dove sgorgano l’acque, e il pomo cresce
Non tocco ancor dall’Avo di Tieste.
Ahi, qual velen per l’aer tuo si mesce!
Quali dalle tue piante ombre funeste
Cadono! Ahi quanto il rammentarle incresce!
II
Dond’ai tu l’armi è donde i lacci e l’ali,
Amor, che tanto incrudelisci or meco?
Ah! che arcier non sei tu, non sei tu cieco,
Io ’l sono, io detti l’arco, ed io gli strali.
5Gli sguardi miei, che debbo alle immortali
Cose innalzar, con beltà vana or teco
Incauto perdo, e me medesimo accieco,
E accuso te, che senza me non vali.
Anzi conosco ben, che altro non sei
10Che un soverchio desìo, che nel cuor erra
Sotto la scorta de’ pensier più rei:
Il qual crede, da te fingendo in guerra
E vinti e incatenati in Ciel gli Dei,
Rendere onesti i suoi delitti in terra.
III50
La gran Donna del Mar, che lungi stese,
E stende ancor la trionfal sua mano,
Contra cui l’Asia armi apparecchia invano
Per far vendetta dell’antiche offese;
5E giusta e lieta ad onorar già prese,
Soranzo eccelso, il tuo valor sovrano,
Che al primo segno è giunto, ove l’umano
Pensier di rado, o per te solo ascese.
Oh! se delle sue navi a te destina
10L’altero scettro, d’ostil sangue tinta
Parmi veder tutta l’Egea marina:
E veder l’Asia, che pur or fastosa
L’Europa immaginò depressa e vinta,
Depor tanta speranza, e andar pensosa.
IV
Già distendea questa del Tebro antica
Donna real la sanguinosa mano
Oltre il mar d’Oriente, e l’Oceano;
Cui varcar parve ad Ercole fatica.
5Di pace quindi, e di pietade amica,
Chiuso il tempio a Quirino, il tempio a Giano,
Il sacro asilo aperse in Vaticano
Alla stirpe d’Adamo al Ciel nemica.
Poichè in abito umìl rasa la chioma,
10Senza l’elmo, e la spada andar la vede
Africa, ed Asia, che da lui fu doma:
Riprende l’armi, e la vendetta crede
Far, che pria la dovea, non or che Roma
Ha nel Ciel, non che in Terra imperio e sede.
V
Bizanzio è in man dell’Arabo ladrone,
Bizanzio dell’Impero antica sede;
L’ltalia il sa, ride l’Italia e il vede,
Come non abbia sopra lei ragione.
5Or l’Empio in riva al Mar nuove dispone
Guerriere navi a far l’usate prede:
Che fa l’Italia? Neghittosa siede,
E il crin fra secchi lauri orna e compone.
Pensa ella forse, che l’onor si spegna,
10Fatta lei serva, l’alto onor di Dio,
Onde costretto a conservarla ei vegna?
Pur sa, ch’ei piove sopra il Giusto, e il Rio;
E che immenso qual era, oggi ancor regna,
Gerusalem perduta, ov’ei morìo.
VI
Al mio pensier non s’appresenta oggetto,
Scorra pur’egli l’Universo intero,
Che veduto ad un lume occulto e vero,
Manchevole non sembri, ed imperfetto.
5Ond’io dico, rivolto all’intelletto
Che va d’un tal conoscimento altero:
Dunque impressa ho l’idea nel mio pensiero,
L’Idea dell’infinito e del Perfetto.
Che se di quel che miro io non son pago,
10Altra addur non potrò certa ragione,
Se non l’aver di maggior cosa immago:
E quindi, o dessa in me l’alto suppone
Vero esemplare, in cui sol’io m’appago,
O che il Nulla di lei sarà cagione.
VII
Chi fu, chi fu, che al barbaro Anniballe
Fece obbliar l’antico giuramento,
E d’aver l’Alpi tra la neve e il vento
Spezzato e aperto un non creduto calle?
5E chi lui feo, già Trebbia e la sua valle
Tinta di sangue, e Roma di spavento,
Al sommo della via correr più lento,
E alla vittoria rivoltar le spalle?
Non Fabio ad arte pigro, e non fè dome
10Tante sue forze quel, che col valore
Trasse dalla soggetta Africa il nome.
Vil Donna in Puglia n’ebbe pria l’onore
Con gli occhi belli e colle bionde chiome:
Tanto ancor puote in sen guerriero Amore!
VIII51
Vasta quercia nodoso, o antico pino,
Che piogge e venti lunga età sostenne,
Se diroccat’ al fin a cader venne
Dal soffiar d’Aquilone e di Garbino
5Tosto veggiam fuor dello scoglio alpino
A diramarlo, poichè il caso avvenne,
Da ciascun lato uscir colla bipenne
Gli alpestri abitator dell’Apennino.
Tal, poichè cadde il vasto antico impero,
10Corse l’Europa alle rapine, e corse
L’Africa e l’Asia, e in mille parti il fero.
Ma torneranno al fine a ricomporse
Le gran membra divise in man di Piero,
Chè a far del Mondo un sol’ ovil già sorse.
IX52
Italia, Italia, il flagellar non odi
De’ barbarici remi alla marina?
Non vedi il vincitor, che s’avvicina,
Coll’armi no, di servitù coi nodi?
5Non senti alfin con quai superbi modi,
Sprona i suoi duci a far di te rapina?
E gli assicura della tua rovina,
Ch’inulta è ancor Gerusalemme e Rodi?
Or con qual volto misera dolente
10Ti volgerai nel caso acerbo e tristo,
Chiedendo aiuto al tuo Signor possente,
Se nell’ozio tuo lungo alcun acquisto
Far non sapesti, nè ti cadde in mente
Il gran sepolcro liberar di Cristo?
X
Se Pastorello innamorato scriva
Duo cari nomi, e un bel verso d’amore
Sulla tua scorza, Arbor gentile, e viva
Sempre mai la tua chioma, il frutto e il fiore,
Dimmi: quinci passò colei, che avviva
E strugge insieme i miei pensieri e il core?
Posò forse il bel fianco in questa riva
Sola? O seco era, ohimè! qualche Pastore?
Chi fu, ch’impresse queste, che riserba
Orme diverse la segnata arena,
E chi premuti ha questi fior, quest’erba?
Ah che un gelo m’è corso in ogni vena!
Albero taci, che s’è tanto acerba
La dubbia, e qual fia mai la certa pena?
XI
Dentro vaghe pupille accolte avea
Le invisibili sue quadrella Amore,
E quivi come accorto Cacciatore,
Che il tempo aspetta, cauto s’ascondea.
Io, che d’usarle frodi non credea
D’uopo avess’egli a saettarmi il core,
Senza por mente e senza aver timore,
Passai laddove ascoso ei m’attendea.
La piaga inaspettata all’alma affanno
Minor recò dell’incivil sorpresa,
Vincer potendo d’altro, che d’inganno;
E conoscermi fece in ogni impresa
Egualmente ferir come Tiranno
E chi lui segue, e chi a lui fa contesa.
XII
La vaga onesta Vedovella, e forte,
Che il Duca Assiro non coll’elmo, e l’asta,
Ma col bel viso, e le parole accorte
Vinse, e restar potèo libera e casta;
Allor che sola l’ebbe tratto a morte,
Che il vino, il sonno, e amor non gliel contrasta,
Di Betulia omai lieta in sù le porte
La testa affisse inonorata e guasta.
Poscia parlò: là nella tenda giace,
10Orribil vista! il tronco infame, e tanto
Puote femmina vil quando al Ciel piace.
Diceva, e sorse il chiaro giorno intanto:
E suonar s’udìo quinci inno di pace,
E un fremer quindi tra la rabbia, e il pianto.
FRANCESCO DOMENICO CLEMENTI
I53
La divina Pietà veggio omai stanca
Del suo lungo soffrire, e del tuo errore,
Misera Europa, e il ferro ha tratto fuore
Iddio, che di sue offese or si rinfranca.
5Mira, infelice, dalla destra o manca
Parte, come il vicin tuo mal peggiore
Tutta t’ingombra di spavento e orrore,
Tal che ogni speme di salvezza or manca.
Già pende in aria il fatal colpo, e aspetta,
10Per vibrarlo, da te vigore e lena
Europa mia, deh! se il timor non frena
Il grav’error, che il divin sdegno affretta,
Oh qual di te misera scena!
II54
Il bel di tue virtù splendor giocondo,
Che i puri raggi al par del Sol distese,
A te l’Ibero ubbidiente rese,
E coll’Ibero il più remoto Mondo.
5Onde, poichè deposto il mortal pondo
Il patrio Reno ancor legge ti chiese,
Mentre te vide a null’altro secondo.
Talchè quelle virtù, che a te recaro
10Di sì gran regni il glorioso impero,
Teco sul regal seggio si posaro.
Quindi altrui mostri il buon dritto sentiero,
Che conduce a regnar, pregio sì chiaro
Unendo a rai del prisco sangue altero.
III
O boschi, o selve, voi, che tante e tante
Volte ascoltaste i miei caldi sospiri,
E tu ruscel, che le pur’onde giri,
E le lagrime mie per queste piante;
5Voi dite voi, se più infelice amante
In quest’erme contrade oggi respiri,
E dite ancor se fra tanti martiri
Un cuor vedeste più del mio costante.
E ditelo a colei, che ognor si prende
10Giuoco delle mie pene, e che severa
Più col dispregio il mio desire accende.
Dite. Ma nò, che se la cruda, e fera
Ancor da voi il mio gran duolo intende,
Oh quanto più n’andrà superba, e altera?
IV
Del biondo Tebro in sulla destra riva
Amor vid’io senza l’usato incarco,
Ma più superbo disarmato giva,
Che quando il tergo di saette ha carco
5E mentre a mille cuori i lacci ordina,
E me, più ch’altri, egli attendeva al varco,
Sorridendo gli dissi: Ov’è la viva
Tua face, Amore, ov’è lo strale e l’arco:
Ver me tenendo le sue luci fisse
10Tra placido e severo: Or or vedrai
Ov’è la face, ov’è lo stral, mi disse.
Indi mostrommi duo vezzosi rai,
Onde sì m’infiammò, sì mi trafisse,
Che piaga, o incendio egual non fu giammai.
V
Quel primo sguardo, ch’io rivolsi a lei,
Che tien sul mio voler libero impero,
Innocente partì dagli occhi miei,
Ma tal non ritornò poscia al pensiero:
5Che all’intelletto con sì dolci e bei
Color dipinse il vago volto altero,
Che tosto e cuore e libertà perdei,
Cui più, infelice! ritrovar non spero.
Del fiero inganno mio Ragion s’accorse,
10Ma che? in aiuto del tradito cuore
Colle sue forze ahi! troppo tardi accorse,
Ch’altri s’era di lui fatto Signore:
Onde confusa i passi indietro torse,
Ed io rimasi in servitù d’Amore.
VI55
Deh qual mi scorre, oh Dio! di vena in vena
Freddo timore, allorch’io penso al giorno
Giorno per me, sol di vergogna e scorno,
In cui il Giusto fia sicuro appena.
5Talchè mia mente di quel dì ripiena
L’alme più elette sbigottite intorno
Vede al Giudice irato, e il fier soggiorno
Cercar d’atroce non dovuta pena.
Sol per celarsi a lui, ch’all’ira è volto,
10Misera e vede ancor gli Angeli suoi
Coll’ali per timor coprirsi il volto.
Se tanto temeran gli sdegni tuoi
Quelli, che in Cielo hai già, Signore, accolto,
Che fia quel giorno, ahimè! che fia di noi?
VII56
Forse celarmi in quelle piaghe io spero
Nel duro dì, che ’l divin sdegno aspetta,
In quelle, ahimè! ch’al Giudice severo
Non più pietà, ma grideran vendetta?
5Forse nasconderommi in dì sì fiero
Là, dove irato Iddio gli empi saetta
Seguaci del rubello Angelo altero?
Ah! che ciò nè pur lice ad Alma eletta.
Rivolgerommi al tuo pietoso ciglio,
10Se allor, Vergin, sarai volte le offese
A vendicar dell’oltraggiato Figlio?
Ah! ch’al mio mal non trovo altre difese,
Se non prima del mio certo periglio
Lasciar la via, che ’l cuor cieco già prese.
VIII
O Gente d’Israello afflitta e mesta,
Che piagni dell’Eufrate in sulla riva,
Della bella Sion mentre si desta
Nel tuo pensier l’immagine più viva,
5Frena il dolor; la lieta notte è questa,
Che la tua spenta libertà ravviva:
Poichè cinto vedrai di mortal vesta
Chi a te il sentiero in mezzo all’onde apriva.
Ma tu folle, ed ingrata, oh quale, oh quanto
10Farai del tuo Signore orrido scempio,
Del tuo Signor, che desiasti tanto!
Onde fatta ad altrui misero esempio,
Serva n’andrai; nè più speri il tuo pianto
Scettro, Profeti, Sacerdoti, e Tempio.
IX
Chi vide mai, o di veder presume
Più vaga in questo umìl nostro soggiorno
Di Filli mia, allor ch’un doppio lume
Accresce, aprendo gli occhi al nuovo giorno?
5Sorge non quali per natural costume
Donna, che mostra con rossore e scorno,
Quando abbandona l’oziose piume,
Impallidito ogni bel pregio adorno:
Ma qual novello fior sul primo albore,
10Che mentre estolle l’odorosa fronte,
Veste sue foglie di più bel colore;
O qual sul nostro lucido Orizzonte
Spunta l’Aurora. Ah! Che l’Aurora, e il fior
Non ponno star della mia Bella a fronte.
X
Questa, mi disse Amore, è la catena,
Onde sarai miseramente avvinto,
Finchè l’alma abbandoni il corpo estinto,
Di te stesso, e d’altrui favola, e scena.
5Io tacqui allor, non perchè ardire, o lena
Mancasse in me, benchè di ferri cinto;
Ma come innanzi al vincitore il vinto,
Cui più timor, che riverenza affrena.
Poscia mordendo l’aspre mie ritorte,
10Se in libertà tornava un dì, giurai,
Pria che ad Amor, correre in braccio a Morte.
Udì Filli i miei voti, e i duo bei rai
Ver me rivolse; ahi cruda vista, ahi sorte!
Il nodo allor, che mi stringea, baciai.
XI57
Questo, che vedi in rozzi panni involto,
Alessi, è quel, che sospirato tanto
Fu da’ Profeti, e che in sul mesto volto
Terger doveva ad Israello il pianto.
5Deh! mira come in vil presepe accolto
Giace negletto quel temuto e santo
Nume, che l’armi alla vendetta ha tolto,
Vestendo il fragil nostro umìle ammanto.
La sua Pietà mill’altri modi avea
10Di riparar l’antico nostro errore,
E bastava il pensier, ch’ei ne prendea.
Ma nò. Se stesso diè l’alto Fattore:
Che in ciò far volle quel, che far potea
L’onnipotenza del suo eterno amore.
XII58
Vidi sul Tebro duo fanciulli armati
Ambo d’arco, di face e di quadrella:
Bianco vel gli occhi a questo avea bendati,
Quello gli aprìa qual doppia fiamma, o stella:
5E in un gli archi, e i pensier tenean drizzati
Verso il seno d’illustre alma Donzella;
Quando il Garzon, che i lumi avea svelati
Pria l’arco tese, e pria ferì la Bella.
Tese il suo l’altro ancora, e tosto uscìo
10Lo stral, ma non sortì pari l’onore;
Ch’in mezzo al volo un non so chi ’l rapìo.
Uno il divin, l’altro, il profano Amore,
L’occulta mano era la man di Dio;
E il segno eletto di Teresa il cuore.
XIII
Ecco il carcere aperto, e il crudo e strano
Nodo alfin rotto, onde già Amor ti strinse;
Fuggi mio cuor, che mai non scampò invano
Dal rio Signor chi col fuggir lo vinse.
5Ma dalla fiera sua prigion lontano,
Se tardi alcun l’incauto piè sospinse;
Postagli in petto la crudel sua mano,
Entro il duro soggiorno ei lo respinse.
Poscia strettolo in nuove aspre ritorte,
10Chiuse il carcere antico, e la severa
Chiave gettò nell’empio sen di Morte.
Fuggi dunque, mio cuore, or che la vera
Tua libertà pose in tua man la sorte:
Fuggi, che indarno poi si cerca e spera.
XIV
Contrari venti di Fortuna e Amore
Urtano i fianchi del mio stanco legno:
Quest’impiega nell’un tutto il suo sdegno,
Tutto quella nell’altro il suo rigore.
5Sicchè scorger non so fra tanto orrore
Chi ne sarà l’usurpatore indegno:
So ben, che questo è il meditato segno,
Ove drizzano entrambi il lor furore.
Senza vele e nocchier, senza consiglio,
10Vassene in mezzo a notte orrida, oscura
A lor talento il misero naviglio.
Onde in tenzon così crudele e dura,
Vinca Amore, o Fortuna, il suo periglio,
E la perdita sua sempre è sicura.
XV
Dell’Arbia intorno alla fiorita riva,
Ove sue reti un Cacciator tendea,
Pura colomba, che dal nido usciva,
Le prime inferme sue penne movea.
5E semplicetta d’ogni scorta priva
Così vicina al danno suo scendea,
Che già ne’ lacci ell’a cader sen giva,
Che il crudo insidiator tesi le avea.
Ma poichè a se cinta da chiara luce
10Disconder vide altra colomba, prese
Quella a seguir come sua scorta, e duce.
Quella colomba, che dal Ciel discese
È Amor, ch’entro de’ Chiostri Anna conduce;
Il Mondo è quel, che le sue reti ha tese.
XVI
Sì forte Amore in sua balìa mi porta,
Che non curando il mio infelice stato
Lui seguo, che per rio sentier mi scorta
Colla vergogna, e il pentimento a lato.
5So, che la cieca mia fallace scorta
Colà mi guida, ove mi attende irato
D’Eternità sulla temuta porta
L’offeso nume di Vendetta armato,
E perchè addietro il folle piè sospinga,
10E abbandoni il cammin, per cui fatale
Forza mi tragge, e a miglior via m’accinga;
Nulla giova il timor, che ognor m’assale,
Benchè nel mio pensier tutto dipinga
L’orrido aspetto del futuro male.
FRANCESCO MARIA DECONTI.
I
Che tirannia d’Amor, volermi stretto
Da tenace fortissima catena,
Che l’alma a respirar ritrova appena
Varco dal gran dolor, ch’opprime il petto!
5Poi con pari rigor schiavo negletto
Vuol, che tacito viva in tanta pena;
E mentre il cuore in lagrime si svena
Sono anco il pianto a trattener costretto.
E questo è poco: mi fa reo di morte,
10Se esalando un sospir, volgendo il ciglio
Mostro a chi le può scior le mie ritorte.
Così viver non puossi: or qual consiglio
Io prenderò, se in così strana sorte
E il parlare, e il tacer, ha egual periglio?
II59
So ch’io merito pena aspra infinita
Dalla giustizia di mia cruda sorte,
Se ’l tradimento altrui, mia fè schernita
Non furono bastanti a darmi morte.
5Deh! qual fierezza, o qual virtù sì forte
Fu quella mai, che mi ritenne in vita
A sì grave dolor? Da quai ritorte
S’avvinse l’alma, onde non è fuggita?
Ah nò, morto son io: già senza moto
10Sento il cor: sento il sangue entro le vene
Giacere illanguidito, egro ed immoto.
E se cenere ancora non diviene
Questo mio fral, benchè di spirito vuoto,
Amor per suo trofeo così mi tiene.
III
Mario, che tante volte, e sempre invitto
Cadde, e non finto di fortuna Anteo
Risorse ancor, per l’altrui invidia reo
Dal Romano Senato alfin proscritto;
5Esule glorioso fè tragitto
Del Latino valor là ’ve trofeo
Giacea Cartago, e consolar poteo
Il fato di Cartago un Mario afflitto.
Quivi al mirar di Roman sangue tinta
10L’alta ruina ancor: Sorte, la chioma
Rendi, gridò, su questi sassi avvinta.
Che se da Roma fu Cartago doma,
Torna or, ch’è asilo a me, Cartago vinta
A paventar la vincitrice Roma.
IV
Moro, Amici, tradito; e il mio morire
Prolungar più co’ voti in van bramate:
Piuttosto a vendicarmi arda il desìre,
e pur me, più che la mia sorte, amate.
5Consorte, io moro; ah! se un’invitto ardire
Meco ti trasse alle vittorie usate,
Ora apprendi da me forte a soffrire
Il cangiato tenor di stelle irate.
Figli, a voi lascio nel fatal momento
10Unica eredità del viver mio
L’onorata memoria, e vò contento.
Germanico sì disse, e non languìo,
Allor che dal più fiero tradimento
Non so, se vinto, o vincitor, morìo.
V
Figlio, se già d’eternità il sentiero
additai tra i perigli, or non men bello
Te lo mostro in salvarti (al figlio in quello
Fatal punto di Ponto il Re guerriero
5Disse, e seguì): lo so, tu spirto altero
Chiami vile quel passo, ov’io t’appello;
Ma se ci sforza, Ahime! fato rubello,
Dunque al fato ubbidir fia vil pensiero?
Contra noi pugna, più che ’l Roman telo,
10L’odio degli astri: or tu la doglia fuga,
Che pregio è all’uom muovere invidia al Cielo.
Forte o Figlio mi segui, e il ciglio asciuga:
Che se al ritorno io glorioso anelo,
È del provido cuor gloria la fuga.
VI
Ecco Libia in Europa, ecco Cartago,
Che fa i lauri tremare in fronte a Roma:
Pure eterna l’intrepida si noma,
Che le accresce valor l’ardir presago.
5D’Italia intanto entro il terren più vago
Incatenato da una vaga chioma
D’Africa il gran terror se stesso doma,
E del Lazio il destin rendesi pago.
Il Tebro alle delizie allor si rese;
10E obblìo sopra ogni cura impinge e spande,
Poichè cessato è il suo crudel spavento.
Odimi, o Roma: le tue chiare imprese
Frutti d’affanno fur non di contento,
Che se Annibal non era, eri men grande.
VII
O Peregrin, che muovi errante il passo
Per quest’arena, ov’erba mai non crebbe,
Questo è lito crudel, ch’ingrato bebbe
Il sangue di Pompeo di vita casso.
5Onusto di trionfi, e non mai lasso
Il grande Eroe, cui tanto il Tebro debbe,
Quì tradito cadette, e qui non ebbe
Per sepolcro nè pure un nudo sasso.
Tu, se barbaro sei, la sabbia impressa
10Ammira del gran tronco, e il suolo adora
Ove Roma con lui perde se stessa.
Ma se Romano sei, mirandoti ora
Da catena servil la destra oppressa,
Qui la perduta libertà deplora.
FRANCESCO COPETTA60
Locar sovra gli abissi i fondamenti
Dell’ampia terra, e come un picciol velo
L’aria spiegar con le tue mani, e ’l Cielo
E le stelle formar chiare, e lucenti;
5Por leggi al mare, alle tempeste, ai venti,
L’umido unire al suo contrario, e ’l gelo;
Con infinita providenza e zelo
E creare e nutrir tutt’i Viventi,
Signor fu poco a la tua gran possanza:
10Ma che tu Re, tu Creator volessi
E nascer, morir per chi t’offese;
Cotanto l’opra de’ sei giorni avanza
Ch’io nol so dir, nol san gli angeli stessi:
Dicalo il Verbo tuo, che sol l’intese.
ANGELO DI COSTANZO
I61
Figlio, io non piango più, non che la voglia
Di pianger sempre oggi in me sia minore
Che in quel dì, che volando al tuo Fattore
Lasciasti fredda la tua nobil spoglia;
5Ma perchè l’infinta intensa doglia
Ha spento e secco in me tutto l’umore
Onde convien, che l’indurato cuore
Mostri sol co’ sospir quanto si doglia.
E siccome la vena è asciutta al pianto,
10Così il calor mancando al petto interno
Mi torrà il sospirar grato a me tanto.
Non fia però, che in questo vivo inferno
Con questa penna il tuo bel nome santo
Non cerchi, e ’l mio dolor far forse eterno.
II
Veggio, Alessandro, il tuo spirto beato
Il veggio; o figlio, e non m’inganna amore,
Star lieto vagheggiando il suo Fattore
Di raggi eterni cinto e circondato.
5E tanto più del mio sinistro fato
Mi lagno, poichè vuol che ’l mio dolore
Non basti a far volar l’infelici ore
Dell’aspra vita mia più dell’usato:
Che, bench’io grave e vil giunger non speri
10Ove tu scarco e nobil pellegrino
Salisti a’ gradi più sublimi alteri;
Pur, del Ciel fatto ignobil cittadino,
L’alte tue glorie, e i tuoi diletti veri
Almen veder potrei più da vicino.
III
Dell’età tua spuntava appena il fiore,
Figlio, e con gran stupor già producea
Frutti maturi, e più ne promettea
L’incredibil virtute e ’l tuo valore;
5Quando Atropo crudel mossa da errore,
Perchè senno senile in te scorgea,
Credendo pieno il fuso, ove attorcea
L’aureo tuo stame, il ruppe in sì poch’ore;
E te della Natura estremo vanto
10Mise sotterra; e me, ch’ir dovea prima,
Lasciò quì in preda al duol eterno, al pianto.
Nè saprei dir se fu più iniqua e ria
Troncando un germe amato e caro tanto,
O non sterpando ancor la vita mia.
IV
Nè al merto tuo, nè alla pietà paterna,
Alessandro, convien ch’un dì trapassi
Ch’io non tenti i miei versi umìli e bassi
Alzare a far di te memoria eterna.
5Ma il duol, ch’a suo voler regge e governa
L’intelletto e la mente e i sensi lassi,
Fa che ciascun di lor l’impresa lassi,
Per dar soccorso alla ruina interna.
Però ristretti a sospirar col core,
10Con far del viver mio l’ore più corte,
Cercan per altra via di farti onore;
Chè alla futura età le genti accorte
Potran pensar qual fosse il tuo valore,
Se mi uccise il dolor della tua morte.
V62
Odo sin quì, Signor, le donne Alpine,
Ch’eran poc’anzi in sì securo stato,
Pianger de’ lor mariti il duro fato
Dal gran vostro valor condotti al fine:
5E, come pria temea scempi e rapine,
Italia, in speme il suo timor cangiato,
Minacciar al nemico empio ed ingrato
Ed al suo proprio suol morti e ruine.
Onde Grecia infelice or ride, e spera
10Romper il giogo, e ristorar suoi danni
Col favor della vostra Aquila altera;
La qual, s’avendo ancor teneri i vanni
È tale, or che sarà quando l’intera
Forza e virtù le daran l’uso e gli anni?
VI63
Lume del Ciel, ch’in dubbio oggi tenete,
Come debba chiamarvi il Mondo errante
Se donna o dea, poichè di tali e tante
Oltr’ogni uso mortal grazie splendete:
5In me, cui vera immortal dea parete
All’andare, alla voce, ed al sembiante,
Vince il desio, che vuol che di voi cante,
Il timor di non dir quel che voi siete.
Così mi taccio; e già, perchè memoria
10Dell’esser vostro in versi io non ordisco,
Non sia però minor la vostra gloria,
Nè il merto mio, se quel che non ardisco
Cantar, nel cor, come in secreta istoria,
Qual vera dea v’adoro e riverisco.
VII
Se amate, almo mio Sol, ch’io canti, o scriva
L’alte bellezze, onde il Ciel volle ornarvi,
Oprate sì, ch’io possa almen mirarvi,
Per potervi ritrar poi vera e viva.
5La vostra luce inaccessibil viva
Nel troppo lume suo viene a celarvi:
Sì che, s’io tento gli occhi al volto alzarvi,
Sento offuscar la mia virtù visiva.
Fate qual fece il Portator del giorno,
10Che per lasciar il suo figlio appressarsi,
Depose i raggi di che ha il capo adorno.
Ch’altro così per me non può narrarsi,
Se non ch’io vidi ad un bel viso intorno
Lampi onde restai cieco, e foco onde arsi.
VIII64
Cigni infelici, che le rive e l’acque
Del fortunato Mincio in guardia avete,
Deh, s’egli è ver per Dio65 mi rispondete,
Fra vostri nidi il gran Virgilio nacque?
5Dimmi bella Sirena66, ove a lui piacque,
Trapassar l’ore sue tranquille e liete,
Così sian l’ossa tue sempre quiete:
È ver che in grembo a te morendo giacque?
Qual maggior grazia aver dalla fortuna
10Potea? qual fin conforme al nascer tanto?
Qual sepolcro più simile alla cuna?
Ch’essendo nato tra ’l soave canto
Di bianchi Cigni alfin in veste bruna
Esser dalle Sirene in morte pianto.
IX67
L’Alpe inaccessa, che con grave affanno
Due volte il passo al tuo valor aperse;
Vienna, ed Ungheria, dove sofferse
Da te il fiero Ottoman vergogna e danno;
5Africa che, or è già l’undecim’anno,
Vide le genti sue da te disperse;
E mill’altre tue belle opre diverse,
Avalo, il tuo sepolcro omai saranno.
Queste più salde che metallo o marmi,
10Senza temer giammai del tempo oltraggio,
Terran l’istoria dei tuoi fatti, e i carmi.
O di vere virtù lucido raggio!
Quando spirto sia mai più ardito in armi,
O in consiglio di te più accorto e saggio?
X
Quella cetra gentil, che ’n sulla riva
Cantò di Mincio Dafni e Melibeo,
Sì, che non so se in Menalo, o ’n Liceo
In quella o in altra età simìl s’udiva:
5Poichè con voce più canora e viva
Celebrato ebbe Pale ed Aristao,
E le grandi opre, che in esilio feo
Il gran figliuol d’Anchise e della Diva:
Dal suo pastore in una quercia ombrosa
10Sacrata pende; e, se la move il vento,
Par che dica superba e disdegnosa:
Non sia chi di toccarmi abbia ardimento;
Che, se non spero aver man sì famosa,
Del gran Titiro mio sol mi contento.
GIO. BATTISTA COTTA.
I
Sovra splendido trono d’adamante
Cinto d’intorno d’orride tenebre
Iddio scendea, e folte nubi e crebre
L’ale stendean sotto l’eterne piante.
5Stringea dell’ire sue l’aureo fumante
Vaso, onde han morte inique turbe ed ebre:
Il vide l’Empio, e in chiuse erme latebre
Fuggì d’alpina balza egro e tremante.
Ma in van; chè Dio con fier tremoto aperse
10L’alta montagna, e in cupo antro profondo
L’Empio, qual fiera in suo covil, scoperse;
E minaccioso sovra il capo immondo
Versò l’ire immortali, e ve ’l sommerse;
Poi chiuse il monte, e ’l seppellì nel fondo.
II68
De’ famosi Avi tuoi gli eccelsi vanti
Qualor ti vidi sfavillare intorno,
Ardevan, più che in sul meriggio il giorno,
I tuoi sereni, ed incliti sembianti.
5Cinto quindi nel Ciel da tanti, e tanti
Illustri pregi, onde ten givi adorno,
Passavi in terra al nobil tuo soggiorno
Col merto a lato, e la virtude avanti.
E mentre il passo da quell’alte cime
10Volgevi, dove il tuo gran Padre ha sede,
Io ti seguìa col guardo, e colle rime.
Ti veggio pur, dicea, regale Erede
De’ Regni aviti, e del valor subline;
Ponesti pur nel basso Mondo il piede.
III69
Qual sia di noi gente più chiara al Mondo,
E qual più lieto avventuroso stuolo,
Or che diffondi in sul Parrasio stuolo
Un sì fulgido raggio, e sì giocondo?
5Veggiam, Signore, il vasto tuo profondo
Saper, che illustra e l’uno e l’altro Polo,
E il sovrano consiglio in terra solo
Sostenitor del glorioso pondo;
E in vederti fra noi di tanti adorno
10Pregi d’alma virtù, che al Ciel ne guida,
Gioisce il nostro pastoral soggiorno.
Quinci è mercè di tua gran scorta e fida,
Insolito d’onor sereno giorno
Se alle nostre Foreste avvien che arrida.
IV
Nell’arenosa region Numida
Le armate in traccia barbaresche torme
Dell’Orige silvestre osservan l’orme70
E stendon l’ampie reti ov’egli annida.
5Di sua cotanto ferità confida
La belva crudelissima deforme,
Che in mezzo ai lacci neghittosa dorme,
E non si scote per latrati o strida.
Empi, che tanto ite di voi securi,
10Ecco gli orrendi cacciator di Dite
Contro di voi sì nequitosi impuri:
Ecco gli aguati, ecco le insidie ordite:
E pure, e pur tra i forti lacci e duri
Con mille veltri al fianco ancor dormite!
V
Se l’Empio ode per selva in cui s’aggira
Leon, che l’aria co’ ruggiti assorda,
Fugge a sinistra, e nel fuggir sel mira
Incontro aprir l’orrenda gola ingorda.
5Si volge a destra, e vede accesa d’ira
Orsa feroce ancor di sangue lorda:
Stende le braccia a un tronco, e le ritira
Pcr lo timor, ch’angue crudel nol morda:
Gettasi al fin per tenebrosa strada
10Aspra sassosa dirupata e torta,
Ond’è che ad ogni passo inciampi e cada:
E, nel girar l’orrida faccia e smorta,
Si vede a tergo con terribil spada
Angel, che ’l preme, e al precipizio il porta.
VI
Le vie seguendo del perduto Averno
Ingrata Donna, al sommo Dio rubella,
Tanto mostrossi nequitosa e fella,
Quanto pietoso il suo buon Padre eterno.
5Pur ei dal cerchio immobile superno
Mille celesti amor converse in ella,
Che di possente armati aurea facella
Volean pur sciorle il duro gelo interno.
Ma l’empia altri ne caccia, altri ne sgrida,
10Chiuso il varco del cuore, ove il desio
Stolto dimora, e rea baldanza annida.
Or se il candido stuol indi sen gio,
E lasciò lei fra disperate strida,
Chi ne fu la cagion? la Donna, o Dio?
VII
Dov’è, Signor, la tua pietade antica,
Che in Cielo, in Terra alto così risuona?
Deh stendi omai, stendi la destra amica,
E me tuo figlio al padre suo ridona.
5Poichè gente di te, di me nemica
Odo, che sopra il capo mio già tuona;
Già tra suoi lampi mi ravvolge, e implica:
Fulmini, ch’intorno a me s’aggira, e suona.
E qual gloria n’avrai, Fabbro superno,
10Se l’opra tua miseramente piomba
Nell’orrende voragini d’Averno?
Ah! Dio, che mai da quell’orribil tomba
Non sorse lode al tuo gran nome eterno,
Ma ben dal Ciel, dove ogni lingua è tromba.
VIII71
Vezzosa erbetta e più del sonno molle,
Vaga giunchiglia al più bell’or simile,
Candido giglio, il cui candor gentile
A bianca neve intatta il pregio tolle;
5Croco e giacinto in verdi erbose zolle,
Rose d’ostro dipinte, ond’arde Aprile,
Narcisi alteri e violetta umile,
E ogni altro fiore in fresca riva o in colle:
Sorgete omai, sorgete, e la nevosa
10Stagion vi serbi alla capanna intorno,
Dove quel Dio, che vi creò, riposa.
Vi colga ei solo, e ’l biondo crine adorno
Abbiane, e culla tenera odorosa
Di quelle paglie, ahi troppo dure, a scorno.
IX
Pastor, ch’involi al sanguinoso artiglio
Di fiero lupo il gregge suo diletto:
Madre, che allatti il caro unico figlio,
Che plora in cuna ancor tra fasce stretto:
5Fido amator, che sprezzi ogni periglio,
Purchè si salvi il desiato oggetto:
Pellicano amoroso, a cui vermiglio
Per altrui cibo esce liquor dal petto:
Amate sì, ma non amate a segno
10Di versar generosi e sangue e vita,
Per chi soi d’ira e di grand’ira è degno.
Sol Dio, sol egli a’ suoi Ribelli aita
Die’ col morir su vile orrido legno;
Oh amore! oh pietade alta infinita!
X
Io vidi un dì, che in luminosa vesta
Dal soglio eterno il sommo Dio scendea,
E foco struggitor d’ampia foresta
Il suo chiaro sembiante a me parea.
5Torbido nembo, e fiera atra tempesta
Orribilmente intorno a lui fremea,
Mentre dal Cielo in un sol passo in questa
Così lontana terra ei discendea.
Qual arbor trionfal, che d’anni carco
10Stassi di Libia in sul terren fecondo,
E cede sotto il glorioso incarco:
Tal del piede divino al grave ponde
L’eterne sfere si piegaro in arco,
E s’incurvaro i Portator del Mondo.
XI
Due fier tiranni hai miser’ Alma al fianco,
Che muovon guerra al dolce tuo riposo;
Entro al tuo petto è l’uno e l’altro ascoso,
E con Amore han regno al lato manco.
5L’uno non mai di tormentarti è stanco,
Se ruota il Ciel sovra di te pietoso;
Fra i travagli, e l’ambasce invidioso
Sorge l’altro a’ tuoi danni ognor più franco.
Quel del futuro appreso danno è figlio;
10E questo prova fa del suo rigore,
Se volge avverso a te Fortuna il ciglio.
Quello è il freddo timor, questo è il dolore.
Temi, se il ben possiedi, onta e periglio,
Se il mal ti preme, ange tristezza il core.
XII72
Funesto un dì d’Eternità pensiero
L’estrema a rimirar mia dubbia sorte,
Per l’ombre orrende del cammin di Morte
Colà mi scorse, ov’ha Giustizia impero.
5A destra, e a manca in lungo ordine e nero
Meco venìa la formidabil Corte
De’ miei desir, dell’opre inique e torte,
Ad accusarmi al tribunal severo,
E gridar tanto contro me vendetta,
10Che già sul capo mio l’alto superno
Signor vibrava la fatal saetta:
Quando Maria, ch’ave di me governo,
La man distese a pro dell’Uomo eletta,
E alto ritenne il divin braccio eterno.
XIII
A Quel divo d’Amor raggio possente,
Che sorge da due fiamme eterno e solo,
De’ Cieli adornatrice inclita mente,
Spirto, che avviva questo basso suolo,
5Volto, col cor di bel desire ardente,
Le luci avea sacro ed eletto stuolo;
Quando suonaro i Cieli, ed ei repente;
Per l’aer venne in chiaro foco a volo.
E tante accese in Terra alme faville,
10E di se tanto in lei faville ei chiuse,
Che arser di lui mille grand’Alme e mille.
Anzi per entro ogni alta mente infuse
Ampie così di nuovo ardor scintille,
Che quasi se fuori di se diffuse.
XIV
Ohimè, che uscìo lo spaventoso arresto
Dall’implacabil Giudice superno:
Già veggio il nero auriga, ed il funesto
Carro di Morte, e spalancarsi Averno.
5Già i Rei, di tromba al rauco suono e mesto
Son strascinati al duro incendio eterno:
Giuoco feral di quel reo Spirto è questo,
Che fa de’ corpi lor crudo governo.
Quindi il collo, le mani, e i piedi avvinti
10Piombano in quelle oscure chiostre orrende
D’alta ignominia, e di squallor dipinti.
E ’l carro in giù precipitoso scende,
E gli urta, e porta agli ultimi recinti,
Dove penosa Eternità gli attende.
XV
Alma, benchè poggiando ascendi all’erto,
Ove Virtù risiede alta e divina,
Torcendo dal sentier piano, che inchina
Verso il piacere, ove il periglio è certo:
5Pur se raminga in questo ermo deserto
Te l’immensa pietade al Ciel destina,
Se in trono eccelso sederai Reina,
Fia mercè di lei sola; e non tuo merto.
Che sei nel Ben sì stabil poco, e ferma,
10Che se sospende i forti aiuti suoi,
O almen benigno un guardo a te non ferma;
Opra non sol degna di Dio non vuoi,
Ma cieca ognora, e in tua virtute inferma,
Nè men voler, nè men poter tu puoi.
XVI
Quel, che maligno a sì funesta sera
Trasse del Mondo i lieti giorni e fausti,
M’ingombra il cor d’atri pensieri infausti,
E addita a me de’ falli miei la schiera.
5Alto poi grida: O miser uom, dispera,
Già tutt’i fonti hai di pietade esausti;
Nè per lacrime, o preghi, od olocausti
Fia mai, che tolga l’empia macchia e nera.
Odi, Padre del Ciel, dal soglio eterno
10La rea bestemmia, e ad immortal tuo vanto
Forte confondi il mentitor d’Averno.
Che più non speri! Ah vuo’ sperar fin tanto
Ch’io vivo. E quando mai prendesti a scherno
Del Figlio il sangue, e de’ Mortali il pianto?
XVII
Nave degli empi, che soverchi l’onda
De’ rei piacer così veloce e lesta,
Volgi l’iniqua prora, e il corso arresta,
Che de’ perigli tuoi parla ogni sponda.
5A danni tuoi già torbida e profonda
L’acqua del mar muove crudel tempesta:
Squarcia le vele il vento, e omai t’affonda
Voragin cupa, e il flutto urta, e ti pesta.
Ohimè già veggio ogni tuo bene assorto,
10Veggio l’antenne, e ogni tuo legno infranto,
Veggio il nocchiero naufragante e morto.
Oh nave, nave baldanzosa! Oh quanto,
Quanto era meglio a tempo entrare in porto!
Mira ove sei per l’indugiar cotanto.
XVIII
Aura dolce e soave; e dolce ardore,
Dolce e soave donatore, e dono
Amabil, dolce albergator del core,
Che al cor favelli in dolce amabil suono;
5Te non pavento già tra i lampi, e il tuono,
Fra mezzo le caligini e il terrore;
I felici pensieri intorno al trono
Ti stanno in guardia, e il trono sol d’Amore:
D’Amor, che in santa inestinguibil face
10L’eterno Figlio e il Genitore accende,
Che di sua bella immago si compiace:
D’Amor, che in se l’esser divin comprende,
E lega e stringe in amichevol pace
Il Ciel la Terra, ove penetra e scende.
XIX
Apri lo sguardo, Alma infelice, e mira;
Ben’otto lustri il viver nostro ha corso,
L’altre vien dietro, che ne preme il dorso;
E pur anco si tresca e si delira?
5E tempo omai, che all’indomabil’ira
Ponga Ragione imperiosa il morso;
Tempo è che volga a miglior’uso il corso
Del van piacer, che a lacrimar ne tira.
Andiamo, andiam, non per obliqua e ria
10Strada de’ vizi, ma ove gir conviene,
Se pur qualch’anno resta a noi di via.
Non torca il piè dal sommo ultimo Bene;
Che quanto più dal fine suo travia,
Tanto è minor dell’arrivar la spene.
XX
Nume non v’è, dicea fra se lo Stolto.
Nume non v’è, che l’Universo regga;
Squarci l’Empio la benda, ond’egli è avvolto
Agli occhi infidi; e se v’ha Nume, ci vegga.
5Nume non v’è? Verso del Ciel rivolto
Chiara il suo inganno in tante stelle ei legga
Speglisi, e impresso nel suo proprio volto
Ad ogni sguardo il suo Fattor rivegga.
Nume non v’è? De’ fiumi i puri argenti,
10L’aer che spiri, il suolo ove risiedi,
Le piante i fior l’erbe l’arene, e i venti
Tutti parlan di Dio; per tutto vedi
Del grand’esser di lui segni eloquenti:
Credilo Stolto a lor, se a te nol credi.
XXII
Io miro e veggio ampia ammirabil scena:
Veggio venir col crin canuto, e bianco
Il Tempo domator coll’ali al fianco,
E lunga avvolta a braccio atra catena.
5E gli anni e i lustri al destro lato e al manco
Da quella avvinti a Dio davanti ei mena;
E ’l vasto oscuro Abisso il segue appena,
Per lunghe etadi indebolito e stanco.
Strano a mirar que’ Secoli vetusti,
10Quei nuovi, e que’ che ancor credea nascosi
Nell’ampia ruota del maggior Pianeta!
Tutti ha presente il sommo Nume, e angusti
Son quegli Abissi immensi e tenebrosi
Al guardo suo, che non ha fine o meta.
XXII
O Tu, che gli anni preziosi e l’ore
Ne’ vani studi consumando vai,
E sol tesoro all’altre età ne fai
Pe ’l brieve acquisto di fugace onore;
5Veggoti già per fama altrui maggiore,
Maggiore in merto: ma d’acerbi guai
Qual messe dopo morte alfin corrai,
Se tardi apprendi a divenir migliore?
Ascolta, ascolta: nell’estremo giorno
10Andrà il tuo nome in sempiterno obblio,
E frutto avrai sol di vergogna e scorno.
Ecco, diran le genti, il pazzo, il rio,
Che di sublime chiaro ingegno adorno,
Tutt’altro seppe che se stesso e Dio.
ABATE GIO. MARIA CRESCIMBENI.
I
Io chiedo al Ciel, chi contra Dio l’indegno
Misfatto oprò, cui par mai non udissi?
Dic’ei: fu l’Uomo, e di dolor in segno
Io cinsi il Sol di tenebroso ecclissi.
5Al Mare il chiedo: anch’ei, su duro legno,
Grida, l’Uomo il guidò: qual nei sentissi
Doglia, tel dica quel sì giusto sdegno,
Ond’io sconvolsi i miei più cupi abissi.
Il chiedo al Suol: con egual duolo acerbo
10Egli esclama: fu l’Uom: dalle profonde
Sedi io mi scossi, e i segni ancor ne serbo.
All’Uom, che ride in liete ore gioconde,
Irato il chiedo alfin; ma quel superbo
Crolla il capo, e non risponde.
II
Tesi poc’anzi un forte laccio all’Orso,
Che tutta distruggea nostra campagna,
Ma chi vi cade? a dirlo io n’ho rimorso,
La perfida d’Altea bella compagna.
5Elpin che ne faremo? Invan soccorso
Spera in quel luogo alpestro; invan si lagna:
Debbo sciorla? che dì? scnza discorso
Com’è, che il tuo consiglio or si rimagna?
Così ad Elpin diceva Alcone, ed egli:
10Io taccio; ma il tacer vieppiù favella:
Se l’Orso vi cadea l’avresti sciolto?
Or tu la Libia, e tutta Affrica sciegli,
Se sai belva trovar più cruda, e fella
D’un cor protervo, che ridente ha il volto.
III73
»Signor, che lume spandi ampio e profondo
»Qual mai non vide in terra occhio o pensiero,
»Il bel di tue virtù splendor giocondo
»Unendo a’ rai del prisco sangue altero:
5»Fra al tuo gran valor ben lieve pondo
»L’Indico scettro e il vasto soglio Ibero,
»Se non prendevi ancor, Giove secondo,
»L’immenso fren dell’Universo intero.
»Pure in tanta grandezza oh qual risplende
10»Bella Clemenza al tuo gran Nume accanto!
»Oh qual da lei benigno sguardo scende!
»Questa, che tien sopra il tuo cuore il vanto,
»De’ gran tributi al par grato ti rende
»Quel, che t’offre l’Arcadia, umìl suo canto.
IV
Quando da duo begl’occhi offerse Amore
Battaglia all’Alma, i miei pensier chiamai,
E volea dir: forti campioni, omai
Fia noto al Mondo il vostro alto valore.
5Ma tra quei della mente, e quei del core
Guerra sì rea per tal cagion trovai,
Che tacqui, e di scampar solo cercai,
Quantunque invan dal lor cieco furore.
Quei, che seco avea l’Alma a sua difesa,
10Eran ben pochi, e a sostener costretti,
Dalla peggior la miglior parte offesa.
Stavansi tutti affaticati, e stretti
L’un contra l’altro alla lor propria impresa,
Lasso! L’inerme intanto Alma perdetti.
V74
Monarca invitto, che col braccio forte
Da’ barbarici insulti Europa affidi,
Già sul Savo incontrar l’ultima sorte
Dall’armi tue popoli immensi infidi:
5Già quell’Eroe, nel cui valor confidi,
L’Asia omai di terrore empie, e di morte:
Or varca lieto di Bizanzio a i lidi,
Che Iddio te n’apre di sua man le porte.
Quivi il suo santo, almo vessillo alzando,
10Al serto Occidental i lauri Coi
Ricongiunti vedrai sulla tua chioma.
Che scelto ei t’ha dopo tant’Avi tuoi,
Il torto a vendicar sì memorando,
Che i figli fer del gran Teodosio a Roma.
Traduz. del preced. Sonetto di Pietro Bonaventura Savini.
Carle, magnanimo Europam qui protegis ense,
Quique procul Scyticas cogis abire minas;
Iam Savi ad ripas dirae cecidere Phalanges;
Procubuitque armis impia Turba tuis.
Ianque Heros cuius fisus virtute triumphas,
Complet totum Asiae caede, metuque solum.
Perge igitur, quae stante Bizanti in littore Turres,
Ecce tibi reserat nam Deus ipse fores.
Hic, ubi Threyciae fulgent insignia Lunae
Chris iadum vindex erige stegna Crucem.
Addetur sic Occiduis Eva coronis
Laurus, digna tuis utraque serta comis.
Nau tibi post tot Avos damni datur ultio, quod iam,
Intulit Ausoniis frater uterque plagi.
VI
Quel, che a Dio fu nel gran principio appresso
Divin Verbo ed eterno, ed era Dio,
Per cui del Nulla dall’abisso uscìo
Quanto il Sol vede, e ’l Ciel chiude in se stesso;
5Quel, che per tante etadi a noi promesso
In tante bocche pria sonar s’udìo,
Del nostro Frale el suo Divin coprìo,
E colle spoglie della colpa anch’esso
Nacque, e primiero entro capanna umìle
10Il celeste mirò volto giocondo
D’immondi bruti abbietta coppia e vile.
Ed a ragion: che sotto il grave pondo
Dell’umana sembianza egra, e servìle
Il conobber le belve, e non il Mondo.
VII
Carlo, quando a ritrar s’accinse Apelle
Del terzo Ciel la finta Dea profana,
Tolse il Bel da ogni Bella, e nuova e strana
Ordì beltà di queste forme e quelle.
5Ma tu la vera Bella infra le belle
Pingendo, unica in Ciel Diva e Sovrana,
Con mirabil potenza e sovrumana
Gisti il Bello a rapir sovra le stelle,
Quindi la Greca fragil opra impura
10Mancò nella sua breve aura vitale
Ratto così, che appena il nome or dura.
Ma poichè a Nulla di terreno e frale
Tu t’attenesti, in ogni età futura
Vivrà la tua celeste opra immortale.
VIII
Quando fondò dell’immortal sua sede
Cristo di Pier sulla saldezza il Regno,
Paolo chiamando, a lui compagno il diede,
D’aurea lingua fornito, e d’alto ingegno.
5Sciolto al suo dir da rio servaggio il piede,
Correan le genti di salute al segno,
E Roma stessa, d’empietà già sede,
Si scosse al suon del chiaro stile e degno.
Alfin Paolo morì: ma tal d’intorno
10Sparso avea di virtù seme facondo,
Che frutto appien ne colse Occaso, ed Orto.
Or che il grand’Orator fa a noi ritorno,
E il rimiriam, Signore, in te risorto,
Ov’è da soggiogarsi un altro Mondo?
EUSTACHIO CRISPI.
I75
Indarno, Italia mia, ti diè Natura
D’intorno inespugnabili ripari,
L’Alpi da un lato per eccelse mura,
E da più bande per difesa i Mari.
5Ch’or l’empio Re, ch’a’ danni tuoi congiura
Ti reca da Oriente i giorni amari;
Misera! e qual valor più t’assicura
De’ figli tuoi già sì famosi, e chiari?
Ma il Ciel pietoso, il Ciel te non obblia,
10E a chi sostien la maestà Latina
Armi, e guerrieri da più regni invia.
Altra nuova vittoria è omai vicina.
Finchè regna Clemente, Italia mia,
Non sarai serva, se non sei Reina.
Trad. del preced. Sonetto di Michel Giuseppe Morei.
Te frustra Natura suis, Terra itala, circum
Insuperabilibus cinxerit aggeribus;
Praeruptas dederit frustra pro meanibus Alpes,
Atque procellosum parte ab utraque Mare.
Nam tua qui semper meditatur damna Tyrannus
Adducit tristes ex Oriente dies,
Natorum (infelix!) quis te modo protegit, olim
Grande quibus virtus nomen habere dedit?
Sed Deus, Italiae facilis, Deus immemor haud est;
Atque illi, qui te nunc regit Imperio.
Et maiestatis servat decus omne Latinae,
Arma, ratesque, Ducesqui undique suppeditat
Auguror: addetur veteri nova palma triumpho.
Addetur, tempus nec procul esse reor.
Donec erit Clemens, si ned tibi serviet Orbis,
Barbaricum certe nec patiere iugum.
II76
Già son molti anni, che di giorno in giorno
Gli occhi volgo e la brama al Ben, ch’io spero
Ben che giunge sì tardo, e sì leggiero
Passa, ch’io ne rimango in doglia e scorno.
5Forsennato egli è ben chiunque intorno
A diletto mortal gira il pensiero:
Vano diletto, e in tutto opposto al vero,
E sol di larve ingannatrici adorno:
Diletto, che aspettato è di tormento,
10Che presente non rende appien beato,
Che fuggendo finisce in pentimento.
Cangiami, o Dio, così noioso stato,
Con quel che abbraccia nel suo gran momento
Il Futuro il Presente ed il Passato.
CARLO CROCCHIANTE
I
Chieggio ov’è Filli a Ninfe, ed a Pastori,
Filli, che pur di quà vagar vid’io:
Qua, rispondon, venn’ella, e poi partìo
Destando col bel piede erbette, e fiori.
5Chieggione al Sol; ma pien d’alti stupori
Mi risponde: specchiar la vidi al Rio;
Poi vinto da’ suoi lumi il lume mio,
Non vidi ove portasse i suoi splendori.
Alla foresta io la ricerco, al fonte;
10Ma sol odo, che al mio crudel dolore
Fann’eco ingannatrice e questo, e quella.
Pur mi dice un pensier: se vuoi la Bella
Trovar, non cercar più per valle, o monte,
Cercala in te, ch’ella ti sta nel cuore.
II
Mira, o Tirsi, come irato
Nell’April s’è mostro il Cielo,
Poichè il crudo orribil gelo
D’ogni pregio ha il suol spogliato.
5Tutti ha secchi i fior del prato
Che ridean sul verde stelo:
Io pel duol mi squarcio il velo,
E ne sgrido il Cielo, e il Fato.
Tirsi allor mirando fiso
10La sua donna, a tai parole
Replicò con un sorriso:
Cessa il duol, mia bella Iole,
Che più vaghe nel tuo viso
Stan le rose, e le viole.
III
Caro Tirsi, oh che bel giorno,
Disse Fille, ora vegg’io!
Nè più bello il guardo mio
Mai ne vide, nè più adorno.
5I fioretti quà d’intorno
Pompa fan del Bel natio,
E scherzando al dolce Rio
Van gli augei dal faggio all’orno.
Ciò sentendo il pastorello
10Alzò a Fille i lumi suoi,
E in lor vide ardor novello;
Poi rispose: o Fille, a noi
Rende il dì si chiaro, e bello
Lo splendor de’ lumi tuoi.
DECIO ANTONIO.77
Appena uscito dalla regia cuna
Trattar con mano anco tremante l’armi;
Pria saper chieder l’elmo, e dir, ch’uom l’armi,
Che formar sappia ancor parola alcuna:
Quanto più contro lui gente s’aduna
Far, ch’al nome sol ceda, e si disarmi;
E fare al suon de’ bellicosi carmi
Tremar regni, e provincie ad una ad una;
Il tutto aver dall’Indo lido al Moro
10Corso, visto, vinto, arso, e messo al fondo
Con guerrier pochi appresso, e con poc’oro;
Ma non contento d’aver vinto un Mondo
Tentar Mondi novelli, opere foro
Già del primo Alessandro, or del secondo.
CARLO DONI.78
Bella Clemenza al tuo gran Nume accanto
Veggio, o Signor, che in alto Trono assisa,
E dal fianco real non mai divisa,
Di magnanimo cor n’addita il vanto.
5Ciascun sorpreso da soave incanto,
Mentre sì eccelsi pregi in te ravvisa,
In quel soglio immortal le luci affisa,
E per dolce gioir si strugge in pianto.
Ma bene appar nel suo natìo splendore
10La Clemenza più vaga allor che prende
Dall’altre tue virtù luce maggiore.
E al Mondo intero, che la pace attende
Per lei congiunta al tuo sovran valore,
Oh qual da lei benigno sguardo scende!
DURANTE DURANTI
I79
Non pur, Pilotti, d’ogni nervo e fibra,
E tutte sai dell’uman corpo esporre
L’interne parti, e come passa e scorre
L’umor per entro, e si mantiene e libra;
5Ma insiem se crudel morbo il sangue sfibra,
Con polve ed erba il rio venen sai torre;
E nuovo spinto qualor lento corre
Mescere a lui, che l’assottiglia e cribra.
E per te spira ancor l’aria serena
10Più d’un che da più mali e cure oppresso
Giunto già si credev’all’ore estreme;
Tal che natura di stupor ripiena
Dell’arte tua si maraviglia, e spesso
Morte ti guata disdegnosa e freme.
II80
Ben può Apennin l’alpestro dorso opporme,
E i freddi ghiacci: onde sua fronte indura,
E far spesso che il piè per mal sicura
Strada erri, e tarde segua e incerte l’orme:
5Ma non potrà con la sua asprezza torme
Ch’Arno io non veggia, e le tue chiare mura,
Fiorenza, e i toschi campi, ove Natura
Mostra sua possa in sì leggiadre forme.
Che se il varco contende, e il piè ritarda
10Quest’ardua rupe, al mio desir non toglie,
Che di tanto tesor vieppiù non arda.
Certo quì l’Alpe pose erta e selvaggia
Natura, acciò di te più ognun s’invoglie,
O terren sacro, e in riverenza t’aggia.
III81
E depor non dovea l’ingiusto sdegno,
Vergine, il Pretor crudo allorchè scerse
Te giovinetta e bella in sì diverse
Fogge soffrir sì duro strazio indegno?
5E senza di timor mostrar pur segno
Franca mirar chi nel tuo sangue immerse
Il crudel ferro, che la via t’aperse
Agli alti seggi del celeste regno?
Ma Dio fu certo, che a quell’empio cinse
10Di pietra il core, e con sì lunghi scempi
Nelle tue membra ad infierir lo spinse;
Che tua fermezza allor sì chiari esempi
Diè, che il cieco tiranno, e il sesso vinse,
E tanti erse al tuo nome altari e tempi.
IV82
Quel che pur chiami in bruna veste e nera,
E di lagrime intanto aspergi il ciglio,
Donna, vago diletto unico figlio,
Tua gioia un tempo, or doglia acerba e fera,
5Col mio lassù nella più alta sfera
Or stassi fuor di questo grave esiglio;
E fora il nostro omai miglior consiglio
Di lor gloria allegrarsi eterna e vera.
Ma dal retto veder, ahi! ne distorna
10Il troppo affetto, e dal soverchio duolo
Vinta ed oppressa in noi la Ragion dorme:
L’immortal luce, ch’ambi or copre e adorna,
Tolta è a’ nostr’occhi, che presenti han solo
Lor dolci atti, e le prime amate forme.
V83
Marco, s’egli avverrà, quando sotterra
Sarà per morte il tuo Fral posto e il mio,
Che le nostre fatiche al tardo obblio
Faccian pur come spero in parte guerra:
5Nel veder come una medesima terra
Ne produsse ambi, e che un simìl desìo
Ne accese, e sempre le nostr’alme unìo
Qual più rara amistà si vide in terra:
Felici, alcun dirà, che in questo basso
10Esiglio stretti in dolce nodo e santo
Patria studio e volere ebber conforme.
Ma avrò ben io di che dolermi, lasso!
Che nel rozzo mio stil vedrassi quanto
Da lontano seguii le tue chiar’orme.
GIUSEPPE ERCOLANI.
I84
Sovra i sensi innalzato infermi e bassi
Veggio il gran Dio, che di se stesso elice
L’immortal Figlio, e in unità felice
L’un l’altro amando eternamente stassi:
5E qual dall’Uom naturalmente Uom fassi,
E fuor ch’all’Uomo, Uom generar non lice,
Tal su nel Cielo è Dio di Dio radice,
E produr Dio, fuori che a Dio non dassi.
Ma tu con nuova alta virtù sovrana
10Uom generi, o Maria, chi Dio nascea
In altra guisa, inusitata e strana.
Tu doni esser creato a chi ti crea;
E sei Madre d’un’Uom senz’opra umana,
E sei Madre d’un senz’esser Dea.
II
Il Padre, il Figlio, e l’increato Amore
Le grazie tutte, ed ogni bel desìo
Posero in Lei, che fè sull’angue rio
L’alta vendetta dell’antico errore.
5L’opra è sì bella, che nel suo splendore
Tutto si perde il debol guardo mio;
Nè in Ciel, nè in Terra immaginar poss’io
Cosa più degna d’immortale onore.
Percosso il verbo da sue luci vaghe,
10In guisa si rallegra, e tal diviene
Che par, ch’interamente ivi si appaghe,
E quante volte a rimirarla viene,
Ecco, dice rivolto alle sue piaghe,
Tutto il compenso de le vostre pene.
III85
Poichè del suo fallire Adam s’accorse,
E per vergogna se medesmo ascose,
A passeggiar l’Altissimo si pose
Tra la vendetta, ed il perdono in forse.
5Quando da lungi la gran Donna scorse
Riparatrice dell’umane cose,
Che da quest’erme piagge, ed odiose
Alteramente germogliando sorse;
Eh pera, disse, dell’infausto pomo
10L’aspra memoria, or ch’apparir vegg’io
Colei che l’angue ingannatore ha domo:
Colei, che generando il Figlio mio,
Farà che Dio si rassomigli all’Uomo,
Perchè l’Uom torni a somigliarsi a Dio.
IV86
Questa dell’Universo Arbitra e Diva
Che sovra ogn’altra al gran Fattor diletta,
E pria del Mondo a prò del Mondo eletta,
Da solitaria ascende orrida riva:
5Questa è la Bella, che di Dio la viva
Progenie eterna ha in uman vel ristretta,
E a lei congiunta alteramente e stretta
Tant’oltre và, che all’infinito arriva.
Ben vorria l’alma desiosa, e intensa
10Girsen con ella ove il gran volo estende,
Ma di poggiar sì alto indarno pensa.
Che nè pur essa se medesma intende;
Nè quanta chiude alta virtude immensa,
E le sue mete il solo Dio comprende.
V87
Nel principio era il verbo e ’l Genitore,
E ’l Genitore e ’l Verbo erano Dio;
Nè ’l Verbo potea dir: sei mio Signore;
Nè ’l Genitore: il tuo Signor son io.
5Ma poichè l’un per infinito amore
In sembianza mortal se stesso offrìo,
Giunse l’altro d’impero al sommo onore,
E ’l Signor: siedi, disse, al Signor mio.
Siedi, chè a Te la destra mia riserbo,
10Mercè di Lei, che debellato, e domo
Ha d’Aquilone il regnator superbo:
Di Lei, che ad onta del gustato pomo
Ingrandì l’Uom, perchè unì l’uom col Verbo,
Ingrandì Dio, perchè unì Dio coll’Uomo.
VI88
Vergini al Mondo innumerabil sono,
Ma quale o quando alla gran Madre eguale?
Nostra tant’alto integrità non sale,
Perch’ella ebbe innocenza, e noi perdono.
5Purissima comparve al divin trono,
E giunse l’alta sua bellezza a tale,
Ch’io non so dir, se Dio fatto mortale
Di Lei più fosse o donatore o dono.
Qual nell’antico Rovo il foco abbonda,
10E fiorisce la pianta ancorchè ferva
Nell’insolito ardor, che la circonda;
Tal vicendevolmente in Lei s’osserva
Verginità che ’l seno suo feconda,
Fecondità che ’l suo candor conserva.
VII89
So, ch’al sen di Maria l’eterno Bene
Grandezza diè, che all’infinito sale,
E, ch’ella quasi al suo gran Figlio eguale
Un non so che d’immensità contiene.
5Pur tanto il suo candore a durar viene,
Ch’alla Madre la Vergine prevale
Non perchè sia maggior, ma perch’è tale,
Che in se più lunga integrità mantiene.
Di Lei nascendo l’increata Pura
10Non le lasciò Fecondità per sempre,
Purità sì ch’eternamente dura.
Altre il suo fiore, altre il suo seno ha tempre:
Cessò di generar, non d’esser pura;
Fu Madre una sol volta, e Vergin sempre.
VIII90
Prima d’ogni principio a Voi concesse
Alto natal, non come il nostro, immondo,
E a fare in tempo, o santa Madre, il Mondo
Compagna eterna il gran Fattor v’elesse.
5Con Voi diè legge all’acque, e le represse,
Con Voi diè moto a’ Cieli, e nel profondo
Fermò dell’Orbe in se medesmo il pondo
E poi nell’Uom le sue delizie impresse.
Che se peccò l’Uom folle e trasse sopra
10I figli rei l’universal vendetta,
Questo non fa che macchia in voi si scopra;
Poichè non può con gli altri essere infetta
Chi pria del mondo era operante, ed opra,
E prima d’ogni colpa era concetta.
IX91
Che fai, Maria, che pensi? Ecco il gran Padre,
Ch’al bel desìo de’ Secoli si inchina,
E ’l santo Frutto del tuo sen destina
Riparator delle terrene squadre.
5Ma tu, che offerte insolite e leggiadre
Di tua già festi alla onestà divina,
Nulla ti muovi alla comune ruina,
O al tanto sospirato onor di Madre.
Indarno Amore, e ’l gran pubblico danno
10Ti fanno guerra dispietata, e fera,
Che contra la tua fè non vale affanno:
E quale armata insuperabil schiera,
Tutti i pensieri tuoi gridando vanno:
Verginità si serbi, e il Mondo pera.
X92
Non anco avea le pene e i premi nostri
Il sommo Padre in adamante fissi,
Nè gli Empi destinava a’ ciechi abissi,
Nè i Giusti a’ luminosi empirei chiostri;
5Quaudo, o gran Donna, i bei natali vostri
Furon nell’alta eterna idea prefissi;
E fremer d’ira in lontananza udissi
Il Re superbo de’ tartarei mostri.
Che grazia ad altri non concessa poi
10Fin d’allor vi sottrasse al frutto rio
Dell’arbor tanto ingiurioso a noi;
E qual non cape in intelletto mio,
Nel gran principio de’ decreti suoi
Vi destinò sua Genitrice Iddio.
XI93
Spirto che troppo di sua gloria altero
Minacciò l’Austro, e l’Aquilone invano,
Trasse tutto in catena il germe umano
Per vendicarsi del perduto impero;
5Ma la gran Donna a cui l’onor primiero
Serbò l’eterna onnipotente mano,
Libera nacque, e in se medesma vano
Fè il nostro fallo e l’empio altrui pensiero.
Non già che avvinta non dovesse anch’ella
10Scender tra noi, ma nol sofferse il Verbo,
Perch’ei fora men chiaro, essa men bella;
E l’Avversario nel suo esiglio acerbo
Rammentando a Maria che l’ebbe ancella,
Avrìa giusta cagion d’esser superbo.
XII94
Spirto, che di spirare in me si degna,
Nè so dove se ’n vada, onde derivi,
Maria mostrommi un giorno, e disse: scrivi,
Scrivi di Lei che sovra ogn’altra è degna.
5Io, com’uom, dentro cui virtù non regna
Tanta che basti e alla gran meta arrivi,
Pien di pensier ripiglio incerti, e schivi:
E chi tant’alto a ragionar m’insegna?
O chi mi fa di tanta grazia dono
10Ch’io sollevi il mio dir, sicchè di Lei
Degno poi sia delle mie rime il suono?
Risponde: oltre cercando andar non dei:
lo sarò teco, io che son quel che sono,
E farò, che tu sia quel che non sei.
XIII95
Chi è costei che fa dell’Uom vendetta,
E porta al Re d’Averno aspra fortuna,
Terribile, com’oste che raduna
Sue schiere in campo, e la battaglia aspetta?
5Bella è Maria; ben me ’l dicea l’eletta
Bellissima sembianza, ancor che bruna:
Ella è Maria che senza macchia alcuna
Fu sovra il nostro uso mortal concetta.
Ma come il giusto universal Fattore
10Potea sottrarla infra l’umane squadre
Alla gran legge dell’antico errore?
Lo potea far, perchè può tutto il Padre:
Lo dovea far per sua gloria maggiore:
Lo volle far, perchè di Dio fu Madre.
XIV96
Io vi pregai gran Madre, e vi ripriego
Per ottener da voi dolce perdono,
S’altro uomo ancor, da quel ch’io fui, non sono
E l’ali al Ciel, quanto dovrei, non spiego.
5Vorrei seguir vostri bei rai, nol niego,
Ma se non ho di maggior grazia dono,
Atti al gran volo i pensier miei non sono,
E tutti altrove io li rivolgo e piego.
Voi, nel cui seno il Sol eterno imprime
10Lume di gloria così vasta e densa,
Ch’aabbaglia ogni quantunque alma sublime,
Dovete dir, quand’a Voi ’l cor non pensa:
Che può far questi? Il mio splendor l’opprime,
Perch’egli è nulla, e perch’io son immensa97.
XV98
Stiamo, Adamo, a veder la gloria nostra,
Anzi del Cielo, ove il gran segno apparve:
Mira quanta lassù Maria comparve,
Mira qual fa di se mirabil mostra.
5Maria come al bel piè tutti le prostra
La Luna i rai, che paion ombre e larve:
E come ogni astro innanzi a lei disparve,
Tanta è la luce che in sua fronte mostra.
Il sol l’ammanta, e nel grand’atto acquista
10Tanta virtu che non appar più lui;
Ma sembra immortal cosa, e non più vista.
E tutto il regno degli Eletti, in cui
Beata ascende, si rallegra in vista
D’esser fatto più bel dagli occhi suoi.
XVI99
Ogni qualvolta io veggio lieto e adorno
Di fiori il prato e l’arboscel di fronda:
Ogni qualvolta a queste piaggie intorno
Dolce mormora l’aura, è dolce l’onda:
5Parmi veder l’alto immortal soggiorno,
Dove reo l’Uom divenne e la profonda
Aspra memoria dell’antico scorno
Fe che il cor si contristi e si confonda.
Ma poi pensando che alla colpa e al duolo
10Dovea Maria por fine, e che di lei
Così fu degno il Mondo, io mi consolo:
E dico: Adam, quasi lodar ti dei
Del tuo folle desio, se per lui solo
Bella cagion della gran Donna sei.
XVII
Bella cagion della gran Donna sei
La qual col piè vendicatore opprime
L’angue superbo, e così va sublime,
Che tutti ricompensa i danni miei.
5Ve’ come sciolta da’ tuoi lacci rei
Poggia del Cielo alle superbe cime,
E all’apparir di sue bell’orme prime
Iddio rimansi in signoria di lei.
Amore applaude all’alta Vincitrice,
10E seco la conduce al sommo trono
Perchè sia detta in ogni età felice:
Ed ella lieta dell’eccelso dono
A te si volge, e ti consola, e dice:
Senza il tuo fallo io non sarei qual sono.
XVIII
Così dicendo fe’ sostegno ed arco
Delle sue braccia all’immortal Guerriera,
Che sotto la fatale arbor primiera
Fu attesa in van dall’Avversario al varco:
5Ed ella tal sen gia, che il ciglio inarco
Quando all’alta sua penso immagin vera,
E ’n ricercar cosa più pura e intera
La terra e ’l Cielo inutilmente io varco,
Godea il gran Dio nel rimirar sue chiome,
10E il bel guardo che mette in bando il tuono,
E il piè che l’ire del crudel angue ha dome.
E giunto al soglio eterno, ov’ei perdono
Altrui dispensa e immortal gloria e nome,
Tutto lo diede alla gran Donna in dono.
XIX
Allora io vidi Morte lusinghiera
Senza l’usato di sua falce incarco,
E d’altro armata che di strali ed arco
Scender dall’alto dell’empirea sfera100:
5In mano avea lucida face, ed era
L’eterna face di che Amor va carco:
E con questa s’aprìa libero il varco,
Della gran fiamma e di se stessa altera.
Poi tutti a se chiamando in alto suono:
10Venite a me, dicea, ch’all’aspre some
De’ vostri affanni immortal pace io dono.
Maria mi diè quest’armi: e, non so come,
Da che entrai ne’ suoi lumi io dolce sono,
E non ho più di Morte altro che il nome.
XX
Vinto nel Cielo e debellato in Terra
Torna in battaglia l’Avversario altero,
E al gran momento di Maria primiero
Fa quanto può celatamente guerra.
5Mira qual contra lei fiume disserra,
Fiume, che inonda l’Universo intero:
Ma non temer, perch’ella è in salvo, e ’l fero
Assalitor delle sue piante atterra.
E, se nell’immortal pugna importuna
10Dura e persiste ancor benchè respinto
E’ angue che in lei non ha ragione alcuna
Non istupir: la Provvidenza estinto
Non vuol l’alto litigio, acciocchè l’una
Sempre sia vincitrice e l’altro vinto.
XXI101
Stavasi il Re che all’Universo impera
Sovra celeste lucidissim’arco.
E’l Ciel sereno e d’ogni nube scarco
Facea d’intorno con la vista altera:
5Quando in sì nova alta immortal maniera
Giunse Maria, ch’ogni confronto è parco
E con la Luna al piè curvata in arco
Di se fe’ lieta la superna schiera.
Al suo venir sorse il gran Dio dal trono,
10E disse: ecco la Bella, in cui, siccome
In proprio nido, mia pietà ripono:
E questa sol, come sovrana e come
Maggior di quante unqua saranno e sono,
Vo’ che assoluta arbitra mia si nome.
XXII
Angue, che in terra per tuo mal rinasci,
E la gran Donna inutilmente mordi,
Nè dell’inimicizia ancor ti scordi
Che in Ciel giurasti, o l’ira antica lasci:
5Poichè il suo piede in van circondi e fasci,
E perdi tutti i pensier folli e ingordi,
Torna agli abissi: ivi di sangue lordi
Sazia i tuoi lumi e di dolor ti passi:
Ivi, quanto ti piace, al Re superno
10Fa guerra: ivi Colui che Morte estinse
E la tua, prendi alta Avversaria a scherno.
Vattene; acchè pugnar, se ti respinse
Sin dal principio col gran Parto eterno,
E una volta per sempre ella ti vinse?
XXIII102
Se fiammeggiare il Sole e l’auree stelle,
O fiorir veggio il verde suolo aprico,
Maravigliando a me medesimo dico:
Maria fu la cagion d’opre sì belle.
5Per lei dal Nulla queste cose e quelle
Trasse il superno Facitore antico:
E a lei, che il concepì nel sen pudico,
Le soggettò, come a reina ancelle.
Nè valse al folle angue superbo opporse,
10Per divorare, il Parto suo giocondo,
E por l’eterno alto decreto in forse:
Che adombrata dal sommo Amor fecondo
Vittoriosa a gran Donna sorse:
E il Mondo per lei nacque, e Dio nel Mondo.
XXIV103
Adam di dolce pianto asperso e molle,
Ed io, com’uom ch’alto prodigio vede,
Miriam la Bella, ch’ogni Bella eccede,
E nostra al sommo umìl Natura estolle:
5Nell’aureo crin ch’al Sol la gloria tolle,
E ne’ begli occhi tal virtù possiede,
Che trae dall’alto dell’empirea sede
Chi nascer senza il suo voler non volle104.
Qual miracol è quel quando la speme
10Pone in dubbio del Mondo, ed al materno
Offerto onore isbigottisce e teme?
E qual dolcezza, ad onta dell’Inferno,
Vederla in poi col suo gran Figlio insieme,
E somigliarsi al Genitore eterno!
FILIPPO ORTENSIO FABBRI.
I
Tigre selvaggia in chiusa valle oscura
Con frode un dì mia prigioniera io fei;
Meco la trassi avvinta, e presi in cura
I feri spirti raddolcir di lei.
5A poco a poco sua cangiar natura
La vidi alfin dopo sei mesi e sei,
E udir mia voce, e placida e secura
Starsene in mezzo a gli agneletti miei.
Nice la vide, e in atto umìl cortese,
10Ridendo le fe’ vezzi, e con amica
Destra l’umana fera in seno prese.
Ma giunta in sen di mia crudel nemica
La fera, ahi lasso!, in un balen riprese
I primi spirti, e la fierezza antica.
II
Se per opra talor del van desire,
D’ardente foco oltre l’usato avvampo,
Per timor del periglio io pien d’ardire
Chiamo Ragion l’alta guerriera in campo.
5Ella sdegnata allor, di sue bell’ire
Pento onesti pensier desta col lampo,
Tal che fugge il nemico, e nel fuggire
Lascia a lei la vittoria, e a me lo scampo.
Ma se quando già placide, e tranquille
10Le mie potenze e il cor sereno parmi,
D’improvviso a me volge un guardo Fille:
Torna tosto il nemico a guerra farmi.
Chè ponno del mio Sol più le pupille,
Che non può la Ragion con tutte l’armi.
III
Ecco, Erasto, il bel colle altero e santo,
Che al magnanimo Almano il piè conduce;
Qui vedrem Poliarco, e vedrem quanto
In lui di gloria e maestà riluce.
5Tu, che di spesso contemplarlo hai vanto,
Fammi presso di lui da padre e duce;
Ch’io non ho ’l guardo già saldo cotanto,
Che regger possa alla soverchia luce.
Pur coll’esempio tuo lena e fortezza
10Destando ne’ miei spirti, all’alta mole
Forse anch’io poggerò di sua chiarezze.
Così tu mi farai, come far suole
L’augel di Giove, allor che i figli avvezza
A fissar le pupille in faccia al Sole.
IV105
Arser gran tempo in Ciel d’ira e di sdegno
Il Dio guerriero, e l’erudita Dea,
Chè un la man coltivar, l’altra l’ingegno,
Ei coll’armi, e coll’arti ella volea.
5Intanto d’armi ostili Italia segno
L’inesorabil Nume ognor facea:
E la placida Diva in ozio indegno
L’opre, e i talenti illanguitir vedea.
Quando un astro novello a mirar prese
10La più bella di Europa afflitta parte,
E di pace destò le antiche imprese.
Allor tornò nel prisc’onore ogni arte,
Tosto che il caldo de’ bei raggi intese,
E si strinsero in Ciel Minerva e Marte.
V
L’arte che intenta è ad animar colori,
Nacque dal braccio eterno, allorch’ei cinse
D’alti prodìgi il terren globo, e fuori
Da lunga notte i rei sepolti spinse.
5Allora ei fu, che d’incliti lavori
L’ampia tela del Mondo impresse e tinse
Il Mar di perle, il Suol di piante e fiori,
E di astri luminosi il Ciel dipinse:
Ma se quando ei formò nostra Natura,
10E all’immagine sua la volle assunta,
Comparve allor di lui l’opra più pura;
Sia dunque all’arte della man congiunta
Quella di riformar l’alta figura,
Sovente in noi da lungo error consunta.
VI
Come vago usignuolo in gabbia stretto,
Ne i primi giorni ha de’ suoi lacci orrore,
Ma a poco a poco entro l’angusto tetto
Va temprando col canto il suo dolore;
5Tal’ io mi dolsi, allor ch’ebbi ricetto
Presso al discreto mio dolce Signore;
Ma de’ miei nodi alfin presi diletto
Per lunga usanza e per fedele amore.
Pur la mia mente al suo principio avvezza,
10Dopo sì stretta prigionìa sovente
Al primo stato ha di tornar vaghezza.
Così ancor l’usignuol spesso non sente
La man del suo Signor che l’accarezza,
Quando sua libertà tornagli a mente.
VII
O chiara, invitta e gloriosa Donna,
Donna di nostra umanità reina,
Che l’eccelsa di noi parte divina
Tieni, e de l’alma sei salda colonna:
5Soccorso, ohimè, che già di me s’indonna
Il folle amore, e nuovi strali affina,
E il cor che ratto al suo piacer inchina,
Sel soffre in pace e in gran periglio assonna:
Manda or tu dal tuo seggio un stuol guerriero,
10Che spezzi l’arco e la mortal saetta,
E renda a l’alma il suo vigor primiero;
Chè s’ella al fine in servitude è stretta
Sotto il grave d’Amor possente impero,
Chi può pensar qual tirannia m’aspetta!
GIACOMO FACCIOLATI
I106
Signor, che quanto parli e pensi
Tutto s’aggira sulle vie del Retto,
E dal cui labbro a comandare eletto
Escono poche voci e molti sensi:
5I più fervidi voti, ed i più intensi
Pensier, che covi nell’augusto petto,
Son della Patria, e del privato affetto
Hai tanto sol, quanto ad Eroe conviensi.
Tutto vedi qual lince, e tutte prendi
10Le mire tue sovra le mire altrui,
Nè l’arco mai fuor della meta estendi.
Tutto vedi, ma pure i merti tui
O non vedi o non curi o non intendi,
E sol gli lasci misurare altrui.
II107
Il gran capo, Signore, ed il bel seno
Della Veneta Dori omai vedeste:
Ora le braccia poderose e leste
Mirate, e poi ne parlerete appieno.
5Ella è Donna di pace, ed il suo treno
Sono Grazie gentili e Muse oneste,
Ma se nemica mano unqua l’investe,
Ha corno anch’essa, ed ha sul corno il freno.
Ecco ferri ecco bronzi ecco del nero
10Vulcano l’arti, ed ecco quante a noi
Macchine suggerì Nettun guerriero.
Vorrei con l’arme anche mostrar gli Eroi
Ma troppo, ah troppo vince il mio pensiero
L’idea del Padre, che mostrate in Voi.
PAOLO FALCOLNIERI
A che sul tergo Amor sì forti vanni,
Se poi gli batti così tardi e lenti,
Ch’entrat’in questo cor non son possenti
Di cavartene amor dopo tant’anni?
5Mira quel Vecchio antico a’ mostri danni
Se batte i suoi, che non son mai presenti:
E tu Garzone, Arciero, e Dio consenti
D’esser da men di lui, per darne affanni?
Dagli il tuo pigro omai, prendi ’l suo lieve;
10E sia lunga la vita, e breve il male,
Quant’è lungo ora il mal, la vita breve.
E se nol puoi, per l’onor tuo lo strale
Tempra almeno in quel dolce, onde riceve
Respiro un core, o metti giù quell’ale.
TEOBALDO FATTORINI108
Reo del patrio divieto il proprio figlio
Ecco Zeleuco a giudicare astretto:
Oh qual di Re e di Padre agita il petto;
Di regno, e di figliuol zelo e periglio!
5Mandan nubi di duolo al cuore, e al ciglio,
E di legge, e d’amore obbligo, e affetto;
Nel gran dubbio dell’alma alfin costretto
Dalla legge e da amor prende consiglio.
Nella Prole il delitto, e in se corregge:
10E Giudice ad un tempo, e Genitore
Giusto insieme e clemente esser elegge.
Oh di legge, e d’amor forza, e stupore!
Se toglie un lume al figlio è amor di legge,
Se toglie un lume a se, legge è d’amore.
GABRIELE FIAMMA
I109
Più volte un bel desìo di farmi eterno,
E di lasciar di me non bassi esempi
M’ha scorso a dir ne più famosi tempi
Le voglie e l’opre del gran re superno:
5Come purgar convien l’affetto interno,
E fuggir sempre gli atti ingiusti ed empi
Mostra sovente, e come l’uom de’ tempi
Possa l’ira e l’orgoglio aver a scherno.
Or a cantar del sommo Amor m’invoglia,
10E m’accende un ardor vivo e possente,
Ch’ogni altra cura dentro al cor mi sgombra.
Signor, se da te vien l’accesa voglia,
Del suo spirto divin m’empi la mente,
E di santo furor tutta l’ingombra.
II110
Sparger quest’ampie sfere al centro intorno,
E di spirti sublimi ornar il Cielo:
Temprar degli elementi il vario zelo,
E ’l mondo far con la lor guerra adorno:
5Dar la Luna alla notte, il Sole al giorno,
Stender nell’aria delle nubi il velo:
Frenar i venti, e far ch’or caldo or gelo
Doni alla Terra della copia il corno:
Dar corso a’ fiumi ’n questa e in quello parte,
10Ornar l’Uom d’intelletto e di parole,
Dar vita senso e moto agli animali:
Delle tue mani son opre altere e sole,
Signor, onde a noi ciechi egri mortali
Mostri d’un sommo amor la forza e l’arte.
III111
Al vivo Sole a quei celesti ardori,
Ch’ardono i cuori ancorchè sien di ghiaccio,
Talor mi sfaccio, ed esco tutto fuori
Di questi orrori e del mondano impaccio.
5E, s’ho parole allor d’alti splendori
Contro gli amori accese, io non le faccio,
Ma ’l divin braccio a cui tutti gli onori,
Voi miei Signori, por dovete in braccio.
Che se l’affetto pio da lui m’impetra
10Quel dir che spetra l’indurata voglia,
E non la spoglia sol, ma il cor penetra:
Tal del perfetto amor oggi si svoglia,
Che con gran doglia dal suo cor la pietra,
Ch’or sì l’impètra, avverrà al fin ch’ei toglia.
IV112
Non è sì vaga alla stagioni novella
L’ape di puri ed odorati fiori,
Allor che i novi preziosi umori
Industre porta ad arricchir la cella;
5Nè cervetta giammai leggiadra e snella,
Dianzi seguita ne’ riposti orrori
Da fieri veltri, di sospetto fuori
Sì ratta corse all’acqua chiara e bella:
Com’io son vago d’un focoso umore,
10Che versan gli occhi, allor che tema o zelo
Od altro affetto più m’accende in Dio.
Dice allor ebro di dolcezza il cuore:
Quanto è felice quei che alberga in Cielo,
S’egli ha gioia maggior del pianto mio!
V113
Signor, se la tua grazia è foco ardente,
Come dà tanto refrigerio al cuore?
S’è d’umor fonte ond’ha quel viso ardore,
Da cui struggere ognor l’alma si sente?
5S’è luce più che ’l Sol chiara e splendente,
Come oscura del Mondo ogni splendore?
S’è vita, ond’è che l’Uomo si tosto muore,
Quando ha la sua virtute al cuor presente?
Queste contrarie tempre in me pur sento,
10Che mi raffredda il fuoco, accende il fiume,
Il Sole accieca e dà la morte vita.
Ma di saper il modo indarno io tento:
Poichè non può mortal terreno lume
Dell’opre tue scoprir l’arte infinita.
VI114
Son questi i chiari lumi, onde sereno
Far si potrebbe a par del Ciel l’Inferno?
E’ questo il capo del gran re superno
D’alto giudizio e di saver sí pieno?
5Son queste quelle man, onde il terreno
S’ornò di piante e ’l Ciel di lume eterno?
Son questi i piè, ch’ebbero i mari a scherno,
E fur dell’onde già ritegno e freno?
Ahi che spietata stampa oggi rimiro!
10Quegli occhi copre un tenebroso velo,
E son trafitti il capo i piè le mani.
Dunque, o mia Vita, a tanto aspro martiro
T’ha spinto del mio ben la sete e ’l zelo!
Dunque fa l’error mio frutti sì strani!
VII
Quand’io penso al fuggir ratto dell’ore
E veggio mentre parlo il volto e ’l pelo,
Sparso di morte l’un l’altro di gelo
Cangiar l’usato suo vago colore:
5Mi fermo, e pien d’orror prego il mio cuore,
Che di se stesso abbia pietate e zelo,
E non voglia smarrir la via del Cielo
Fra le vane speranze e ’l van timore:
Vedi, gli dico, che a’ tuoi danni aspira
10La Morte che sen viene a gran giornate,
E che fugge il piacer qual nebbia al vento.
Drizza a quel segno de’ pensier la mira
Ove mal grado dell’ingorda etate,
Potrai sempre con Dio viver contento.
VIII115
Ov’è la fronte più che il Ciel serena,
D’ogni spirto celeste amato obbietto?
Ov’è il santo costume e ’l sacro aspetto
D’ogni ben nato cuor laccio e catena?
5Ov’è la voce d’armonìa sì piena,
Ch’ogni empio e rio voler rendea perfetto?
Ov’è la luce del bel raggio eletto,
Che fea dolce dell’alma ogn’aspra pena?
Ov’è la man che il fier nemico estinse,
10Ed ha tolta all’Inferno ogni sua possa,
Per cui tant’ebbe il Mondo affanno e guerra?
Ov è il Mortal, che il Verbo eterno cinse?
Ahi quanto Ben s’asconde in poca fossa,
E quant’oggi splendor sen’va sotterra!
POMPEO FIGARI
I116
O Pellican, ch’ove più il calle è incerto,
Più folto in bosco, e più segreto il fiume,
Dolente e solo in orrido deserto
I lunghi giorni hai di passar costume;
5Nottola, o tu, che finchè il Sol coverto
Non ha del volto in Occidente il lume,
Nel tuo tetto ti ascondi, e al Cielo aperto
Spïegar non sai le vergognose piume:
Mentre l’egro mio cor sospira e piagne,
10Al par di voi, per isfogar mio duolo,
Cerco occulte spelonche, erme campagne.
Ma con vana lusinga io mi consolo:
15Chè se le colpe mie mi son compagne,
Misero!, ovunque io sia, non son mai solo.
II
Vidi in un campo allo spuntar del giorno
Un’ombra andar di sua grandezza altera:
Ma dopo un piccol giro intorno intorno,
Cercai l’ombra gigante, e non v’era.
5D’erbe passai per un bel prato adorno
Che il tesoro parea di Primavera,
Poi vidi inaridita al mio ritorno
Del verde prato ogni beltà primiera.
Qui della sorte mia specchio mi fei,
10E mira (dissi) ah mira tu, cuor mio,
In quell’ombra, in quell’erba alfin chi sei.
Se in me con gli anni ogni vigor fuggìo,
Son quell’ombra che sparve, i giorni miei,
Quell’arid’erba, ahi misero!, son io.
III
Tra le due vaghe Ninfe Eurilla, e Clori
Un giorno Amor come in sua regia assiso,
Or da questo a vicenda, or da quel viso
L’armi prendea per saettare i cuori.
5Quando ecco de’ bei lumi ambe i fulgori
Fissar quelle fra’ lor con un sorriso
Dolce così che tutto all’improvviso
Quindi ei mi accese in duplicati ardori.
Girò dubbio il mio cuor gran tempo intorno,
10Ch’un gli parea dell’altro riso un eco,
E specchio l’un dell’altro volto adorno.
Ma dal doppio splendor confuso e cieco,
Ove alfin si restasse a far soggiorno
Nol so so, ben che non tornò più meco.
IV
Quanto sei bella, o Lidia! Io veggio il fiume
Sorgere altero all’una e all’altra riva,
E quasi per superbia alzar le spume,
Se del tuo volto a farsi specchio arriva.
5Miro il giglio e la rosa: oltre il costume
Il sangue in questa, il latte in quel si avviva,
Se volgi lor de’ tuoi begli occhi il lume,
Se della man la neve pura e viva.
Se al prato, o al lido il tuo bel piè sen viene,
10Ogni erbetta vegg’io cangiarsi in fiore;
Veggio cangiarsi in Or l’alghe e l’arene.
Deh! Lidia, or che farà dunque il mio cuore,
Che sì vivo il tuo volto in se ritiene,
Se chi non sente, per te sente amore?
V117
Eterno Genitor, eterna Prole,
E Tu, che d’ambo uniti eterno spiri,
Il cui voler muove dell’Etra i giri,
E ferma base è alla terrena mole.
5Dono è di Voi ciò che appagar più suole
Nella Terra e nel Mar nostri desiri:
Dono è di Voi, che a vostro prò si aggiri,
Vostra sì bella immago, in Cielo il Sole.
E se tra quei sublimi eletti Eroi
10Speriamo un dì nella maggion superna
Fortunato l’albergo, è don di Voi.
Dunque a Voi la cui man tutto governa,
Qual fu pria, quale or’è, qual fia dappoi,
Sia sempre eterno onore, gloria eterna.
VI
Mie deluse speranze! Io già credea
Per man di lontananza il cuor disciolto;
E nell’obblio l’antico anor sepolto,
Della mia libertà fra me godea.
5Ma di questa, non so se Donna, o Dea,
Riveggio folgorare appena il volto,
Che nuovamente entro a’ suoi lacci avvolto
Torno ad amar chi di mia morte è rea.
Tale, ahi lasso!, Uom, che nacque altrui soggetto,
10Se mai da lungi l’odiosa e dura
Catena obblìa, poi da vicin n’è stretto.
Tal, se lungi dal Sole onda s’indura,
Prova, stemprata al di lui primo aspetto,
Che sembiante cangiò ma non natura.
VII
Come tenera madre, a cui dolente
Infermo fanciullin chiede quell’esca,
Cui s’egli ottien, si può temer che cresca
A gran passi maggiore il mal presente;
5Pur tra’ pianti di lui cieca sua mente
Non prevede qual danno indi gli accresca,
E con quel cibo al fin, che sì l’adesca,
Mentre il consola, al suo morir consente:
Così a l’egro mio cuore, il cui pensiero
10Vaga Ninfa in bramar pose sua sorte,
Io pur toglier vorrei cibo sì fiero,
Ma nel folle desìo questo è sì forte,
Che, poichè in van più contraddirgli io spero,
Ahi che a la sua consento e a la mia morte!
VII
De la colpa a fuggir talor mi provo
La servitù troppo odioso e dura;
Ma sempre in van, che per mio male io trovo
L’uso fatto al peccar volto in natura.
5Lasso! Eterna sarà la mia sventura,
Se il fonte in me d’ogni mio male io covo,
Nè mente avrò giammai meno ch’impura,
Se non ho nuovo cuore e spirto nuovo.
Pietà, mio Dio, del mio dolor ti prenda;
10De! tu riforma un cor nel petto mio
Puro così, che sol di te s’accenda.
Spirto eguale poi dammi al mio desio,
Nè più temcr ch’io tua bontade offenda,
Or che so quanto perdo in perder Dio.
XI
De gli eserciti Dio, Dio di vendette,
Nomi, o Signor, troppo temuti e fieri,
Fa sì, che tremi il Peccator, nè speri
Se non stragi da Te, se non saette.
5Ma solo in palesar quali promette
A un cuor pentito almi contenti e veri,
Io farò che i di lui dubbi pensieri
La tua bontade a dolce speme allette.
Dirò, ch’ove dolente a piè ti cada,
10Quando par che ti accinga a farne esempio,
Per unirtelo al sen getti la spada.
Poi chiaro in me ne additerò l’esempio:
E lieto allor per la segnata strada
A te correr vedrai pentito ogn’Empio.
X
Se col pensier sovra me stesso io m’ergo
Il numero a guardar de’ falli miei,
Per cui servo del senso, io già mi fei
Di mille mostri spaventoso albergo:
5Ovunque io mi rivolgo a fronte e a tergo,
Veggo, o Signor, che intorno a me Tu sei
Con quel flagello, onde gastighi i Rei,
Nè contra i colpi tuoi ritrovo usbergo.
Deh cessi l’ira in Te, cessi lo sdegno,
10Nè tutto di furor s’armi il tuo ciglio,
Ma la Giustizia a la Pietà dia ’l regno.
Già m’esorta a sperar dolce consiglio:
Se di perdono a supplicare or vegno
Te Giudice, ma Padre, io reo, ma figlio.
XI118
Premio, che a ben amarti il cor conforte,
Il promesso non è regno superno:
E non è solo il sì temuto Inferno,
Che di offenderti, o Dio, timor mi apporte.
5Tu mi muovi, o mio Dio, mi muove il forte
Duolo, onde affisso e lacero ti scerno
Su quella croce, muovemi il tuo scherno,
Muovonmi le tue piaghe e la tua morte.
Muovemi al fine il tuo sì grande amore:
10Sicchè amor senza Cielo in me pur fora,
Fora ancor senza Inferno in me timore.
Speme di dono alcun non m’innamora;
Che, ciò che spera non sperando, il cuore
Tanto ti adorerìa quanto t’adora.
VINCENZO DA FILICAIA
I
Piangesti, Roma: e in te si vide espressa
Ira e pietade allor, che in fiere guise
Il non suo fallo in se punìo l’oppressa
Donna, e del casto sangue il ferro intrise.
5E piansi anch’io, quando mia Speme anch’essa
Priva di speme alla sua man commise
Di se stessa l’eccidio, ed in se stessa
I propri oltraggi, e le mie brame uccise.
Ambo dunque piangemmo, e ad ambo insieme
10Diè sventura diversa ugual dolore,
E d’ugual gioia i nostri guai fur seme.
Chè te potèo di servitù trar fuore
Lucrezia uccisa, e a me l’uccisa Speme
Render potèo la libertà del cuore.
II
Sono, Italia, per te discordia e morte
In due nomi una cosa, e a sì gran male
Un mal s’aggiunge non minor, che frale
Non se’ abbastanza, nè abbastanza forte.
5In tale stato, in così dubbia sorte
Ceder non piace, e contrastar non vale;
Onde, come a mezz’aria impennan l’ale,
E a fiera pugna i venti apron le porte:
Tra il Frale, e il Forte tuo non altrimenti
10Nascon, quasi a mezz’aria, e guerra fanno
D’ira, invidia, timor turbini e venti.
E tai piovono in te nembi d’affanno,
Che se speri, o disperi, osi, o paventi
Diverso è 'l rischio, e sempre ugual fia ’l danno.
III
Italia, Italia, o tu, cui feo la Sorte
Dono infelice di bellezza, ond’hai
Funesta dote d’infiniti guai,
Che in fronte scritti per gran doglia porte;
5Deh fossi tu men bella o almen più forte,
Onde assai più ti paventasse, o assai
T’amasse men chi del tuo Bello a i rai
Par, che si strugga, e pur ti sfida a morte!
Che or giù dall’Alpi non vedrei torrenti
10Scender d’Armati, nè di sangue tinta
Bever l’onda del Pò Gallici armenti;
Nè te vedrei, del non tuo ferro cinta,
Pugnar col braccio di straniere genti,
Per servir sempre o vincitrice, o vinta.
IV119
Dal cuore agli occhi, e poi dagli occhi al cuore,
Se in reciprochi sguardi è ver che passi
Di sangue un tenue spirto, e in petto lassi
Tempre uniformi e somiglianza e amore:
5Ben fia, Signor, che de’ vostr’occhi fuore
Virtù del sangue vostro in me trapassi,
E ’l senso affreni e l’alterezza abbassi,
E purghi, e sgombri ogni mio antico errore:
E in Voi pur fia, che dai miei sguardi esali
10Il mio spirto, e pietà stringa dappoi
Me de’ vostri dolor, Voi de’ miei mali.
Onde amanti ed amati ambo da noi
Restiam poi sempre inegualmente eguali,
Voi in me trasfuso, io crocifisso in Voi.
V120
Qual madre i figli con pietoso affetto
Mira, e d’amor si strugge lor davante,
E un bacia in fronte, ed un si stringe al petto,
Uno tien su i ginocchi, un sulle piante;
5E mentre agli atti ai gemiti all’aspetto
Lor voglie intende sì diverse e tante,
A questi un guardo, a quei dispensa un detto,
E se ride, o s’adira, è sempre amante:
Tal per noi Provvidenza alta infinita
10Veglia, e questi conforta, e quei provvede,
E tutti ascolta, e porge a tutti aita;
E se niega talor grazia o mercede,
O niega sol perchè a pregar ne invita,
O negar finge, e nel negar concede.
VI
Nè fera tigre, che dagli occhi spire
Rabbia e terror; nè sotto il sol più ardente
Angue celato, che fischiando avvente
Se stesso, e in piè si vibri alto, e s’adire:
5Nè accesa folgor, che i gran monti aprire
Odasi; nè superbo ampio torrente,
Che gli argin rotti baldanzosamente
Scorra, e pel non suo letto erri e s’aggire,
Paventan sì l’impaurito armento,
10E ’l timido arator, com’io l’ignuda
Mia coscienza e gli error miei pavento:
Nè furia ultrice di pietà sì nuda
Sta negli abissi, che di quel, ch’io sento
Crudo interno dolor, non sia men cruda.
VII
Dov’è Italia il tuo braccio? E a che ti servi
Tu dell’altrui? Non è, s’io scorgo il vero
Di chi t’offende il difensor men fero:
Ambo nemici sono, ambo fur servi.
5Così dunque l’onor, così conservi
Gli avanzi tu del glorioso Impero?
Così al valor, così al valor primiero,
Che a te fede giurò, la fede osservi?
Or va; repudia il valor prisco, e sposa
10L’Ozio, e fra il sangue i gemiti e le strida
Nel periglio maggior dormi, e riposa.
Dormi adultera vil, finchè omicida
Spada ultrice ti svegli, e sonnacchiosa,
E nuda in braccio al tuo Fedel t’uccida.
VIII
Redi, se un guardo a voi talor volgeste
Come a voi tutti ognor gli altrui volgete,
E voi sembraste un altro, e qual voi siete,
E qual fia ’l Mondo senza voi vedeste;
5Di sdegno pieno, e pietà direste:
Arti omicide, che l’età struggete,
Perchè tanto, ah perchè tanto piacete,
Se siete tanto al viver nostro infeste?
Di tanti studi sotto il fascio antico
10Posi omai stanco, nè più sparga inchiostro
Questi amante di sè troppo, e nemico.
Conì direste, ond’io disvelo e mostro
Voi stesso a voi nel vostro inganno, e dico:
Vostra l’ammenda sia, che 'l fallo è vostro.
IX121
Sull’altere di Buda empie ruine
Siede stanco, e mi dice il mio pensiero:
Qui le sciagure del Pannonio impero
Ebber principio, e forse avran qui fine.
5Qui, come fulmin che dal Ciel ruine,
Precipitosamente il gran Guerriero122
Giunse, quì ruppe il forte muro altero,
E quì pose al valor meta e confine.
Mira poi, dice, d’incredibil cose
10Lunga serie, ma vera: e mia in quante
Guise ai gran rischi il real capo espose123.
Mira, che al volger del suo fier sembiante
Tremò Belgrado nè a’ suoi sforzi oppose
L’inespugnabil rocca argin bastante.
X
Se grazia il Vinto al Vincitor veruna
Chieder puote, o mercè, nel grave atroce
Mio terribil naufragio odi, o Fortuna,
D’un naufrago meschin l’ultima voce.
5Calma non chieggio a’ miei pensier, ch’alcuna
Calma i miser non hanno; e già veloce
Nel mar di morte la turbata e bruna
Onda va de’ miei giorni a metter foce.
Nè chieggio il nuoto, onde potèo l’oppresso
10Cesare, ad onta de l’Egizie squadre,
Campar gli Scritti, e preservar sè stesso,
Chieggio sol, che (alle mie poco leggiadre
Rime se sperar vita unqua è concesso)
Abbian vita le figlie, e pera il Padre.
XI124
Questa, che scossa di sue regie fronde
Sol con l’augusto tronco ombra facea
Gran pianta eccelsa, e tanto al Ciel s’ergea,
Quando fur sue radici ampie e profonde;
5Questa, ove nido fean gli ingegni, e d’onde
Virtù sostegno e nudrimento avea,
E che di gloria i rami alti stendea
Dal Caspia lido alle Tirintie sponde:
Ecco cede al suo peso, ecco dall’ime
10Parti si schianta, e ciò ch’un tempo resse,
Con la cadente sua grandezza opprime;
E, come il Mondo al suo cader cadesse,
Strage apporta sì vasta e sì sublime,
Ch’han maestà le sue ruine istesse.
XII
Grande fui mentre io vissi, e scettro tenne
Per me Virtute, e ’l tenni anch’io con lei,
E lei cadente sostener potei,
Ed un soglio medesmo ambe sostenne.
5E le Latine, e le Toscane penne,
E l’Arti tutte, che più belle io fei,
Mi fur serve, e dier legge i cenni miei
Alla Fama, e ’l mio dir Fama divenne.
Onde l’erranti Stelle appena in parte
10Potean dall’alto rimirar quant’io
Stesi l’ampio dominio in ogni parte:
Ch’ove in pregio eran l’opre, ove all’obblio
Si fea guerra, e fiorian gli studi e l’arte
Ivi era il regno, ivi l’imperio mio.
XIII
Sul Tebro io l’ebbi, e poi che gli occhi al Vero
Aprii, del Verbo all’apparir disparve
Quel tessuto splendor d’ombre e di larve,
Che l’Alme abbaglia, e qui s’appella Impero.
5Stupio Natura, ed inarcò l’altero
Suo ciglio Roma nel gran dì che apparve
Il real fasto conculcato, e parve
Quasi agli occhi negar fede il pensiero.
Ma fatto appena l’immortal rifiuto,
10Me sull’eccelse mie ruine alzai,
Nè a me Regno mancò mai, nè tributo.
E me tant’alto sovra me levai,
Che non ha mai col Regno altri saputo
Regnar, quant’io senza regnar regnai.
XIV125
Morte, che tanta di me parte prendi,
E lasci l’altra del suo albergo fuore,
Se intendesti giammai che cosa è amore,
O ti prendi anco questa, o quella rendi.
5E se tant’oltre il poter tuo non stendi,
Armami almen del tuo natìo rigore,
E contra i colpi del crudel dolore
Tu, che sì m’offendesti, or mi difendi.
Ma nè d’erbe virtù, nè d’arte maga,
10Nè a risaldar bastanti unqua sarieno
Balsami di Ragion sì acerba piaga;
Onde lentando al giusto duol il freno
Forz’è ch’io pianga, e del mio Ben la vaga
Immago adombri in queste carte almeno.
XV
E ben potrà mia Musa entro le morte
Membra ripor lo spirto, e viva e vera
Mostrar lei, qual dianzi, e dir qual’era,
E parte tor di sue ragioni a Morte.
5Dir potrà, che fu giusta e saggia e forte,
Onor del sesso, e di sua stirpe altera;
Donna, che fuor della volgare schiera
Il Ciel già diede al secol nostro in sorte.
Donna, che altrui fu norma; e norma solo
10Di sè, dando a sè stessa, in sè prescrisse
Legge a gli affetti, e frenò l’ira e ’l duolo.
Donna, che in quanto fece e in quanto disse,
Tanto levossi sovra l’altre a volo,
Che mortal ne sembrò sol perchè visse.
XVI
Era già il tempo, che del vin la neve
Stagiona i frutti di Virtù matura,
E co’ sensi Ragion più s’assicura,
E forze il Senno dall’età riceve.
5Quando l’ora fatal, che giunger deve,
Fe’ torto al Mondo, e impoverì Natura
D’un Ben che qui sotto mortal figura
Sì tardo apparve, e sparì poi sì lieve.
Tutta allor di sè armata, e in sè racchiusa
10Nel suo più interno alto recinto ascese
La Donna forte, a paventar non usa.
E nuove alzando intorno a sè difese
Lasciò in preda il suo frale; e la delusa
Morte non lei, ma la sua spoglia offese.
XVII
Vidila in sogno più gentil che pria,
E in un atto amoroso, e in un sembiante
Sì leggiadro e sì dolce a me davante,
Che un cuor di selce intenerito avrìa.
5Volgi, mi disse, il guardo a questa mia
Non più vita mortal, qual’era innante:
E se ’l Ciel non m’invidii, ah! perchè a tante
Stille amare per gli occhi apri la via?
Non t’è noto, ch’io vivo? E non t’è noto,
10Che a far la vita mia di vita priva,
Scocca la Morte, e scocca il Tempo a vuoto?
Ma se pianger vuoi pur, col pianto avviva
L’egro tuo spirto, che di spirto è vuoto;
Che ben morto sei tu, quant’io son viva.
XVIII
Così parlommi, e per l’afflitte vene
Sprito corse di conforto al core:
Ma l’Alma ritenendo il primo errore,
Segue a nutrir le sue feconde pene.
5Ahi come a filo debile s’attiene
Il viver nostro, e come passan l’ore!
E come tosto inaridisce e muore
Anzi suo tempo il fior di nostra spene!
Due spirti Amor con ingegnoso innesto
10Giunti avea sì, che potean dirsi un solo;
E questo in quel viveasi, quello in questo.
Sparve l’uno, e spiegò ver l’Etra il volo,
Lasciando all’altro solitario e mesto
Per suo retaggio il desiderio e ’l duolo.
XIX
Or chi fia che i men noti e i più sospetti
Scogli mi mostri, onde la vita è piena?
E la turbata Sorte, e la serena,
Col proprio esempio a ben’usar m’alletti?
5Chi fia che gli egri miei confusi affetti
Purghi, e rischiari, e dia lor polso, e lena?
E degl’interni moti alla gran Piena
Argine opponga di consigli eletti?
Chi fia, che meco i suoi pensier divida,
10E de’ casi consorte o buoni o rei,
Al mio riso, al mio pianto e pianga, e rida?
Fammi, o Morte, ragion, se giusta sei,
O uccida il Tempo, pria che ’l duol m’uccida,
La memoria del Ben, se ’l Ben perdei.
XX
Oh quante volte con pietoso affetto,
T’amo, diss’ella, e t’amerò qual figlio!
Ond’io bagnai per tenerezza il ciglio,
E nel tempio del cuor sacrai suo detto.
5Da indi, o fosse di Natura effetto,
O pur d’alta virtù forza e consiglio,
L’amai qual madre; e questo basso esiglio
Mi fu solo per lei caro, e diletto.
Vincol di sangue, e lealtà di mente,
10E tacer saggio, e ragionar cortese,
E bontà cauta, e libertà prudente,
E oneste voglie in santo zelo accese
Fur quell’esca leggiadra, a cui repente
L’inestinguibil mio fuoco s’accese.
XXI
Fuoco, cui spegner de’ miei pianti l’acque
Non potran mai, nè de’ sospiri il vento;
Perchè in terra non fu suo nascimento,
Nè terrena materia unqua gli piacque.
5Prima che nascess’io, nel Cielo ei nacque,
Ed ancor vive, nè giammai fia spento,
Che alle faville sue porge alimento
Quella, che a Noi morendo, al Ciel rinacque.
Anzi or lassù vie più s’accende, e nuova
10A sua virtù virtute ivi s’aggiunge,
Ov’ei sè stesso, e ’l suo principio trova.
E mentre al primo ardor si ricongiunge,
Cresce così, che con mirabil pruova
Più che pria da vicin, m’arde or da lunge.
XXII
Signor, fu mia ventura, e tuo gran dono
L’amar Costei, che ad amar te mi trasse:
Costei, che in me la sua bontà ritrasse,
Per farmi a te simil più ch’io non sono.
5Onde in pensar, quanto sei giusto e buono,
Convien che gli occhi riverenti abbasse;
E ch’altro duol più saggio il cor mi passe,
Chiedendo a te del primo duol perdono.
Ch’io so ben, ch’a mio prò di lei son privo,
10Perch’io la segua, e miri a fronte a fronte
Quanto è il suo Bello in te più bello e vivo.
Più allor mie voglie a ben amar fian pronte:
Chè se in quella t’amai qual forte in rivo,
Amerò quella in te qual rivo in fonte.
XXIII126
Nate e cresciute sotto fier Pianeta
Son le pecore mie pur magre e smunte!
Rio quei non è, che scorra, erba, che spunte
Per loro, e ’l Ciel se ’l vede, e pur nol vieta.
5Ed or, che i campi estivo raggio asseta,
Arse, e languenti, e dal digiun consunte
Paion dir: ove ohimè, dove siam giunte!
Morte, o ristoro al nostro duol sia meta.
Io gli occhi abbasso per dolor, nè loco
10Mutar mi lice, ch’è destin, ch’io deggia
Esser qui esempio di Fortuna, e giuoco.
E vò, che l’empia si satolli, e veggia
Pur una volta (e lo vedrà tra poco)
Tutta perir col suo Pastor la Greggia.
XXIV
Giunto quel Grande, ove l’altrui gran torto,
E ’l suo duolo il guidò ramingo e vago,
Spettacolo infelice, aspro conforto
Cartago a Mario fù, Mario a Cartago;
5A lui quella dicea: Chi qua ti ha scorto
Ne’ miei scempi a mirar de’ Tuoi l’immago?
Ed egli a lei: Ne’ tuoi naufragi il porto
Trovo a’ propri naufragi, e in te m’appago:
Così un dì nel mio volto al dolor mio
10Mostrai ’l suo volto, ed egli in se i mie’ guai
Coll’energia d’un guardò a me scoprio.
E disse: ascolta il tuo destin. Sarai
Sempre misero e in pene; allor diss’io:
In pene sì, ma in servitù non mai.
LORENZO VECCHI FIORINI127
Non mi fermo a pensar gl’eccelsi e rari
Pregi, nobil Garzon, e ’l glorioso
Nome, onde il Ren sen va chiaro e famoso,
E tu ten vai de’ tuoi grand’Avi al pari.
5Nè di Colei, che in amorosi e cari
Nodi Amor ti congiunge, il virtuoso
Costume e gentil tratto, onde ben oso
Dir, che da questa fia ch’ogn’altra impari.
Io vò più oltre col pensiero, e parmi
10Veder la schiera de’ futuri Eroi,
Altri per saper grandi, altri per armi,
Teco al gran Zio starsi d’intorno, e i suoi
Saggi consigli, udir; ond’ognun s’armi,
E la Fè porti oltre de’ lidi Eoi.
NICCOLÒ FORTEGUERRI.
I
L’altr’ier Dorinda mia mi fece muso;
Ier mi rispose freddamente, ed oggi
Non è giù in Pian, ma di Silvin ne’ poggi.
Cose insolite tutte, e fuor dell’uso.
5Vanne, Menalca, a lei, e tralla giuso
Al consueto rio; e fa che sloggi
Di là, dove Silvin numera a moggi
Ghiande e castagne, ond’io non sia deluso.
Molto ella m’ama, il so, e ancor tu ’l sai:
10Ma che non fan ricchezze, e non han fatto?
Esse sole han di Amor più forza assai.
Però corrine a lei, corrine ratto,
Pria che Silvin la invogli di quei rai,
Che spande l’oro, e sia il mio amor disfatto.
II
Piccola pianta, che si scorge appena,
Nasce dentro di noi l’empio sospetto:
Ma presto cresce, e tal seco ombra mena,
Che tutt’oscura il chiaro almo intelletto.
5Nè per troncar di rami alla serena
Luce del Vero ei può dar più ricetto,
Se Ragion con possente eccelsa lena
Tutto non spezza l’albor maledetto.
E ad una ad una non isvelle, e toglie
10Le maligne radici, ed arde a un tratto
Col lor tronco, coi rami, e con le foglie:
Ed in cenere poi così disfatto
In mar nol getta, acciò più non germoglie.
Tanto ci vuol, perch’egli muoia affatto!
III
Quant’è ch’io sospirava, e che piangea,
Per far latino il mio sermon toscano,
Ed ora l’una, ed ora l’altra mano
Tremante a dura sferza, ahimè!, stendea?
5Quant’è ch’ora vincea, ed or perdea
Co’ miei Compagni al corso, e per lo vano
Aer lieve spingea globo lontano,
E ’l sudor dalla fronte io mi tergea?
Quant’è ch’all’apparir d’Aprile e Maggio
10Prendeva in man le varie di colore
Vaghe farfalle, e lor faceva oltraggio?
Sono otto lustri, e pur mi sembran ore.
Oh come dell’età presto è il viaggio!
Uom nasce appena, che s’invecchia, e muore.
IV
Se quella fiamma che di vena in vena
Mi va serpendo, e in mezzo al cuor si posa,
E lo fa stanza d’alto incendio piena,
Fosse palese altrui, com’è nascosa,
5Si direbbe: niun mai strinse catena
D’Amor sì forte, e diverrìa pietosa
Di tanta mia sì lunga acerba pena
Quella, ch’ancora è del mio amor dubbiosa.
Ma non però tanto l’ascondo e celo,
10Che per gl’occhi non m’escan le faville,
Come suol traspirar luce per velo.
E lo veggiono omai ben mille, e mille:
Ella non già, ch’ancor mi crede un gelo,
Ah che non mira nelle mie pupille!
V
Era tranquillo il Mare, e ’l Ciel sereno
E un’aura dolce respirava intorno,
Onde sciolsi la nave in sì bel giorno,
Di fortunati auguri il cor ripieno,
5Ma scostatasi alquanto, venne meno
Del Mar la pace, e il Ciel di luce, adorno
D’oscure nubi si vestì d’attorno,
Ed Eolo sciolse a tutti i venti il freno.
E già più giorni son, che la meschina
10Nave sbattuta và senza conforto
A dar in scogli ad affondar vicina.
E pur sebbene io sto sì afflitto, e smorto,
Se si placasse la crudel Marina
Non volgerei le vele inverso il Porto.
VI
Come Nocchier, che le procelle, e l’onde
Lungo tempo soffrì del Mare irato,
Tornato infine al dolce lido amato
Rivolge il piè dalle fallaci sponde.
5E dove albergo hanno i Pastor s’asconde,
E segue il viver lor cheto, e beato,
Nè ha più timor del Ciel quand’è turbato,
Nè quand’Euro crudel scuote le fronde.
Tal io d’Amor per l’onda acerba e fera
10Errai molt’anni, e poi ridotto in Porto
Le spalle le voltai duro e superbo.
Nè fia mai più, che treccia bionda, o nera
Mi torni a lei, o parlar dolce accorto:
Tal del passato orror memoria serbo.
FRANCESCO FROSINI128
Della Croce mi cita innanzi al trono
L’amor del mio Gesù che t’ho fatt’io,
Comincia a dir, che così avaro e rio
Mi sei, quanto sì prodigo ti sono?
5Quanto vivi, quant’hai tutto è mio dono;
Il tuo sapere il tuo potere è mio;
Tu peccasti superbo, io pago il fio;
Tu mi sforzi m’impiaghi, io ti perdono.
Per te che non fec’io? Forse mi chiedi
10Il cuore? Ecco che a prenderlo ti chiama
Il seno aperto. Il sangue? Io te lo diedi.
Che vuol dunque di più l’Uomo, che brama?
Qui rispondo, Signor, steso a’ tuoi piedi:
Non v’è pena che basti a chi non t’ama.
CARLO INNOCENZO FRUGONI
I
Se talor quercia, che nell’alpi pose
L’alte radici, e stagion lunga tenne
Fronte a i fier venti e alle tempeste acquose,
Che van battendo le sonanti penne;
Scossa e divelta con le forti annose
5Braccia, e col folto crine a cader venne:
Escono allor dalle spelonche ascose
I Villan duri armati di bipenne.
E i rami e ’l tronco smisurato aprico
10Fendon, doppiando i colpi, a’ quai la valle
Riposta, e ’l curvo lido alto risponde;
E di lei carchi le curvate spalle
Calan dal giogo, che nel Ciel s’asconde,
Di lei ridendo e del suo orgoglio antico.
II129
Questa non era nò la pompa in cui,
Signor, ne’ suoi desiri il tuo ritorno
Parma volgeva. Oh per lei flebil giorno,
Che a lei ti rese e ti ritolse altrui!
5Sperò fra i voti, e in un fra i plausi suoi
Di lunghe opre d’onor raccorti adorno,
Lieti e felici a te mirando intorno,
Oimè! gli anni or già tronchi, or non più tui.
Ma qual si restò mai, qualor le gravi
10Gementi rote, e i destrier mesti, e il lento,
Carro apparve su lei d’orror velato!
Ed ahi!, te vide tra il comun lamento,
Per non partirten più, scendere a lato
Al cenere real dei tuoi grand’Avi!
III130
O pieno di salute, o pien d’impero
Nome di lei che il Ciel sua Donna cole,
Nome in cui chiuder queste labbia spero
L’estremo dì, se sua mercè sel vuole!
5Nome di grazia largo fonte e vero,
Chi mi darà degne di te parole?
Già grande stavi nel divin pensiero,
Nè Luna in Cielo ancor movea nè Sole.
Per farti onore il mar pon giù le irate
10Spumanti acque, e si placa e dell’orrende
Tempeste il fragor tace; e, se talora
Sdegnoso Dio guarda le terre ingrate,
Tu sì dolce al suo cuor risoni allora,
Che il braccio in alto per pietà sospende.
IV131
Senti l’Angel di Dio che le sonore
Penne aprendo a te reca alta novella:
A che paventi, a che di bel rossore
Tingi l’intatto volto, o Vergin bella?
5Mira laggiù fin dal beato orrore
La prima madre al suo Fattor rubella;
Che pensierosa ancor sul tuo timore
Pende dal dubbio suon di tua favella,
Dall’affidato labbro esca l’amico
10Libero accento, e tutta avvivi e terga
La prole infusa del delitto antico;
E vinte dando al suol le nere terga
Frema sotto il bel piè l’angue nemico,
E in van le terre d’atre spume asperga.
V132
Certo scesa tra noi Costei non era
Perchè altro amore le pugnasse il fianco,
Se non quel che lasciò, qualor d’un bianco
Pur vel s’avvolgea l’anima altera.
5Mirate, come in sull’età primiera
Pel sentier di virtù muove il piè franco;
Non par che al senso dica infermo e stanco:
Questa è la via che scorge alla mia spera?
E sì dicendo, il patrio amato albergo
10Nè pur degna d’un guardo, e vassen come
Augel che varca a più securo lido:
E il sordo vento il bel pudico nome,
Che suona intorno e i sospir folli e il grido
Sen porta, intanto, e le bionde auree chiome.
VI133
Veniano in aurei manti in lunga schiera
Egregi cavalier venian lucenti
Di non più vista real pompa altera
Scelti destrieri oltre l’usato ardenti;
5Veniano eccelse donne, e fra lor era
Gentil gara di voti e d’ornamenti:
Venian, nobil destando aura guerriera,
Ricche d’armi e di fregi elette genti.
Italia accorsa il popol tuo vincea,
10Che te in alti palagi e per via folto
Di palusi e voti in misto suono chiedea:
Ma chi, grande Enrichetta, in te rivolto
Rammentare altro, od ammirar potea
Al primo folgorar del tuo bel volto?
VII134
Or sì, Parma, tu dei la fronte amica
Velar di gemme e d’ostro: or sì tu dei
L’elmo di penne folto, e l’asta antica
Lieta scotere al suon de’ versi miei.
5Udiro i giusti voti i sommi Dei,
Cui più bearti fora omai fatica:
Oggi è il natal di Carlo: oggi tu sei
Salda contra ogni infesta età nemica.
Volgiti all’almo dì, che i bianchi vanni
10Folgoreggiando batte, e ti ripara
Sì riccamente de i sofferti danni;
E digli: O sempre sacra, o sempre chiara
Luce, lassù per l’altre vie degli anni,
Deh mille volte il bel ritorno impara!
VIII135
Le tre fatali Dee, cui dato è in sorte
Guardar l’auguste vite al regno nate
Aprono, o Carlo, al dì le rosee porte,
Che guida il giro di tua bella etate.
5Quelle stansi con lor, che in te risorte
Veggiam, sacre degli Avi alme onorate,
Sollecite chiedendo di tua sorte
L’alte vicende nel destin segnate.
Ed elle al lume di quest’Alba amica
10Te mostran cinto di fulminea spada
Splender entro guerriera aurea lorica;
E per la vinta Italica contrada
Con la tua prima militar fatica
Correr lunga di lauri ombrosa strada.
IX136
Quando il gran Scipio dall’ingrata terra,
Che gli fu patria e ’l cener suo non ebbe,
Esule egregio si partì, qual debbe
Uom che in suo cuor maschio valor rinserra:
5Quei, che seco pugnando andar sotterra,
Ombre famose, onde sì Italia crebbe,
Arser di sdegno, e ’l duro esemplo increbbe
A i Geni della pace e della guerra.
E seguirlo fur viste in atto altero,
10Sull’indegna fremendo offesa atroce,
Le virtù antiche del Latino impero:
E allor di Stige sulla nera foce
Di lui, che l’Alpi superò primiero,
Rise l’invendicata Ombra feroce.
X137
Quel, che di Libia dal confin potèo
Condur oltre l’Ibero armi e paura;
E Spagna e Gallia vinse, e poi Natura,
Quando sull’Alpi il gran tragitto feo:
5Quei, che il Tesino e Trebbia e Canne empièo
Di Latin sangue, e sulle infrante mura
Salir dovea, seguendo sua ventura,
Alla terribil cena in sul Tarpèo:
Quegli fu vinto; e nol vincesti, o Roma,
10Col braccio, onde traesti a i sette colli
I re superbi dalla terra doma;
Ma il dolce aer Campano, e gli ebbri e folli
Dì, che lo vider della grave soma
Scarco, il domaro, e i piacer vili e molli.
NICCOLÒ MARIA DI FUSCO.
I
Madre, io ritorno al dolce seno, al caro
Piacer di rivederti anzi, ch’io mora;
Sostiemmi Madre che vicina e l’ora,
E ’l fin, che sembra altrui cotant’amaro.
5Strale fatal, ma però dolce e chiaro,
E tal, ch’io non saprei dolermi ancora,
Il cor ferimmi, e questo che vien fuora
Per gl’occhi, è il sangue più pregiato, e raro.
Madre, io ti lascio; e in questo bacio estremo
10Tutta la fede sua, tutto l’amore
L’infelice tuo Figlio egro ti dona.
Ah! perchè piangi? Noi ci rivedremo
Presto lassuso; affrena il tuo dolore,
E a lei, che mi ferì, Madre, perdona.
II138
Ceneri fredde, anzi tra freddi marmi
Vivo mio fuoco, che pago e contento
Nell’ardor mi tenesti e nel tormento,
Ed or anche hai vigor cenere farmi;
5Fresche son le mie piaghe, e veder parmi
Lucente e bello il dolce lume spento
E lieto del mio mal scioglier non tento
Quel laccio, con cui volle Amor legarmi.
Pianta felice dall’uman terreno
10Morte ti svelse, ed or traslata in loco!
Più culto innalzi le superbe cime
Io, che cantai sotto l’Ombroso ameno
De’ tuoi bei rami, augel palustre e roco
Or vo piangendo in valli oscure ed ime.
III139
Piero, che i lacci e le rovine e i danni
Sì ben ne mostri, chè uom ne gela, e pave
Di questa vita perigliosa e grave
Per dolci voglie, anzi per duri affanni;
5Prega il buon Padre, che i miei sozzi vanni
Dapprima io purghi col mio pianto e lave;
Poscia sua dolce e sant’aura soave
Gl’innalzi, e meni fuor di tant’inganni.
Me regga ei pur, chè invan m’ergo, e confido
10All’egre forze, ch’al grand’uopo estremo
Mi lascian solo, ond’io me ’n cado, e giaccio.
E giaccio, lasso! nell’infame nido,
Onde movei pur dianzi, e vedo, e temo
L’esca mal nata, e ’l forte ascoso laccio.
IV140
Amnis, amor Driadum, qui rustica Numina Faunos
Ad vitreas leni murmure cogis aquas;
Judice quo, sine lege vagus prope littora vidi
Phyllida purpureo nectere fiore comas:
Æstivum si saepe tuis virum addidit undis
Quae fluit e mestis flebilis unda genis;
Unum oro, vitrea referas sub imagine formam,
Cui libem arcanas ad pia vota faces.
Ab renuis! nunquam mihi fiumina dura putaram,
Sed Mare, quod duro e marmore nomen habet.
At Dea saeva docet sic te durescere, quando
Forma nitet liquidas durior inter aquas.
Prodigus usque oculis imbres tibi largiter, illi
Prodigus effudi corde fiagrans animam.
Attamen illa sui mihi semper amoris avara est,
Et mihi tu formae, qua praeit illa Deas.
Fiume, che all’onde tue Ninfe, e Pastori
Inviti con soave mormorio,
Al cui consiglio il biondo crin vid'io
Spesso Fillide mia cinger di fiori,
5Se a tuoi cristalli infra gl’estivi ardori
Sovente accrebbi lagrimando un Rio,
Mostrami per pietà l’Idolo mio
Ne’ tuoi fugaci argenti, ond’io l’adori.
Ah tu mel nieghi! io credea duri i Mari,
10I Fiumi nò: ma tu dallo splendore,
Che in te si specchia, ad esser duro impari.
Prodigo a te degl’occhi, a lei del cuore
Fui sempre e sono, e voi mi siete avari,
Tu della bella immago, ella d’amore.
V141
Guarda, mi disse, e in dolce atto cortese
Mostrommi Amor leggiadra copia eletta;
E non mai, disse, ebbe la mia saetta
Scopo più degno, e più bel foco accese.
5Non v’ha, soggiunse, in quest’almo paese
Più chiari spirti, e in van da voi s’aspetta
Nodo miglior, che più cara e diletta
Coppia quaggiù dal Ciel unqua non scese.
Disse, ed in volto a’ fortunati Sposi
10Lietamente guardò tre volte, e rise,
Com’uom che di bell’opra si compiace.
Vivete lieti, o fidi avventurosi
Felici Amanti, e ciò ch’Amor promise
Godete in lunga desiata pace.
VI142
Lasso! perchè non parte almen per poco
L’aspro dolor, ch’è meco a tutte l’ore?
E perchè torna all’usitato errore
Il pensier tristo, onde s’accende il foco?
5Tempo non mi parea questo, nè loco
Da temer l’onte del crudel Signore,
Nè mi parea che qui dovesse Amore
Rifar per suo diletto il tristo giuoco.
Stanchi son gl’occhi, e l’uno e l’altro fianco.
10E di riposo ancor non v’è speranza,
Chè il crudo Amor di lagrime si pasce.
Convien, ch’io torni, come son già stanco,
E mal mio grado alla dolente usanza,
Ch’altro che Morte non farà, ch’io lasce.
DELL’ABB. FRANCESCO MARIA GAGNANI.
Il buon Guerrier, che a vendicar la morte
De’ rari Amici presso a Tebe uccise
L’orribile serpente, e a lui recise
Il vasto capo, in un pietoso, e forte;
5I denti alla futura ignota sorte
Sparse dell’angue, che in vendetta ancise
E squadre nascer vide in strane guise
Tra sè nemiche, e nate appena e morte.
Così da semi d’un amor, ch’estinse
10Ragion in me, d’alti pensieri amica
Turba poi nacque che al mio cor si strinse;
Ma del vario desir fatta nemica,
Cadde sul campo, ond’io non so chi vinse
Se la Ragion, o se la fiamma antica.
ALESSANDRO GALANTI.
I
Cantando un dì per queste rive altero
Men gìa di bella Libertade accanto,
Che ognor da’ colpi dell’Idalio arciero
Mi ricoprìa col suo sicuro ammanto.
5Ruppe fuggendo Amor l’arco guerriero,
Poichè non ebbe di ferirmi il vanto;
Ma con Ninfa gentil tornò sì fiero,
Che diede agli occhi in un diletto, e pianto.
E mentre all’improvviso almo splendore
10De’ lumi suoi tenea gli sguardi io fissi
Scender sentii mille saette al core.
Colla vezzosa Ninfa allora unissi,
E lasciandomi solo in man d’Amore,
Da me lontan la Libertà fuggissi.
II
Un amico pensier talor mi sgrida:
Questa Donna crudel fuggi, che morte
A’ danni tuoi celatamente annida
In dolci sguardi, e in parolette accorte.
5E allor ver lei colmo di sdegno: infida
Ecco mi sciolgo già di tue ritorte,
Già t’odio; e l’odio, or che ragion m’è guida,
Sarà più dell’amor costante, e forte.
Mi arrossisco de i pianti, e de i sospiri
10Sparsi lunga stagione per te d’intorno,
De i pensier, della speme, e de i desiri.
Ma che! Ad un lambo sol del viso adorno
La Ragion fugge, e più crudi i martiri
Fanno al mio sen col primo amor ritorno.
ANTONIO GALEANI.
Pur, Damon, te l’ho detto, e nulla valci;
Or m’è pur forza infin, ch’io te l’additi:
Mira quel capro con gli usati riti
Là spampinarmi i più fecondi tralci.
5Con quanti denti egli ha, con tante falci
La vita tronca a queste care viti;
E perchè, per vietar discordie e liti,
Nol guidi a ruminar erbette e falci?
Forse ch’a te del pampinoso Dio
10Spiace il licor, che sì sovente storna
Quel, benchè poco, ingegno tuo natio?
S’ei vi torna, Damon, s’egli vi torna,
Possa veder a me le corna, s’io
A te nol fo tornar senza le corna.
FRANCESCO MARIA GASPARRI
I143
Son già tre lustri (ah sian pur cento, e mille)
Almo Nocchier, ch’alla gran nave imperi:
Nè a lei spirar mai vidi aure tranquille,
Nè sorger di men che cruciosi, e neri.
5Mugghiare il Suol, tremar Cittadi, e Ville
Vidi, e morti cadere armenti interi;
E seminando belliche faville
Su i nostri campi errar Duci, e Guerrieri.
Poi vidi l’Asia uscir dal suo soggiorno,
10Qual non la vide in arme Ida ne’ Xanto,
Guatando Europa, e minacciando intorno.
Ma vinta cadde, e tua fu l’opra e ’l vanto.
Oh per noi lieto avventuroso giorno,
Giorno, che vale di tant’anni il pianto!
traduzione di michel giuseppe morei
Jam tria lustra (precor tibi centum, et mille supersint)
Navita iaetatam cum regis Alme ratem;
Nec dum illi placidas blandiri vidimus auras,
Nec dum orta est illi non tenebrosa dies.
5Nunc mugire solum, et tremere omnia vidimus, et nunc
Armenta occultam tota subire luem.
Nunc nostros supra campos horrentia belli
Semina spargentes vidimus ire Duces;
Mox Asiam Odrysiis armatam erumpere Claustris,
10Europae obliquis Regna tuemtem oculis;
Tanta mole Virum, quantam non viderit olim
Fervere Dardanio Xantus, et Ida iugo.
Victa tamen cecidit: tanta victoria pugnae
Tota tua est Clemens, gloria tanta tua est.
15Fortunata dies, quae longa incommoda pensa,
Tot merito fletibus empta dies!
II
Forse ch’è giunto il desiato fine
All’Impero dell’Asia e ai nostri danni;
Nè più dovranno de’ sofferti inganni
Invendicate errar l’Ombre latine.
5Parmi, che al Babilonico confine
Stendan l’Aquile altere i rostri e i vanni,
E che la Donna d’Adria in lieti panni
Sereni il volto, e ricomponga il crine.
Tosto di cento Eroi l’almo sembiante
10In tele, o in marmi con divin lavoro
Vedremo espresso, ed armi e navi infrante.
Vedrem de’ sommi Duci in mezzo al coro
Sculto l’augusto Carlo, e il regio Infante
Rider scherzando col paterno alloro.
III
Sebben delusa dalla steril terra
Fu spesso del cultor l’aspra fatica,
Pur ei nel crudo suol con mano amica
Le speranze dell’anno asconde e serra.
5Il ferito Guerrier giura ch’in guerra
Mai più non cingerà spada o lorica,
Indi posta in obblìo la piaga antica,
Ritorna in campo, e il prisco brando afferra.
Detesta i flutti in cui si vede assorto,
10Il naufrago Nocchier, ma riede poi
Securo in Mar, nè più si volge al porto.
Torna ogn’uom agli studi, e agli amor suoi.
Tal’io, benchè quasi trafitto e morto,
Dico fuggirvi, o Filli, e torno a Voi.
IV144
Prode Signor, che collo Scettro altero
Minacci Rodi e l’Affrica vicina,
E cotant’oltre il riverito Impero
Distendi per la Barbara Marina.
5Di cento Figlie collo stuol guerriero,
Italia, la gran Donna a te s’inchina,
Prendendo in viso quel color primiero,
Ch’ebbe al buon tempo quando fu Reina.
Tra queste l’alta Roma, e Siena amante
10Volgono a te pien d’allegrezza il ciglio,
E fansi all’altre inclite Suore avante.
L’una esalta di te l’opre, e ’l consiglio,
L’altra fermasi intenta al tuo sembiante,
Qual lieta Madre, che rivegga il Figlio.
V145
D’illustri ulivi, e di famosi allori
Signor, Te vidi alteramente ornato,
Nella Città, che a noi provida dato
Chi or gode i primi ricusati onori.
5Vidi il Metauro i tributari umori
Portar superbo all’Adria oltre l’usato,
E dell’Autunno ad onta il colle, e ’l prato
Verdeggiar di nuov’erbe e nuovi fiori.
Solo tu non vedesti i tuoi gran pregi,
10Anzi tentasti con bell’arte umile
Convertirle tue glorie in tuoi dispregi:
Chè tua virtù forma non cangia o stile
D’immortal serto e di novelli fregi
Sebben Tu cingi il dotto crin gentile.
VI146
Pure in tanta grandezza oh qual risplende
Dolce raggio d’amor, che n’assecura!
E dice a noi: semplice gente e pura
Appressatevi a lui chè al Trono ascende.
5Quindi Arcadia s’affida, e speme prende,
Cesare invitto, di maggior ventura
Ergendo al volto Augusto i rai secura,
Qual augel, che il Sol mira, e in lui s’accende.
Ma appena il guardo riverente affisa,
10Che sfavillare il glorioso, e santo
Gran Padre, e tue virtudi in te ravvisa.
Nè fia stupor, se il regio serto e il manto
Ti cinse, e stassi alteramente assisa
Bella Clemenza al tuo gran Nume accanto.
FERDINANDO ANTONIO GHEDINO.
I
Sei pur tu, pur ti veggio, o gran Latina
Città, di cui quanto il Sol aureo gira
Nè altera più, nè più, onorata mira,
Quantunque involta nella tua ruina.
5Queste le mura son, cui trema, e inchina
Pur anche il Mondo, non che pregia e ammira;
Queste le vie, per cui con scorno, ed ira
Portar barbari Re la fronte china.
E questi, che v’incontro a ciascun passo,
10Avanzi son delle mirabil’ opre
Men dal furor, che dall’età securi:
Ma in tanta strage, or chi mi addita e scopre
In spirito vivo, e non in bronzo o in sasso,
Una reliquia de’ Fabrizi, e Curi?
II
Se giusto duol può meritar pietade,
E se l’estremo supplicar de’ rei
Mai s’esaudì, deh mostrami qual sei,
Che sì mi tieni, piedi e man legate.
5Ben conosco a tua immensa potestate;
Che vai del par cogl’immortali Dei:
Ma, Signor mio, te pur veder vorrei,
Che il veder Uom non rende libertate.
Discendi in mia prigion cotanto oscura
10Con lume, e serra gli occhi, o tosto fuggi
Se pietà del mio mal ti fa paura.
Io n’ho vergogna omai, più che dolore,
Esser tant’anni, che m’affliggi e struggi,
E ancor non saper dir che cosa è Amore.
GIROLAMO GIGLI
I
Madre, facciamo un cambio: eccoti il legno,
Che sostenne il tuo Dio, dall’Uom svenato;
Tu dammi quel, che al fianco tuo piagato,
Quando Dio ti trafisse, era sostegno.
5Questo fu scala, onde al Celeste Regno
Si ricondusse Adam, dal Ciel cacciato:
E questo per sua guida a Pier fu dato
Quando a Roma tornò sede e triregno.
Questo è del Re de’ Regi e scettro e trono,
10Onde alfin sembra ingiusto e disuguale,
Coll’altro umile appoggio il cambio e il dono.
Ma pur, Madre, cambiamo; a me sta male
Lo scettro in man, che tutto lacci sono,
L’appoggio in mano a te, che sei tutt’ale.
II147
Casto Pastore di più casta Agnella
A pascer gigli tutto il dì la mena,
E quando in Ciel appar l’Alba serena,
A ber l’umor della più pura stella.
5Ma un dì volto a mirar la sua mammella,
Che crede intatta, e pur conosce piena,
Dubbio rimane, e poi del dubbio ha pena,
E tra ’l senso e la Fede il cuor duella.
Alfin la Fè s’arrende, e cheto il piede
10Ei lungi vuol portar; ma una divina
Luce il trattiene, ed alla guardia ei riede.
E in rammentar la graziosa brina,
Che a Gedeon piovve sul velo, ei crede
Pura l’Agnella e al gran Mister s’inchina.
III148
Era ogni cosa orror, notte e procella,
E il pianto e il sangue non avean più sponda:
Quand’ecco in Ciel la mattutina stella,
E tre Monti spuntar veggio in quest’onda.
5Uno è quel Monte, in cui Noè rappella
Il fido augel coll’aspettata fronda:
L’altro, ove Abram contro ’l suo amor duella,
Poi col gran cuore il gran coltel seconda.
Il Sina è l’altro, a cui nebbia ed arsura
10Velan le cime, onde allo stuolo infido
L’alta legge del Ciel scese in figura.
Ahi Monti, ahi Monti (in fra ’l naufragio) io grido!
E fian colà, finchè il periglio dura,
Pace, Fede a Giustizia il nostro lido.
IV
Ferisce Amor due Serafini amanti,
E nelle piaghe lor forma se stesso:
Un di raggio, un di sangue ha il fianco impresso,
Un mostra, un cela i segni illustri e santi.
5E l’uno e l’altro al Feritore avanti
S’atterra, e vien da Amor, da doglia oppresso
E all’uno e all’altro indi non è permesso
Senza appoggio guidare i passi erranti.
Accoglie Siena e questo e quel sostegno.
10Uno rinverde, ed oggi pure ha vita,
Chè serví al Serafin del vivo Segno.
E secco e infranto a noi l’altro s’addita,
Che l’umiltà trafitta anch’oggi ha sdegno
Mostrar memorie della gran ferita.
V
Volle Virtude un dì mostrarsi anch’ella
Armata, come amor, di face accesa:
E tra due faci allor nacque contesa
Chi avesse per virtù fiamma più bella.
5Era l’una di queste una facella
Sovr’alta nave in mezzo al mare appesa;
Ma sua luce agitata e mal difesa
Già pareva mancar fra la procella.
Entro tomba real quest’altra face
10Già da cent’anni e cento era riposta
E splendeva a se stessa in lunga pace.
Ma quella incontro al mare e ai venti esposta
Scelse Virtude, e disse: a me non piace
Luce che non combatte, e stà nascosta.
VI
Amor batte due porte all’Alma mia
E all’orecchie, ed a’ lumi il core appella,
Per mirar, per udir vaga Donzella,
Che col raggio e col canto al Ciel fa via;
5Se la voce egli ascolta, i guardi obblia;
Se intenda a questi poi si scorda quella;
E cercando la cosa che è più bella,
Tutt’orecchi e tutt’occhi esser desìa.
Così farmi dolente Amor si vanta,
10Per doppia gioia, e seco il cor s’adira,
Ch’assaggiando un piacer, l’altro l’incanta.
E dice, volto a lei, per cui sospira:
Bell’occhio, non mirar, quand’ella canta,
Bel labbro, non cantar, quand’ella mira.
VII149
Due famose Vittorie a gran litigi
Vengon tra loro di beltà e valore:
Una apparì qui a noi da’ Monti Ghigi,
Dall’Alpi di Carrara una uscì fuori.
5Dell’una il gran Bernino ornò Parigi,
Dell’altra il Ciel fè alla nostr’ Arbia onore:
Quella fu alzata a incoronar Luigi,
Questa è discesa a incoronare Amore.
Con Voi si duole, o Cieli, e quella e questa:
10Una ch’è duro sasso e non favella,
Una d’aver beltà fugace e presta.
Deh per far l’una e l’altra opra più bella
Lo spirto di costei date a cotesta,
Date a costei l’eternità di quella.
VIII150
Di cento specchi un specchio sol formato,
Cento aspetti del Sol la Terra rende,
Con cui mano Latina avara tende
Lucid’inganni ad uno stuolo alato.
5Del bel raggio incostante innamorato
L’augello intorno a lui baccante scende;
E mentre amore il gentil core accende,
Sente scoccar l’accesa morte a lato.
Miro, o Lucrezia; e quel cristallo frale,
10Mentre a lui gira intorno il pensier mio,
Il ritratto divien di più gran male.
Nacque a volare al Cielo uman desìo,
Ma se a luce terrena ei piega l’ale,
Perde se, perde quella, e perde Iddio.
IX
Fortuna, io dissi, e volo e mano arresta,
Ch’hai la fuga e la fe’ troppo leggiera:
Quel, che vesti il mattin spogli la sera;
Chi Re s’addormentò, servo si desta.
5Rispose: È Morte a saettar sì presta,
Sì poco è il ben, tanto è lo stuol, che spera,
Che acciò n’abbia ciascun la parte intiera,
Convien ch’un io ne spogli, un ne rivesta.
Poi disse a Clori: almen tu sii costante,
10Se non è la Fortuna, e amor novello
Non mostri ognora il tuo favor vagante.
Rispose: è così raro anco il mio Bello
Che per tutta appagar la turba amante
Convien, ch’or sia di questo, ora di quello.
X
Stavasi Amore, quasi in suo regno assiso
Nel seren di due luci ardenti ed alme,
Mille famose insegne, e mille palme
Spiegando, in un sereno e chiaro viso.
5Quando rivolto a me, che intento e fiso
Mirava le sue ricche e care salme,
Or canta, disse, come i cuori e l’Alme,
E ’l tuo medesmo ancora abbia conquiso.
Nè s’oda risonar l’arme di Marte
10La voce tua; ma l’alta, e chiara gloria,
E i divin pregi nostri e di costei:
Così addivine, che nell’altrui vittoria
Canti mia servitude e i lacci miei,
E tessa degli affanni issorie in carte.
XI
Se il libro di Bertoldo il ver narrò,
Così disse a Bertoldo un giorno il Re:
Fa che doman ritorni avanti a me,
E che insieme io ti veda, e insieme nò.
5Bertoldo il dì d’appresso al Re tornò,
Portando un gran crivello avanti a se:
Così vedere, e non veder si fè,
E colla pelle altrui la sua salvò.
Or la risposta mia cavo da quì
10Pe ’l Crivel, che la saggia Antichità
Nel letto marital poneva un dì.
Con bella moglie alcun pace non ha,
Se davanti un crivel non tien così,
Onde veda e non veda quel che fa.
XII151
Sposa, tu pensa a me, ch’a te pens’io:
Abbiam di Me Tu pena, Io di Te cura:
E come Dio di perderti ha paura,
Bramo paura in Te di perder Dio.
5Dammi dunque il tuo Cuore e prendi il mio,
Ch’Io sia di Te, Tu sii di Me sicura:
Onde al Fattor Tu sempre, io alla Fattura
Torniam, seguendo il natural desìo:
E mentre il Cuor ti toglio e ’l mio ti fido,
10E l’un dell’altro è guardia e prigioniero,
E Me con Te, e Te con Me divido:
Tu di Me, Io di Te siam piaga e arciero,
Tu di Me, Io di Te colomba e nido
E Tu mio solo, ed Io tuo sol pensiero.
XIII
Il tempo io son; spegni la face Amore,
E fa del mio trofeo spoglia il tuo strale;
Che la Ragione almen trovi il natale,
Tra ’l cener d’ogni secolo che muore.
5Beltà, grazia, virtù, possanza, onore
Son messe al fin del ferro mio fatale;
E di più regni il cenere non vale
(Miralo e piangi) a misurar poch’ore.
E se colà di Libica foresta
10Tra procelle di polve il Pellegrino
Trova naufragi in terra, e assorto resta;
Tu, che al periglio, Amor, già sei vicino,
Volgi le luci in questa polve, e in questa
Del Ciel, ch’è Patria tua, traccia il camino.
XIV
Fanciulla amante al Genitor gradita,
Per mostrar quanto è bella, uscita un giorno,
De’ tesori paterni il seno adorno,
Perde fra via pregiata margherita.
5Pallida, vergognosa e sbigottita
Ei far non osa al Padre suo ritorno;
E mira, e cerca, e chiama, e aspetta intorno
Chi renda a lei la preda sua smarrita.
L’Umanitade al suo Fattor diletta,
10Di mille adorna un dì doti leggiadre,
Perdè la grazia infra le mille eletta.
Pianse, ed errò, ma una felice Madre
Quella grazia ritrova e in sen ricetta,
E a lei la rende; ond’ella torna al Padre.
CARLO GIUSTINIANI.
Senza che avessi aita o pur consiglio
Vissi tra falsa speme, e certo pianto
Colui seguendo, che con l’ozio accanto
Ne suol formare, e che dell’ozio è figlio.
5E come cerca in fragile naviglio
Nocchier per dubbio mar richezze, o vanto,
E in lui la tomba ha col suo legno infranto
Così, folle cercava il mio periglio.
Tal’era, e tale io sarei forse ancora,
10Se rott’i lacci non volgeva il piede
A questi boschi ove virtù dimora:
Boschi felici dove Apollo ha sede,
Sdegnando i regii tetti, e dove ogn’ora
L’invidia oppressa lacrimar si vede.
GIANNANTONIO GRASSETTI.152
V’accolse in pria d’ostro lucente e d’oro
Sposi felici, altera augusta cuna;
Scettri corone e trionfale alloro
Sparsevi intorno alta real Fortuna.
5Vi feo l’aurea Ciprigna il bel lavoro
Di rosea guancia, e di pupilla bruna:
Stanvi le bionde Grazie e Amor fra loro:
Amor eroe la maestà v’aduna.
Or che scende Imeneo stan fissi in Voi
10Gli alti pensier delle grand’Ombre avite
E su’ pregi crescenti e vostri e suoi;
E le lucide lievi Alme spedite
Di quei, che non fur anche, Estensi eroi,
Volanvi intorno a domandar le vite.
GIULIO CESARE GRAZINI.
I153
Certo che il mio Cignan fu in Paradiso,
E nella luce dell’empireo regno
Tenendo il guardo immobilmente fiso,
Il gran color v’apprese, e il gran disegno;
5E le angeliche facce e gli atti e il viso
Di là ritrasse alzato oltre uman segno:
Che aver mai non potea d’altronde avviso
Di quel, che pinse, almo lavoro e degno.
Poichè in mirar le forme alte e leggiadre
10Di Lei, che in un dell’increato Nume
È sposa e figlia, e in un vergine e madre:
Rapito ogni intelletto, oltre il costume
Basso e mortal, delle superne squadre
Rimane assorto entro l’immenso lume.
II
S’Io per la via delle invisibl’Ombre
Variar potessi alle future genti,
Che di profonda oblivione ingombre
Nulla ancor san de’ miseri Viventi,
5Alto lor griderei: qualor vi sgombre
Il tempo dagli informi orrori algenti,
E di questa mortal scorza v’adombre,
Traendovi del Sole ai rai cocenti;
Prima d’entrar le perigliose porte
10Il dubbio piè sul limitar fermate:
Ciechi, in qual v’inoltrate orribil sorte!
E se il destin v’incalza, e a forza entrate,
Sia il viver vostro un sospirar la morte
Tanti mali scorgendo ovunque errate.
TERESA GRILLO PANFILIA.
I
Gravan l’alma così cure ed affanni,
Che braccio chiedo di pietà non parco,
Che me pur salvi dal penoso incarco,
Per cui pavent’omai ultimi danni.
5Ma con finto soccorso ah non m’inganni
Speme ed Amor di crudeltate scarco,
Ch’essi fur che a mia sorte apriro il varco
Con finti vezzi, e con fallaci inganni.
Ragion, tu sola il puoi, deh tu m’aita:
10Toglimi all’aspro duolo, ed ogni affetto
Tranquillamente a posar teco invita.
Ma scaltra ogni pensier rendi soggetto,
Perchè tu ancor potresti esser tradita
Se un di lor vola al lusinghier’ oggetto.
II
La nobil Donna, che con forte mano
Altera siede a governar l’impero
De’ sensi, che vorrian da lei lontano
Sottrarsi, e correr’ ogni lor sentiero;
5Per man mi prende e per deserto e strano
Calle mi guida, e a lei va innanzi il Vero:
Io veggio allor misero stuolo insano
In parte, ove si turba il mio pensiero.
Quei, dice, che tua mente empion d’orrore,
10Miei furo un tempo, indi da me fuggiro
Tratti dai vezzi d’un fallace Amore.
Or tra speme e timor, sempre in martiro
Piangon le lor ferite e ’l grave errore;
Ed apprendon Ragion dal lor deliro.
III
O di Virtute amica luce e bella,
Che siedi al fren della mia mente, o rendi
Ogni mia voglia alla Ragione ancella,
O parti, e lascia il cor, se no ’l defendi.
5Che sebben tu quasi benigna stella,
Sul desir cieco i vivi raggi stendi,
Pur crescendo l’interna aspra procella,
Con tuo don non mi giovi, anzi m’offendi.
Men grave fora all’Alma mia smarrita,
10Tra fosco accolta e periglioso orrore
Incontrar morte, e non conoscer vita.
Che valmi il tuo splendor senz’altra aita
Se tratta pur dal mal’usato ardore,
Seguo il mio error, dell’error mio pentita.
DELL’ABB. ALESSANDRO GUIDI.
I154
Veggio il gran dì della Giustizia eterna
Dal Tosco Apelle in Vatican dipinto;
E ’l veggio d’ira e di furor sì tinto,
Che l’Alma sbigottita al cor s’interna.
5Veggio il gran corso ver la valle inferna;
E ’l vaneggiar de’ miei pensier sospinto
Fuor dell’usanza sua, rimane estinto,
E provvido timor me sol governa.
E veggio quei, che dall’eterno danno
10Muovono lungi, e infra i beati Cori
Su per lo Ciel a seggi lor sen vanno.
Gran ministri di Dio fansi i colori
Della bell’arte alla mia mente, e sanno
Darle nuovi pensieri e nuovi ardori.
II
Poichè l’anima mia fuor del suo grave
Lieta o dolente o disperata ancella
Trarre altrove dovrà vita novella,
Perchè tanto disprezza, e nulla pave?
5Perchè tanto le par cura soave
L’esser al suo Signor sempre rubella?
Senz’ancora sen passa, e senza stella,
Qual tra procella temeraria nave.
Oh se vedesse un dolce raggio eterno,
10O un lampo sol di quel tremendo giorno,
Che l’estremo di noi farà governo,
Che partirà le pene, e i premi intorno!
E Muse, e Amor si prenderebbe a scherno,
E penserebbe all’immortal soggiorno.
III
Non è costei dalla più bella Idea,
Che lassù splenda, a noi discesa in Terra;
Ma tutto il Bel, che nel suo volto serra,
Sol dal mio forte immaginar si crea.
5Io la cinsi di gloria, e fatta ho Dea,
E in guiderdon le mie speranze atterra:
Lei posi in regno, e me rivolge in guerra,
E del mio pianto di mia morte è rea.
Tal forza acquista un amoroso inganno,
10Che amar convienmi, ed odiar dovrei,
Come il popolo oppresso odia il tiranno.
Arte infelice è il fabbricarci i Dei:
Io conosco l’errore, e piango il danno;
Poichè mia colpa è il crudo oprar di lei.
IV
Nè ancor degli anni è dissipata e spenta
L’antica usanza, che dell’Alma ha il freno
Nè ancor’ Amor per lunga età vien meno,
Nè l’arco suo di saettare allenta?
5Dunque inutile è il tempo, e indarno tenta
Alle cure d’Amor ritorre il seno;
E l’intelletto di consigli pieno
Alle ruine sue par, che consenta.
Se forza il tempo e la ragion non hanno
10Da far difesa, e ritornarmi in calma,
Donde i soccorsi a’ voti miei verranno?
Padre del Cielo, a sì gravosa salma
Me togli, e resti pago il mio Tiranno;
Che per opra mortal non sciolgo l’Alma.
V
Io son sì stanco di soffrir lo scempio,
Che i gelosi pensier fan del mio cuore,
Che spezzo i lacci, onde m’avvinse Amore,
E contra lui le mie vendette adempio.
5Di sè, de l’arti sue si dolga l’empio
Signor, che me già trasse al gran dolore;
E far d’ogni speranza e d’ogni errore
Me vegga a i folli amanti illustre esempio.
Se poscia il cor di libertà si duole,
10Donna perdendo di celesti tempre
E di rare bellezze al mondo sole;
Provvido l’intelletto il duol contempre,
E queste faccia al cor sagge parole:
Hassi a star con gli Dei per pianger sempre!
VI155
Eran le Dee pel mar liete e gioconde
Intorno al piè del giovinetto Ibero,
E rider si vedean le vie profonde
Sotto la prora del bel legno altero.
5Chi sotto l’elmo l’auree chiome bionde
Lodava e chi il real ciglio guerriero:
Solo Proteo non sorse allor dall’onde,
Che da’ Fati scorgea l’aspro pensiero.
E ben tosto apparir d’Iberia i danni,
10E sembianza cangiar l’onde tranquille,
Visto troncar da morte i suoi begli anni.
Sentiro di pietade alte faville
Le vie del mare, e ne’ materni affanni
Teti tornò, che rammentossi Achille.
DELL’ABB. MARCANTONIO LAVAIANA.
I
Bella, leggiadra e, qual credeami, onesta
Donzella io vidi per deserta valle,
Sola e tacita errar, cui da la testa
Scendean le chiome libere a le spalle.
5Mille in un tratto uscìan da la sua vesta
Colori e fogge or verdi, or perse, or gialle:
E leggera nel piede, or quella, or questa
Strada premea sempre cangiando calle.
Di voglia acceso di fermar costei
10(Che la Speranza ravvisar mi parve),
Mossi velocemente i passi miei.
Folle! che de le sue mentite larve
Solo m’accorsi allor, che presso a lei,
Mentr’io stendea la man, da me disparve.
II
Nel dolce tempo de l’età fiorita
Vidi una Donna, che le trecce bionde
In riva al mare, tacita e romita,
Scioglieva a lo spirar d’aure seconde;
5Che a sè chiamato a rimirar m’invita,
Maravigliando, per le vie profonde
Piccola naviccila irsene ardita
Tra scogli e sirti, al furiar de l’onde.
E disse poi: se ’l temerario Pino
10Naufrago andrà, s’incolperà Fortuna,
Che il trasse al mar dal natìo giogo alpino:
Ed io mi taccio, e non ho parte alcuna
Ne’ secreti del Cielo e del Destino;
Solo in me l’Uom tanta possanza aduna.
III
O Nave, o nave, che per l’alto mare
Nuoti, e sicura dai le vele al vento,
Credi, che serbi il mobile elemento
Sempre l’onde tranquille e sempre chiare?
5Oh quante volte ho vedut’io mutare
Faccia a la dolce calma in un momento,
Ed oscurarsi il Cielo, e lo spavento
Forte gridando, sulla poppa stare;
Ed ho veduto a Ciel sereno ancora
10Ne’ ciechi scogli, che copriva l’onda,
Urtar col fianco l’infelice prora;
E i remi rotti, e gli alberi a seconda
Andar de l’acque, e sparse in poco d’ora
Le ricche merci su l’arena immonda.
IV
Furia, che all’altrui danno, e tuo sei nata,
E sol d’odio ti nutri, e di disegno,
Che ridi al nostro male, e a bene irata
Mordi le man d’atroce rabbia in segno.
5Poichè tu m’hai con empio strazio indegno
L’ira, che il cor ti rode, in me versata,
Torna d’Averno al tormentoso regno
In preda al cieco tuo livor dannata.
Te stessa ivi divora, e da ogni vena
10Il sangue suggi, fermi, agghiacci, ed ardi,
E ognor morendo vivi alla tua pena.
Vanne, vanne crudele, a che più tardi?
A che, s’ogni tua voglia hai sazia, e piena,
Con bieco e torvo ciglio ancor mi guardi?
DOMENICO LAZZARINI.
I156
Se da te apprese, Amore, e non altronde
Quel dolce stil che ti fa tanto onore,
Questo Cigno beato, il cui migliore
Or gode in Cielo, e ’l frale Arquà nasconde:
5Se bello al par della famosa fronde,
Che in Sorga l’arse di celeste ardore,
Fu ancor quell’altro mio lume e splendore
Tra l’Esino e l’Aterno, e ’l monte e l’onde:
Perchè poi le sue rime alzare e ’l canto
10Sì, ch’ei n’andasse al Ciel come colomba:
E me verso di lui lasciar nel fango?
Nè pur io, come in lui potessi tanto,
Veggio risponde; e questa sacra tomba,
Son tre secoli e più, ch’io guardo, e piango.
II157
Cigno immortal, questo Garzon158, che riede
Meco sovente al freddo sasso intorno,
Dal Tebro venne al mio basso soggiorno;
Tanto delle bell’arti amore il fiede!
5Germe è di lui, che nel Tarpeo già diede
L’onor del lauro alle tue chiome un giorno:
E ben di senno e di costumi adorno
Fa del suo nobil sangue intera fede.
Quando si scorse mai simil destino!
10Qual’amò tanto, ovver qual’ebbe mai
Signor più illustre, o più leggiadra donna?
Onde all’ultimo dì, che m’è vicino,
Anch’io dirò, che ognora in sen portai
Un bianco Giglio, una gentil Colonna.
III
Ovunque io volga in queste alme beate159
Pendici il guardo, altro non veggio intorno
Che vero onor di tanta gloria adorno,
Che n’avrà invidia ogni futura etate.
5Là nacque chi di Roma alle pregiate
Opre diede scrivendo eterno giorno,
Talchè, a par degli Eroi, n’ebbero scorno
Le Greche penne d’alto stile ornate.
Quà chiuse i giorni il più soave Cigno,
10Che mai spiegasse in altro tempo il canto,
Onde il nome di Laura anco rimbomba.
O colli avventurosi! O ciel benigno!
O pregi eterni! Quanto chiari e quanto,
Siete per sì gran culla e sì gran tomba!
IV160
Allor ch’io ti guidai ne’ tuoi verd’anni,
Garzon, che il Sile, e più te stesso onori,
Nel sacro monte, e ti mostrai gli allori
Che fanno a Morte i più securi inganni:
5Vidi ben io che dispiegati i vanni
Del pronto ingegno a luoghi erti e migliori
Poggiavi, depredando i più bei fiori,
Premio e ristoro de’ ben posti affanni:
Ed or me che ti fui secura scorta
10Indietro lasci, e quel degli Avi tuoi161
Che a miglior tempo arse e cantò d’amore.
Felice te, che nell’età immatura
Co’ Cigni or della Grecia andar ten puoi,
Or dell’Italia al più pregiato onore.
V162
Ecco, Signor, dopo tant’anni e tanti
Spesi in cercar quel ch’io fuggir dovea
Che di quel prato, ov’io posar credea,
Nacque il serpe, cagion di tutti i pianti;
5Or l’empio dico: tor dovev’ innanti
Dal Verde il piè quando l’April ridea:
Ch’or ti rimove dall’usanza rea
La grave età, non pensier puri e santi.
Io taccio, chè non so se ’l mio dolore
10O venga dal pensier d’averti offeso,
O dall’esser vicino all’atre porte.
O memorie funeste! o freddo orrore!
Tanto ch’io sono al disperare inteso:
Pur non posso far onta alla tua Morte.
VI163
Quanti son Cigni al biondo Mela in riva
Dovrian cantar di Voi, nobil donzella;
Poi che siete del pari e saggia e bella,
Quanta d’altra giammai si parli o scriva.
5Voi ne’ verd’anni, quando Amor veniva
A farvi segno delle sue quadrella,
Vi ricovraste in solitaria cella
D’ogni vano piacer libera e schiva.
Amor da Voi non ebbe altro che 'l crine
10Reciso e sparso, e di vergogna tinto
Appena il prese, che gittollo a' venti;
E poi disse: o quali prede, o quai rapine
Io potea far con questo, ed or son vinto!
Chè onestate e virtù fur più possenti.
VII164
Dopo le fosche notti e ’l rio gelato
Verno, che addusse a noi l’antico errore,
Quand’era nel pensier nostro, e nel cuore,
Spento l’amor del Bene, e ’l Ver celato;
5Venne coi giorni al fine il sospirato
Giorno a noi di salute, al Ciel d’onore;
E Maria fu quel primo almo splendore,
Che aprì ’l mattini di sì dolce aere ornato.
Riso il Cielo e la Terra; e nel soggiorno
10Lungo de’ Padri, al fin rimesso è l’empio
Mio fallir, disse Adamo, e ’l nostro esiglio.
E ’l sommo Amor è questo, disse, il giorno
Del mio poter; chè in quel bel lume adempio
La mia prim’opra, e l’eterno consiglio.
VIII
Lasso già di seguir la bella Fera
Che da me fugge, e meco lasso Amore
Che mi fu guida fin dal primo albore,
Taciti e mesti ci fermiam la sera.
5Io lacrimando dico: invan si spera
Giunger più mai quel rio fugace cuore,
Ch’egli sua fuga avanza a tutte l’ore,
Nè ’l vigor nostro è tal qual da prim’era.
Da vergogna Amor punto, io da nimica
10Speranza, allora avvaloriamo il fianco
Col pensier di Colei, ch’ambo affatica:
E per le folte tenebre pur anco
Seguiam l’alpestre grave strada antica,
E ’l piè tant’osa più quant’è più stanco.
IX
Or, che tanto da voi lontano io vivo,
Dolce mia pena, il cor languisce e manca,
Nè per lieve sperar più si rinfranca
Del lungo aspettar suo ben sazio e schivo.
5Invan per questi campi al prato, al rivo,
Pasco d’altro Seren l’anima stanca,
Che al paragon del Bello, che ci manca,
Riesce ogn’altro a lei pascol nocivo.
Ben tengo una non so qual vaga immago
10Di lei, serbata già da’ miei pensieri:
E spesso al cor la mostro, e non l’appago;
Ch’e’ va gridando: o pensier menzogneri!
Come d’un Bel divinamente vago
Voi ritrar mai potrete i raggi veri?
FILIPPO LEERS
I
Qual Augellin, che da lontana parte
Torna a veder l’arbor nativo e il lido,
Pieni di desio del dolce antico nido
Cercal di ramo in ramo a parte a parte:
5Ma vede poi sulle reliquie sparte
Covare il serpe velenoso infido;
Ond’innalzando i lai canori e ’l grido,
Carco di doglia e disperato parte.
Tal’io men vò scorto dal van desìo,
10Alto gridando: Ohimè l’almo ricetto,
Ohimè l’Amore, ohimè l’albergo mio!
Perchè in quel vago, ahi non più vago petto,
Ov’abitammo un tempo Amore ed io,
Trovai, cercando Amore, odio, e dispetto.
II
Ebbi già del tuo stral l’anima punta,
Barbaro Amore, ahi pur convien ch’io ’l dica;
Ma s’io non erro, e m’è la sorte amica,
È la mia servitude al suo fin giunta.
5Io veggio ben, che coll’aurata punta
Cerchi dell’empi, che adorai, Nemica
Rinnovarmi nel cor l’immago antica,
Guasta dall’odio, e dal dolor consuta.
Fa pur, fa pur che t’affatichi invano?
10Perchè veggendo lei, penso al mio danno;
E più l’ho presso, più le vò lontano.
Scritte l’offese in adamante stanno,
E tien lo Sdegno accesa face in mano,
Talch’io leggo il mio Scritto, e non m’inganno.
III165
Per quelle vie, che cento strali e cento
Apriro, uscendo il nobil sangue fuore,
Languìa Bastiano, e il barbaro furore
Allentò l’arco, ond’il credea già spento
5L’alma bramosa ancor di più tormento
Non uscí nò ma si ristrinse al cuore,
Al cuor difeso dal celeste Amore,
Nè lo strale avanzarsi ebbe ardimento.
Quand’ecco Amor di sua faretra un telo
10In lui vibrò di tale ambrosia tinto,
Che le piaghe sanò del mortal velo.
Ond’ei dovessi in nuovo agone estinto
Portar due palme e due corone in Cielo,
Dall’aspra guerra, ove trionfa il Vinto.
IV
Simile a sè mi fe’ l’alto Fattore,
Perch’io l’amassi; e quinci amato
Che nascer suol da somiglianza Amore,
Mirando sè nella sembianza altrui.
5Ma quel voler, di cui mi fe’ Signore,
Per farmi sol più somigliante a lui,
Negò d’amarlo; e fece oltraggio il cuore
All’immago gentil co’ falli suoi.
Ahi cuore ingrato! ecco dal Cielo ei viene,
10Là dov’ama egualmente ed innamora,
Seguendo te per queste vie terrene.
Mira, ch’ei già la sua t’impresse, ed ora
Prende la tua sembianza, ed Uom diviene,
Perchè tu l’ami: e tu non l’ami ancora?
V
Diceami Alcon ne la mia prima etate,
Quando in groppa men gìa di bianche agnelle,
Che l’Alme nostre a le native stelle
Gian dopo morte, ove fur pria create.
5Ier notte il Ciel mirai spesse fiate
Bramoso di veder qual mai di quelle
Cristina avesse; ond’io tra le più belle
L’andai cercando, e di più raggi ornate.
Ma tanto invan cercai fra l’Orsa e ’l Toro,
10Che s’ascoser le stelle, e la mattina
Accesa sfavillò di lucid’oro.
Poi sì bello uscì il Sol da la marina,
Che dopo io più non la cercai fra loro
Credendo, che nel Sol fosse Cristina.
VI
Perchè barca io non ho nè rete allargo
Per mar profondo, ma soletto e gramo
M’alberga un sasso, e vò talor sul margo
Dove i pesci minuti aspetto a l’amo:
5Foloe, per cui d’amor evvi letargo,
Foloe non m’ode, ohimè, quand’io la chiamo.
Foloe non vede il lagrimar ch’io spargo,
Foloe m’abborre più, quant’io più l’amo.
Deh voi Nereidi da l’azzurre chiome,
10E Oreadi voi, che qui v’uniste al ballo,
Onorando il mio canto e il suo bel nome:
Ditele, come anche il gentil cristallo
Gelisi in grembo d’aspre rupi, e come
Giù nel fondo del mar vive il corallo.
VII
Sì, sì ti veggio: a che saltelli, e scappi
Pel ginestro, rio Satiro maligno?
Ma se fra queste branche un giorno incappi,
Tu non farai più cavriola, o ghigno.
5Veracemente io vuò, che allor tu sappi
S’io son, come tu dì, cornacchia o cigno;
E come ’l cuoio ti si tragga, e strappi
Dalla cornuta fronte al piè caprigno.
Giuro, ch’io vuo’ mangiarti vivo, e l’ossa
10Parte a Greco gittar, parte a Libecchio,
Ove non abbian mai pace, nè fossa.
Così trafisse al derisor l’orecchio
L’alto Ciclope, e fè col piè percossa
Tremar Triquetra, e ’l mar che le fa specchio.
VIII
Eran d’Amor le amare sorti ascose
Al giovinetto errante pensier mio,
Quando nel regno di quel folle Dio,
Ripiegò l’ali, e ’l piede in terra pose.
5Ivi mirando non credute cose,
Mentre il pungea di rivolar desìo,
Gli arse le penne Amor protervo e rio
E ’l duro giogo al debil collo impose.
Nè a lui la nuova età più forte è schermo,
10Perchè più lieve il vada omai portando,
Che più grave divien, quant’è più fermo.
Tornerà forse in libertà: ma quando?
Quando fia pigro al volo, all’opra inferme,
Se pria non muor sott’il suo peso amando.
IX
Sparso il crin di fioretti di ginestra,
Cieco d’amor, più che non son le Talpe;
Così l’aria intronò con voce alpestra,
Uom ne le membra imitator de l’Alpe.
5O ch’apra il Sol l’oriental finestra,
O che s’appiatti là di retro a Calpe,
O ch’io vada, o ch’io seggia, Amor la destra
Arma di spiedo, e ’l cor mi lima e scalpe.
Quindi il mio ciglio che splendea sì lustro,
10Fatt’è per Galatea nubilo e fosco
Perpetuamente o sia caligo, o lustro.
Il mar, le rive, la montagna e ’l bosco
Fann’eco al pianto mio, già cade un lustro,
E l’Empia dice ancor: non lo conosco.
X
Quel nappo, o Galatea, che a me dal collo
Pende l’està quando le biade io falcio,
Sculto è d’intorno da man greca, ed hollo
Tolto ad un Fauno, che schiantommi un salcio.
5Di qua dorme Sileno ebbro e satollo,
Avvolto al crin di torta vita un tralcio:
Di là stanno le Muse, ed evvi Apollo,
Evvi il Caval che diede acqua col calcio.
Poichè da te grata mercè non haggio,
10A Foloe il serbo, a Foloe graziosa
Dal capel riccio, e di color di tufo.
Sì dalla nicchia di un petron selvaggio
Cantò il Gigante, e fu leggiadra cosa,
Che per la Ninfa gli rispose il Gufo.
XI
Agresti Dii, sù quest’opaco altare,
Che v’alzò de’ Pastor divota cura,
Con la sua destra Coridone, e giura,
Che non vuol più l’empia Selvaggia amare.
5Qui le mie labbra, più che assenzio amare
Pel rio velen di quella bocca impura,
Lavo con l’onda del bel Fiume pura,
Perchè sen porti ogni mia colpa al Mare.
O Pastorelli, col coltel radete
10L’ingrato nome scritto di mia mano
Sulla scorza del Faggio, e dell’Abete.
Coridon, ch’amò tanto, e pianse invano,
Su i medesimi tronchi indi scrivete,
Per miracol de’ Numi have il cuor sano.
XII
Mirando il volto, ove le nubi, e ’l fuoco
Porta lo sdegno, e i rai copre d’oscuro,
Scritto vi leggo aspro decreto, e duro
Che dice: fuggi, o tu morrai fra poco.
5Lasso!, e lungi da lor non trovo loco,
Ch’eglino il Sol della mia vita furo,
Ond'il viver senz’essi omai non curo,
E morte chiamo, e per gridar son roco.
Vaghe luci omicide, altro conforto,
10Poichè il mirarvi, e lo star lungi ancora
M’uccide, altra speranza al cor non porto.
Se non è gran mercede a chi v’adora,
Che l’armi elegga, ond’ei debb’esser morto,
Piacciavi, ch’io vi guardi, e poi ch’io mora.
XIII166
Se il merto, o Amici, oggi da voi s’onora,
Abbia questo, ch’io cedo onor sovrano
Colui, che primo per le vie di Flora
Segue il gran Cosmo, e gli sostien la mano.
5Di Malta al Soglio non asceso ancora,
Così dicea l’eletto Eroe, ma invano;
Invan, ch’ei più di sè l’alme innamora
Coll’atto umìle, e col sembiante umano,
Quinci salìo sul Trono, e il Popol folto
10Lui salutando dividea la lode,
Qual solea fra gl’Augusti in Campidoglio.
E dir sembrava al suo Signor rivolto:
Degno è ben anco di regnar quel Prode,
Giudice Te, ma duo non cape il Soglio.
XIV
Soli, se non che amor venìa con noi,
Fillide, ed io riconduceam le agnelle,
Ambo mirando per piacer le stelle,
Ella nel Cielo, ed io negli occhi suoi.
5Mira, le dissi, e se veder tu vuoi
Maraviglie quaggiù maggior di quelle,
Mira negl’occhi miei tue luci belle,
E le luci del Ciel negl’occhi tuoi.
Rispose allor la semplicetta Fille:
10Ben mi posso specchiar nel vicino Rio
Vie più seren di queste tue pupille.
Senz’altre onde cercare, allor diss’io,
Sciolte le luci in lacrimose stille,
Specchiati, o cruda, almen nel pianto mio.
XV
Quando la sera su ’l tranquillo Mare
Soavemente l’aura increspa l’onda,
Sparsa la chioma al vento umida, e bionda,
Sorger suol Galatea dall’acque chiare.
5Appena un dì l’orme leggiadre, e care
Portò su ’l lido, ove la spuna inonda,
Carco l’irsuto crin d’orribil fronda,
Tra folte gregge Polifemo appare.
Mille agnelletti in questa falda pasco,
10Ed ho cento vitelle ancor di latte
Di là dal Monte, ove l’armento mugge.
Tutto ti dono, e in povertà non casco,
Ninfa gentil, se le tue labbra intatte....
Volea più dir, ma Galatea sen fugge.
XVI
Sovra il negro del Mare orrido smalto
Chiamò Fortuna le tartaree ancelle,
Co i nembi al fianco, e colle ree proselle
Per dar crudele alla mia Nave assalto.
5Sicch’or nel fondo, or sul confin più alto
Prova nemico il Ciel, l’onde rubelle,
Mentre Orion fra l’adirate stelle
Folgora, e tuona, e rota il brando in alto.
E che sarà di te, misera Nave?
10Gitta in Mar, gitta in Mar l’inutil carco,
Delle merci del suolo, onde sei grave.
Chiara stella talor sul fatal varco
N’aggiunge, e quando uom più dispera, e pave,
Iri spiegar suol fra le nubi l’Arco.
XVII
Rivolto al Mar, che del suo molle vetro
Fa specchio ad Etna, e ’l piè le inalga e ingionca,
Il gran Re dei Ciclopi, a cui la tronca
Arbor già d’alta nave è verga e scettro;
5Dopo un sospir, che fe’ restare indietro
Il rauco suon della cerulea conca,
In sull’uscir della natìa spelonca,
Così tonò con formidabil metro:
Se non fia, ch’oggi al pianto mio risponda
10L’ingrata Galatea, per doglia insano
Seguiterolla, ancor che in Mar s’asconda.
Disse, e la voce rimbombò lontano,
Mormorar l’aure, intorbidossi l’onda,
E fuggir le Nereidi all’Oceàno.
XVIII167
Fatto Signor dell’Isola guerriera,
Che su gl’occhi di Libia alza le Croci,
Regna, o buon Marco, e a i Cavalier feroci,
Fra cui Campion pugnasti, or Duce impera.
5Dalle tue geste illustri Italia spera
Conforto al duol di sue vicende atroci,
Siena s’allegra, e n’alza al Ciel le voci,
Che questo, sol fra i fasti suoi non era.
Tremano le Contrade d’Oriente,
10Ove da’ Rei si guarda, e non si adora
L’alta memoria del Figliuol di Dio;
Chè il tuo valor, la tua pietade ardente,
La Patria, il Sangue lor minaccia ancora
Il gran pensier, ch’ebbe Alessandro, e Pio.
FRANCESCO DA LEMENE.
I
Stravaganza d’un sogno! A me parea
La mia Donna a l’Inferno, e seco anch’io
Ove Giustizia ambo condotti avea,
Per castigare il suo peccato e ’l mio.
5Temerario io peccai, che ad una Dea
D’alzarsi amando il mio pensiero ardìo:
Ella cruda peccò, che non dovea
Chiuder in sen sì bello un cor sì rio.
Ma ne l’Inferno appena esser m’avviso,
10Che mi parve cangiarsi in un momento
O Donna, il nostro Inferno in Paradiso.
Tu lieta mi parevi, ed io contento;
Io perchè rimirava il tuo bel viso,
Tu perchè rimiravi il mio tormento.
II
Poichè salisti, ove ogni mente aspira,
Donna, in me col mio duolo mi contento:
Anzi più forsennato in me non entro,
Che cercandoti ancor l’Alma delira.
5Ben di lassù, come il mio cor sospira,
Senza chinar lo sguardo, il vedi dentro
A quell’immenso indivisibil centro,
Intorno a cui l’Eternità si gira.
Ma perchè di quell’Alme in Dio beate
10Affetto uman non può turbar la pace,
Il mio dolor non ti può far pietate.
Pur m’è caro il dolor, che sì mi sface:
Che se tu il miri in quella gran Beltate
Senz’esser cruda, il mio dolor ti piace.
III168
All’Uom, che col pensier tant’alto sale,
Dio l’esser dona, e pria di fango il forma;
Poi col soffio divin d’Alma immortale
Simil a sè, quella vil massa informa.
5Indi con bel mistero ei fa, che dorma,
E tratta dal suo fianco un’opra eguale,
Donna gli dà di pellegrina forma,
Donna eterna cagioni del nostro male.
Godea vita immortal, gran senno, e pace
10In dolce albergo, ove trovò il desìo
Quanto in bella onestà ne giova, e piace.
Alfin, lasso!, lo inganna un serpe rio:
La legge offende, e follemente audace
Si fa men d’Uom per farsi eguale a Dio.
IV169
Deh per pietà, chi la mia fiamma ammorza,
Che mai non mi consuma, e m’arde sempre!
Onde mi sembra in sì penose tempre
Fatta immortal questa mia frale scorza.
5Per estinguere invan l’ardente forza
Fia, ch’in acqua di pianto il cuor si stempre,
Nè fia, che con l’età l’ardor si tempre,
Che quanto invecchia più, più si rinforza.
Non so come bastante il cor riesca
10A nutrir sì gran fiamma, e a poco a poco
Non manchi in me la vita, e ’l fuoco cresca.
Morte, ed Amor voi per pietate invoco;
Fate debile il fuoco, o debil l’esca,
E manchi o ’l fuoco all’esca, o l’esca al fuoco.
V170
Questa negli ozi suoi mole eminente
Erse l’Arese Eroe, Regia di Flora,
Del genio suo, che il secol nostro indora,
Memoria eccelsa alla futura gente.
5Ferma il piè, Passaggiero, e riverente
L’amena maestà stupido onora:
Mira come negli ozi ei mostra ancora
Le magnanime idee della gran mente.
Già superbo, Cesano, io ti discerno,
10Opra immortal di mille fabbri industri,
A par del nome suo viver’ eterno.
E non sapranno i più rimoti lustri,
Se dell’Arese Eroe, del tempo a scherno,
Fur più grandi le cure, o gli ozi illustri.
VI
E sotto il freddo, e sotto il clima ardente,
Oltre all’ultima Tile e l’Oceàno,
E dovunque sia luogo ivi si sente
La gran possa, Signor, della tua mano.
5Per fuggirti Davidde il Re dolente
Or l’Inferno, ora il Ciel ricerca invano:
Al tuo sguardo divin tutto è presente
Dal Tuo braccio divin nulla è lontano.
La materia a la forma insieme allacci:
10Ma sempre il Fral composto, al fin ridutto
Se l’abbandoni Tu, scioglie quei lacci.
Il tutto senza Te fora distrutto:
Di Te riempi il Tutto, il Tutto abbracci;
Il Tutto in Te si trova, e Te nel Tutto.
VII171
Non scenda no dal sempiterno regno,
Per vendicar Gesù, fulmine, e tuono,
Nè ’l Guerrier, che domò l’altero ingegno,
Ch’erger volea sull’Aquilone il trono.
5Se porge il Dio tradito a laccio indegno
La sacra man, che d’ogni ben fa dono,
Vuole inulto soffrir barbaro sdegno,
Già Dio delle vendette, or del perdono.
Ma tu di lui seguace, o Coro eletto,
10Perchè non rechi aita al tuo Signore
In duri nodi incatenato, e stretto?
Mira ignobil perfidia, e vil timore!
Altri sen fugge, e senza cuore ha il petto;
Altri lo segue, e senza fede ha il core.
VIII
È già Madre Maria; nè prova i mali,
Che fur pena prescritta al peccar nostro:
E voi serbaste intatto il candor vostro
Nel suo vergineo sen, gli immortali.
5Passan del Sol per vetro i rai vitali,
E pure intero il vetro altrui dimostro:
Tal lascia della Madre intero il chiostro,
Quel, ch’essendo un sol Figlio, ha due natali.
Si veste il sommo Dio di mortal gonna,
10E già nato Signor servo rinasce,
E l’umil Madre sua del Ciel fa donna.
Ecco un Uomo, ecco un Dio ristretto in fasce:
Perchè tu ’l creda un Uom nasce di Donna;
Perchè tu ’l creda un Dio, di Vergin nasce.
IX172
Signor, quell’Uom, che imprigionaste ieri,
Spesso mortificò de’ belli umori,
E tenne, benchè fosser suoi maggiori,
Il bacile alla barba a’ Cavalieri,
5Se ben, che da que’ lacci sì severi,
Senza lasciarvi il pel, non verrà fuori;
Ma voi fate la festa ai Suonatori,
Mentre fate la barba anco a’ Barbieri.
Se questa prigionia più si dilunga,
10Voi lo verrete a far de’ Certosini,
Volendo che a parlar nessun gli giunga.
Anzi verrete a far due Cappuccini;
Me, con farmi portar la barba lunga,
Lui, con farlo restar senza quattrini.
X
Eterno Sol, che luminoso, e vago,
Sei troppo fosco all’intelletto mio,
Dì, come sei di Te medesmo pago,
E tre Persone una gran mente unìo?
5In Te specchi Te stesso, e d’arder vago
Dell’immago, che formi, è il Tuo desìo;
Ma non men di Te stesso è Dio l’immago,
Nè men l’ardore, onde Tu l’ami, è Dio.
Così Tu fatto Trino egual Ti miri,
10E quella immago, e quel beato ardore,
Che generi mirando, amando spiri.
In tre lumi distinto è il Tuo splendore,
Come distinta in tre colori è un’Iri,
E sei Tu solo Amante, Amato, Amore.
XI173
Ecco, che a voi ritorno, un tempo liete
Or meste Rive; udite i miei lamenti:
Ecco, che a voi ritorno; ancor crescete
Alle lagrime mie, Fiumi correnti:
5Usignuoli, io ritorno; ancor potrete
Imparar dal mio duol più mesti accenti:
Aure fresche a voi torno; ancor sarete
Mista co’ miei sospir Aure cocenti.
Ditemi per pietà: fia mai, che arrive
10In questo luogo ancora, ov’io tornai,
La beltà che partì, che lungi or vive?
Ma voi mi dite, e m’accrescete i guai,
O Aure, o Usignuoli, o Fiumi, o Rive:
La beltà che partì, non torna mai.
XII174
Tuona il saggio Perini, è par ch’io senta
Tuonar nel Ciel la melodìa sonora:
All’indurato cor fulmini avventa,
Ma per ferir le sue saette indora.
5Come lume che alletta, e poi tormenta
Farfalletta, che ’l soffre, e pur l’adora,
Tal parla in lui l’errore, e mi spaventa,
Tal parla in lui la grazia, e m’innamora.
Che più? l’orrida Morte i pregi toglie
10Oggi dal Tullio sacro: indi si abbella
Con santi lisci, e preziose spoglie.
Qual Donna, ecco (diss’io) la Morte anch’ella,
Vaga pur d’invaghir le nostre voglie,
Con qual arte gentile or si fa bella!
XIII
Ho di me stesso una pietà sì forte,
Che mi fa lagrimar lo stato mio,
Qualor ripenso al giovanil desìo,
Che Amore accese, e spegnerà sol Morte.
5Sono in fosco sentiero, e non ho scorte,
Che mi guidino al porto, ove m’invìo;
Che quelle luci, onde me stesso obblìo,
Altrui liete splendendo a me son morte.
Già lascia la speme, e meco ancora
10Sol’ho il cieco desìo nel cammin tetro,
Che vuol, che seco io viva, e seco io mora.
Lasso! E in questo sentiero io non m’arretro,
Per ritornare, onde partii; che fora
Troppo lungo cammin tornare indietro.
XIV
Sento, che l’età mia da primavera
Omai sen passa alla stagion estiva,
Che di sei lustri all’ultimo anno arriva,
Grave per cure, e per passar leggiera.
5Nel mezzo io son di mia vital carriera,
Quando del pondo suo l’anima schiva,
Ritornando alla stella, onde deriva,
Non mi si faccia notte avanti sera.
E vivo ancora in amorosi affanni,
10E invecchierò nel giovanile ardore,
Portando il primo fuoco agli ultimi anni.
Chè so ben io, che chi ti segue, Amore,
Tra fallaci promesse, e veri inganni,
Fa d’una vita breve un lungo errore.
XV175
Io ricorro a la vostra intercessione,
Glorioso San Rocco, Eroe celeste:
Tengo una moglie senza discrezione,
La qual è pur la maladetta peste.
5Per guarirmi da cure sì moleste,
Senza la vostra gran benedizione,
Certo che meglio voi la guarireste
Con quel, che avete in man, santo bordone.
Se tai prodigi incominciate a fare,
10Veggo di già fallito Sant’Antonio,
Che tutti correranno al vostro altare.
Eh io sarò tra gli altri testimonio,
Che voi con doppio vanto, e singolare
Guarite dalla Peste, e dal Demonio.
XVI176
Messaggiera de i Fior, nunza d’Aprile,
De’ bei giorni d’Amor, pallida Aurora,
Prima figlia di Zeffiro, e di Flora,
Prima del Praticel pompa gentile.
5S’hai nelle foglie il tuo pallor simìle
Al pallor di colei, che m’innamora;
Se per immago sua ciascun t’adora,
Vanne superba, o violetta umìle.
Vattene a Lidia, e dille in tua favella,
10Che più stimi degli ostri i pallor tuoi,
Sol perchè Lidia è pallidetta anch’ella.
Con linguaggio d’odor dirle tu puoi:
Se voi, pompa d’Amor, siete sì bella,
Son bella anch’io, perchè somiglio a voi.
XVII
Quanto perfetta fia l’eterna cura,
Che l’esser si perfetto altrui comparte,
Che di Nulla fè Tutto, e con tant’arte
Fabbricò gli elementi, e la Natura?
5Da i chiari effetti a la cagione oscura
Ben può debile ingegno alzarsi in parte;
Ma son tante bellezze attorno sparte
Ombra di quella luce, e non figura.
Ma se tant’alto angelico intelletto
10Pe sè stesso non poggia, indarno io penso,
Talpa infelice, a sì sfrenato oggetto.
Pure io so, che sì bello è il Bello immenso,
Che, se mai fosse in lui, fora difetto,
Quanto qui di più bello ammira il senso.
DONATO ANTONIO LEONARDI.
I
Alma, che sei nella prigion de’ sensi
Da mille lacci incatenata, e avvolta,
E vaga del tuo male ancor non pensi
Alla tua libertà, misera e stolta;
5Mira il Ciel, com’è bello, e negl’immensi
Giri dell’alte sfere agile, e sciolta
Spiega i desiri di bel foco accensi,
E Ragion, che ti sgrida, odi una volta.
Ma tu, che vinta sei dal tuo costume,
10Corri dove ti chiama un riso, un guardo,
E non hai per lassù desìo, nè piume.
Ah! pria che Morte avventi il fatal dardo,
Alza gli occhi, ti prego, a più bel lume:
Che non giova il pentirsi, allorch’è tardo.
II
Qual pellegrin, che dal viaggio stanco
In sul Meriggio a riposar si pose,
E sull’erbe adagando il debil fianco
In un placido sonno i lumi ascose;
5Poi quando si credea libero e franco
Seguir la via, che di calcar propose,
Destossi, e rimirò tremante e bianco,
Che avean l’ombre il color tolto alle cose.
Tal’io del Mondo nella via fallace
10All’ombra mi posai d’un viso adorno,
Tra le catene mie dormendo in pace.
Or, che Ragion mi desta, io cerco il giorno,
E veggio spenta ogni benigna face,
E sol tenebre, e notte a me d’intorno.
III
S’Io mi fermo a pensare in che fu spesa
L’età mia più fiorita, e più ridente,
L’Alma di sdegno, e di vergogna accesa
Da gelato timor stringer si sente;
5Che contro il fier nemico a far difesa
Troppo son le mie voglie e fredde, e lente
E gli affetti tra lor stanno in contesa,
Nè son l’antiche fiamme ancor ben spente.
Anzi nel ripensar qual fu la traccia
10De’ miei pensieri in giovenil desìo,
Lasso! di non peccar par che mi spiaccia.
Tanto è l’uso del mal protervo, e rio,
Che lo fuggo, e lo bramo; e fa ch’io faccia
Un nuovo error del pentimento mio.
DELL’ABB. VINCENZO LEONIO.
I
Quando l’Alma real vider le stelle,
Che l’ali ergea per fare al Ciel ritorno,
Tutte per acquistar lume sì adorno
La richiedean da queste parti e quelle.
5Chi accrebbe, il Sol dicea, l’Ascree Sorelle
Meco s’aggiri a questa sfera intorno:
Meco, Vener dicea, faccia soggiorno
Chi vestì giù nel suol forme si belle.
Dunque altr’orbe, che il nostro, or si destina,
10Marte gridava, a lei, che tutte unite
Le mie virtù, fu sempre a me vicina?
Ma Giove alfin, le lor contese udite,
Resti in vita, esclamò, l’alta Reina;
Che più tempo bisogna a tanta lite.
II
Non ride fior nel prato, onda non fugge,
Non scioglie volo augel, non spira vento,
Cui piangendo io non dica ogni momento
Quell’acerbo dolor, che il cor mi sugge.
5Ma quando a lei, che mi diletta, e strugge,
L’amoroso desio narrare io tento,
Appena articolato il primo accento
Spaventata la voce al sen rifugge.
Così Amor, ch’ogni strazio ha in me raccolto,
10Ferimmi, e la ferita a lei, che solo
Potria sanarla, palesar m’è tolto.
Ah, che giammai non formerò parola,
Poichè l’Alma inver l’amato volto
Il mio cuore abbandona, e a lei sen volar.
III
Filli, poc’anzi Alcon sotto quell’Orno
Alto cantò, che l’immutabil fato
Vuol, che quanto una volta al Mondo è stato
All’antico esser suo faccia ritorno.
5Perchè rivolto il Ciel di stelle adorno
Là, dove il noto a lui primier fu dato,
Ricominciar vedrassi il corso usato,
E i primi affetti rinnovar d’intorno.
Torneran queste chiare onde tranquille,
10Questi fior, questi augelli, queste piante,
E saranno altre volte Uranio, e Fille:
Oh me felice, appien, se ’l tuo sembiante
Io rivedrò dopo mill’anni, e mille,
E tornerò del tuo bel volto amante!
IV177
Tra queste due famose anime altere,
Ch’or anzi tempo han fatto al Ciel ritorno,
L’istessa Stella, ov’ambe avean soggiorno
Voglie creò d’Amor vere, e sincere.
5Discese poi dalle celesti sfere
Vestir ambe sull’Adria abito adorno,
E lo splendor, ch’indi spargean d’intorno,
Le dolci ravvivò voglie primiere.
Ma l’una, e l’altra a maggior lume avvezza,
10Visti oscurati dal corporeo velo
I più bei rai della natìa chiarezza;
Accese alfin da desioso zelo
Di riveder l’antica lor bellezza,
Sen ritornano insieme unite al Cielo.
V178
Qual mai non vide in terra occhio, o pensiero
A me, da me diviso, un dì s’offerse
Dal lido occidental, Lume sì altero,
Che la luce del Sol tutta coperse.
5Or mansueto, or minaccioso, e fero
Quinci alle genti amiche, indi all’avverse,
Ei tosto all’Indo, e all’Oceàno Ibero,
All’Austro, e all’Aquilon la via s’aperse.
Parea, che intanto vagamente adorno
10De i nuovi raggi in ogni parte al Mondo
Lieto più dell’usato ardesse il giorno.
Risorto alfin da quell’obblìo profondo
Sol vidi ovunque io volsi gl’occhi intorno
Il bel di tue virtù splendor giocondo.
VI179
Qual Fiumicel, che se tra verdi sponde
Nutre erbe e fior di vago prato in seno,
Limpida è sì, che specchio al Ciel sereno,
Alle Ninfe, e a’ Pastor forma coll’onde;
5Ma se per valli paludose immonde
Rivolge il corso, o in arido terreno;
Coll’alto limo, onde il lor fondo è pieno,
La chiarezza natìa mesce, e confonde,
Tal il fuoco d’amor chiaro risplende,
10Ardendo in cuor gentil: ma in rozzi petti
Perde il suo lume, oscuro e vil si rende.
Amor dunque non è, che i nostri affetti
Al bene, o al mal diversamente accede;
Ma o buoni, o rei, prende da noi gli effetti.
VII180
Ecco, amici Pastori, ecco ove giunto
Questo infelice mio povero agnello,
In mezzo a un prato erboso, appo un ruscello
Egro sen giace dal digiun consunto.
5L’altr’ier guatollo Argone, e da quel punto,
Quasi pasciuto di mortal napello,
(Come, ridir non so) di pingue e bello,
Tosto divenne sì deforme e smunto.
Or dal suo mal, con provvido consiglio,
10Apprendete a fuggir con piè non tardo
Da quel, che a voi sovrasta, egual periglio.
Ah fuggite d’Amor la face e ’l dardo:
Quanto in lui fa il velen d’invido ciglio
Far puote in voi d’occhio amoroso un guardo.
VIII
Dietro l’ali d’Amor, che lo desvìa,
Sen vola il mio pensier sù d’improvviso,
Ch’io non sento il partir, finchè a quel viso,
Ove il volo ei drizzò, giunto non sia.
5Chiamolo allor; ma della Donna mia
L’alta bellezza egli è mirar sì fiso,
Involandone un guardo, un detto, un riso,
Che non m’ascolta, ed il ritorno obblia.
Alfin lo sgrido: ei senza far difesa
10Mi guarda, e un riso lusinghier discioglie,
E ridendo i suoi furti a me palesa.
Tal piacer la mia mente indi raccoglie,
Che dal desìo di nuove prode accesa,
Tutta in mille pensier l’Alma si scioglie.
IX181
Archimede non già, Fidia, nè Apelle
Quest’arti illustri, e vaghe a noi concesse,
Che sann’in legni, in marmi, o in lini espresse
Di Natura imitar l’opre più belle;
5Creolle il Fabbro eterno, e al Mondo dielle
Quando nell’Uom sua grande imago impresse,
Fermò nell’aria il suol, le sfere eresse,
E in Terra i fior dipinse, e in Ciel le stelle.
Or non dovranno de’ Mortali a’ sensi
10Oggetto offrir, che non sia onesto, e pio,
E quale all’alta origin lor conviensi.
Che se ad altro lavor cieco desìo
Muove la man; sorga la mente, e pensi,
Che il primo Autor di sì bell’arti è Dio.
X182
Mentr’oggi, o Silvia, a pascer l’agne inteso
Men gìa d’Alfeo lungo l’erboso lido;
E dal desìo d’udir tue rime acceso,
Le affretto or colla lingua, ora col grido:
5Tra le frondi d’un Più veggo sospeso
Codesto di usignuoli industre nido,
E di repente in sulla cima asceso,
Da’ rami, onde pendea, lieto il divido.
Pastorella per via non vid’io poi,
10Che per averli non narrasse quanti
Eran per tutt’Arcadia i pregi suoi.
Ma pur, d’ogni altra disprezzando i vanti,
Serbali a te: perchè da i versi tuoi
Apprenderanno più soavi i canti.
XI183
Si vivo lume di virtù matura
Nel tuo bel cor fin da’ prim’anni ardea,
Ch’al gran Pastor per te l’Ostro chiedea
A ragion quinci Amor, quindi Natura.
5Egli, che i prieghi lor non sente, o cura,
Ma chiare di valor prove volea,
Vada a cercarlo pur, vada, dicea,
Per ogni via più faticosa e dura.
Gisti: e te vide Europa in varie forme
10Per erti gioghi, ove a gran pena andrebbe
Col guardo occhio mortale, imprimer l’orme.
Quindi 'l tuo merto ad or ad or sì crebbe,
Ch’alfin eccelso onore, a lui conforme,
Gloria a chi l’ebbe, ed a chi ’l diede accrebbe.
DELL’ABB. FRANCESCO LORENZINI
I184
Quando l’amara lite in Cielo insorse,
Delle Dive a sedar l’ire maggiori,
Onde l’Asia ecclissati i suoi spendori
L’aspro destino suo maturo scorse:
5Da Giove eletto al gran giudizio sorse
Paride, a cui per gli ottenuti onori
L’alma Dea delle grazie e degli amori
La funesta mercede in premio porse.
Ma il gran Rettor del Cielo e delle stelle
10Scorgendo il senno, che tenea racchiuso
La sentenza, che feo le due men belle:
All’Uomo in dono la prudenza, e l’uso
Concesse de’ giudizi; e il sesso imbelle
Destinò solo al generare e al fuso.
II
Questo, che spiega verdi rami ombrosi:
E par che a speme di buon frutto s’erga,
Arbor gentil, ch’io già sotterra posi,
Quando ancor ora tenerella verga:
5Borea, nè tu, nè alcun de’ tuoi nevosi
Fratelli tocchi o svella o al suol disperga,
Se mai ritorno noi a noi ne’ piovosi,
D’orrido e pigro gel gravi le terga.
E se all’ira natìa non sai por freno,
10Schianta un abete, che gran parte imgombra
Dell’aria inutilmente, e del terreno;
Che loderanti quei, cui invidia adombra,
Alberi eguali, e quei che al Ciel sereno
Ei toglie, e opprime sotto sè coll’ombra.
III185
Vedrai Donna immortal presso a quell’onda,
Che il fianco all’Appennino irriga, a parte,
Impaziente aspettar Te, per farte
Dono gentil dell’onorata fronda.
5Corri, Spirito illustre, e alla feconda
D’Eroi tua stirpe, e già famosa in carte,
De’tuoi bei fregi aggiungi anco la parte,
Per far, che a se medesima in te risponda.
Io non penètro già ne i dì futuri,
10Nè fo col desiderio altrui presente
L’alto sperar de’ commun nostri auguri:
Perchè aéra virtù so, che non mente,
E so, che tu sol della gloria curi,
Figlia d’eccelsa infaticabil Mente.
IV186
Ecco in Riva del Tebro, ecco è già nato
Lo spavento dell’Anglia, il Signor vero;
Cingi, o Clemente, il fanciullin guerriero
Di sucro elmo, e d’acciar pria dell’usato.
Certo è ragion, che sol di ferro ornato
Inferocisca nel vagir primiero,
Se deve tosto per l’onor di Piero,
E del suo sangue, uscire in campo armato.
Nè paventar, se fuor del patrio soglio
10Ramingo ei nasce, esposto alla rovina,
Che a lui minaccia il fier nemico orgoglio.
Così fuor della sua Regia Latina
Romol già nacque, e seppe in Campidoglio
Roma innalzar d’ogni città Reina.
V187
Il divin cibo mi sarà, dicea
La Vergin sagra sul morir, negato?
Dicea, lassa!, col cuore innamorato,
Che con la lingua tanto non potea.
5Deh, Signor, sospirando soggiungea:
Nuovo a Te valico aprir non è vietato;
Vieni, ecco il petto, aprimi il manca lato,
E la fiamma del sen tempra, e ricrea.
Piacque al celeste Sposo il bel desìo,
10E penetrolle, aperto il fianco, al cuore,
E quindi unito alla bell’Alma uscìo.
Morte, di lei tu non avesti onore,
Ch’ella non morì già, ma si partìo
Dal suo bel vel per nuov’arte d’Amore.
VI188
Coll’elmo in fronte, che temprò Vulcano,
Fuori dell’urna tutto il petto mise
Scotendo l’asta, ch’avea strette in mano,
L’Ombra guerriera del figliuol d’Anchise.
5E parlò: Fiume, a te Fiume Romano,
La ragion delle genti il Ciel commise,
Da che desti ricetto al pio Trojano:
E intanto alzossi la visiera, e rise.
Quindi Romolo mio fondò l’impero,
E fe’ la strada col favor dell’armi
Alla futura autorità di Piero.
Mancava solo a pien per consolarmi
Il poetico regno: Arcadi io spero,
Vederlo oggi fondar sui vostri carmi.
VII
Alfin forte Ragione, e forte Sdegno,
Dopo lungo lamento e lunga pena,
Per aspra via deserta e d’orror piena
M’han tratto fuor de l’amoroso Regno.
5Tal che m’appendo in voto il giogo indegno,
E i rotti avanzi de la mia catena;
Ed or ne porto al piede, al collo appena
La livid’orma de l’antico segno.
Passa quell’empia; i ferri appesi vede,
10L’appeso giogo riconosce, e ancora
La mia novella libertà non crede.
Ma crederalla la Superba allora
Che sivedrammi con sicuro piede
Passarle innanzi, e del suo Regno fuora.
VIII189
La tua speranza, il tuo soccorso è nato,
Bella saggia ed onesta alta Reina,
Nato sotto l’augurio e sotto il fato
Della temuta maestà Latina.
5Non agli agi, che merta il regio stato,
Avvezzar dei la sua virtù bambina;
Ma a quel rigor, con cui già fu educato
Scipio, che mise l’Africa in ruina.
Fra gli elmi e l’aste nello scudo avito
10Posi le membra, e chiuda le pupille
A breve sonno con guerriero invito.
Così d’onor s’accendono faville,
Così fu già da Tetide nudrito
Per destino dell’Asia il fero Achille.
SCIPIONE MAFFEI
I190
VEggio ben io, ch’oltra il mortal costume
Lungi dal volgo umìl l’ali spiegate,
E quanto più sovra di noi v’alzate,
Tanto acquistan vigor le vostre piume.
5Folle chi ’l volo alter seguir presume
Per vie prima non viste e non pensate:
Colà ne’ vostri rai voi vi celate,
Chè non regge uman guardo a tanto lume.
Se però tal virtù, ch’ogn’altra eccede,
10In preda agli anni esser non dee concessa,
Scriver v’è forza, e voi di voi far fede;
Che, rimanendo ogn’altra penna oppressa,
D’un bel nome immortal l’alta mercede
Non v’è dato sperar che da voi stessa.
II
Qual augellin, ch’uscir di guai si crede,
Talora in stanza adorna il volo sciolse,
E verso là tutto desìo si volse,
Onde il lucido giorno entrar si vede;
5Ma poco va, che trattenersi il piede
Sente dal filo, che il fanciul gli avvolse;
E cade al suol con l’ali larghe, e duolse,
Nè tenta più, nè più in sue piume ha fede.
Così d’erger mia mente, e dell’impaccio
10Uscir di quel pensier, ch’ognor mi preme,
Prov’io talor, ma poi ricado e giaccio;
Poichè d’intorno al cor, ch’indarno geme,
Sento stringersi allor l’usato laccio,
E in pena dell’ardir perdo la speme.
III
Queste mie rime, ov’io vostra beltate
Vò dipingendo sì, che in ogni parte,
Donna, se n’ode il suono, e queste carte,
Che favellan di voi, non isprezzate.
5Che quando al tempo, in cui tarda è pietate,
Verravvi in ira quel cristal, che in parte
Vi additerà vostre bellezze sparte
(Ahi quanto può sovra di noi l’etate!).
Allor queste leggendo, i vostri affanni,
10Come in speglio miglior, temprar potrete,
Ov’orma non sarà de’ vostri danni.
Quivi, qual foste già, non qual sarete,
Con diletto mirando, in onta agli anni,
Vostre belle sembianze ancor vedrete.
IV
Que' fieri lacci, onde il mio cuore avvolsi
Quando nella prigion sì lieto entrai,
Tanto con la Ragion feroce oprai,
Che per man dello sdegno alfin disciolsi.
5Ma appena indietro a rimirar mi volsi
Gl’infranti nodi ed i fuggiti guai,
Che a mio dispetto ancora io sospirai,
Ed or di sua vittoria il cor già duolsi.
Qual’infelice augel, che in gabbia adorna
10Trasse i lunghi suoi dì, s’avvien che n’esca,
All’antica prigion da se ritorna.
Tal’ io nel carcer, che sì dolce ha l’esca,
Ritornerò, s’altri non mi frastorna;
Così già par, che libertà m’incresca.
DEL CONTE LORENZO MAGALOTTI
I
Un picciol verme, entro di me già nato,
Tentar le vie del sangue ebbe ardimento,
E su quel corse a nuoto a suo talento
Delle viscere mie per ogni lato.
5Il gemino del cor lago infocato
Vide, e i due monti, u’ s’attesora il vento,
Ch’è vita; e al fin per cento seni e cento
Alle sfere del cerebro fu alzato.
E ricercato in van l’alto e ’l profondo
10Dell’alma in traccia delirar s’udìo:
Qui tutto è di materia inutil pondo.
Tal delirò quell’Empio in suo desìo,
Che cieco a brancolar si diè sul Mondo,
E disse nel suo cor: non evvi Dio.
II
Con un me fuor di me detesto, oh Dio,
Quel, che l’interno me con cieche brame
Pur vuole: e intanto la rabbiosa fame,
Sol mercè del timor pasce il desìo.
5Troppo basso timor, che in van ordìo
Spesso al senso ribelle il suo legame!
Troppo forte desìo, che a stretto esame
Forse è voler, cotanto in su salìo!
Questo basso timor, che in me non vale,
10Questo forte desìo, che tanto puote,
Questo me dentro me, che si prevale,
Svella, o Signor, colle pupille immote,
Di Fede armato il braccio inerme e frale,
Con armi al senso, e alla ragione ignote.
CARLO MARIA MAGGI.
I
Giace l’Italia abbandonata in questa
Sorda bonaccia, e intanto il Ciel s’oscura;
Eppur ella sì sta cheta e secura,
E per molto che tuoni, uom non si desta.
5Se pur taluno il palischermo appresta,
Pensa a se stesso, e del vicin non cura;
E tal sì lieto è dell’altrui sventura,
Che non vede in altrui la sua tempesta.
Ma che? quell’altre tavole minute,
10Rotta l’antenna, e poi smarrito il polo,
Vedrem tutte ad un soffio andar perdute.
Italia, Italia mia questo è il mio duolo:
Allor siam giunti a disperar salute
Quando pensa ciascun di campar solo.
II
Io grido, e griderò, finchè mi senta
L’Adria, il Tebro, il Tirren, l’Arno, ’l Tesino,
E chi primo udirà, scuota il Vicino,
Ch’è periglio comun quel, che si tenta.
5Non val, che Italia a’ piedi altrui si penta,
E obbliando il valor, pianga il destino;
Troppo innamora il bel terren Latino,
E in desìo di regnar pietate è spenta.
Invan con occhi molli, e guance smorte
10Chiede perdon; che il suo nimico audace
Non vuole il suo dolor, ma la sua morte.
Piaccia il soffrire a chi ’l pugnar non piace:
È stolto orgoglio in così debil sorte
Non voler guerra, e non soffrir la pace.
III
Poco mi resta, è ver, da solcar l’onda,
Che dovrìa farmi al navigar più franco,
E pur m’affligge il non saper pur anco
D’uscire in gola al mare, o in lieta sponda.
5Tempo più che mai fiero or mi circonda,
E benchè fra tempeste il crine ho bianco,
Già più saggio non son, ma son più stanco,
E senz’armi, e consiglio il legno affonda.
Fu il mio cammin sì mal guidato, e torto,
10Che senza miglior guida io temer deggio
Di finir nello scoglio, e non nel porto.
Ben del corso affannoso al fin mi veggio;
Ma non so per qual meta. Ahi qual conforto
Finire un mal con paventarne un peggio!
IV191
O Gran Lemene, or che Orator vi fe’
Meritamente l’inclita Città,
Io vi voglio insegnar come si fa
Ad esser Orator d’Ora pro me.
5Tener l’arbitrio in credito si dè
E in ozio non lasciar l’autorità:
Con chi vi può scoprir fare a metà,
E i furti intitolar col ben del Re.
Non provocar chi sa, soffrir chi può;
10Lo stomacato far dell’oggidì,
Santo nel poco, e ne’ bei colpi nò,
Su i libri faticar così così;
E saper dire a tempo a chi pregò
Il nò con grazia, e con profitto il sì.
V
Dal Pellegrin, che torna al suo soggiorno
E collo stanco piè posa ogni cura,
Ridir si fanno i fidi Amici intorno
Dell’aspre vie la più lontana, e dura.
5Del mio cor, ch’a se stesso or fa ritorno,
Così domando anch’io la ria ventura,
In cui fallaci il raggiraro un giorno
Nella men saggia età speme, e paura
In vece di risposta egli sospira;
10E stassi ripensando al suo periglio,
Qual chi campò dall’onda, e all’onda mira.
Pur col pensier del sostenuto esiglio,
Ristringo il freno all’appetito, e all’ira:
Che ’l prò de’ mali è migliorar consiglio.
VI
Mentre omai stanco in sul confine io siedo
Della dolente mia vita fugace;
Ogni umano pensier s’acqueta e tace,
Se non quando dal cor prende congedo.
5Il sol pensier d’Eurilla ancor non cedo
Al Mondo, che per altro a me non piace;
Anzi meco si sta con tanta pace,
Che pensiero del Mondo io più nol credo.
Amo lei come bella al suo Fattore;
10Nè sentendo per lei speme, o temenza,
Nell’amor mio non cape altro che amore.
E amo così, che non sarò mai senza
Il puro affetto; e vi s’adagia il core
Con l’alma securtà dell’Innocenza.
VII
Lungi vedete il torbido torrente,
Ch’urta i ripari, e le campagne inonda,
E delle stragi altrui gonfio e crescente,
Torce su i vostri campi i sassi e l’onda.
5E pur’altri di voi sta negligente
Su i disarmati lidi, altri seconda;
Sperando, che in passar l’onda nocente
Qualche sterpo s’accresca alla sua sponda.
Apprestatigli pur la spiaggia amica;
10Tosto Piena infedel fia che vi guasti
I nuovi acquisti, e poi la riva antica.
Or che oppor si dovrìan saldi contrasti,
Accusando si sta sorte mimica:
Par che nel mal comune il pianger basti.
VIII
Scioglie Eurilla dal lido. Io corro, e stolto
Grido all’onde, che fate? Una risponde:
Io, che la prima ho il suo bel nume accolto,
Grata di sì bel don bacio le sponde.
5Dimando all’altra: allor che ’l Pin fu sciolto
Mostrò le luci al dipartir gioconde?
E l’altre dice: Anzi serena il volto,
Fece tacere il vento, e rider l’onde.
Viene un’altra, e mi afferma: or la vid’io
10Empier di gelosìa le Ninfe algose,
Mentre sul mare i suoi begli occhi aprìo.
Dico a questa: e per me nulla t’impose?
Disse almen la crudel di dirmi Addio?
Passò l’onda villana, e non rispose.
IX
Un degli empi son io, che al destro lato
Il diritto cammin mai non seguiro;
Ma intorno al polo, a cui mi tien legato
Il costume, e il piacer, vò sempre in giro.
5E se l’amor, ch’io posi al laccio usato,
Mi torna in duolo, e libertà sospiro,
Nell’inutil dolor del fiero stato
Vivo con men inganno, e più martiro.
Stimola il tempo a procacciar soccorso:
10Sento lo spron, che in un voler sì lento
Trafigge il fianco, e non aita il corso;
Sì da letargo ogni vigore è spento,
Che assai più del fallire odio il rimorso,
E vorrei disperar per men tormento.
X
Oh quanti inganni in giovanil pensiero,
Quando la pronta speme, e il senno tardo
Ogni saggio timor stiman codardo,
Sotto del senso al mal usato impero!
5Io, che perciò smarrito ho già ’l sentiero,
Alle fallite vie rivolgo il guardo;
Scorgo vani gli onori, e Amor bugiardo,
E mi fermo a pensar, se ancor vi spero.
Sento che le speranze ancor le piume
10Della lor vanità piegar non sanno;
E cessato l’error, dura il costume.
Almen durasse il mio primiero inganno!
A chi è fuor di cammino un tardo lume
Accresce il duolo, e non corregge il danno.
XI
Punto d’Ape celata infra le rose
Nella man che vi stese incauto Amore,
Pianse alla Madre, e la perfidia espose,
Che si coprìa nella beltà dei fiore.
5Or le ferite intendi, ella rispose,
Che fai nell’alme altrui, dal tuo dolore;
Ben le pruove più crude, e insidiose
Di quelle del tuo dito il nostro cuore.
Pur la tua spina a noi tu non iscopri;
10E in paragon di questa Ape infedele,
Più crudeltade e con più frode adopri.
Ci pungi a morte promettendo mele,
E in rose di beltà tue punte copri;
Ma l’inganno più bello è il più crudele.
ANDREA MAIDALCHINI.
I
Quand’io credea, che in me gli ardori intensi
Fossero estinti, e ne gioiva il cuore,
Venne furtivo il pargoletto Amore,
E riaccese nel seno incendi immensi.
5E acciò saggia Ragion mai più non pensi
Ad ammorzare il ravvivato ardore,
L’empio in guardia vi pose il suo furore
In compagnìa de’ contumaci sensi:
E se Morte talor vuol darmi aita,
10Tosto porge il crudel breve ristoro,
Che dà vigore all’alma egra e smarrita.
Così scherza il fanciul col mio martoro,
Che sol per suo piacer mi serba in vita,
Sicch’io vivo morendo, e pur non moro.
II
Levami in alto un mio pensier veloce
L’origine a cercar del mio dolore,
E veder parmi il faretrato Amore
Sovra carro di fuoco andar feroce:
5E dietro lui seguir con volto atroce
Spavento, gelosia, odio, o furore,
E tra lor veggio me, che pien d’orrore
Spargo vane querele, inutil voce.
E scorgo al fin che di mie tante pene
10Cagione è solo il dolce ardor, ch’elice
Dagli occhi suoi la mia tiranna Irene.
Indi fiero destino odo, che dice:
Soffi misero pur le tue catene,
Che sperar libertade a te non lice.
III192
Forte Campion, ch’in sul bel fior degli anni
De’ due cammini al destro il piè volgeste,
E tai sproni di gloria al fianco aveste,
Che sprezzaste di morte acerba i danni.
5Voi ne giste a gioire, e noi d’affanni
Colmi lasciaste in cure aspre e moleste;
Pianse Roma il suo fato, e intanto feste
Con vostre Opre stancar di Fama i vanni.
Superbo è il Pò del vostro sangue tinto,
10Che per voi la sua Reggia aver non mira
Da germanico ferro il piede avvinto.
E in voi confuse Italia tutta ammira
Di sue speranze il più bel fiore estinto,
E sulla vostra tomba egra sospira.
IV
Erano i miei pensier rivolti altrove,
Allor che Dio vibrò di grazia un raggio,
Che chiamolli, e gustar fe’ lor un saggio
Dell’alto immenso ben, ch’egli a noi piove.
5E qual Ape, se in Ibia avvieni che trove
Più dolce umor, s’arresta in suo viaggio;
Tal l’intelletto mio reso più saggio
Tutto s’immerse in le delizie nuove.
Finch’ei per lor dal basso fango tolto
10Se vide in Cielo appo il divino Amore,
Ed io me tutto entro sue fiamme involto:
Sicch’or grido, Signore, o addoppia il cuore,
O a te mi chiama dal mio Fral disciolto,
O tempra in parte il tuo celeste ardore.
V
Un giorno all’ombra di due querce annose
Quel Dio, ch’in Gnido sua gran Reggia tiene,
Dormìa disteso in sulle molli arene,
E fier destino al guardo mio l’espose;
5Che nel volto di lui fra gigli, e rose
Comparve agli occhi miei l’ingrata Irene;
Ed il mio cuor, delle sofferte pene
Memore ancora, a sospirar si pose.
Tanto bastò per isvegliar l’Arciero,
10Che lieve ha sonno; e tutto sdegno il cuore
D’un stral mi punse: poi volando il fiero
Disse a me volto: Or nel tuo primo ardore
Torna a penar, ch’io vuo’, ch’al Mondo intero
Servi d’esempio a non destare Amore.
BIAGGIO MAIOLI.
Amor s’oltre misura arde il mio cuore,
Abbia la Cruda almen parte del foco,
Che sì m’accende, e spargo in ogni loco
I sospir, che dal seno io mando fuore.
5Nè pure al viver mio s’accorcian l’ore,
Ma come un tanto ardor sia scherzo e giuoco,
Quanto più per pietà la morte, invoco,
Ella più fugge, io provo il suo dolore,
Dunque forz’è, ch’io viva in tai tormenti,
10E chi n’è la cagion, quel cuore altero
Nulla ne sente; e tu, crudel, lo sai.
Lo sai, me lasso!, e barbaro il consenti.
Ah che non sei onnipotente Arciero,
Se per sì duro cuor dardi non hai.
EUSTACHIO MANFREDI.
I
Vegliar le notti, e or l’una, or l’altra sponda
Stancar del letto rivolgendo i lassi
Fianchi, e traendo sospir tronchi e bassi
Per la piaga, ch’io porto aspra e profonda;
5E il dì fuggir dove non erba o fronda
Ombri ’l terren, ma nude balze e sassi,
Mesto rigando il suolo, ovunque io passi,
Con larga vena, che per gli occhi inonda;
E ben scorgere omai, che Costei serba
10Suo antico stile, e dopo il decim’anno
Rivederla più bella, e più superba;
Vivere intanto, e d’uno in altro inganno
Passare, e d’una in altra pena acerba,
Questa legge m’impose il mio Tiranno.
II193
Dell’Universo al glorioso pondo
Volgi, deh volgi un guardo, o gran Clemente;
E vedi come lieto, e riverente
In Te sol miri, e da Te penda il Mondo.
5Ecco a’ tuoi piedi Italia, e il bel fecondo
Clima d’Europa, e il suol freddo, e l’ardente,
Ecco a’ tuoi piè qual più remota Gente
Da noi divide o Monte, o Mar profondo:
Ed ecco a’ piedi tuoi chinar l’ancella
10Fronte Regi, e monarchi; e ognun Te degno
Rege di loro, e Te Monarca appella.
D’Arcadia ancor (deh non aver a sdegno
Sì poca gloria, che tua gloria è anch’Ella)
D’Arcadia ecco a’ tuoi piè l’agreste Regno.
III194
Or, che la rende al gran culto primiero
Tua benefica destra, o gran Clemente,
Sembra, che umìl s’inchini, e riverente
L’alta Mole contempli il Tebro altero,
5Ei, che solea già minaccioso e fero
Stragi portando alla Romulea gente,
Ir sulle sponde ad atterrar sovente
Le tombe e i templi del Romano Impero;
Or lieto esulta a queste Rive intorno,
10Memore ben dell’immortal Pastore,
Che a Maria questo eresse almo soggiorno;
E te veggendo ancor, che non minore
Di lui, qua riedi in così lieto giorno
Nuovo al bel Tempio suo crescendo onore.
IV
Il primo albor non appariva ancora,
Ed io stava con Fille al piè d’un orno,
Or’ ascoltando i dolci accenti, ed ora
Chiedendo al Ciel per vagheggiarla il giorno.
5Vedrai, mia Fille, io le dicea, l’Aurora
Come bella a noi fa dal mar ritorno,
E come al suo apparir turba e scolora
Le tante Stelle, ond’è l’Olimpo adorno.
E vedrai poscia, il Sole, incontro a cui
10Sparian da lui vinte e questa e quelle:
Tanta è la luce de’ bei raggi sui.
Ma non vedrai quel che io vedrò, le belle
Tue pupille scoprirsi e far di lui
Que, ch’ei fa dell’Aurora e delle Stelle.
V
Dov’è quella famosa alta e superba
Mole, che surse un tempo in sul confine
Di Caria, e fu dell’Asia alle Reine
Lungo argomento di memoria acerba?
5Ohimè, che sparsa a terra giacque, ed erba
Steril la copre! Ohimè che bronchi e spine
Serpon su quell’antiche ampie rovine,
Se pur di lor vestigio anco si serba!
Oh tempo edace! E come mal s’adopra
10Chi Reggia innalza, chi la pioggia e il vento
Percuota, e poca arena al fin ricopra!
E come meglio in Cielo il fondamento
Gittar si può di memorabil opra,
Ch’eterna fia dopo cent’anni e cento!
VI195
Qual feroce leon, che assalit’abbia
Pastor malcauto, e il preme e’n fuga il caccia:
Quei d’elce o quercia all’alte annose braccia
Ricovra, e schiva del crudel la rabbia,
5Il qual gli è intorno e con spumanti labbia
Ruggendo il mira e pur quel tronco abbraccia
Coll’unghie adunche, e il crolla, e pur procaccia
Salirvi, e sparge in van col piè la sabbia
Così Costei, che del leon d’Inferno
10Fuggì gli artigli, ed ha ricovro amico
Su i santi rami del gran tronco eterno:
L’ira non teme più del fier nemico,
E lo vedrem pien d’aspro duolo interno
Tornar ruggendo a quel suo centro antico.
VII196
Vidi l’Italia col crin sparso incolto
Colà, dove la Dora in Pò declina,
Che sedea mesta, e avea negli occhi accolto
Quasi un orror di servitù vicina.
5Nè l’altera piangea; serbava un volto
Di dolente bensì, ma di Reina:
Tal forse apparve allor, che ’l piè disciolto
A’ ceppi offrì la Libertà latina.
Poi sorger lieta in un balen la vidi,
10E fiera ricomporsi al fasto usato,
E quinci e quindi minacciar più lidi.
E s’udìa l’Appenin per ogni lato
Suonar d’applausi e di festosi gridi:
Italia, Italia, il tuo soccorso è nato.
VIII197
Ahimè, ch’io sento il suon delle catene,
E fischiar odo la tempesta atroce
De’ feri colpi, e la sanguigna Croce
Alzarsi, ove Gesù languisce e sviene!
5Ahimè, che il cor mi manca, e non sostiene
Così nuovo spettacolo feroce!
O frena il suon di sì pietosa voce,
Od ella alquanto di sue forze affrene.
Ma qual dolcezza a poco a poco io sento
10Nascermi in petto, ch’ogni duol discaccia,
E di pace mi colma e di contento!
Duro mio cor, perchè pregar, ch’ei taccia?
Se col duolo ti guida al pentimento,
Parli, finchè ti rompa e ti disfaccia.
IX198
Se la donna infedel, che il folle vanto
Si diè d’avere ugual con Dio la sorte,
E morse il pomo lagrimevol tanto,
Misera! e diello al credulo consorte,
5Chiuse avesse l’orecchie al dolce incanto
Del serpe, e al suon delle parole accorte:
Staria ancor chiuso entro gli abissi il pianto,
E sarìan nomi ignoti e colpa e morte.
Ma se al fin non traea l’opra rubella,
10Vergine eccelsa, ah! l’onor tuo sarebbe
Diviso e pari con quest’alma e quella.
E intatta sì, ma non distinta andrebbe
La tua fra mille. Oh fortunata e bella
Colpa, che a sì gran Donna un pregio accrebbe!
X199
Voi pure orridi monti, e voi petrose
Alpestri balze il duro fianco apriste,
E pei riposti seni e per le ascose
Vostre spelonche in suon rauco muggiste;
5E già presso al cader le minacciose
Gran fronti vostre vacillar fu viste:
E foran oggi le create cose
Tutte, qual pria, tra lor confuse e miste:
Se non che quinci densa notte oscura
10Veder vi tolse il sacro corpo, ed entro
Un mesto vel la luce aurea coprissi;
E quindi intanto luminosa e pura
La grande alma miraste in sin nel centro
Gir trionfando, e rallegrar gli Abissi.
XI
Poichè di morte in preda avrem lasciate
Madonna ed io nostre caduche spoglie,
E il vel deposto, che veder ci toglie
L’Alme nell’esser lor nude, e svelate:
5Tutta scoprend’io sua crudeltate,
Ella tutto l’ardor, che in me s’accoglie,
Prender dovrianci alfin contrarie voglie;
Me tardo sdegno, e lei tarda pietate.
Se non ch’io forse nell’eterno pianto,
10Pena al mio ardir, scender dovendo, ed ella
Tornar sul Cielo agl’altri Angioli accanto:
Vista laggiù fra Rei questa rubella
Alma, abborrir vieppiù dovrammi; io tanto
Struggermi più quanto allor fia più bella.
XII200
L’Augusto Ponte,201 a cui fremendo il piede
Percote il Reno, e il gran giogo disdegna,
Quel che a tua stirpe custodir già diede
Felsina, e il giunse all’onorata insegna;
5Quello, Signor, mentr’oggi ella ti cede
Le chiavi e il freno, al tuo valor consegna,
E a lui spera difesa, e per lui chiede
Opra da te del sangue tuo sol degna:
Ch’or gliel par di veder d’aste guerriere
10Ondeggiar tutto e di non suoi stendardi,
Fatto varco crudel d’estranie schiere.
Nè quello par su cui con torvi sguardi
Tornar vide il Re preso, e le bandiere202
Trar per la polve incatenati i Sardi.
XIII203
Vergini, che pensose a lenti passi
Da grande ufficio e pio tornar mostrate,
Dipinta avendo in volto la pietate,
E più negli occhi lagrimosi e bassi:
5Dov’è colei, che fra tutt’altre stassi,
Quasi sol di bellezza e d’onestate,
Al cui chiaro splendor l’alme bennate
Tutte scopron le vie, donde al Ciel vassi?
Rispondon quelle: Ah non sperar più mai
10Fra noi vederla, oggi il bel lume è spento
Al mondo, che per lei fu lieto assai:
Sulla soglia d’un Chiostro ogni ornamento
Sparso, e gli ostri e le gemme al suol vedria,
E il bel crin d’oro se ne porta il vento.
XIV204
Talor vò col pensier, dove uom mortale
Raro è, che senza orgoglio unqua sen gisse;
E grave dubbio nel pensar m’assale,
Come sien le sue sorti a ciascun fisse.
5Ah, fra me dico, se con man fatale
Dio la mia morte, o il viver mio prescrisse,
Peccar che nuoce! o ben oprar che vale?
Chi dal libro trarrammi, ov’ei mi scrisse?
Ma tu che in mano hai di ragione il freno,
10Saggio Orator, con dolce stile e forte
Sì mi rapigli, e mi convinci appieno:
Folle non pensi tu, che se tua sorte
In man di chi la regge è incerta almeno,
Certa sarebbe in tuo poter la morte?
XV205
L’Eterna voce, al cui suono risponde
Il mar la terra il cielo, e che sovente
Rimbomba ancor tra la perduta gente
Nelle valli d’Inferno ime e profonde,
5Certò è quella, o Mancin, che in queste sponde
Alto suonar sul labbro tuo si sente,
Nostra rara ventura, e chiaramente
A noi rivela ciò che ad altri asconde.
Venite, o genti, ad ascoltar sul Reno
10Come or lusinghi, ed or tuoni d’un Dio
La voce, e or stringa e or lenti all’alme il freno,
Ma se alcun d’ascoltarla oggi è restìo,
Più non udralla, o l’udrà tardi almeno,
Nella gran valle dell’eterno Addio.
XVI206
Poichè scese quaggiù l’anima bella,
Che nel sen di Costei posar dovea,
Incerta errando in questa parte e in quella,
Niuna degna di lei salma scorgea:
5Qual basso luogo è questo, e chi m’appella
Quaggiù dal Ciel? sdegnando ella dicea:
E già per ritornar di stella in stella
Era all’alta, onde scese, eterna idea;
Pur, seguendo de’ fati il gran disegno,
10Entrò nel vago destinato velo,
Vago bensì, ma pur di lei non degno;
E già lo sprezza, e già colma di zelo
Cerca dentro il fral breve ritegno
Tutte le vie di ricondursi al Cielo.
XVII207
O fiume, o dell’erbose alme feconde
Piaggie depredator, che svelli e ruoti
Gran tronchi e sassi, e quinci urti e percuoti
Tuguri e case, e non hai letto o sponde:
5Non toccar questo colle, e cerca altronde
Riva, a cui ’l corno minaccioso arruoti:
Quì s’adora Filippo, ed inni e voti
Dansi, a lui che dal Ciel n’ode, e risponde.
Sai pur, che a un cenno suo l’onde frementi
10Taccion del Mare, e con dimesse piume
Tornansi agli antri lor tempeste e venti:
Or di te che sarà, se un tanto Nume
Sprezzi, e i dolci suoi campi abbatter tenti,
Povero scarso orgogliosetto Fiume?
XVIII208
Ben ha di doppio acciar tempre possenti
Intorno al petto e adamantina pietra
S’alcun v’ha cui nol frange e non lo spetra,
Dolera, il suon de’ tuoi divini accenti:
5Che, quasi in forte man stimoli ardenti,
Han empito e vigor, che i cuor penetra:
Sì che calcitra in vano, e in van s’arretra,
Forz’è che il Reo li senta e si sgomenti;
O fugga almen dove il tuo dir nol giunge,
10Ma seco porti nel fuggir l’acerba
Memoria impressa, ch’altamente il punge;
Siccome belva, che nel fianco serba
L’asta mortal, nè, per fuggir più lunge,
Va men l’arena insanguinando l’erba.
XIX209
Perchè t’affiliggi e ti disciogli in pianto,
Infelice città, dimmi, o per cui?
Perduta ho la real donna, che tanto
A me fu cara, a cui sì cara io fui,
5Nè questo almeno ti conforta alquanto,
Ch’ella è su ’n Cielo, e vede i pianti tui?
Dunque s’allegri il Cielo; io nò, che intanto
Fa colle spoglie mie più bello altrui.
Pur ella ancor non ti lasciò: deh mira,
10Come intorno di te, che a cuor le sei,
E per tua pace e per tuo ben s’aggira.
Questo è ben ciò che duolmi: io non saprei
Goder del ben, ch’ella per me sospira,
Nè trovar la mia pace altro che in lei.
XX210
Le Ninfe, che pei colli e le foreste
Del picciol Ren han loro stanza, il giorno
Che Costei le lasciò, le furo intorno
Tutte nel viso lagrimose e meste,
5Ohimè, che fan queste aspre lane, e queste
Funi, dicean, che annodi al fianco attorno?
E quai ruvide bende al collo adorno
T’hai cinte, e quai ghirlande al crin conteste?
Ella con fermo viso, e con sembiante
10Cui d’altro cal, pur le consola, e affretta
Pur alla fuga le veloci piante.
Tal che gridar: certo a gran prove eletta
Fu questa; e grande amore, e grande amante
È quel che siegue, e gran mercè n’aspetta.
XXI211
Dalla vegliata inesorabil notte
Io non poteva anche impetrar riposo
Quando, all’entrar delle cimmerie grotte,
Sopimmi al fin tra pianti miei pensoso.
5Ed ecco a me le lagrime interrotte
Scorgo da un mattutin sogno amoroso:
M’appar candida luce, onde van rotte
L’ombre ivi intorno, e in essa il Figlio ascoso.
E sì mi parla: o Genitor che pensi?
10Non pianger me, piangi la male amica
Voglia, che troppo ancor ti lega ai sensi.
Sciogli l’alma dal visco in cui s’implica:
Senza liberi vanni al Ciel non viensi:
Riverenza non vuol, ch’io più ti dica.
FERDINANDO MANOTTI.
I212
Volea ’l Divino eterno Agricoltore
Piantare un Orto, ma con altra idea
Da quella, ove il gran varco aperto avea
La colpa d’Eva all’angue ingannatore:
5Quando vide da lungi il traditore,
Che fiori, e fonti di venen spargea,
E ’l tossico crudele ognor bevea
L’uom, che cadèo dall’immortale onore.
Pietà lo punse, e in faccia al suo nemico
10Fondò per l’Uomo in cima a un alto monte
Con la sorgente un più bell’Orto aprico.
Poi di sua man così vi scrisse in fronte;
Per eterno dolor dell’angue antico
È chiuso l’Orto, e sigillato il Fonte.
II213
Eccelso Duce, al cui temuto acciaro
Cadde vinto il Dragone a Dio rubello,
E al primo lampo suo sì scoloraro
Le rie Comete, e ’l Ciel si fè più bello,
5Tu godi la tua pace, e al nostro amaro
Lutto non badi, ahi del celeste Agnello
L’orto sì sfiora omai senza riparo!
Miracolo ben, dirai; non è più quello.
Cinto il Drago di stragi, e di spavento;
10Or quì trionfa, e sazia del Cristiano
Sangue l’ingorda voglia a suo talento.
Perch’il nostrò desir non speri invano,
Zelo ti punga, s’armi al gran cimento
Contro l’istesso ardir la stessa mano.
DOTTOR FRANCESCO MARCHETTI.
I
Tremendo Re, che nè passati tempi
Dell’infinito tuo poter mostrasti
Sì chiari segni, e tante volte agli Empi
L’alte corna ad un sol cenno fiaccasti;
5Di quel popol fedel che tanto amasti,
Mira, pietoso Dio, mira gli scempi,
Mira dell’Austria i fier’incendi e vasti,
Arsi i palagi, e desolati i tempi.
Mira il Tracio furor, ch’intorno cinge
10La real Donna del Danubio, e tenta
Con mille e mille piaghe aprirle il fianco.
Tremendo Re, che più s’indugia, ed anco
Neghittosa è tua destra? Or che non stringe
Fulmini di vendetta, e non gli avventa?
II
Italia, Italia, ah non più Italia! Appena
Sei tu d’Italia un simulacro, un’ombra:
Regal Donna ella fu di gloria piena,
Te vil servaggio omai preme ed ingombra.
5Cinte le braccia e i piè d’aspra catena,
Già d’atre nebbie e fosche nubi ingombra
L’aria appar del tuo volto alma e serena,
E i tuoi begli occhi orror di morte adombra.
Italia, ltalia, ah non più Italia! Oh quanto
10Di te m’incresce! E quindi avvien, ch’io volgo
le mie già liete rime in flebil canto.
Ma quello, ond’io più mi querelo e dolgo,
È che de’ figli tuoi crudeli intanto
Vede il tuo male e ne gioisce il volgo.
III
Del Nulla trar dagl’infiniti abissi
Della Terra e del Ciel quest’ampia mole
Opra tua fu, mio Dio: la Luna, e ’l Sole
Tu in pria creasti e gli astri erranti, e i fissi.
5Tu, perchè ingrata i termini prefissi
Varcò del tuo voler l’umana prole,
Per lei, qual agno immacolato suole,
Moristi a duro tronco i membri affissi.
E fur ben questi dell’immenso amore,
10Dell’immenso poter ch’in te risiede,
Prodigiosi effetti, alto Motore.
Ma che tu, come insegna a Noi la Fede,
Ne dii te stesso in cibo, ogni stupore
Del tuo gran, ogni portento eccede.
IV
Specchio vid’io di bel cristallo eletto
Raccorre e unir di Febo i rai lucenti,
E vibrarsi sì fervidi e cocenti
Contra qual sia più duro opposto obbietto
5Ch’ogn’ interno rigor, che il tenga strette
Si discioglie in brevissimi momenti,
Onde a soffrirle forza lor possenti
Riesce il gel fin del diamante inetto.
Simili a specchio tal son le pupille
10Vostre, o Madonna; indi d'amore il foco
Ver noi si vibra accolto in giro angusto:
Quinci di cuor non v’ha tanto robusto
Gel, ch’a sì fiero incendio o molto o poco
Resista, e non sì stempri, arda, e sfaville.
PIER JACOPO MARTELLI.
I214
Io vedea ne’ tuoi bruni occhi cervieri
Due di questo mio volto imaginette:
Scorgeane un’altra in tue sembienze elette,
E in quel viso a me piacqui, ed in quei neri.
5Ma ilumi, u’ mi specchiai sì volentieri,
Oggi, ahi!, morte ferì di sue saette;
Svenner le guance, e ’n lor le due pozzette,
Nè queste, o Figlio, è il bel proffil di jeri.
Anzi di me la miglior parte or langue;
10Che il più teco ne venne, ed io qui resto
Poco meo che nud’ombra, e corpo esangue,
Se dunque rechi entro l’avel funesto
L’amor del padre e le fattezze e ’l sangue,
Deh, Figlio, omai che non ti porti il testo?
II
Ma verrà pur quel dì de’ giorni fine,
In cui sveglin le trombe il figlio mio,
E ’l rivedrò, non qual mi disse addìo,
Coll’egre luci a chiudersi vicine;
5Ma cresciuto e felice oltre il confine
Di sei lustri, ove d’uno appena uscio,
Alzar gli occhi e la testa al Ciel natìo,
E stender lungo e ventilante il crine.
Lui della faccia alle pozzette, al riso
10Conoscerò; nè, perchè sia più bello,
Perdute avrà sue somiglianze il viso.
Figlio, ha tutti vedianci in un drappello:
Tu fra la madre e due germane affiso,
Ed io fra l’uno e l’altro tuo fratello.
III
Odo una voce tenera d’argento,
Donde uscita non sò, chiamarmi a nome
Chi sei? non veggio altro, che l’onda, e il vento
Del circostante allor scuoter le chiome.
5E pur me, nuovamente avvien, che nome
Il vicino invincibile concento,
Onde in petto destarmi, e non so come,
Amore insieme e maraviglia io sento.
Ah sei tu, che a me riedi, o piccol Figlio
10Io non scerneva il candido tuo aspetto
Da quello, ove ti stai, cespo di giglio.
Te rende forse il buon paterno affetto
A mie sorti compagno in questo esiglio?
Nò, Padre: io te nella mia Patria aspetto.
IV
Questa è la porta, ov’io sovente entrando
Venir vidimi incontro il tuo bel viso;
Nè qui le cure io diponea, che quando
Giungeami il tuo saluto, il tuo sorriso:
5Deh, se ancor m’ami ove si vive amando,
E più s’ama suo sangue in Paradiso,
Figlio, da’ Vivi o tu m’impetra il bando,
O riedi il Padre a consolar col riso.
Tu dal porto, onde miri il mio periglio,
10E co’ voti, e co’ baci, in cui puoi tanto,
Piega a mio scampo il nuovo Padre, o Figlio;
Nè chieder fine al pianger mio, ma pianto,
Che le colpe del cor terga col ciglio:
Chiedi un dolor, che mi ti porti accanto.
V215
Pender vegg’io cinta di rai Donzella
Su i nostri carmi; e chi sarà costei?
Quella sarà che tutta a Dio fu bella,
Poichè non fu sì bella altra che Lei.
5Io la conosco al piè sull’Angue, a quella
D’auree stelle corona in su i capei;
Già il cor mi vede in sulle labbra, ond’Ella
Accoglie alta e serena i voti miei.
Nè vita imploro al morto Figlio, o quante
10Ricchezze a noi l’uno, e l’altr’Indo invìa,
Nè che al pari d’Omero eterno io cante.
Chieggo che qual fu il primo a Te Maria
(Se tanto lice) immacolato istante
De’ miei penosi dì l’ultimo sia.
VI
Vedesti mai nero sparvier che grifi
Di pugno a l’altro un colombin di covo,
Che mentre i due volgonsi incontro i grifi
Pietà, grida, di strazio a lui sì nuovo?
5Misero, e mentre vien, che da l’un schifi
Morte, ne l’altro incontrala di nuovo;
Nè i solleciti fati ancor son schifi
D’una vita, ch’appena uscì da l’uovo.
Meglio era al poverel spirar nell’ugna
10Del primier, che crudel gli diè di piglio,
Senza che strage a strage in lui s’aggiugna.
E meglio era pur anche al mio bel Figlio;
Cui de’ Fisici rei straziò la pugna,
Qual colombo morir un solo artiglio.
VII
Dove, dove, o pensier? T’intendo, il mio
Osmin tu cerchi, e ritrovar nol sai;
Susurra il bosco, io gli fui ombra: ed io
Specchio, mormoro il rivo, a’ suoi be’ rai.
5Ma deh qual bosco, oh folle te!, qual rio
Fan che in traccia ramingo ancor ne vai?
Qual del buon Figlio, e di te stesso obblìo
Vuol, che altronde lo chiami, or che in te l’hai?
Tacqui: e in se stesso il mio pensier raccolto
10Spia l’interno dell’Alma, e allor si vede
Tutto ripien di quell’amabil volto.
Tal Fanciul, che smarrita aver si crede
Treccia di fior, cerca ricerca: ah stolto!
Chè d’averla sul capo alfin s’avvede.
CARLO MARTELLO
I
Uom, che d’Uom solo avea gl’accenti e ’l viso,
Mosse al flauto le dita adunche, ed adre;
Musico ingrato in paragon del padre,
D’un Pino all’ombra, e fra le Ninfe assiso.
5Ma belò da que’ labbri il suon diviso,
Qual Capro appunto, a cui fuggìo la Madre;
Quinci le Ninfe il deridean leggiadre,
E applauso il folle a se credea quel riso.
Sì, preso in lode il dileggiar di quelle,
10Ardì Febo sfidar, stordendo infino
A far tutte fuggir le Pastorelle.
Nè lasciò il flauto, sinchè appesa al Pino
Il biondo Dio non ne lasciò la pelle.
Marzia, guardami il Ciel dal tuo destino.
II
Cadde Agnelletto ad Armellin simìle
Già del tenero Osmin delizia, e cura,
Che qual servo Signor, seguialo umìle
Ai cari fonti, alla fedel pastura,
5Soleagli già quasi bel crin sottile,
Dispor la lama inanellata e pura;
E sù la fronte allo spuntar d’Aprile
Ordinar fiori, ed intrecciar verdura.
Ed or tutto pietà nel dargli aita,
10Su lui baci iterando, e baci e baci,
Credea così di ritenerlo in vita.
Quasi a i vitali spiriti fugaci
Basti il baciar, per impedir l’uscita:
Cara semplicità quanto mi piaci!
III216
Greco Cantor, qualora io fisso aperte
Sovra de’ carmi tuoi le mie pupille,
Se o l’ira canti dell’invitto Achille,
O i lunghi error dei figli di Laerte,
5Monti, Fiumi, Città, Foreste e Ville
Veder parmi da rupi esposte ed erte,
E quà colte campagne, e là deserte
L’occhio invaghir di mille oggetti e mille:
Perchè costumi, e nazioni e riti
10Scuopri, e opache spelonche, e piagge apriche
E valli e mari, e promontori e liti;
Così, che par (tanto hai le Muse amiche)
Che non tu lei, ma te Natura imiti
Primo Pittor delle memorie antiche.
IV
Tacciasi Menfi i barbari portenti
Di piramidi erette a’ suoi Monarchi,
Nè Babilonia affaticata ostenti
Quegli orti suoi ch’ella sostien su gli archi.
5Nè a noi, commosso da straniere Genti,
Del gran Tempio di Trivia il romor varchi;
Ove gli altar di vittime frequenti
Rendon corna recise adorni e carchi;
Nè quel, che lungi addita eccelso ed atro,
10Quasi a mezz’aria, Mausoleo funesto
Stupido il Villanel dal curvo aratro.
Ogn’opra ceda, ogni fatica a questo,
Che al Ciel ne va, Cesareo Anfiteatro:
Di lui parli la fama, e taccia il resto.
DELL’ABB. BENEDETTO MENZINI.
I
Sento in quel fondo gracidar la rana,
Indizio certo di futura piova:
Canta il corvo importuno, si riprova
La foliga a tufarsi a la fontana.
5La vaccarella in quella falda piana
Gode di respirar dell’aria nuova;
Le nari allarga in alto, e sì le giova
Aspettar l’acqua; che non par lontana.
Veggio le lievi paglie andar volando,
10E veggio come obbliquo il turbo spira,
E va la polve qual palèo rotando.
Leva le reti, o Restagnon; ritira
Il gregge a gli stallaggi; or sai che quando
Manda suoi segni il Ciel, vicina è l’ira.
II
Quel Capro maledetto ha preso in uso
Gir tra le viti, e sempre in lor s’impaccia;
Deh, per farlo scordar di simil traccia
Dagli d’un sasso tra le corna e ’l muso.
5Se Bacco il guata, ei scenderà ben giuso
Da quel suo carro, a cui le Tigri allaccia:
Più feroce lo sdegno oltre si caccia,
Quand’è con quel suo vin misto, e confuso.
Fa discacciarlo, Elpin; fa che non stenda
10Maligno il dente, e più non roda in vetta
L’uve nascenti, e il loro Nume offenda.
Di lui so ben, che un dì l’altar l’aspetta:
Ma Bacco è da temer, chè ancor non prenda
Del Capro insieme e del Pastor vendetta.
III
Dianzi io piantai un ramuscel d’Alloro,
E insiemeio porsi al Ciel preghiera umìle,
Che sì crescesse l’arbore gentile,
Che poi fosse ai Cantor fregio e decoro,
5E Zeffiro pregai, che l’ali d’oro
Stendesse su i bei rami a mezzo Aprile;
E che Borea crudel stretto in servile
Catena, imperio non avesse in loro.
Io so, che questa pianta a Febo amica
10Tardi, ah ben tardi, ella s’innalza al segno
D’ogni altra, che qui stassi in piaggia aprica.
Ma il suo lungo tardar non prendo a sdegno,
Però che tardi ancora, e a gran fatica
Sorge tra noi chi di corona è degno.
IV
Per più d’un angue al fero teschio attorto
Veggio, ch’atro veleno intorno spiri,
Mostro crudel, che il livid’occhio e torto
Sullo splendor dell’altrui gloria giri.
5Il perverso tuo cor prende conforto,
Qualor più afflitta la virtù rimiri;
Ma se poi della pace afferra il porto,
Ti s’apre un mar di duolo e di sospiri.
Deh se giammai nell’immortal soggiorno
10Le mie preghiere il Ciel cortese udille;
Oda pur queste, a cui sovente io torno.
Coronata di lucide faville
Splenda Virtute: abbia letizia intorno,
Abbia la gloria; e tu mill’occhi e mille.
V217
Due nate al dilettar chiare Sorelle
Per diverso sentier passano all’alma:
L’una vuol per l’udito aver la palma,
L’altra offre al guardo inclite forme e belle.
5Ambo mostran dipinto e Cielo e stelle,
E selve e fere, ed or tempesta, or calma,
E nave; che si frange, o si rimpalma;
E Nochier pronti ad affrontar procelle.
L’una i colori, e l’altra i carmi adopra,
10Ed è l’effetto a seguitar non tardo
Dove il saggio pensier l’inviti all’opra.
Ma la Pittura esclama: ogni gagliardo
Carme non fia, che resti a me di sopra;
Se dell’udito è più efficace il guardo.
VI218
Disse un dì la Pittura: Alzarsi a tanto
Possono i color miei, l’industria e l’arte,
Che ciò, ch’è finto in Apollinee carte,
Non che agguagliar, di superarmi vanto.
5Riprese allora Poesia: Di quanto
Il Tutto sovrastarsuole alla parte,
Tanto tu dei di minor pregio farte,
Benchè nel trono tu mi seggia accanto.
Mite ed altier fammi in un tempo Achille;
10Paride in armi, e neghittoso, e scaltro;
E Troia in danze, e orribil preda al fuoco.
È ver, che mostri mille oggetti e mille;
Ma tu muti per lor figura e loco,
E per dar vita all’un, distruggi l’altro.
VII
Mentr’io dormìa sotto quell’elce ombrosa
Parvemi, disse Alcon, per l’onde chiare
Gir navigando d’onde il Sole appare
Fin dove stanco in grembo al mar si posa,
5E a me, soggiunse Elpin, nella fumosa
Fucina di Vulcan parve d’entrare;
E prender’armi d’artificio rare,
Grand’elmo, e spada ardente, e fulminosa.
Sorrise Uranio, che per entro vede
10Gli altrui pensier col senno, e in questi accenti
Proruppe, ed acquistò credenza e fede:
Siate, o Pastori, a quella cura intenti,
Che ’l giusto Ciel dispensator vi diede,
E sognereste sol greggi ed armenti.
VIII
Per mille lustri viveranno, e mille
Quei, che cantaro il fiero eccidio Ileo,
E quei, che celebrar sul plettro Acheo
I Regi d’Argo, e l’adirato Achille.
5Sinchè si udrà, che in cenere, e in faville
D’Assaraco la Reggia al fin cadeo,
Anch’essi in faccia al Tempo edace, e reo
D’illustre gloria vibreran scintille.
Ed io qual mai sui crin’incolti, ed irti
10Avrò ghirlanda? Io, che d’umìl concento
Pago mi sto tra gli amorosi Mirti.
Già di più forti piume armar non sento
Il debil tergo. Oh gloriosi Spirti,
Adoro il vostro nobile ardimento.
IX219
Or di sdegno m’accendo, ed or m’imbianca
Timor la guancia, e ’l sangue al cuor si stagna;
Ora ringrazia Amore, ed or si lagna
Della sua crudeltà la lingua stanca.
5Or grido, che la vita ognor mi manca
Per quest’aspra d’Amor dubbia Campagna;
Or se gli sproni nel mio fianco bagna,
Il mio corso s’avviva, e si rinfranca.
Ed il seguir quest’amorosa traccia
10Talor parmi virtù, talvolta errore,
Che gloria, e biasmo or toglie, ed or procaccia.
Or ride, or piange; or torna in vita, or muore;
Or pace, or nimistà par che gli piaccia.
Chi vuol Proteo più ver miri ’l mio cuore.
X220
Al ladro, al ladro. Palemone, Oronte,
Olà gridate al ladro: in quella fratta
Ve’ come si rannicchia, e giù s’appiatta;
Oh oh, già sbuca, e sì rifugge al monte
5Cromi, veloce il piè volgi da fronte;
Arriva, arriva. Oh quanta strada ha fatta!
Oh Cieli, oh Dei! Per così lunga tratta
Chi fia, che più ’l raggiunga, e che ’l raffronte?
Così diceva Ergasto; e Cacco intanto
10Si rise del Pastor, ch’era già fioco
Per quell’inutil suo gridar cotanto.
Anzi giurò che a quel medesimo loco
Più volte tornerebbe; e si diè vanto,
D’aver la frode, ed il rubar per giuoco.
XI221
A quel Toro colà sparso, e distinto
Di negre, e rosse macchie i fianchi, e ’l petto,
Forse gli hanno i Pastor, per lor diletto,
Quel fascetto di fieno al corno cinto.
5Io voglio ir là, dalla pietà sospinto,
Di non vedergli far sì reo dispetto;
Ed or che fuor di mandra erra soletto
Vo’ torgli quell’impaccio, ond’egli è avvinto.
Ah! pazzarello, non farai ritorno
10Senza che l’andar là molto ti costi:
Stolto chi scherza al suo periglio intorno.
Sì fatti segni indarno non son posti;
E quel Toro, che porta il fieno al corno,
Vuol che tu fugga, e non che tu t’accosti.
XII222
Tomba del gran Sincero! Almi Pastori
Volgete a questa riverente il piede:
Raro si scorse, e raro oggi si vede
Chi splenda altier di sì sublimi onori.
5Scolti nel Marmo i mirti e i sacri Allori,
Della Cetra Febea diconlo erede:
E loro in mezzo, come Dea, risiede
Partenope, che sparge e frondi e fiori.
Mirate dall’un fianco in sull’arene
10Le reti, e lunge una barchetta appare:
Stan dall’altro sampogne, e argute avene.
Ninfe de’ boschi, e voi dell’onde chiare,
Qual mai vide Pastor Roma, od Atene,
Ch’empia del nome suo la Terra e ’l Mare?
XIII223
Mi dice un Pastorel, che d’India viene,
Che per quei Monti, dove nasce l’oro,
Erba, nè pianta non si vede in loro,
Ma sol deserte ed infeconde arene.
5Forse Natura un tale stil ritiene
In ogni suo più nobile lavoro:
Ecco spargon di nevi e Noto, e Coro
Queste, ch’erano in pria piagge sì amene.
Tolta alla Terra è la sua verde spoglia:
10E gli alberi non cuopre onor di fronde,
Quasi lor premda amara intensa doglia.
Ma se sotto le nevi al suol s’infonde
Virtute, e il gran fa cesto, e più germoglia,
Non vedi qual tesoro in lor s’asconde?
XIV224
Or vedi come il ferro acuto strinse
Colei, che ’l Mondo e forte e casta appella:
Misera! Oh quanto fu profonda e fella
La piaga, che Lucrezia a morte spinse!
5Mira poi l’altra, che a morir s’accinse
Di rio veleno, a sè crudele anch’ella:
Oh come s’ecclissò l’Egizia stella,
E come di pallor fosco si tinse!
Ben potea torsi all’una il ferro ignudo,
10Celarsi all’altra il tosco, e dell’arena
Libica ogn’angue dispietato e crudo.
Deh perchè odia la via alma e serena?
A un cuor pudico l’Innocenza è scudo,
E all’alma impura il fallir proprio è pena.
XV225
Dopo che ’l gran Sincero ornato il crine
Di doppio lauro a questo Faggio appese
La canora sampogna; invan pretese
Altri agguagliar, le Note sue divine.
5Nè le Ninfe montane e le marine,
Sin dove umido il piè Nereo distese,
Nè Cume, e Baie, e non Miseno intese
Voci di par sonanti, e pellegrine.
Già per Titiro andò fastoso, e lieto
10Il nobil Tebro; or nel suo nome è chiaro
Più che nell’onde sue l’umìl Sebeto.
E quel primier, che stile ebbe sì raro.
Se a’ dì nostri ’l rendesse alto decreto;
E di chi mai gir sen vorrebbe al paro?
XVI226
Altr’armi, altr’arti, che di Marte fiero,
Oggi Annibale appresta; armi d’Ingegno,
Che van di gloria all’onorato segno
Per dolce, ed aspro di virtù sentiero
5Quei, che di Roma contrastò l’Impero,
Ch’altro potè vantar, che un crudo sdegno
Per cui giurò, che d’ogni oltraggio indegno
Fora all’Italia apportator primiero.
Il nostro nò, chè placidi e clementi
10Vibra suoi strali: ed è sua regia sorte
Far de’ lauri di Palla ombra alle genti.
Apransi a Lui d’onor l’eccelse porte:
Che trionfar dell’espugnate menti
Gloria è maggior, che d’Annibale il forte.
XVII227
Il forte Atleta a duro tronco avvinto,
Ivi trionfa, e n’ha di gloria il Regno;
Gli strali che vibrò barbaro sdegno
L’han di lor nobil guardia intorno cinto.
5Pensò vederlo debellato, e vinto
Chi a mille dardi il pose unico segno;
Ma il sangue ch’ei diffonde è a lui sostegno.
Balsamo al suo morir, vita all’estinto.
Nella felice avventurosa schiera,
10Che di Martirio aurea corona ottenne,
Qual’alma andrà più de’ suoi pregi altera?
Tra’ duri lacci a libertà pervenne;
Ed a volar sulla celeste sfera,
Gli strali, ond’è trafitto, a Lui fur penne.
XVIII228
Nel dì, che carco d’onorate spoglie
Il Monarca del Cielo al Cielo ascese,
Onde provar le sì temute offese
Il vinto Inferno, e le Tartaree soglie:
5Ecco il grande Antonino a noi si toglie;
Ed alla fiamma, di cui pria si accese,
Gode di riunirsi; e quel ch’ei prese
Di terra, a terra lascia, e si discioglie.
Ma dalle guance sue pallide e smorte
10Or non creder già tu, ch’ebbe a languire
Il Giglio, che alle stelle oggi è consorte.
Togliersi al basso, e su nel Ciel salire
Con quel, che invitto trionfò di Morte,
Quest’è fars’immortal, non è morire.
XIX229
La Rondinella dal Sironio lido
Ecco sen viene, e cerca i lieti giorni.
Indi per logge, e per palagi adorni,
Fabbrica a i cari figli il dolce nido.
5Ma che? Sentito appena il primo strido
Di Borea, che gelato a noi ritorni,
Lascia i graditi un tempo almi soggiorni,
Volgendo ad altro clima il volo infido.
Volgalo ormai. Ma tu deh, dimmi Eurillo,
10Or, ch’io mi son nelle sventure involto,
Chi mi tolse il tuo amor, chi dipartillo?
Così dicea, pel duol nel seno accolto,
Egone il saggio: e ’l Pastorel che udillo,
Qnei detti intese, ed arrossì nel volto.
XX230
Veggio colà sopra il troncon d’un Orno
Colomba, cui non vidi altra simile:
Deh mira, Alcippo, di che bel monile
Mostra il suo collo vagamente adorno!
5Esposta a’ rai del Condottier del giorno,
Di quelli al variar, varia suo stile;
Or di Smeraldo ave un color gentile,
Or di accesi Piropi arde d’intorno.
Ma forse il guardo umano è scorta infida:
10Ed è Natura a secondar non tarda
Là dove il senso lusinghier la guida.
Non è Pirodo, che divampi, ed arda;
Non Smeraldo, che splenda e dolce rida;
Dimmi: s’inganna, o nò l’occhio che guarda?
XXI231
Una Sibilla qui tra noi già visse,
Che mi guardò le linee della mano,
Non so che susurrando; e poi pian piano,
O buon Garzon, tu Re sarai mi disse.
5Da indi in qua le sue parole ho fisse
Sì nella mente, che per colle, o piano,
O presso a questo luogo, o pur lontano,
Non mai da me fur scancellate, e scisse.
Io era già Custode, or son Pastore,
10E l’umil grado non avendo a sdegno,
Per quello ascesi, e diventai maggiore.
Certo, che la Sibilla diè nel segno
A dir, che i Regi agguaglierei d’onore:
Io sono il Re, questa mia greggia è il Regno.
DELL’ABB. PIETRO METASTASIO.
I
Che speri instabil Dea, di sassi e spine
Ingombrando a’ miei passi ogni sentiero?
Ch’io tremi forse a un guardo tuo severo?
Ch’io sudi forse a imprigionarti il crine?
5Serba queste minacce a le meschine
Alme soggette al tuo fallace impero:
Ch’io saprei, se cadesse il mondo intero,
Intrepido aspettar le sue rovine.
Non son nuove per me queste contese;
10Pugnammo, il sai, gran tempo; più valente
Con agitarmi il suo furor mi rese.
Che da la ruota e dal martel cadente
Mentre soffre l’acciar colpi ed offese,
E più fino diventa e più lucente.
II
Onda, che senza legge il corso affretta,
Benchè limpida nasca in erta balza,
S’intorbida per via, perdesi, o balza
In cupa valle a ristagnar negletta.
5Ma se in chiuso canal geme ristretta,
Prende vigor mentre sè stessa incalza;
Al fin libera in fonte al Ciel s’innalza,
E varia e vaga i riguardanti alletta.
Ah! quell’onda son’io, che mal secura
10Dal raggio ardente, o da l’acuto gelo,
Lenta impaluda in questa valle oscura
Tu, che saggia t’avvolgi in sacro velo,
Quell’onda sei, che cristallina e pura
Scorre le vie per cui si poggia al Cielo.
III232
Ben lo diss’io, che da feconda stella
Scendeva, illustri Sposi, il vostro amore:
Non parla in van col suo presago ardore
Qualor ne’ labbri miei Febo favella.
5Ecco la prole avventurosa e bella,
Che la madre imitando e ’l genitore,
Porta nel volto, e chiuderà nel cuore
L’ardir di questo, e la beltà di quella.
Già l’Italia d’Eroi nutrice e madre
10La finge adulta, e in marzial periglio
Pugnarla vede, e regolar le squadre;
Nè sa dir, se con l’armi e col consiglio
Doni più gloria a sì gran figlio il padre,
O più ne renda a sì gran padre il figlio.
IV233
Questo è l’eccelso e fortunato Legno,
Ministro a noi della celeste aita,
Su cui morendo il vero Sole, in vita
Ridusse l’uomo, e franse il giogo indegno.
5Questo è l’invitto e bellicoso Segno,
Che contro al suo nemico ogni alma invita,
Acciò di lui trionfatrice ardita
Passi all’acquisto del promesso Regno.
L’Arbore è questa, ond’ogni spirto imbelle
10Raccoglie ardire, e appresse al primo Duce
Vola sicuro ad abitar le stelle.
Questa è la chiara inestinguibil Luce,
Che al porto, in faccia ai nembi e alle procelle,
La combattuta Umanità riduce.
V234
Sogni e favole io fingo; e pure in carte
Mentre favole e sogni orno e disegno,
In lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
Che del mal, ch’inventai piango e mi sdegno.
5Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
Più saggio io sono? È l’agitato ingegno
Forse allor più tranquillo? O forse parte
Da più salda cagion l’amor lo sdegno?
Ah che non sol quelle ch’io canto, o scrivo,
10Favole son; ma quanto temo, o spero,
Tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
Fa ch’io trovi riposo in sen del Vero.
VI235
È ver: la pace mia, Nice, ho smarrita;
Più nasconder non so l’animo oppresso:
Unica del cuor mio cura gradita;
Temo di tua costanza; io lo confesso.
5M’ingannerò; ma che vuol dir, mia Vita,
Quel vederti per tutto Aminta appresso?
Quell’esser tu sempre al suo fianco unita?
Quei lunghi sguardi? E quel parlar sommesso?
M’ingannerò: segni d’amor fra voi,
10Benchè il paiano a me, quei non saranno:
Ma (oh Dio!) furon gl’istessi un dì fra noi.
Ingannarmi vorrei: ma in tanto affanno
Se tu veder, se tu lasciar mi puoi,
Ah Nice, io son tradito; io non m’inganno.
VII
Nudo al volgo profan mai non s’espose
Da’ Saggi il Vero; e se talor fu scritto,
In favole la Grecia, e lo nascose
In caratteri arcani il sacro Egitto.
5Non la celebre nave Argo compose:
Non tentarono i Mini il gran tragitto:
Finto il vello di Frisso, e finte cose
Son l’accorta Medea, Giasone invitto.
La Prudenza colei, questi il Valore,
10L’Invidia il Drago, e le dorate spoglie
L’acquisto son di meritato onore.
Tu le ottenesti, e nelle auguste soglie
E da cesarea man: quanto splendore;
Signor, quante tue lodi il dono accoglie!
VIII236
Oh qual, Teresa, al suo splendor natìo
Nuovo aggiunge splendore oggi il tuo Nome!
Ecco a seconda del comun desìo
Le orgogliose falangi oppresse e dome.
5Di guerra il nembo impetuoso e rio
Sveller parea gli allori alle tue chiome:
Tu in Dio fidasti, augusta Donna; e Dio
In favor tuo si dichiarò: ma come?
Il Sol non s’arrestò nel gran cimento:
10Il Mar non si divise; il suo favore
Non costa alla Natura alcun portento.
Il Senno, la Costanza ed il Valore
Fur suoi ministri; e dell’illustre evento
Ti diè il vantaggio, e ti lasciò l’onore.
IX237
Fola non è la viva face e pura,
Che su la destra ad Imeneo risplende:
Alti sensi ravvolge, e di Natura
Spiega gli ordini arcani a chi l’intende.
5Fiamma è la vita; e con egual misura
Dagli avi ai padri, a noi da lor discende,
Da noi ne’ figli; e si propaga e dura,
Come da face accesa altra s’accende.
Qual fu la face, ond’è la vostra erede,
10Ognun lo sa; come risplende in voi,
Felicissimi Sposi, ognun lo vede:
E vede ognun che, rispondendo poi
A quel che precedè quel che succede,
Dagli Eroi non verranno altri che Eroi.
X238
Non più, Nice, qual pria, da quel momento
Ch’io ti vidi, e t’amai, penso e ragiono:
Già sprezzator d’ogni grandezza, or sento
Ch’odio il destin, perchè negommi un trono.
5Per cento (il so) serve provincie e cento
Miglior non diverrei di quel che or sono;
Ma un impero io potrei (che bel contento!)
Offrirti allor, cara mia Fiamma, in dono.
Ah del mio cuore almen, del mio pensiero
10L’impero accetta, e non mirar, ch’ei sia
Troppo scarso per te povero impero;
Che se fosse real la sorte mia,
Avresti allor più vasto regno, è vero:
Ma più tuo, ma più fido ei non sarìa.
XI239
Quando d’avverso Ciel stimai rigore,
Che un trono abbian negato a me gli Dei,
Bella cagion de’dolci affetti miei,
Fu deliro amoroso, e n’ho rossore.
5Che reso oggetto allor del tuo favore,
D’un regno io domator creder potrei,
Qual son io ripensando, e qual tu sei,
Gratitudine in te ma non amore.
No, dello stato mio, Dei, non mi sdegno;
10Miglior sperarlo ad un mortal non lice:
E l’umil sorte mia n’è appunto il pegno.
Nice m’ama, io lo so, nè amar può Nice
Altro in me che me solo. Ah che a tal segno
Non rende un trono il possessor felice.
XII240
Non delle Nozze il favoloso Nume
Col finto serto e la sognata face,
Non lei, che figlia delle salse spume
Finse la Grecia garrula e mendace;
5Ma te d’intorno alle reali piume
Io solo invoco, o santo Amor verace;
Te, per cui prendon gli astri ordine e lume,
E stan le sfere e gli elementi in pace,
E voi, Sposi felici, a pro di noi
10Rendete ormai del glorioso seme
Superba Italia per novelli Eroi.
Contenderem con bella gara insieme,
Noi riponendo ogni speranza in voi,
Voi superando ognor la nostra speme.
XIII241
Questa, che scende in bianca nube e pura,
E’ la madre d’Amor, figlia dell’onde,
Che vien fra l’ombre della notte oscura
Del nobil letto ad onorar le sponde.
5Ecco i suoi figli in fanciullesca cura:
Chi tenta se al desìo l’arco risponde;
Chi d’occultarsi per ferir procura;
Chi fra’ candidi lini un dardo asconde.
Ecco le Grazie in ogni lato intese,
10Co’ fior raccolti in su l’Idalia riva,
A sparger dolci risse a care offese,
Ma chi piange così? La sposa arriva.
Semplice! Il pianto tuo, le tue difese...
Ma il semplice son io: ride furtiva.
XIV242
Paride in giudicar l’aspra, che insorse
Nata contesa in fra le Dee maggiori,
S’abbagliò di Ciprigna ai bei splendori,
E dal suo labbro il Frigio incendio scorse.
5Ma del trono d’Assiria allor che sorse
La gran moglie di Nino ai primi onori,
Con tal senno, alternò l’armi e gli amori,
Che all’Asia di stupor materia porse.
Nò, non han solo in due leggiadre stelle
10Tutte le donne il pregio lor racchiuso,
Nè l’unico lor vanto è l’esser belle:
Che vide il Termodonte a maggior uso
Troncar Pentesilea la mamma imbelle,
Ed in asta cangiar la rocca e il fuso.
LODOVICO PICO DELLA MIRANDOLA.
I
E quando mai con sì crudel ventura
Avrem pace mio cuor? Di doglia in doglia
Or ti gira il destino, or la tua voglia;
Se l’un pace ti dà, l’altra la fura.
5Quall’uom ch’erto sentier fra nebbia oscura
Tenti lento e dubbioso, ove la scioglia
Breve raggio, allor teme, allor s’addoglia,
Che il periglio in scoprir men s’assicura.
Tal, poichè di sciagure aspro cammino
10Tristo men corro, in più d’angoscia trarmi
Speme incerta vid’io, che rado apparve.
E se vinco talor voglia, e destino,
Nasce da usanza il duol ch’a tormentarmi
Sorge nero pensier con finte larve.
II
Volto colà, dove più bella parte
Sparge il Ciel sovra noi di sua virtude,
Quant’opra arte, o natura in se racchiude
Mostrommi il mio pensiere a parte a parte.
5Piagge, e colli mirai, dove comparte
Ogn’astro i più bei rai; fonti, ove chiude
Sua pace Amor; selve di mostri ignude;
Aer cui dal piacer nulla diparte.
Che mai non vidi! E pur vago il desìo
10Anzi più mi chiedea: quinci il raccolsi
Tolto al Bel di quaggiù, dentro il cuor mio.
Nell’alma allora, e non so come, accolsi
Raggio improvviso, e un’altro fui; ond’io,
Gridai: perchè non prima in lui mi volsi?
POMPEO DI MONTEVECCHIO.
I
Amor mi tolse il cuore, e in un drappello
Di vaghe Ninfe se ’l lasciò cadere:
Nacquer tosto fra lor liti guerriere,
L’empio possesso ad ottener di quello.
5Per torre alfin le risse, a un ramoscello
L’incatenaron di comun parere,
Perchè quella l’avesse in suo potere,
Che in saettarlo feo colpo più bello.
Ecco già pronto ognuna l’arco estolle:
10Ed il povero cuore in un istante
Di sangue tutto, e di ferite è molle.
Ma deformato da percosse tante,
Nessuna poi sì lacerato il volle.
E restai senza cuore, e senz’Amante.
II243
Tu che miri quest’Urna, e che t’affliggi
Nel desio di veder chi vi s’asconde,
Lo sconsigliato piè raggira altronde:
Non cape augusto sasso il gran Luigi.
5Scorri la Terra, e il Mar, non che Parigi;
Va de’ metalli nelle vie profonde;
Scorgi le leggi date al fuoco, e all’onde;
E conosci il Leon da’ suoi vestigi.
De’ Fori, e de’ Licei volgi le carte,
10Mira i templi, i Colossi e quanto accoglie
Di colto, e nuovo la Virtute, e l’Arte.
Quà poi ritorna, e scrivi in queste soglie:
Vive immortal Luigi in ogni parte;
Qui defunte vedrai sol le sue spoglie.
III244
Antro superbo, a me simìle oh come
Colla durezza, e coll’orror ti rendi!
Tu da i difetti sol bellezza prendi,
Io dalle colpe ebbi di bella il nome.
5Tu poggi in Ciel colle selvose chiome,
a le membra nel suolo impegni, e stendi:
Io de’ pensieri innalzo al Ciel gl’incendi,
Ma de’ sensi ho sul cuor le terree some.
In te l’eco rimbomba, e nel mio cuore
10Lassa!, il rimorso: io son di falli piena,
E ancor tu sei di mostri albergatore.
Ma di noi chi maggior merti la pena
Poi non so, che siam rei d’eguale errore:
S’io la colpa ho nel sen, tu Maddalena.
DELL’ABB. MICHELE GIUSEPPE MOREI.
I
Oh qual da lei benigno sguardo scende
Da lei, che alberga entro il real tuo petto
Bella Clemenza, e vieppiù illustre rende
L’augusto soglio, a cui t’ha il Cielo eletto!
5Ben da lei tregua ai lunghi affanni attende
Europa, ahimè!, d’alto dolore oggetto;
E par, che tolte al crin l’orride bende
Nuovo rivesta di letizia aspetto.
Deh fa dunque, o Signor, che l’empia Sorte
10Cangi sue tempre, e che d’Europa al pianto
Tua sì eccelsa virtù termine apporte.
Dopo tanto di guerre incendio, e tanto
Chiuda di Giano omai le ferree porte
Questa, che tien sovra il tuo cuore il vano.
II
Figlia d’eccelsa infaticabil mente
È la virtù più gloriosa e vera,
Che l’Uom sublima, e dalla volgar gente
Gli Eroi diparte, e senza regno impera.
5Questa, Signor, fin dall’età primiera
Fu tua guida, ed ognor fia a te presente:
Da questa e Roma e Italia e il Mondo spera
L’immago in te veder del gran Clemente.
Ben più ch’altri lo spera il bel Metauro,
10Ch’oggi lieto t’accoglie, o d’onda in onda
Porta il tuo nome dal Mar Indo al Mauro.
Indi, perchè i tuoi voti il Ciel seconda,
Chiama la Gloria, e del più scelto lauro
La chioma tua perman di lei circonda.
III
Carco già d’anni e più di palme onusto
Giunto Luigi al dì, che il tolse Morte,
Vinsi, dicea, l’aspra e l’amica Sorte
Resi al Cielo i suoi dritti, al Mondo il Giusto,
5Di Giano, qual novel Scipio, od Augusto,
Apersi e chiusi a mio voler le porte,
E a l’ampia mente, e al braccio ardito e forte
Parve la terra, e parve il Mare angusto.
Tu, cui de l’opre e de’ miei geni erede,
10Non men che del mio scettro il Ciel prescrisse,
Regna, e nel soglio tuo regni la Fede.
Tacque, e presso al suo fin, raccolse e fisse
Le luci avendo in la beata sede,
Morìo quel Grande, e tal morìo qual visse.
IV245
Riguarda il Ciel con placid’occhio amico,
O bella Europa, i tuoi felici Regni;
Ecco del favor suo novelli pegni,
E nuove gioie aggiunte al gaudio antico.
5Dell’anno già nel dolce tempo aprico
Diè nel gran Parto di sue grazie i segni;
Poi là sul Savo i temerari sdegni
Ruppe dell’Asia, e ogni furor nemico.
Nè guari andò, che l’Ottomane antenne
10Corfù respinse; indi nostr’armi ultrici
L’altera Temisvar più non sostenne,
Se la Vittoria con sì lieti auspici
Verrà d’intorno a Te, qual sin’or venne,
Oh d’Europa immortal Regni felici!
traduz. di gherardo della gherardesca del preced. sonetto
Aspectu Superi, faelix Europa, secundo
Continuant Regnis invigilare tuis
En nova concedunt pleni argumenta favoris,
Auctaque laetitiis gaudia prisca novis.
Augusto in partu ver dum mitesceret arvis,
Omina praesidii prima dedere sui.
Ad Savum hostiles hinc disjecere Phalanges,
Atque omnis fracta estira, furorque Asiae.
Nec mora; barbaricas repulit Corcyra triremes,
Mox cadit ultrici Temisvar icta manu.
Talibus anspiciis si te victoria circum
Luserit, et vultu, quo tibi lusit, adhue:
Sis foelix Europa licet, fae livior ob quana
Sors aeterna tui tunc erit Imperii!
V
Dell’Esquilin qualor sul colle altero
M’accoglie il sacro ed ammirabil tetto,
E l’umil cuna io veggio, ed il primiero
Povero e vil del mio Signor ricetto;
5Oh quale in contemplar l’alto mistero
Nuovo m’accende il cuor tenero affetto!
Per cui di sante voglie empio il pensiero,
Ed altro provo, che mondan diletto.
Qui, dico allor, sciolse i vagiti e il pianto
10L’eterno Re, quando non d’ostro e d’oro,
Ma cinto apparve di servile ammanto.
Oh eccelso pegno, oh ricco almo tesoro!
Altri di scelte gemme, io d’umil canto
Rozzo Pastor la tua grandezza onoro!
VII
Quest’erto colle, che di nuovi allori
Oggi miriamo, e di bei mirti cinto,
Fu da i prischi d’Arcadia almi Pastori
Con giuochi, e sacrifici ognor distinto.
5Qui sparse il crin di nobili sudori
Ercole allor, che da giusta ira spinto,
Le tolse vacche ritrovando, e i tori,
Al suol gettò l’empio ladrone estinto.
Or sciolgan pur l’usato canto adorno
10L’Arcadi Muse, e in questi erbosi scanni
Lodin lui, che apprestò sì bel soggiorno.
Nè più d’Alcide i favolosi affanni;
Ma sol d’Olinto i veri pregi intorno
S’odano, e viva oltra il confin degli anni.
VII
Quando le vostre colle mie pupille
Si vibraron tra lor guardi di amore,
Vennero i vostri spirti entro al mio cuore,
E i miei nel vostro a seminar faville.
5L’alme di noi con limpide scintille
Sparser dagli occhi il concepito ardore:
E vaga ogn’una dell’altrui splendore
Alternava i sospiri a mille a mille.
L’una alfin co’ suoi rai l’altra rapìo,
10Onde l’anima mia trovossi poi
Nel vostro sen, la vostra entro del mio.
Così del dì, che amor destossi in noi,
Voi mio pensier, vostro pensier son’io,
Ed in me Voi vivete, io vivo in Voi.
VIII246
Nasce dell’Anglia il sospirato Erede,
Cui di tre Regni ampio retaggio aspetta;
Nasce, e verso l’Oceano il Sol s’affretta,
Per darne avviso alla regal sua Sede.
5Nasce, e mentre il novello Anno sen riede,
Perchè un nuovo di cose ordini prometta;
Nasce, e Roma per patria ha il Cielo eletta
D’un, cui già scelse in difensor la Fede.
Nasce, e insolito lume appar nel Cielo;
10La gente il guarda e ne fa lieti auguri,
Che sì l’inspira un amoroso zelo.
Io non cerco degl’Astri i detti oscuri,
Cerco i meriti del Padre, in loro io svelo
Ciò, ch’al Figlio si dee ne’ dì futuri.
IX247
Quand’il gran Re, ch’ha sovra l’onde impero,
Vide Venezia entro l’Adriaco Mare
L’alte posar sue fondamenta, e stare
Ferma a ogni scossa di furor straniero;
5Quando di senno, e di valor guerriero
Videla in tante opre sublimi, e chiare,
Su gl’altrui danni andar fastosa, e dare
Temute leggi all’Oceano intero;
Or, disse, o Giove, la vetusta e bella
10Città di Marte, ed i suoi chiari lumi
Opponi a questa mia Città novella.
Se d’anteporre il Tebro al Mar presumi,
Ambe le mira: indi dirai, che quella
Gl’Uomini fabbricaro, e questa i Numi.
X
Laddove a un Rio giace sepolta accanto
Mole, che al Ciel cento colonne ergea,
La Pastorella mia vaga del canto
Soavissime Note un dì sciogliea.
5Eco dal cavo suon d’ogn’arco infranto
Tronche l’ultime voci a lei rendea,
Ch’ora alle gioie, ora invitando al pianto
Pria formava un accento, e poi tacea.
Io dissi allor: Ninfa crudel, tu meco
10Favellar sdegni, e al mio parlar t’adiri;
Poi ragioni co’ sassi, odi uno speco!
Mossa a pietà degli aspri miei martiri,
E quando mai ti sentirò far Eco
Agli amorosi miei caldi sospiri?
XI
Quando vibrò da’ vostri lumi Amore
Il primo nel mio sen dardo fatale,
Cercai nel petto, ed a ferirmi il cuore
Trovar non seppi onde passò lo strale.
5Credei del mio pensier segnato errore
Del dardo il colpo, e della piaga il male,
Ma conobbi all’interno aspro dolore
Esser la piaga mia vera e mortale.
Saper l’alta cagion l’anima volle
10Di portento sì grande, e affise in voi
Di più lacrime il ciglio asperso e molle.
Mi apparve Amor, che pria riaguardovvi, e poi
Così mi disse: Eh non t’avvedi, o folle,
Che questa è la virtù degli occhi suoi!
XII
Eppure al fine a rivederti io torno
Fuor delle cure di più gravi incarchi,
Degno che il Tebro alle sue rive intorno
Innalzi al nome tuo colonne ed archi.
5Premio è quell’ostro, onde ti miro adorno,
De’ sudor tuoi di bella gloria carchi,
Tanto gradito in ogni tuo soggiorno
Alla vasta Germania, e a’ due Monarchi.
Superba del suo Foro erra tra sassi
10L’ombra di Livio, e figlio suo ti noma,
Così lieta gridando ovunque passi:
Cinto di rose l’onorata chioma
Ecco a me riede, e in pochi dì vedrassi
Giulio portar nuovi trionfi a Roma.
ANTONIO ESTENSE MOSTI.
I
Questa, che l’Uomo in sè racchiude e vanta
Ragion feroce, ch’ogni vizio atterra,
Lo sai mio cuor, lo sai come si ammanta
Di finta forza, e in sè viltade serra.
5Come a i danni talor d’annosa pianta
Se i suoi torbidi fiati Euro disserra,
Mentre regge per l’aria, ei porta guerra
Ai rami sì, ma il tronco altier non schianta.
Così Ragion dentro agli umani petti
10Fiera guerra mortale a i sensi indice,
Ed allo stuol dei rei servili affetti.
Poi tardi giunta alla fatal pendice,
Scuote i deboli rami, e giovanetti;
Ma l’antica non svelle alta radice.
II
Qual cruda serpe, e qual pestifer’angue,
Col rigor di Madonna Amor mi punse,
E qual velen col circolar del sangue
Per la via delle vene al cuor mi giunse.
5Quindi s’agita l’alma, e ’l corpo langue,
Ch’ei la linfa e ’l vital succo consunse,
Da poi che che 'l rese semivivo esangue,
Al suo morir ben mille morti aggiunse.
Sudan gelo le membra, e già son spente
10Le luci, e un rio vapor, che sale e nuoce,
Con fantasmi d’orror turba la mente.
Deh voi, che udite il duro caso atroce,
Portate a lei (se tanto Amor consente)
Questa d’un fido Amante ultima voce.
LODOVICO ANTONIO MURATORI.
I248
Sebben per l’ampio Ciel, ch’ognor cercasti,
Quand’eri in Terra, or sciogli i vanni alteri,
E in Dio ti pasci, immers’i tuoi pensieri
In pelago di beni immensi e vasti;
5Pur, buon Lucchesi, al suol che sì sprezzasti
Deh volgi i rai da i lucidi sentieri;
Nè tua umiltà col ripensar qual’eri,
Ai voti nostri il bel volo contrasti:
Ai voti, ch’ora al Quirinal porgiamo,
10Perchè se tanto in sull’eteree sedi
Splendi, quaggiù splender te ancor miriamo.
Chè non per te, che in tanta gloria siedi,
a sol per noi qui l’onor tuo cerchiamo,
E a Dio tu pur deh per suo onor lo chiedi.
II
Se il Mar, che dorme, e l’ingemmato Aprile
Contemplo, e il Ciel, che tante luci aggira,
Io certo giurerei, che non si mira
Altra quaggiù vista, o beltà simìle.
5Pur di beltade un paragon ben vile
Sono il Cielo, e l’Aprile, e il Mar senz’ira,
Qualora il Mondo attonito rimira
In nobiltà di stato un cor gentile.
Poi se il Verno io contemplo, e se il furore
10Del Mar, che mugghia, o il Ciel di nembi armato,
Ecco tutto d’orror mi s’empie il cuore.
Pur più del Verno, e più del Ciel irato,
E più del Mar spira d’intorno orrore
Un cuor superbo in povertà di stato.
III
Ricco di merci, e vincitor de’ Venti
Giunger vid'io Tirsi al paterno lito;
Baciar l’arene io vidi, e del fornito
Cammino ringraziar gli Dei clementi.
5Anzi perchè leggessero le Genti
Qualche di tanto don segno scolpito,
In su l’arene stesse egli col dito.
Scrisse la storia di sì lieti eventi.
Ingrato Tirsi, ingrato a i Cieli amici!
10Poichè ben tosto un’onda venne, e assorti
Seco tutti portò quei benefici.
Ma se un dì cangeransi a lui le sorti,
Scriver vedrollo degli Dei nemici
Non sù l’arena, ma sul marmo i torti.
PAOLO ANTONIO DEL NEGRO.
I
Ecco il volto leggiadro, al cui splendore
Strinsemi un tempo Amor d’aspra catena,
Cangiato sì, che il riconosco appena
Per le vestigia dell’antico ardore,
5Nè sento più l’usata fiamma al cuore,
Qual fu di speme, e di desìo ripiena,
Ma d’una non so qual tacita pena,
Che m’empie di pietà più che d’amore.
Nè so, se per mio bene entro raccoglia
10L’anima bella il suo splendor divino,
Per far, ch’io torni a più matura voglia.
Sento bensì, che il guardo umile e chino,
E ’l grave aspetto a lacrimar m’invoglia
La sua fragil bellezza ’l mio destino.
II
Se il seguir sempre in faticosa impresa
L’arme tue vaghe ovunque volga il passo,
Se comparirà innanzi afflitto e lasso,
Qual uom, che a se medesimo incresce, e pesa;
5Se de’ begl’occhi tuoi la fiamma accesa
Mirar con guardo riverente e basso,
E spesso altrui parer cangiato in sasso,
Tal’è il diletto, di cui l’alma è presa:
Se ciò non basta, perch’alfin t’avveda
10Delle ferite mie, nè de i legami,
Onde pur troppo Amor femmi tua preda:
Dimmi, o Fera crudel, che pensi, o brami?
Che far degg’io, perchè il mio mal tu veda?
Ma, che far dovrò poi, perchè tu m’ami?
III
Signor, quando in tua mente eterna e pura;
Quas’in tragica scena, avesti avante
L’umane colpe così varie e tante,
Che noi fean rei d’eterna morte oscura;
5Ardesti allor di sì pietosa cura,
E tal doglia t’afflisse il cor amante,
Che t’asperse la fronte, il sen, le piante
Sudor di sangue, e ne stupì Natura.
E forse rimanea tuo petto esangue,
10Se non che riserbollo a maggior lutto
Quel grand’amor, che in te giammai non langue.
Ma quale, ahimè, ne cogli amaro frutto!
Tu miri i nostri falli, e sudi sangue,
Vediam noi le tue pene a ciglio asciutto.
IV
Io so, che quando morte avrà già spento
Mio fuoco, e sparso il cenere infelice,
Vivrò spirto immortal vita felice,
Se pur coll’opre al mio destin consenso.
5Pur m’ingombra talor d’alto spavento
Un funesto pensier, ch’al cuor mi dice:
Come fia svelta mai da sua radice
Nostr’alma senza grave aspro tormento?
Com’andrà lieta in parte, onde ritorno
10Non fè di tanti un sol, ch’a noi ridica
Quale il sentiero sia, quale il soggiorno?
Porgimi, o santa Fè, la mano amica,
E tu mi guida, che non veggio intorno
Se non la nebbia della colpa antica.
GIO. GIUSEPPE ORSI.
I
La mia spoglia più fral di giorno in giorno,
E il mio svenuto ognor più fosco aspetto
Fan, che a schivo il mio spirto abbia ricetto
Fra queste membra, ond’era un tempo adorno.
5Ma, benchè d’abitar si rechi a scorno
La stanza rovinosa, ov’è ristretto;
Dubbio tra il novo tedio e ’l vecchio affetto,
Del pari odio l’uscita, odio il soggiorno.
Io dovrei rallegrarmi, e pur mi spiace,
10Che s’allentino omai quelle ritorte,
Cui mal s’attien lo spirto mio fugace.
Stolto! Io vorrei la mia prigion più forte,
Nè intendo ancor, che libertate e pace
È quella, a cui dà l’Uom nome di morte.
II
Oh se de’ miei sospir gittati al vento,
Se di lagrime tante indarno sparte
Data avessi al mio Dio pure una parte,
Quanto sarei del pianger mio contento!
5Or, benchè tardi, alfin col guardo intento
Nel Crocifisso esclamo: Oh qual comparte
Gioia il tuo amor, s’ha l’amor tuo sin l’arte
Di far dolce il rimorso e ’l pentimento!
Perde il pianto ogni amaro, allor che scende
10A bagnar le tue piaghe, e dolce intanto
Al labbro, che le bacia, amore il rende:
E perchè in ciò prova tal gaudio e tanto
Il cuor, ch’altro maggiore ei non apprende,
Sta per pensare in Paradiso il pianto.
III249
Ergi, Cridano allegro, il capo algoso,
Mira il don che tanti anni Italia chiese,
L’infante Eroe, ch’oggi dal Ciel pietoso
Tratto da’ nostri voti alfin discese.
5Quel braccio augusto or fra le fasce ascoso
Scioglierassi tra poco a grand’imprese,
Compenseran tra poco il suo riposo
Dure vigilie a pro d’Italia intese.
Tempo è, che sonni placidi e soavi
10Or tragga; e pur, mentre sognando ei tace,
A lui parlan d’onor l’Ombre degli Avi.
Quando di scettro avrà poi man capace,
Quando dell’Alpi ei reggerà le chiavi,
Al suo vegliar dormirà Italia in pace.
IV
Incauto Peregrin, cui nel cammino
S opponga angusto rio largo un sol passo,
Quando appunto a varcarlo ha il piè vicino,
S’arresta e dice: il varcherò più a basso.
5Ma giunto alfin dove tra sasso e sasso
Si dilata in torrente, afflitto e chino
Mira il rio non più rio: stupisce, e lasso
Dà delle sue follie colpa al destino.
Tal io d’Amor gli aspri perigli e rei
10Superar già potendo, or doglia e scorno
Ho di più non poter ciò, che potei.
Veggio, come un torrente, a me d’intorno
Crescer la piena degli affanni miei,
Nè a me più lice indietro il far ritorno.
V
Donne gentili, io con voi parlo: udite:
Chi v’ha detto, che l’alma uccide Amore?
Non è vero; anzi s’ama amato un cuore
Per miracol d’Amor vive in più vite.
5Oh miracoli eccelsi, opre inaudite!
Vive in altrui l’Amante, in sè non muore;
Talchè di sè vivendo e dentro e fuore,
Divien duo con due vite in una unite.
Così duo, s’ognun d’essi è amante e amato,
10Fansi due volte duo; ma una sol brama,
E un viver solo a tante vite è dato.
Non però doppia vita aver si chiama,
E nè pure una sol, chi disprezzato
Più non vive nè in sè, nè dov’egli ama.
VI
Amor, che stassi ognora al fianco unito
Di lei, non so s’io dica o Donna, o Dea,
Seco apparvemi un dì, che in suol fiorito
Fra turba di Pastori io mi sedea.
5Vuo’ mostrarti (alla Ninfa Amor dicea)
Qual fra tanti a te deggia esser gradito;
E a lei, che in giro i vaghi rai volgea,
Me tre volte accenar tentò col dito.
Ove segnasse Amor mai non distinse
10La Ninfa, e andò chiedendo, e dove e quale?
Sin che un suo dardo impaziente ei strinse.
E disse: il guardo tuo segua il mio strale.
Scoccò, ferimmi, e il sangue, ond’ei mi tinse,
Fè a lei noto il mio volto, ed il mio male.
VII
Quel dì, che tua mercè, cortese Amore,
Pur c’incontrammo e Cintia ed io soletti,
I miei caldi pensier nel cuor ristretti
Già tra lor si premean per uscir fuore.
5Ma il girar de’ bei rai, col suo fulgore
Ruppe a mezzo il cammin sul labbro i detti,
Sicchè la piena de’ commossi affetti
Tornommi indietro a ricader sul cuore.
Ammutolii, tremai. Tanto più intese
10Ella quanto io men dissi, e lieta in viso
La gloria sua nel mio timor comprese.
Poi volta a me con placido sorriso,
La bella man mi porse. Oh Amor cortese,
Muto a tempo mi festi; or lo ravviso.
VIII
La mia bella Avversaria un dì citai
Del Monarca de’ cuori al tribunale;
E a lei, quando comparve, io domandai,
O il mio cuore, o al mio cuor mercede eguale.
5Chi te ’l niega? di lui nulla mi cale,
Rispos’ella, volgendo irati i rai,
Indi a terra il gettò mal concio, e tale
Che più quel non parea, che a lei donai.
Allora io del mio cuor lacero e guasto
10I danni protestai, ma il giusto Amore
Che mal soffrìa di quell’altera il fasto,
Pensò; poi disse: Olà, che si ristore
De’ suoi danni costui senza contrasto:
Donna, in vece del suo dagli il tuo cuore.
IX
L’Amar non si divieta. Alma ben nata
Nata è sol per amar, ma degno oggetto
Ella però, pria che da lei sia eletto,
Sè stessa estimi, e i pregi ond’ella è ornata.
5Qualor correr vegg’io da forsennata
Alma immortal dietro un mortale aspetto,
Parmi di rozzo schiavo a lei soggetto
Veder Donna reale innamorata.
Ami l’Anima un’Alma, e ammiri in essa
10Egual bellezza, egual splendor natio:
L’amar fra i pari è libertà concessa.
Pur se l’Anima nutre un bel desìo
D’amar fuor di sè stessa, e di sè stessa
Cosa d’amor più degna, ami sol Dio.
X
Impara di salire, Anima mia,
Al sommo Ben da una beltà mortale:
Amor a’ tuoi pensieri appresta l’ale,
E di Cintia co’ rai segna la via.
5Per tre gradi trascorri: alzati in pria
Dalla materia, e in separar dal frale
Il puro esser del Bello, apprendi quale
L’incorporea beltà dell’Alma sia.
Se più ’alzi, e lei miri in securtade
10Fuor del corpo e del tempo, allor comprendi
L’immutabile angelica beltade.
Quindi all’unico Bello infine ascendi:
Chè se oltre la materia, oltre l’etade,
Oltre il numero arrivi, Iddio già intendi.
XI
Se la misera incauta Farfalletta
Potesse dir, perchè scuoter le piume
Intorno a breve fiamma ognor s’affretta,
Sin che s’incenerisca e si consume,
5Dirìa: che il Sole ivi trovar presume,
Onde vita e calor, non morte aspetta;
Perchè tutto il suo inganno è aver quel lume
Somiglianza col Sol, benchè imperfetta.
Lo stesso a Voi, poveri Amanti, avviene:
10Cercano il Bello i vostri cuori, ed hanno
Per istinto il drizzarsi ai sommo Bene;
Ma in due luci mortali incendio e danno,
Quai farfalle, incontrate; e pur proviene
Da minor somiglianza il vostro inganno.
XII
Visto in un Rivo il mio squallido aspetto,
E spunta sul mio crim canuto albore
Fra me dissi: abbastanza ebbe ricetto
E signorìa Cupido entro il mio cuore.
5Tempo non è, ch’io sia d’amor soggetto,
Se non posso esser più cagion d’amore;
Chi negli occhi non l’ha, non l’abbia in petto;
Chi non può innamorar non s’innamore.
Or se cauto timor nell’età mia
10Pone in me a freno ogni amorosa brama,
Sicchè favola al volgo io più non sia,
E se non seguo il Bel, che a sè mi chiama,
Perchè Ragion mi guida in altra via,
Segno è, ch’a voglia sua s’ama, e disama.
XIII
Fu sua pietà quando il tuo bel sembiante,
Mostrommi, o Donna, e in voi mostrossi Iddio:
Poichè allora in mirar bellezze tante,
Vie piú n’avrà chi lor creò, diss’io.
5Fu sua pietà che di tue luci sante
Nel puro raggio a me la scala offrìo
Per cui salire insino a lui davante
D’un’in altra beltà lice al desìo.
Ma perchè sprone avesse il desir frale,
10Ch’a mezzo il bel cammin pigro s’acqueta,
Orgoglio in Te pose a bellezza eguale.
E in ciò maggior fu sua pietà, se vieta
Che in terra io posi, e che beltà mortale
Troppo arresti il desìo dalla sua meta.
XVI
Uom, ch’al remo è dannato, egro e dolente
Co’ ceppi al pè, col duro tronco in mano,
Nell’errante prigion chiama sovente
La libertà, benchè la chiami in vano.
5Ma se l’ottien (chi ’l crederìa?) si pente
D’abbandonargli usati ceppi; e insano
La vende a prezzo vil: tanto è possente
Invecchiato costume il petto umano!
Cintia, quel folle io son. Tua rotta fede
10Mi scioglie, e pur di nuovo io mi imprigiono
Da me medesino, offrendo a’ lacci il piede.
Io son quel folle; anzi più folle io sono:
Perchè, mentre da te non ho mercede,
Non vendo io nò la libertà, la dono.
XV
Più volte Amor di libertà pregai,
Nè sino a tanto il mio pregar si tacque,
Ch’ei per noia mi sciolse, e mi compiacque
Dicendo: va, che libertade avrai.
5Nel nuovo stato intorno a me mirai
Fosco il Ciel, secch’i fior, torbide l’acque,
Nè piacendomi ciò, che pria mi piacque,
Più de la vita libertade odiai.
Or perduto m’aggiro, e mi confondo
10Richiamando i legami, ond’era involto,
Senza cui, come ignudo, altrui m’ascondo.
E me pareggio a quel destrier, cui tolto
L’ornamento del fren, l’onor del pondo,
Troppo vile pe' Campi erra disciolto.
XVI
Io grido ad alta voce, e i miei lamenti
Ode Ragioni contro ad Amor tiranno;
Però s’accinge in mio soccorso, e fanno
Guerra tra lor, ambo a vittoria intenti.
5Poi s’a me par, che Amor sue forze allenti,
Quasi m’incresca il fin del dolce affanno,
Allor celatamente, e con inganno,
Io fò cenno al Crudel, che non paventi.
Ma questa in me, siasi viltade, o frode,
10Ragion discopre: indi con suo cordoglio
M’abbandona per sempre, e più non m’ode.
Chè se poi d’ora innanzi ancor mi doglio;
Sa che ’l faccio per vezzo, e ch’Amor gode
Signorìa nel mio cuor, sol perch’io voglio.
XVII
Traditrici Bellezze, a voi sol deggio
Quant’ho di conoscenza e di quiete;
Voi col fele spegneste in me la sete
Che il nutrir di dolcezza era assai peggio.
5Fu mercede il negarmi, or men’avveggio
Quella pace, che da voi non potete:
Fu pietà lo spronarmi all’alte mete
Del vero amor, che sovra gli altri ha seggio.
Perchè da voi respinto a miglior volo
10S’alzò questo mio cuore, a cui lo strazio
Le forze accrebbe, e diè coraggio il duolo.
Or torno a voi, benchè di voi già sazio,
Non per pregarvi nò, per dirvi solo:
Traditrici Bellezze io vi ringrazio.
XVII
Alcune vaghe Ninfe innamorate,
Meco parlando un dì de’ loro amori,
Volean pur, ch’io credessi entro i lor cuori
Fiamme oltre l’uso uman pure e illibate.
5E che perciò nelle persone amate
De’ lor vezzosi giovani Pastori,
Dall’interna beltà dell’alma in fuori,
Non prezzasser verun’ altra beltate.
Io volto infin’ a una di lor Figliuola,
10Dissi, se il vostro eccelso almo desìo
Non bada al corpo, e tende all’alma sola;
Perchè un vecchio Pastor, come son’io,
Non amereste voi? Senza parola
Rimas’ella in quel punto, e si partìo.
ANTONIO OTTOBONI.
I250
Padre, e Signor, ch’a’ Figli tuoi con tanto
Zelo soccorri ne’ perigli estremi,
Ed oro non risparmi, e preci, e pianto,
Perchè il barbaro Trace o ceda, o tremi:
5Quando con dotta man scrivesti, e quanto
Opraro i tuoi caratteri supremi,
Lo sa l’Egèo, lo sa Corcira, accanto
Di cui fur vani i bronzi d’Asia e i remi.
Or colla saggia mente, e col consiglio
10Mediti a riparar l’urto secondo,
Ch’alla Fè portar possa altro periglio.
Sei base, o gran Clemente, eguale al pondo:
Sei Padre, e al cenno tuo serve ogni Figlio:
Sei del gran Dio figura, e salvi il Mondo.
II
Inganni son le vanità, che a i lumi
Del misero Mortal sembran tesori;
Titoli, dignità, porpore, ed ori
Son foschi lampi, e luminosi fumi.
5Anch’io credei di farmi eguale a i Numi
Dell’Adria, e del Tarpeo co i primi onori:
Ma de’ passati efimeri splendori
Appena or vedo i languidi barlumi.
Alma, degli error tuoi prova più chiara
10Tu vai cercando ancora? e ancor ti fidi?
Deh che sia Mondo a proprio costo impara.
Son già tutti per te gli asili infidi;
L’onda dolce del Tebro è fatta amara,
E l’Adria in scogli ha convertito i lidi.
III
Lidi beati, ove immortal si vede
La maestà, la libertà Latina:
Sponde felici, ove del Mar risiede
Madre d’Eroi, la Veneta Reina.
5Voi ferme basi alla Romana Sede:
Voi gran ripari all’Itala ruina:
Argini al Trace voi, Rocche alla Fede,
Cui vasta Terra, ed ampio Mar s’inchina.
Scogli non foste mai per mio periglio,
10E sparser gli Avi miei sul vostro lembo
Fregi d’onor col sangue e col consiglio.
Siatemi porto or che più soffia il nembo:
Debbonsi al patrio Suol l’ossa del Figlio:
Io nacqui e vissi, e vuò morirvi in grembo.
IV251
Quando Eugenio pugnò, del gran Clemente
Vologli al fianco la paterna idea;
Onde dal Vatican nell’Oriente
In aiuto de’ Figli egli accorea.
5Ella del Pio Campion la saggia mente
Di quel zelo infiammò, che l’accendea,
Forte cosí, che della man possente
Non sostenne il valor la turba rea.
Passò poi di Corcira al muro infranto,
10E provida soccorse a quel recinto
Colle preci, coll’armi, e col suo pianto.
Or se di palme e l’Austria, e l’Adria ha cinto,
E diè ai Regi gli acquisti, a i duci il vanto;
Sol col braccio di Dio Clemente ha vinto.
V252
Questi è il grand’Alessandro. Il ciglio inarca
Sulle membra incorrotto il Tempo istesso:
Troncò quel sacro stame invida Parca,
Ma d’apparir non osa il colpo impresso.
5L’adorato sembiante, al cui riflesso
Rese omaggi di fede ogni Monarca,
La Maestà serba illibata; e in esso
Bella par morte, e d’ogni orrore è scarca.
D’Alma sì grande il nobile ricetto
10Restar dovea dal comun fato esente,
Come illustre di gloria albergo eletto.
Ancor vive Alessandro, anzi è presente.
Apri l’augusto Avello, ecco l’aspetto:
Mira Pietro il nipote; ecco la mente.
VI
Perchè gli argini rompe e i campi inonda
Quel fiume, e torri abbatte, e tempi atterra?
Perchè sdegna il riparo, ond’altri il serra,
E sciolta in grembo al Mar vuol correr l’onda.
5Perchè sibila l’aria, e furibonda
Sin da cardini suoi scuote la terra?
Poichè chiusa si trova, e più non erra,
E sdegna quella carcere profonda.
Perchè sasso scagliato in giù sen riede,
10E sempre al Ciel drizza la fiamma i rai?
Perchè il sasso, e la fiamma han varia sede.
Forzato anch’io la sfera mia lasciai,
E sin che dove ho il cuor non giunga il piede,
Stupor non fia, ch’io non m’accheti mai.
VII253
Quest’è il Parrasio Bosco? Il nido è questo
Dove de’ Cigni Ascrèi si ammira il canto?
Chi svelse il lauro a cui sedeva accanto,
E ’l cipresso piantò tetro e funesto?
5Vedo pianger le Muse, e in bruno ammanto
Lagnarsi metro addolorato e mesto;
Ma mi risponde Apollo: io son, che appresto
Queste nenie funèbri, e questo pianto.
Io degli Arcadi estinti i pregi avvivo,
10E de’ compagni lor ne’ dotti carmi
Son’io, che de’ gran nomi e parlo e scrivo.
Errai, gran Nume, allor ripiglio; e parmi,
Che in queste lodi ogni Pastor sia vivo,
E sprezz’il vano onor di bronzi, e marmi.
VIII
Or che all’Aquila d’Austria è nato un Figlio,
S’esponga pur del Sol paterno al raggio,
Che lo sguardo bambino avrà coraggio
Di tener fisso a tanto lume il ciglio.
5Ei nacque allor che in prossimo periglio
Stava la Fè per l’Ottomano oltraggio;
E allor ch’il regio Augel potente e saggio
Stendea sù gli Empi il periglioso artiglio
Udì il Germe bambino allor che nacque
10Delle trombe Germane il suon guerriero,
L’udì ridendo e quel fragor gli piacque.
Or pugni il Padre, il Figlio cresca: e spero,
Che dian tosto ad entrambi e Terre ed Acque
Dell’Occaso e dell’Orto il doppio Impero.
IX254
Questo, Cesare, è il tempo. Il Ciel balena
Secondo al tuo gran senno, e al braccio invitto:
Passò Eugenio in Pannonia, e giunto appena
Il formidabil Trace ecco sconfitto.
5Già cede Temisvaro, e del trafitto
Nemico i busti rei copron l’arena:
Belgrado, ecco tremante, e dell’afflitto
Sultan già s’ode risuonar la pena.
Cesare questo è il tempo. In mare i legni
10D’Adria già fan tremar l’Ismara foce,
Togliendo i furti a quei Pirati indegni.
Deh le vittorie tue segui veloce;
E tutti correran dell’Orto i Regni
Sul sacro alloro ad adorar la Croce.
X255
Lasso, che feci! Abbandonai la bella
Sponda del Tebro, e volsi all’Adria il piede,
Cangiai la ferma in un’istabil sede,
E la calma lasciai per la procella.
5L’unico pegno mio che vive in quella
Per delizia del cuor l’occhio non vede:
Perduti ho i dolci baci, e più non riede
La frequente tra noi mensa, e favella.
L’Ostro, ch’ei cinge, onde n’andai fastoso
10Più di lui molto, io non mi veggio appresso,
E ’l piacer, che ne trassi, or m’è penoso.
Così dagli anni, e dalle cure oppresso
Mentre ricerco invan Figlio, e riposo,
Ah che non trovo in me quasi me stesso!
PIETRO OTTOBONI.
Padre, la via de’ saggi è sempre bella,
E virtù fra i disastri ha fermo il piede;
Nè giunger può di gloria all’alta sede
Chi l’interna non vinse aspra procella.
5Ovunque posi o in questa parte o in quella,
L’occhio dell’amor mio sempre ti vede;
E ’l desio che a te viene, e che a me riede,
Porta e riporta i baci e la favella.
Soffri pur dunque, e nel tuo duol fastoso
10Attendi il lieto dì, che al Figlio appresso
Il premio avrai del tuo soffrir penoso.
Allor da gioia e non da cure oppresso,
Tu farai del mio seno a te riposo,
Ed io de’ pregi tuoi gloria a me stesso.
II256
Quando partì da me ver la sua sfera
Quel lume, che me pur fè noto al Mondo,
Credei sepolta in cieco oblìo profondo
Mia speme, e giunta la mia gloria a sera.
5Piansi, e la doglia mia torbida e nera
Tolse alla mente ogni pensier giocondo,
Ma vi lasciò per doloroso pondo
Del Ben perduto la memoria intera.
Così come Nocchier, che senza vele
10Scorse l’irato Mar pien di timore,
Nè tanta ha forza per formare querele;
Muto giacev’anch’io nel mio dolore,
Allorch’un mio pensier grato, e fedele
Disse: Vive Alessandro, e l’hai nel cuore.
III257
Dov’è il gran carro, in cui superbo assiso
Il Tiranno dell’Asia apparve in Campo?
Dove del brando minaccioso il lampo,
Ch’esser dovea di Cristian sangue intriso?
5Fugge il crudel suo Duce, e porta in viso
Vergogna e morte; e nel cercar lo scampo
Estinto cade, e fassi orrido inciampo
Allo sconfitto Esercito diviso.
Or và, ritorci il carro, e il corso affretta,
10E giulivo se puoi, ti mostra al Xanto,
Che l’alte imprese, e 'l tuo trionfo aspetta.
Ma se all’urto primier piegasti tanto,
Di te Messenia ancor farà vendetta,
E tue saran le sue catene, e il pianto.
Traduz. del P. Gio: Antonio di S. Anna, del preced. Sonetto.
Quo, quo currus iit, cui veste insedit in aurea
Impia cum Principi venit in arma Getes?
Quo lux dira ensis, cuius tepefacta cruore
Undiqve Theutonico debuitesse acies,
5Dux fugit ecce suus, mixtaque in imagine morti,
Tabida lethalis circuit ora robur.
Dumque fugit medio truncus cadit aequore, et ipse
Fusis militibus corpore claudit iter.
I, currum converte tuum, da rursus babenas,
10Perge tuas hilaris, si potesire, plagas.
Te Simois victorem alacrem, Xantusque morantur
Et cupiunt palmas tollere ad astra tuas.
Si tamen indignum primae in certamine pugnae
Tam male deponis fronte cadente caput;
15En erit, ut fiat vindea Messenia, et edes
Ipse suos fletus, et sua vincla geres.
BENEDETTO PANFILI.
I258
Su l’Istro e ’l Savo, e con sì vasta idea
Venne di Tracia il formidabil Mostro,
Che disse Europa: e qual sarebbe il nostro
Stato, se l’empio usurpator vincea?
5Corfù nel Mar Reina intorno avea,
Servil catena, d’alte Navi il nostro,
E da un Lino nemico asperso d’Ostro
D’Italia e fato e libertà pendea.
Tal’era nostra sorte, e dubbia tanto,
10Che se torna il pensiero ai gran perigli,
La timida memoria invita al pianto.
Ma fra tante sventare opre e consigli,
Unì Clemente i voti, ed ebbe il vanto
Di trionfar nella pietà de i Figli.
II259
Disse Carlo ad Eugenio: I Traci arditi
Finser dall’armi ogni pensier lontano
E d’improviso incontra i nostri liti
Qual torrente inondar le Valli, e ’l Piano;
5Ma pur vincesti. Or contra Arabi, e Sciti
Distendi l’opre del valor Germano,
E i mesti abitator cader pentiti
Vegga il Tigri, e l’Eufrate, ed il Giordano.
Poi s’avverrà, che inganno più non copra
10L’ardir di voler servo il Mondo intero,
E l’Oriente alfine il Ver discopra;
Pieghino al sagro Fonte il capo altero:
Nel Tempio di Sion, che a sì grand’opra
Verrà Clemente; ed io sarò il Nocchiero.
Traduz. di Francesco Lorenzini del precedente Sonetto.
Sic ait Eugenio Carolus: Simulaverat audax
Thracia pacem animo, dum parat arma manu.
Cum subito rapidi Torrentis imagine, supra
Littora nostra, trahens agmina mille, ruit.
Jure tamen cecidit: nunc contra Arabesque Seytasque
Theutonis invicti bellica signa feras.
Cultoresque suos tandem resipiscere cernant
Tygris, et Eufrates, et fiuvius Libani.
Tunc Oriens, si spem vanam dominarier Orbi
Exuat, etero subdere colla velit;
In Solymae Templo sacris caput abluat undis;
Utque adsit Clemens, Navila Caesar ero.
III
Poveri fior! Destra crudel vi coglie,
V’espone al fuoco, e in un cristal vi chiude:
Chi può vederle violette ignude
Disfarsi in onda, e incenerir le foglie!
5Al Giglio, e all’Amaranto il crin si toglie
Per compiacer voglie superbe e crude,
E giunto appena Aprile in gioventude,
In lagrime odorose altrui si scioglie.
Al tormento gentil di fiamma lieve,
10Lasciando va nel distillato argento
La Rosa il fuoco, il Gelsomin la neve.
Oh di lusso crudel rio pensamento!
Per far lascivo un crin, vuoi far più breve
Quella vita, che dura un sol momento.
PETRONILLA MASSIMI PAOLINI
I260
Del Re dell’Alpi il fanciulletto ignudo
Con la tenera man cerca la spada,
Sprezza le molli piume, e sol gli aggrada
Trovar riposo entro il paterno scudo.
5Già con lo sguardo generoso e crudo
A i lontani trofei s’apre la strada:
Dato è dal Cielo, perchè solo ei vada
Contro il destin, ch’or nel silenzio io chiudo.
Nell’opre già del Genitor guerriero
10Gran lampi di virtude il Mondo ha scorto,
E più ne scorgerà nel germe altero.
Prenda l’Italia pur speme e conforto,
E risvegli la mente a gran pensiero,
Chè l’antico valore è già risorto.
II
Pugnar ben spesso entro il mio petto io sento
Bella speranza, e rio timore insieme;
E vorrìa l’uno eterno il mio tormento,
L’altra già spento il duol che il cuor mi preme.
5Temi, quel fier mi dice: e s’io consento,
Tosto, spera, gridar s’ode la speme;
Ma se sperare io vuo’ solo un momento,
Nella stessa speranza il mio cuor teme.
Mie sventure per l’uno escono in campo,
10Mia costanza per l’altra; e fan battaglia
Aspra così, che indarno io cerco scampo.
Dir non so già chi mai di lor prevaglia:
So ben, ch’or gelo, ahi lassa!, ed or’avvampo;
E sempre un rio pensier m’ange e travaglia.
III261
Or che tien chiusi i lumi in dolce obblio
Il Fanciullo Divin, tacete o venti,
E voi fermate il corso, o chiari argenti,
Benchè v’incalzi tra le sponde il Rio.
5Vorrei fermare i miei sospiri anch’io,
Se fosse, come voi siete, innocenti;
Ma di pentito cuor l’aure dolenti
Non turban la quiete al nato Dio.
Ch’egli dormendo ancor, l’alto amoroso
10Pensier ravvolge per disegno e norma
Della grand’opra, onde avrem noi riposo.
Oh dolce sonno, che per l’Uom riforma
L’antico male! Ahi che il Bambin pietoso
Veglia a dar vita al Mondo, e par che dorma!
IV262
Mio cuor, credi, ed adora: eccoti avante
Al gran mistero, in cui si stringe al petto
Vergine Madre e Sposa il Pargoletto
Tuo Redentor tanto aspettato innante.
5Deponi qui le così varie, e tante
Folli speranze, e ogni profano affetto;
E sia per te nelle sue fasce stretto
Ei l’Amore, ei l’Amato, ed ei l’Amante.
Vedi come a Maria risplende il viso
10D’un sì bel pianto, che non fu giammai
Delle Stelle, e del Ciel più bello il riso?
Per poco, o nulla, lagrimasti assai:
Or se nol fai dal tuo fallir conquiso,
Quando in uso miglior pianger saprai?
V
Stavasi in due brune pupille ascoso
Amor senz’arco al fianco, e senza strali,
E in dolce sonno il Garzoncel vezzoso
Fatto s’avea molle origlier coll’ali.
5Quando il mio cuor d’accarezzar voglioso
Le belle fresche guance ed immortali,
Venne incauto a turbare il suo riposo,
E sdegni accese a null’altr’ira eguali.
Lampeggiar l’aria al muover del suo volo,
10E uscir saette, per cui fuma, e stride
Tutto in faville il cuor, fu un punto solo.
Deh alcun non sia, che del Crudel si fide,
Ch’ove altri teme men, più acerbo è il duolo,
E se dorme, e se veglia, ei sempre uccide.
VI263
Chi è, dicean le sovrumane menti,
Ch’ornano i Cieli e delle Stelle han cura
Costei che vien fra le beate genti
Della Luna e del Sol più chiara e pura?
5Quante ha virtudi d’alta gloria ardenti!
Quanto ha valore a superar Natura!
Come ha begli occhi al sommo Sole intenti,
E il nostro insieme e l’altrui pregio oscura!
Come in sua veste ancor si riconsiglia
10Giunger Costei dove ogni Fral s’obblia,
Vergine, e Madre, e del suo Figlio Figlia?
Quando s’udio del Ciel per ogni via,
E mancò possa all’alta maraviglia,
Maria suonare, e replicar Maria.
VII264
Quando di sè più che del Sol vestita
L’alta Madre di Dio nel Cielo ascese,
E sovra ogni altra il primo Ben comprese,
E la sua gloria immensa ed infinita:
5Risplender tutti in quell’eterna vita
Vide i passati affanni, e l’aspre offese,
E un nuovo amor ne’ Serafini accese
Al Padre, al Figlio, al santo Amore unita.
E se nel basso Mondo a pro di noi
10Ben cotanto potèo, che in uman velo
Altra simil non fu nè pria, nè poi;
Or che tant’alto ascende, il proprio zelo
L’orna, e le fan corona i pregi suoi,
Chi potrà dir quant’è più grande il Cielo!
GIUSEPPE PAOLUCCI.
I
Quel, che t’offre l’Arcadia umil suo canto,
Sol atto a celebrar Ninfe e Pastori,
Deh non sdegnar, ch’avrà fors’anco il vanto
Di dire un giorno i tuoi guerrieri onori.
5E se rustica Musa or non può tanto,
Usa d’ornarsi il crin di mirti e fiori,
Nuovo per te valor vestendo e manto,
Vedremla alto trattar palme ed allori.
Di sè stessa maggior così poi resa
10Ammirerassi eguale a sì gran pondo,
Per te sol chiara e per cotanta impresa.
Che con stil quindi a null’altra secondo
Famosa andrà di tua virtute accesa,
Signor che lume spandi ampio e profondo.
II
Se in me reo di più colpe il giusto Dio
Grave talor l’irata man distese,
Pietà gridai pentito, e quindi apprese
L’alma a por freno, e norma al suo desio.
5E pur s’ella poi vide al pianto mio
Placarsi il Ciel, l’antico uso riprese,
Ond’io tornando a rinnovar l’offese,
E la pena, e ’l perdon posi in obblìo.
Ma se seguir ricuso o pigro, o stanco
10L’intrapreso miglior corso primiero,
Senza la sferza, e i duri sproni al fianco;
Signor, raddoppia i colpi pur, ch’io spero
Di compir, così punto, ardito e franco
Quel che mi resta ancor breve sentiero.
III
Ecco il tempo, o Israele, ed ecco il giorno,
Che lo scettro di Giuda a Giuda è tolto;
Ecco il tuo Re già nato, onde ritorno
Farai da’ lacci, in libertà disciolto.
5Ma non stupir se ’l vedi in vil soggiorno,
E fra Pastori in rozze spoglie avvolto,
Questo al Parto real ben mille intorno
Star dovrìan servi in aureo tetto accolto;
Ch’anzi sol quindi hai da sperar, che scosse
10Sian le catene tue, se al mondo usciro
Così quei, che al tuo scampo il Ciel promosse.
Così Mosè povero nacque, e Ciro:
L’un Te da l’empio Faraon riscosse,
L’altro da’ lacci del superbo Assiro.
IV
Vedi quell’Edra, Elpin, che scherza ed erra
Folta a quel muro intorno, e che la faccia
Par che gli adorni: oh qual ruina e guerra,
Se più s’avanza, di portar minaccia!
5Poichè, mentre tenace a lui si afferra,
E insidiosa lo circonda e allaccia,
Tosto il vedrem precipitato a terra;
Tant’ella ha ne’ piè forza e nelle braccia:
Tal anch’è Amor, s’alligna in giovin petto.
10Oh di qual nuova forma alta e sublime
Par, che il cuor gli rivesta e l’intelletto!
Sterpalo ah presto, Elpin, ch’ove s’imprime,
Tant’oltre stende il suo malnato affetto,
Ch’alfin con l’Alma ogni virtude opprime.
V265
Roma in veder dall’empia etade avara
Scossi i grand’Archi, onde sen gìa superba.
Ed ogni mole più famosa, e rara
Giacer sepolta fra l’arene e l’erba;
5Grave soffrìa di tanti, in cui fu chiara,
Fregi d’onor l’alta caduta acerba;
E più le fean la rimembranza amara
Quei, che miseri avanzi ancor riserba.
Ma respirò, quando più illustre, e altero
10D’ogni edifizio lacero, e sepolto
Vide il Tempio immortal sorger di Piero.
E disse: abbiasi pur ciò, che n’ha tolto
Il tempo rio, s’io già riveggo intero
Qui tutto il Bel d’ogni gran mole accolto.
FERDINANDO PASSERINI.
I266
Quando la bella Europa oh Dio! lasciai,
Credei lasciare il mio tiranno Amore,
Ma nell’Africa ancora io lo trovai
Starsene intento a tormentarmi il cuore.
5Assiso in duo begli occhi io qui mirai,
Come nel trono suo, l’empio Signore,
E volto a me, che di fuggir tentai,
Tutto colmo d’orgoglio e di rigore,
Disse: Ferma, ove vai? Tu tenti in vano
10Fuggir da me, c’ho l’ali; e fece poi
Stretto legarmi da una bella mano.
Soggiunse indi ridendo: Or tu da noi,
E da chi ti legò, vanne lontano;
Rompi i lacci del piè; fuggi se puoi.
II
Stavami ieri a pascolar l’armento
Piangendo il mio destin presso a quel Rio;
Quando vicino un Usignuolo io sento,
Che col suo pianto accompagnava il mio.
5Frena, mesto Augellino, il tuo lamento,
Lascia pianger me solo, allor diss’io:
Ma ei pur si lagna; chè per suo tormento
Pendea da un laccio, ch’il Villan gli ordìo.
Di repente mi accosto: e il laccio infranto,
10Aspra cagion del grave suo dolore,
Ei torna in libertate, e torna al canto.
Dissemi allora, e con ragione il cuore:
Altrui libero rendi? E perchè intanto
Me lasci al laccio, onde legommi Amore?
III267
Vivea contento alla capanna mia
In povertate industre, in dolce stento;
E perchè al canto, ed al lavoro intento
Qualche fama di me spander s’udìa,
5Vivea contento alla capanna mia.
Fatto perciò superbo io mi nutrìa
D’un van desio d’abbandonar l’armento:
Fui negli alti palagi, e in un momento
Senza pregio restai, nè più qual pria
10Vivea contento alla capanna mia.
Degli anni miei perdendo il più bel fiore,
Il viver lieto, e la virtù perdei;
L’ozio, la gola, e gli agi ebber l’onore,
Degli anni miei perdendo il più bel fiore.
15Scorno e dolore i giorni tristi e rei
Occupa alfine, e dico a tutte l’ore:
Ah! s’io pover vivea, or non avrei
Scorno e dolore i giorni tristi, e rei.
FRANCESCO PASSERINI.
I268
Udiste d’Austria il fato acerbo, e tristo,
È gran terror, che per l’Italia corse
Il dì, che pose empio Tiranno in forse
Coll’Impero German la Fè di Cristo,
5Gran Re, l’udiste; e a nobil’ira misto
Ardervi in fronte un bel desio si scorse:
Volò questo a Leopoldo, e Voi precorse,
E primiero pugnar per lui fu visto.
Fu con Ernesto, e ’l sen gli armò di smalto;
10Fu poi con Carlo, e gli animò la spada;
Fu alfin con Voi nel glorioso assalto.
Scorse allor la Vittoria ogni contrada:
Ma veggio il fatal brando ancora in alto.
Chi sa, che al suo cader l’Asia non cada?
II
Quando di due bei lumi il dolce strale
M’aperse il seno, e via ne trasse il cuore,
Vi pose in vece sua pietoso Amore
Una speranza fuggitiva e frale.
5Ben dispiegò costei sovente l’ale
Sdegnata, per uscir del petto fuore,
E mi lasciava in sempiterno orrore,
Come appunto colui, che morte assale.
Quando scoccò dagli occhi suoi vivaci
10Cintia uno sguardo placido, sereno,
E accompagnollo Amor colle sue faci.
Allor fuggìa la speme, io venìa meno:
Ma giunse il guardo, e l’ali sue fugaci
Arse, e la speme ritornò nel seno.
GAETANA PASSERINI.
I
Su quelle balze, ove una capra appena
Andrìa, tanto son esse erte e scoscese,
In cima in cima il mio agnellino ascese,
Senza alterar la natural sua lena.
5Ma pur col suon di pastorale avena
Non sì tosto da me chiamar s’intese,
Che con veloce piè l’erta discese,
E di cercarlo a me tolse la pena.
Lieta a coglier vincastri allor n’andai
10Per intesser cestelle, e un serpe, oh Dio!
Non veduto da me col piè calcai.
Tutta spavento allor fra me diss’io:
Oh quanto è ver, che senza amaro mai
Non ha un poco di dolce uman desìo!
II269
Signor, che nella destra, orror del Trace,
Della fortuna d’Asia il crin tenete,
E con voi la Vittoria, ove a voi piace,
Compagna indivisibile traete:
5Dove di Costantin languendo giace
L’alta Real Città, l’armi volgete:
Colà scorta vi fia l’Ombra fugace
Dell’inimico Re, che vinto avete.
Ivi il mostro crudel pallido, e afflitto,
10Che torvo mira le sue piaghe spesse,
Cada per Voi nel seggio suo trafitto.
Allor vedransi in mille marmi impresse
Queste note d’onore: Al Duce invitto,
Ch'un impero sostenne, e l’altro oppresse.
III
Qual cervetta gentil, ch’ora il desìo
La chiama al monte, ora l’appella al prato,
Ed or la spinge ove gorgoglia il rio,
Or dove il colle è di più fiori ornato;
5Ma s’egli avvien, che al Pastorel, che ordìo
Insidie a belve, la palesi il fato:
Ecco cangiarsi in dispietato e rio
Il suo sì lieto, il suo sì dolce stato.
Tal vid’io Verginella ir baldanzosa
10In libertade, infinchè al Nume arciero
Santa semplicità la tenne ascosa:
Ma scopertala alfin qual ciecho e fiero
Signor, che cessi omai d’esser ritrosa
Vuole, e che prov’il suo crudele impeso.
IV270
Chi ti dà aiuto, ohimè, chi ti consola,
Priva di Linco tuo, del tuo diletto,
Misera Silvia sconsolata, e sola
Senza il Germano, e senza cuore in petto?
5Per sì bella cagione a me s’invola
Il cuor, che indarno il suo ritorno aspetto;
Poichè d’intorno innamorato ei vola
Là dove ha il Fral di Linco mio ricetto.
E intanto Morte incocca le quadrella,
10Fors’in pietà cangiato il suo rigore,
E dice: Or mori afflitta Pastorella.
Ma veggendomi in sen servir di cuore
Dell’estinto German l’immagin bella,
Nò, grida, viva Silvia al suo dolore.
V
Sotto quel faggio, in riva a quel ruscello,
Io questa gabbia di mia man formai,
Che con quel vezzosetto e vago augello
Ieri, amata Licori, a te donai.
5E due per un mio fido Pastorello
A venderne in Città l’altr'ier mandai,
E del valor mi riportò un anello,
Che di bellezza il tuo vince d’assai.
Or vedi quanto più da’ miei lavori,
10Traggo, che dal cantare; eppur vorreste
Che ognor cantassi, o semplice Licori.
Ah che a l’orecchio mio dicono questi,
Ch’intorno miri infruttuosi allori:
Oh quanto tempo invan per noi perdesti!
VI
Gran mercè tua, mio Dio, mio Redentore,
Ragione ha del mio sen l’incendio spento;
Già cacciato n’ha fuor l’aspro tormento,
Ed ha tornato in libertade il cuore.
5Già quel pensier, ch’un tempo fu signore
De’ miei pensieri, uscir del petto io sento;
E benchè ceda a passo tardo e lento,
Pur cede il luogo al vostro santo amore.
Questo amor santo poi soavemente
10Mi cinge il cuor di fiamma pura e viva;
E questa i pensier purga, alza la mente.
Tant’alto l’alza, che a mirarvi arriva:
E di quel che lassù ved’ella e sente,
Vuol, ch’io solo qua giù ragioni e scriva.
VII
Se in una prato vegg’io leggiadro fiore,
Sembrami dir: qui mi produsse Dio,
E qui ringrazio ognor del viver mio,
E della mia vaghezza il mio Fattore.
5Se d’atra selva io miro infra l’orrore
Serpe strisciarsi velennoso e rio;
Qui, mi par ch’egli dica, umile anch’io
Quel Dio, che mi creò, lodo a tutt’ore.
E ’l fonte, il rio, l’erbette, i tronchi, i sassi
10Sì sembran dire in lor muta favella,
Ovunque volgo i traviati passi.
Ahi! che sol questa (e il Ciel lo soffre!) è quella,
Che dall’amor di Dio lontana stassi,
Infida troppo, e cieca Pastorella.
ALESSANDRO PEGOLOTTI.
I271
Quella, ch’ambe le mani entro la chioma
Pose a ogni Regno in pria disciolto, e franco,
E seco trasse ognun pallido, e stanco,
Nobil dappoi trionfatrice in Roma;
5Quella stessa vegg’io, ch’or vinta e doma
Se ’n giace a piè d’un ostil carro, ed anco
Porta gemendo il real collo e il fianco,
Gravi d’ingiuriosa e ferrea soma.
Nè vien già da un estranio invido stuolo
10Tale oltraggio crudel, ch’io allor potrei
Dirlo vendetta, e sofferir men duolo:
Ma l’ozio, la discordia, e cento rei
Vizi sul carro io veggio, e questi solo,
Questi, e non altri trionfar di lei.
II272
Dimmi, entrasti tu mai per l’auree soglie
Del Britanno Archimede a veder quella
Ingegnosa mirabile novella
Macchina, che all’antiche il pregio toglie?
5Scorgesti tu, quando nel grembo accoglie
O passere o usignuolo o rondinella,
Che il misero augellin sen more in ella
Se d’aria avvien, che a forza altri la spoglie?
Tale accader sventura all’Alma io scerno,
10Che viva ognor mi siede in mezzo al cuore,
Macchina illustre del gran fabbro eterno.
Questa, se per mia colpa il santo amore
Sua dolce aura a sè tragge, e nel suo interno
Vuoto ne resta il cuor, questa sen muore.
III273
Deh scegli, Ireno mio, scegli un perfetto
Anglico microscopio, indi non mente
Di scerre ancor quella purgata lente,
Quella che più ingrandir suole l’obbietto:
5E all’alto del domestico mio tetto
Saliamo; ov’è più il Sol chiaro e lucente:
Poscia con un sottil ferro tagliente
Aprimi pure, Amico, aprimi il petto.
E senza aver di me pietà e dolore
10Guarda, appressando al vetro una pupilla,
Questo a fibra per fibra atro mio cuore:
Guarda con fronte impavida e tranquilla
Se alcuna, cui dia moto il santo amore,
Scorgi di sangue in lui picciola stilla.
IV274
Quando lasciò del suo Ticin la sponda,
Su cui l’estinto Maggi egra piangea,
Qui giunse ove il real mio Fiume inonda,
Clio lagrimosa e in guisa tal dicea:
5Or che cercando io vò quella feconda
Virtù, che nel mio Carlo albergo avea;
Chi per pietà m’insegna, ove s’asconda
Quest’alta di valor gentile idea?
Io, che posava allor su queste amene
10Piagge, lieto pensando al tuo bel canto,
Che il Mincio più sonoro a render viene.
Sul Mincio, io dissi, a un nuovo Carlo accanto
Vaane, e colà ritroverai quel bene,
Che cerchi. Andò la Musa, e terse il pianto.
V
Tosto, Ireno, a prender vanne
Non le reti e non il vischio,
Ma le uguali al grave rischio
Fulminose e ferree canne:
5Chiama il fier mastino, e fanne
Sin ch’ei vien, l’usato fischio;
Sciogli poi quel di pel mischio
Bravo Corso, e andianne, andianne.
Testè il Lupo uscìo di selva,
10E in quel fosso ancor s’appiatta:
Deh uccidiam l’ingorda belva.
Che se va di fratta in fratta,
E a sua voglia si rinselva,
Addio Greggia; ella è disfatta.
VI
Il più vago fiorellino
Sei tra’ fiori, o Mammolletta,
Che non brami ir fastosetta
Tra le pompe del giardino.
5Tu col capo a terra chino
Godi star sempre soletta
Ove fresca è più l’erbetta,
Ove folto è più lo spino.
Ma se avvien, che alfin ti adocchi
10Nice altera, e te divella
Perchè in seno a lei trabocchi;
Dì tu a Nice vanarella,
Dille allor, che il sen le tocchi:
Me somiglia, e sarai bella.
VII
Vedi, Iren, quell’alta Nave,
Per le vaste onde Tirrene,
Che di dolce aura soave
Ha le vele omai ripiene.
5Eredi a me, ch’ella non pave,
Che un vil pesce unqua l’affrene,
Come fa l’ancora grave
Quando è fitta entro l’arene.
Tu bensì pruovi un’infesta
10Remoretta, che gir tardo
Ti fa in alto, e ancor ti arresta.
Volgi a lei, volgi lo sguardo,
E tu, Iren, vedrai che questa
Ella è sol l’uman riguardo.
VIII275
O Famoso inclito Vate
Della Parma onor sublime,
Tutte intorno alle cui rime
Corser l’aure innamorate.
5Belle ei fu della tua etade
L’agguagliar le Muse prime,
E il salir là sulle cime
Del Parnaso alte onorate:
Ma più belli far tuoi vanti,
10Quando al Neri in sen finiro
Di cantar tue labbra amanti.
Nobil Cigno, io ben t’ammiro,
Porto invidia a’ tuoi gran canti,
Ma più all’ultimo sospiro.
IX276
L’onor, la Fama, e in un la Gloria, e quante
Virtudi ha il nobil Mondo un dì si fero
Incontro all’Alma tua col vivo e vero
Celeste loro ed immortal sembiante.
5Drizzaro indi le belle agili piante
Là ve’ tua mente alberga, e alfin sedero
In grembo a lei, cone in lor trono altero,
Leggi dettando avventurose e sante.
Sacrò l’Alma in suo cuor l’inclite loro
10Voci, e di quelle entro al suo regno interno
Munìa sè stessa, e ne faccia tesoro;
Talchè ora vien per suo gran vanto eterno,
D’esse Virtù frà l’ammirabil Coro,
Con sì bei dogmi a far di noi governo.
X277
Nè per l’auree sue piume altero splende,
Nè per l’Arabe selve avvien, ch’ei vole
Quell’Augello dell’ali uniche e sole,
Che sol nel nome oggi immortal si rende.
5Non fa di aromi il rogo, e non l’accende
Col dibatter sè stesso incontro al Sole,
Nè di sè stesso e genitore, e prole,
Dalle ceneri sue vita riprende.
Ben’egli è ver, che lieta oggi ten vai,
10Ninfa, all’alta tua Croce, e il cuor vi lasci,
E spine raggruppando il rogo or fai.
E che ogni pompa avviluppata in fasci
Sopra lui stendi, e d’un gran Sole a’ rai
Muori intrepida al Mondo, e al Ciel rinasci.
XI278
Con tre fiamme innocenti il mio Diletto
Meco pruova egli fè del suo valore,
Illuminò con una il mio intelletto,
Per farmi concepir, che cosa è amore.
5Compresa la virtù del grande obbietto,
Che un magnanimo spira eterno ardore,
Egli appressommi l’altra fiamma al petto,
E ne sentìo soave incendio il cuore.
Diè coll’ultima quinci al voler mio
10Suo prode assalto, e in sì gentil contesa
In lui crescea la forza, in me ’l desìo.
Ecco tutta oramai l’anima accesa,
Sia vostra, o santo amor, che non poss’io,
Più indugio farvi all’onorata impresa.
XII 279
Tu, che immenso ognor traggi almo diletto
Dall’immortal di Dio volto sereno,
E intero quel gran lume accogli in seno,
Che bea sparso pel Ciel ogn’altro Eletto:
5Deh per pietade omai vibrami in petto,
Un solo, un sol di que’ bei raggi almeno,
Ch’arda il duro cuor mio, lo franga appieno,
E in cener sciolga ogni terreno affetto.
Così quand’egli avvien, che al Sol si volse
10L’accenditor cristallo, e fiamma e luce
Nel suo limpido grembo egli abbia accolte;
Ne’ marmi ardor sì attivo egl’introduce,
Che ne fa polve e gli adamanti in molte
Minutissime schegge anco riduce.
XIII280
Aperte or mira il mio Pensier due strade,
Ov’entra ogn’Alma, e donde avvien che passi
A quell’immenso albergo, entro cui stassi
L’immensa e sempre viva Eternitade.
5Sul loro ingresso al passaggiero accade
Di ricontrar due Scorte a i primi passi:
Ognuna d’esse appresso a lui già fassi
Compagna al gran cammino in ogni etade.
Ha il sinistro sentier, che al basso guida,
10Sotto a’ morbidi fior l’inciampo ascoso,
E la Scorta è un crudele empio omicida.
Erto è poi l’altro, angusto, aspro e spinoso;
Ma tutta è amor la Scorta, e sempre fida,
E a un beato e la tragge almo riposo.
XIV281
Santificata pria del gran natale
Venne a splender fra noi l’Anima bella,
Pura così, che a lei non era eguale
La più pura del Ciel limpida stella.
5Onde intenta a mirar l’opra immortale,
Rise la Grazia, e se’n compiacque anch’ella;
Poi disse: Entro a’ suoi lumi omai sia tale,
Ch’altra laggiù non fia maggior di quella.
Udiro allora il bel decreto, e santo,
10Le virtù più sublimi, e riverenti
Si poser tutte alla grand’Alma accanto;
E se non feo con esse infra le genti
Portento alcun, fa ben maggior suo vanto
Sì gran fede acquistar senza portenti.
XV282
Tu mi dicesti un dì: nel tuo diletto
Garrulo Canarin l’alma non siede;
Egli è una macchinetta, e tal lo diede
Con gli altri bruti a noi l’alto architetto.
5Egli ne’ moti suoi quel solo effetto
Serba, che in grembo a un oriuol si vede;
E, se l’ala ci distende, e adopra il piede,
Effluvio il trae di esteriore obbietto.
Risposi a te: ma s’egli alto gorgheggia,
10E gorgheggian con lui le ciancioselle
Rondini, e i novi nidi avvien ch’io veggia;
Se così industri a fabbricar le celle
Van l’api, e i cani a custodir la greggia:
Come pon far senz’alma opre sì belle?
ANTONIO MARIA PEROTTI.283
Tempra Dio le vicende e il tutto regge,
Fuggendo l’orme del consiglio umano:
Verga obbedita da lanoso gregge
In scettro cangia a pastorello in mano.
5L’alto destino in fronte a lui si legge,
Che ne’ fratelli suoi cercossi invano:
L’unge il Profeta, ed il Signor l’elegge
Dell’amato Israel duce e sovrano.
O Lambertin, gemma del picciol Reno,
10Sei lune il gran destino in te velato
Stette, come nel Ciel chiuso baleno:
Ma qual gloria fu mai, che invan cercato,
Fosse lunga stagion fra stuol ripieno
D’Eroi sì chiari, ed in te poi trovato?
ORAZIO PETROCHI.
I284
Quel Giove adunque, che potea di strali
Vibrar diluvi dall’etereo polo,
E con un cenno, con un cenno solo
Ridurre in polve i miseri Mortali:
5E quel di Numi eterni, ed immortali
In Ciel possenti, e in terna immenso stuolo,
Lasciò cader miseramente al suolo
Questi suoi Templi eccelsi e trionfali!
Qual possanza, o nemico empio destino,
10Legogli il braccio, che io non vedo i noti
Segni famosi del vigor divino?
Oh stolti! E vi fu pur chi tra divoti
Inni di lode, riverente e chino,
Gli offerse doni su gli altari, e voti!
II285
Questa, che miri di cadere in atto,
Già da tremendo fulmine percossa,
Tomba è di quello che fè l’onda rossa
Da’ suoi destrieri per l’arena tratto.
5E mal per lui s’era mancato al parto
Del sommo Giove; ma d’Amor commossa
Potè Diana (e che v’ha, che Amor non possa?)
Qui trarlo salvo con pietoso ratto
Finchè cedendo nuovamente al Fato,
10In questa poi raccolse Urna funesta
Le smorte membra del suo Virbio amato:
Ma Giove alfin, cui nulla ascoso resta,
Contra dell’Urna de’ suoi strali armaio
Ne atterrò parte, e vi riman sol questa.
III286
Forse, chi sa? Benchè per lor giacesse
L’antica gloria del paterno Regno,
E nel gran fatto (ahi duro caso indegno!)
La miser’ Alba al cader lor cadesse:
5Forse pietosa a tre Campioni eresse
Questa gran Tomba d’onoranza in segno,
Onde un valor di miglior sorte degno,
Noto a’ suoi figli ed immortal vivesse.
Chè se il Roman più scaltro assai che forte,
10Non più soffrendo la gravosa soma,
Allor seguìa degli altri due la sorte,
Di lauro trionfal cinta la chioma,
Portando all’Universo e vita e morte,
Regnerebbe Alba, e servirebbe Roma.
IV287
Io chiesi al Tempo. Ed a chi surse il grande
Ampio Edifizio, che qui al suol traesti?
Ei non risponde: e più veloci, e presti
Fuggitivo per l’aere i vanni spande.
5Dissi alla Fama: O tu, che all’ammirande
Cose dai vita, e questi avanzi, e questi?...
China ella gli occhi conturbati, e mesti,
Qual chi doglioso alti sospir tramande.
Io già volgeo maravigliando il passo;
10Ma su per l’alta mole altero in mostra
Visto girsen l’Obblìo di sasso in sasso;
E tu, gridai, forse il sapresti? ah mostra...
Ma in tuono ei m’interruppe orrido, e basso
Io di chi fa non curo: adesso è nostra.
V
Qui dunque, dove il Pastorel la greggia
Difende appena dagl’ingordi lupi,
E dove fra scoscesi ermi dirupi
Scarsa per lei cibare erba verdeggia;
5Qui dove raro avvien, ch’orma si veggia
D’uman vestigio, ma solo vaste rupi
S’alzano, ed antri solitari e cupi,
Qui fu d’Ascanio la famosa Reggia?
Ed Alba è questa? E quinci venne il fiero
10Popol di Marte, che sì chiaro in guerra
Su quanto il Mar circonda ebbe l’impero?
Ahi tempo, ahi tempo! E qual sarà qui in terra
Cosa, che duri con piè saldo e intero,
Se tu, bella Città, giaci sotterra?
VI288
Qual Uom se ’n va talor, cui di repente
Strano prodigio appare, o cosa vede,
Che i sensi frali, e la credenza eccede,
Talchè si muove appena, e si risente:,
5Tal me ’n vò se fermo, e ben sovente
Soglio fermar, l’Appia mirando, il piede,
E per spazio lunghissimo non crede
L’occhio a sè stesso, e la stupita mente.
E mentre osservo le reliquie intorno,
10Reliquie eccelse, che rimangon fuora,
E fanno il Piano, e fanno il Colle adorno;
Oh quanto maestosa, esclamo allora,
Quanto o bell’Appìa sarai stata un giorno,
Se han maestà le tue ruine ancora!
VII289
Qui, dove il Cacciator, che mai non langue,
Stende intorno le reti, e poi s’appiatta
O di retro ad un sasso, o in quella fratta,
Nulla o spine temendo, o morso d’angue;
5Qui fu la terra di Latino sangue
Dal valoroso Enea purpurea fatta,
E con pallida fronte, e contraffatta
Qui giacque Turno freddo tronco, esangue.
E se i Cultor di mezz’estate ignudi
10Fendono il suolo: ecco in orribil vista
Ossa, più che cimier, saette, e scudi.
Oh di regnare ingorda voglia, e trista!
Mirate o Geni sanguinosi, e crudi,
Per quale strada il vostro onor s’acquista!
VIII290
Eppur la cruda ingiuriosa Etate
Al Lazio tutto acerbamente infesta,
Di Tullio al nome ossequiosa arresta
L’invido morso, e le sue forze usate.
5Vedi fra cento altere opre lodate,
Che qui già furo, come innalza questa
Sua mole in aria la superba testa,
E sprezza i venti, e le procelle irate.
E il tempo stesso, che pietoso siede
10Sull’alta cima, e contra sè le giura
Dopo mill’anni, e mille eterna fede;
All’empio Antonio la crudele, e dura
Morte rampogna, e al Ciel vendetta chiede
Per l’estrema di Roma aspra sventura.
IX291
Nettuno un dì, che diroccate in parte
Vide le Terme spaziose, e belle,
Onde la grande Augusta oltre le stelle
Andò chiara e superba in mille carte;
5A sè chiamando in la segnata parte
Le minacciose torbide procelle,
Queste riprese in volto irato, e quelle,
Che avean sul lido l’ampie moli sparte.
E non sia più, gridò, chi l’ardir cieco
10Ai sacri avanzi stenda, e con sue risse
A loro insulti in villan’atto, e bieco:
Quindi a firmare ciò, che allor prescrisse,
Dal cupo uscendo imperial sul speco,
Sull’alto scoglio il gran decreto scrisse.
X292
Lanuvio è questo, e quinci il forte e chiaro
Stuol de’ Miloni, e de’ Mureni uscìo,
E quel si egregio Imperadore, e pio,
Cui tanti in Roma archi, e trofei s’alzaro.
5E benchè il Tempo invidioso, e avaro,
Quasi con note di profondo obblìo,
Con altro nome il nome suo coprìo
Presso del Vulgo stolido, ed ignaro;
E non coprì, nè coprirà giammai
10Quella, che i figli suoi sparsero intorno
Altera luce d’infiniti rai.
E suo malgrado ella di giorno in giorno
Bella s’avanza più di prima assai:
L’Empio se ’l vede, e n’ha vergogna, e scorno.
XI293
Ah! Che giovò di centò Regi, e cento
Mostrar l’effigio intorno intorno appese,
E le colonne in lungo ordine stese,
E gli scrigni dell’oro, e dell’argento?
5Se poi, bella Città, dall’ardimento
Del Tempo ingordo nulla ti difese
Nè alcun’orma di te serba il Paese,
Onde si possa dir: quì fu Laurento
Forse il capo alzeresti al Ciel vicina,
10Se una sorte scieglievi umìle, e bassa,
Altrui lasciando il nome di Reina:
Così piccol tugurio il fulmin lassa
Illeso, e con immensa ampia ruina
L’alte torri, ed i monti apre, e fracassa.
XII294
Così girassi men veloce, e presta,
Cieca Fortuna, il tuo volubil legno;
Deposte l’arti ed il fallace ingegno,
Meno avversa a noi fossi, e men molesta:
5Che or non vedresti in quella parte, e in questa
Giacere al suolo di vendetta in segno
Il Tempio tuo, che pien d’ira, e di sdegno
Tra l’erbe ognun co’ piedi urta, e calpesta.
Tu di giusta in sembiante a i voti arridi
10Dell’Uomo, e poi di lui giuoco ti prendi,
E sul grave suo danno esulti, e ridi.
Vè, come il Tempo il tuo costume ammendi,
E come sprezzi tuoi lamenti, e gridi:
Or vanne iniqua, e a serbar fede apprendi.
XIII
Qual misero Cultor, che al campo arriva
Dopo fiera tempesta, e mira oppresse
In un colla sperata arida messe
L’acerbe poma, e la ferace oliva;
5Si batte l’anca il meschinello, e in riva
Si pone al fonte, e di querele spesse
Empiendo l’aere, pallide, e dimesso
Volge le luci: e or va, dice, e coltiva.
Tali sarebbon all’aspetto, e ai pianti,
10Se lo spirto tornasse, onde fu sciolto,
Gli eroi Latini, che fiorito avanti;
Seppur fra le rovine il Lazio involto
Mirando, ed archi e moli e templi infranti,
Non si coprisser per pietade il volto.
DOMENICO PETROSELLINI.295
Ecco la Donna, che dal Regno Franco
Scende per l’Alpi al bel Panaro in riva,
Che cinto della verde alga nativa
Per gioia dalle spume alza il crin bianco.
5Vien, e seco conduce al lato manco
La smarrita gran tempo e fuggitiva
Pace, che mal reggendo in man l’uliva
Si stringe timidetta al regio fianco.
Lo strazio il sangue e l’aperte ferute
10Storia296 le mostra, e il lamentar rinnova
Ancor non sazia di chiamar salute.
Ahi per l’amato Sposo, e per la nova
Vicina Prole, e per la tua virtute
Volgile un guardo, che a pietà ti mova!
CONTE VINCENZO PIAZZA.
I
Pastor correte a rinforzar le sponde,
Ch’urta e fracassa il contrastar possente
Del minaccioso orribile Torrente
Gravido omai più di terror, che d’onde.
5Ma ognun s’arretra, e ognun ricerca altronde
A sè lo scampo, e al comun mal consente;
E chi sovra il Vicin l’alta Corrente
Rovesciar pensa, e ’l rio pensiero asconde.
Chi la greggia ritira, chi di folti
10Ripari arma gli alberghi, e chi ne’ flutti
I tronchi usurpa all’altrui rive tolti.
Fian da l’orrenda Piena al fin distrutti
E alberghi e campi. Era pur meglio, o stolti,
Alla comun salvezza accorrer tutti.
II
Incauto Peregrin, che i passi allenta
Al mormorar d’un Rivo, e sen compiace,
Obblìa il viaggio, sulla sponda giace,
E appoco appoco alfin vi s’addormenta.
5Destosi poscia allor, che un tempo spenta
E’ già nell’ombre la dìurna face,
Trema pentito, e il rauco suon fugace
Del Rio, che dilettollo, odia, e paventa.
Così me pure un lusinghiero invito
10Dal buon cammin sorprese, e i sensi oppresse,
Talchè lunga stagion posai su ’l lito.
Or che mi desto, e fra le tetre, e spesse
Tenebre degl’inganni è il cuor pentito:
Mi danno orror le mie delizie istesse.
GIO: DOMENICO PIOLI.297
Sacro Imeneo, per le tue faci accese
Con tanto puro, e tanto eguale ardore
Entro il sen di Camillo, e quel d’Agnese
Di tutto il suo poter spogliasti Amore.
5Questo avean di valor le dolci offese
Dell’aureo strale suo, tutto nel cuore
Di questi amanti Eroi tua man distese,
Trofeo di Fede di Costanza, e Onore.
Sicchè privato Amor d’armi, e d’orgoglio
Per virtù di quest’Alme, or nè tuoi doni
Spera Gloria portar le Grazie in soglio:
E riveder per loro i Marc’Antoni
Lepanto spera, i Mari il Campidoglio,
I Pauli il Vatican, l’Orbe i Scipioni.
ANGELO POGGESI.
I298
Schifar le rose, ed abbracciar le spine,
Non curare diletti, e porsi in guai,
Un carcere bramar, che non ha fine
Senza speranza d’uscir fuor giammai;
5Di serva in guisa aver reciso il crine,
Bendar degli occhi i luminosi rai,
Questi saranno i vanti e le meschine
Glorie, se i Chiostri ad abitarne andrai,
Sconsigliata Donzella arresta il piede;
10Ove ti porta un folle e van desìo?
E chi mi toglie così ricche prede?
Sì disse il Mondo; ed ella affisa in Dio
Con occhio fermo d’animosa fede,
O sprezzò ’l sermon empio, o non l’udìo.
II
S’Io vi bendo, occhi miei, non vi dolete,
Che sol vi privo di caduchi oggetti,
Ed ho nell’Alma inestinguibil sete
D’eterne gioie e sovruman diletti.
5S’io vi bendo, occhi miei, meco godete,
Che son chiuse le porte a’ ciechi affetti,
Che Ragion nel suo regno alta quiete
Prova, ed ha i sensi al suo voler soggetti.
S’io vi bendo occhi miei, quest’atto mio
10Deh non prendete, occhi miei cari, a sdegno
Che ciò fa chi ben crede e spera in Dio.
Io vi bendo occhi miei perchè discerno,
Che così farò pago il gran desìo,
C’ho di fissarmi nel bel Sole eterno.
III
Rapace mano un dì, che Amor dormìa,
Del fianco gl’involò l’arco e gli strali,
E desto il cattivel cercando gìa
Delle care perdute armi fatali;
5Quando a caso passò Donna per via
D’alte bellezze alle celesti eguali;
Ei visto il doppio lume, onde ferìa,
Repente a quel fulgor dispiegò l’ali.
Ivi lo spiritello, ivi s’ascosse,
10E me, che del suo mal rider già vide,
Con quei begli occhi a saettar si pose.
Poi disse: Or vanne, ed il tuo cuor s’affide
A beffarsi d’Amor: tal fin propose
In Cielo, in Terra a chi di lui si ride.
IV
Nobil gara tra’ Numi in Ciel s’accese
Di coronar, Vittorio, il tuo gran merto:
Io, disse Apollo, del mio laureo serto
Il debb’ornar, che mai dolce arte apprese.
5A me convien, Cillenio anche a dir prese,
Che lo rendei nel ben parlar sì esperto:
A me, proruppe Astrea, che’l dubbio incerto
Mar delle Leggi mie scorse e comprese.
Or via pongasi fine alla gran lite,
10Replicò Apollo; niun di voi giù scenda,
Ma pur si faccia in questa guisa: udite.
Per man del nostro alto Averanio ei prenda
L’alma corona, che in lui tutte unite
Son le bell’Arti, e ad imitarlo attenda.
V
Gli Astri più bei della superna mole
L’alta mia Donna al paragon vincea,
Tanto era bella, e dentro e fuor splendea,
Che per ridirlo altrui non ho parole.
5Or quali s’aggira intorno al mio bel Sole
Fosco velo importuno, e nube rea?
Ahi che non splende più come solea,
E a tal vista la Terra e ’l Ciel si duole.
Ditemi, o Stelle, e qual funesto evento
10Vestir le fece un sì lugubre ammanto?
Ma nò; dirovvi or io ciò, che ne sento:
Una bella pietà del mio gran pianto,
Una bella pietà del mio tormento,
Vestir le fece un sì lugubre ammanto.
VI
Se cruda è Filli, e più s’inaspra al pianto,
Al pianto mio, che romperebbe i marmi,
Faccia l’estremo di sua possa, e s’armi,
Di fierezza maggior, che mi dò vanto
5(Se quel Damone io son celebre tanto
Per la virtù de’ miei magici carmi)
Far sì, che di rigore or si disarmi,
E ratta corra all’amoroso incanto.
Quà la portate, o miei possenti versi,
10Ch’io tre volte all’altar giro l’immago
Stretta a tre lacci di color diversi.
E tre volte le pungo il cuor con ago;
Quà la portate, o miei possenti versi.....
Ma fermate, ch’è giunta, ed io son pago.
GIO: BATTISTA RECANATI.
I
Come Nocchier, che in mezzo al Mar molt’anni
Abbia passati in periglioso orrore,
Se in porto avviene mai, ch’egli dimore,
Gode in narrar gli scorsi acerbi danni;
5Io così appunto, a cui con mille inganni
Mille tempeste ha suscitato Amore,
Appena giunto dal periglio fuore,
Prendo diletto de’ passati affanni.
Ed il diletto poi tanto si avanza,
10Che un pensiero entro me fomento e accoglio,
Che ardire è pure, ed io nomo costanza.
Quindi ripien d’un forsennato orgoglio,
Donde timor dovrei, tragge baldanza,
E de’ miei mali sempre più m’invoglio.
II
Dolce Pensier, della mia mente figlio,
Nodrito di dolore e di speranza,
Veggio, che in te l’ardir tanto si avanza
Quanto scorgi più grande il tuo periglio.
5Ed io ben folle al falso tuo consiglio
Tutta di questo cuor dò la possanza,
E benchè veggia l’empia tua baldanza
A morte trarmi, a te pure mi appiglio.
E faccio come intrepido soldato,
10Che di fuoco e di ferro in mezzo al risco
Stassi costante del suo Duce a lato.
Ma se per secondarti opro, ed ardisco,
Pensar dei, che dal mio pende il tuo fato,
E t’è forza languir quando io languisco.
III299
Un dì lo Spirto, a cui forse dovea
De’ sommi giri appartener la cura,
Invidiosa al suo Fattor Natura
Ruba, e ristringe entro mortale idea;
5E per non apparir del furto rea,
Anzi trar lode dall’altrui fattura,
In te, Donna, celò l’anima pura,
E la gran luce anco celar credea.
Ma come, benchè in dense nubi avvolto,
10Pur del Sole a noi traspira il raggio,
Che tenta in van calarsi invido il Cielo:
Così ristretto nel corporeo velo,
Ad onta ancor del tuo mortal servaggio,
Quello Spirto divin ti brilla in volto.
IV
Sola cura di Filli, e sol diletto,
Lauro gentile in lieto suol sorgea,
Con cui sè spesso misurar solea,
E del pari con quel crescea ’l suo affetto.
5Di starsi impaziente a lei soggetto,
Già sovra il paragone egli si ergea;
Ed ella, ch’esser vinta pur godea,
Di lui ’l crin si fregiava a suo dispetto,
Invidiò il vento tanto amore, e svelse
10Dalle radici il ben cresciuto legno,
E in un il cuor dal petto a lei divelse.
Apollo di pietade arse, e di sdegno,
E luogo infra i suoi lauri in Pindo scelse
Per trapiantarlo, il più onorato e degno.
DEL BALY GREGORIO REDI.
I300
Quella, che in man di Titiro concento
Sì dolce e altier Lira immortal rendea,
Da un ramo d’un allòr muta pendea,
Se non quando suonar faceala il vento
5Eudosso di staccarla ebbe ardimento,
Ed al tocco di lui sì rispondea,
Che Roma, e Italia, e ’l Mondo tutto empiea
Di maraviglia insieme e di contento.
Ma poichè anch’egli cesse al fato, e meste
Ne gir ripiene di pietate, e d’ira
10Le Muse alme di Lazio in negra veste;
Febo dolente, onde la dolce Lira
Ad altrui di toccar speme non reste,
Del Pastor la gittò dentro la pira.
II
Or ch’il rigor d’una Beltà tiranna
Servì di Medicina al mal d’amore,
E da un lungo crudel febbrile ardore
Libera è l’alma, e ’l folle error condanna;
5Avvertite, occhi miei, se lei, che inganna
Col finto riso, rincontraste fuore,
Tosto correte ad avvisarne il cuore,
Che per la libertà tanto si affanna
Ed in guardia di lui, perchè non ceda,
10I pensieri più saggi indi ponete,
Cui non il Senso, ma Ragion presieda.
Ma chiudetevi voi, se saggi siete,
Perchè voi lei, ed ella voi non veda:
Il periglio che v’è, voi lo sapete.
III
Con voce umìl per grazia, e per mercede,
Dimesso in volto, e pieno di dolore,
Qual pover Peregrino albergo chiede
Cupido quel solenne ingannatore
5Ma appena dentro accolto egli si vede,
Ch’ei sol le chiavi vuol tener del cuore;
Ne scaccia la Ragion, perchè una sede
Sola non può capir Ragione, e Amore.
E nuova v’introduce, e fiera gente,
10Sospetto, gelosìa, timore, affanno,
E ’l senso, perchè dia legge alla mente.
Deh non ricetti Amor chi con suo danno
Non vuol veder cangiato immantinente
L’Ospite mansueto in fier Tiranno.
IV301
Chiudeva i vaghi lumi in dolce obblìo
Quel, che dà legge agli astri, e imper’ai venti,
Tacean l’aure d’intorno, e i molti argenti
Teneva immoti ossequioso il Rio.
5Nel silenzio commun volea sol’io
Al Fanciullo formar nenie innocenti,
Ma d’un profano stil rime dolenti
Potean turbare il sonno al nato Dio:
Quando, o Fidanna, udii quell’amoroso
10Tuo canto del celeste esempio e norma,
Ch’al Bambin lusingava il bel riposo.
Segui a cantare: e se per l’Uom riforma
Quel sonno d’Eva il male, in suon pietoso
Donna più saggia canti, acciocch’ei dorma.
DOTTOR FRANCESCO MARIA REDI.
I
Donne gentili, devote d’Amore
Che per la via della Pietà passate,
Soffermatevi un poco, e poi guardate
Se v’è dolor che agguagli il mio dolore.
5Della mia Donna risedea nel cuore,
Come in trono di gloria, alta onestate,
Nelle membra leggiadre ogni beltate,
E ne’ begli occhi angelico splendore.
Santi costumi, e per virtù baldanza,
10Baldanza umìle, ed innocenza accorta,
E fuor che in ben’oprar, nulla fidanza:
Candida Fè, che a ben amar conforta,
Avea nel seno, e nella Fè costanza:
Donne gentili, questa Donna è morta.
II
Era disposta l’esca, ed il focile
Per destar nel mio seno un dolce ardore:
Sol vi mancava qualche man gentile,
Che battesse la selce in mezzo al cuore.
5Quando Madonna alteramente umìle
Ver me si fece in compagnia d’Amore;
E colla bella man non ebbe a vile
Trarmi dal sen qualche favilla fuore.
Ma sì ratto l’incendio allor s’apprese,
10E sì vasto, e sì fiero, e sì stridente,
Che tutto il seno ad occupar si stese.
Ah! che il fuoco d’Amor serpe talmente,
Che quella stessa man, che in pria lo accese,
A frenarlo dappoi non è possente.
III
Fra l’atre vampe d’alta febbre ardente
Geme assetato entro all’odiose piume
Fanciullo infermo; e si raggira in mente
L’ingorde brame d’assorbirsi un fiume.
5Se quelle vampe mai restano spente
Per virtù d’erba, o per pietà d’un Nume,
Avvien che sano egli nè men rammente
Del già bramato rio l’ondose spume.
Tal io, cui già di sitibondo ardore
10Per la vostra beltà, Donna m’accese
L’anima inferma il dispietato Amore:
Or che lo sdegno in sanità mi rese
L’aride fibre, io non ho più nel cuore
Quel desìo, che di voi già sì mi prese.
IV
Quasi un popol selvaggio, entro del cuore
Vivean liberi e sciolti i miei pensieri;
E in rozza libertade incolti, e fieri,
Nè meno il nome conoscean d’Amore.
5Amor si mosse a conquistargli; e ’l fiore
Spinse de’ forti suoi primi Guerrieri;
E de gl’ignoti inospiti sentieri
Superò coraggioso il grande orrore.
Venne, e vinse pugnando: e la conquista
A Voi, Donna gentil, diede in governo,
A Voi, per cui tutte sue glorie acquista.
Voi dirozzaste del mio cuor l’interno;
Ond’io contento, e internamente e in vista,
L’antica libertà mi prendo a scherno.
V
Coltomi al laccio di sue luci ardenti
Costei mi chiuse in rea prigione il cuore,
E diello in guardia al dispietato Amore,
Che di lagrime il pasce e di lamenti.
5Quanti inventò giammai strazi e tormenti
D’un rio Tiranno il barbaro furore,
Tutti ei sofferse in quel penoso orrore,
Dove ancor mena i giorni suoi dolenti.
Nè scamparne potrà, perchè quel fiero
10Amore ha posti a custodir le porte
Tutt’i Ministri del suo crudo Impero.
E de’ suoi ceppi e delle sue ritorte,
S’io ben comprendo interamente il Vero,
Ha nascosto le chiavi in seno a Morte.
VI
Lunga è l’arte d’Amor, la vita è breve,
Perigliosa la prova, aspro il cimento,
Difficile il giudizio, e al par del vento
Precipitosa l’occasione e lieve.
5Siede in la Scuola il fiero Mastro, e greve
Flagello impugna al crudo uffizio intento;
Non per via del piacer, ma del tormento,
Ogni discepol suo vuol, che s’alleve.
Mesce i premi al gastigo, e sempre amari
10I premi sono, e tra le pene involti
E tra gli stenti, e sempre scarsi e rari.
E pur finita è l’empia Scuola, e molti
Già vi son vecchi: e pur non v’è chi impari,
Anzi imparano tutti a farsi stolti.
VII
Negli occhi di Madonna è sì gentile
Talor lo sdegno e sì vezzoso appare,
Ch’egli rassembra un increspato Mare
Dall’aura dolce del novello Aprile.
5Se questo Mare alteramente umìle,
L’onde movendo orgogliosette e chiare,
Da sè rispinge in vaghe fogge, e care,
Ciò, che in lui si posò d’immondo e vile:
Tal di Madonna il vezzosetto sdegno
10D’ogni Amante respinge ogni desire,
Che di sua purità le sembr’indegno:
Ma a ben’anco inferocirsi all’ire,
Sollevando tempeste ad alto segno,
Se sommerger fia d’uopo un folle ardire.
VIII
Aperto aveva il Parlamento Amore
Nella solita sua rigida Corte,
E già fremean sulle ferrate porte
L’usate guardie a risvegliar terrore.
5Sedea quel superbissimo Signore
Sovra un trofeo di strali, e l’empia Morte
Gli stava a fianco, e la contraria sorte,
E ’l sospiro e ’l lamento appo il dolore.
Io mesto vi fui tratto e prigioniero:
10Ma quegli, allor che in me le luci affisse,
Mise un strido displetato e fiero;
Poscia egli aprì l’enfiate labbra, e disse:
Provi il rigor costui del nostro impero;
E il Fato in marmo il gran decreto scrisse.
IX
Ameno è il calle, e di bei fiori adorno,
Che guida all’antro del gran mago Amore.
Spiranvi ogn’or soavità d’odore
Aurette fresche a più d’un fonte intorno.
Ma giunto appena a quel mortal soggiorno,
O volontario, o traviato un cuore,
E la noia vi trova ed il dolore,
E con la noia e col dolor lo scorno.
Lamie, Strigi, Meduse, Arpìe, Megere
10Se gli avventano al crine, e in sozzi modi
Lo strazian sì, che forsennato ei pere.
E s’ei non pere, con incanti e nodi
Lo costringono a gir tra l’altre fiere
Ne boschi a ruminar l’empie lor frodi.
X
Dentro il mio seno addormentato Amore
In un dolce letargo era sepolto;
Ma strepitosa la beltà d’un volto
M’entrò per gli occhi, e trapassò nel cuore.
5E vi feo così strano alto romore
Vedendol quivi tra le piume avvolto,
Ch’ei fu ben tosto da quel sonno sciolto,
E n’ebbe sdegno, e ne serbò rancore
Non contro lei, ma contro me, che sono
10Dell’albergo il Signore; e già suo strale
Mi drizza al fianco, e già ne sente il suono.
Ma voi, Donna, cagion del mio gran male,
Difendetemi almen per vostro dono;
Che natural mia forza a me non vale.
XI
Estinguer mai non credo il grande ardore,
Che nel mio sen barbaramente accese
Quel dispietato incendiario Amore,
Che me per scopo alla sua rabbia prese.
5Se l’esche ardenti allontanai dal cuore,
Più sfogato l’incendio al cuor s’apprese
E se vi sparsi lagrimoso umore,
Non rintuzzollo, anzi più fiero il rese.
Se fuggir procurai dall’empio luoco,
10Dove nacque l’incendio, allor m’avvidi
Che con me stesso io trasportava il fuoco
E se in te, crudo Amor, con alti stridi
Cerco muover pietade, e tu per giuogo
M’accresci il male, e poi di me ti ridi.
XII
Ape gentil, che intorno a queste erbette
Susurrando t’aggiri a sugger fiori,
E quindi nelle industri auree cellette
Fabbrichi i dolci tuoi grati lavori;
5Se di tempre più fine e più perfette
Brami condurli, e di più freschi odori,
Vanne a i labbri e alle guance amorosette
Della mia bella e disdegnosa Clori.
Vanne, e quivi lambendo audace, e accorta,
10Pungila in modo, che le arrivi al cuore
L’aspra puntura per la via più corta.
Forse avverrà che da quel gran dolore
Ella comprenda quanto a me n’apporta
Ape vie più maligna, il crudo Amore.
XIII
La beltà di Madonna entro il mio cuore
Passò così guerriera, e sì lo prese,
Che senza ch’ei potesse far difese,
Vi stabilì la Sgnoria d’Amore.
5Quel tirannico allora empio Signore
D’ogni bene a spogliarlo in prima attese;
E poscia un fuoco sì crudel v’accese,
Che dura ancor quel maledetto ardore.
E perchè l’Alma a ribellar non pensi,
10Tutte sbandì le sue potenze, e lei
ommise in guardia alla follìa de’ sensi:
E con modi superbi, indegni, e rei
La costrinse a pagar tributi immensi
Di sospiri, di lagrime, e d’omei.
XIV
Oggi il giorno dolente, e questa è l’ora
Che Tu fosti, o Signor, trafitto in Croce
Questo è il momento, in cui per duolo atroce
Dal sacro corpo tuo l’Alma uscì fuora.
5In questo stesso le tue grazie implora
Il mio lungo fallir con umil voce:
Corri, pietoso Dio, corri veloce,
E il mio pensier per tua pietà rincora.
O mio Dio, tu ben sai, che mille volte
10In me svegliasti il pentimento, e poi
Ebbi a nuovo peccar l’opre rivolte.
Or tu Signor, che il mio pentir pur vuoi,
Mentre io combatto le mie voglie stolte,
Fermalo nel mio cuor co’ chiodi tuoi.
XV
Oltre l’usanza sua un giorno Amore
Sembrò farsi ver me tutto pietoso;
E mirando le piaghe del mio cuore
Taci, mi disse, che averai riposo.
5Io tacqui, e taccio; ed il mio gran dolore
Nel profondo del cuor tengo nascoso,
E taccio in modo, che dal petto fuore
Un sol sospiro tramandar non oso.
E tacerò; ma pure alfin vorrei,
10Dopo un sì lungo e tacito martire,
Il riposo veder a’ giorni miei,
Temo, che il falso Amor volesse dire
Con empio inganno, che riposo avrei
Non dalla Donna mia, ma dal morire.
XVI
Era il primiero Caos, e dall’oscuro
Grembo di lui ebbe il natale Amore,
Che dissipò quel tenebroso orrore,
Onde le belle idee prodotte furo.
5Tal nella mente mia fosco ed impuro
Stavasi in prima un indistinto orrore,
Quando Amor pur vi nacque, e al suo splendore
Tosto io divenni luminoso e puro.
Natovi Amore, egli inspirò la mente
10Al desìo del sovrano eterno Bello,
Che solo, ed in sè stesso ha la sorgente.
E perchè sempre io fossi intento a quello,
Sempre voglioso, e viè più sempre ardente,
Fe’ vedermene in voi, Donna, il modello.
XVII
Donna gentil, per voi mi accende il cuore
Quegli non già, che di fralezza umana
E d’ozio nacque, e che vien detto Amore
Da gente sciocca lusinghiera e vana;
5Ma quell’eterno, che di puro ardore
L’animo infiamma, e d’ogni vizio il sana,
E lo rinfranca, e dona a lui vigore,
Per gire al Cielo, e l’erte vie gli spiana.
Ammiro in prima il vostro Bello esterno,
10Trapasso poscia a vagheggiare ardito
Di vostr’Alma immortale il pregio interno.
Quindi fattomi scala, e al Ciel salito,
Volgo il pensiero a contemplar l’eterno,
Che sol trovasi in Dio, Bene infinito.
XVIII
Chi è costei, che tanto orgoglio mena
Tinta di rabbia, di dispetto, e d’ira,
Che la speme in amor dietro si tira,
E la bella pietà stretta in catena?
5Chi è costei, che di furor sì piena
Fulmini avventa quando gli occhi gira,
E ad ogni petto, che per lei sospira,
Il sangue fa tremar dentro ogni vena?
Chi è costei, che più crudel che Morte,
10Disprezzando ugualmente Uomini e Dei,
Muove guerra del Ciel fin sulle porte?
Risponde il crudo Amor: Questa è colei,
Che per tua dura inevitabil sorte
Eternamente idolatrar tu dei.
XIX
Gran misfatti commessi aver sapea,
Scapestrato Fanciullo, il cieco Amore,
E della Madre a gran ragion temea
Il provato più volte aspro rigore.
5Gittossi in bando, ed alla strada, e fea
Con mille altri Amoretti il rubatore;
E vi spogliò di quanto Bene avea
Il pellegrino mio povero cuore.
Altro Ben non avea, che in libertade
10Viver tranquillo, ed ei gliel tolse, e volle
Farmi servo in catena a una Beltade;
A una Beltade si proterva, e folle,
Che dal seno ogni speme ognor mi rade,
E fin lo stesso lacrimar mi tolle.
XX
Colle sue proprie mani il crudo Amore
Barbaro Notomista il sen mi aperse:
E tratto fuora il povero mio cuore
Gl’aspri malori suoi tutti scoperse.
5Vide, che un lento, e sempre acceso ardore
Tutte le fibre di velen gli asperse;
E vide secche, e totalmente sperse
Le due sorgenti del vitale umore.
Vide la piaga, ch’altamente in lui,
10Donna, faceste tanto acerba, e tanto;
Quindi rivolto alli Ministri sui,
Disse: è miracol mio, è mio gran vanto,
Forza è dell’arte mia, come costui
Abbia potuto mai viver cotanto.
XXI
Sovra un trono di fuoco il Dio d’Amore
Stava sedendo, e vi tenea sua Corte,
E spalancate al Tribunal le Porte,
Spirava orgoglio in maestoso orrore:
5Ordigni di barbarico rigore
Da quei muri prendean, lacci e ritorte,
E mille inciampi di contraria sorte,
E mille inganni di quel reo Signore.
Curioso desìo colà mi spinse
10Sol per vedere, e senz’altro pensiero;
Ma un fiero laccio il folle piè m’avvinse.
E n’ebbi un duolo sì diverso e fiero,
Che dentro al cuore ogni potenza estinse,
Sì di me prese il crudo Amor l’impero.
XXII
Nel centro del mio seno il nido ha fatto,
E poste l’uova sue l’alato Amore:
Quivi le cova, e già del guscio fuore
Cento nuovi Amoretti escono a un tratto.
5Pigola ognun di loro, e va ben ratto
Il rostro a insaguinar sopra il mio cuore;
Ed io ne sento un così reo dolore,
Che ne son per angoscia omai disfatto.
Altri Amoretti intanto escon dall’uova,
10E con quei primi a pascolar sen vanno,
E ’l mio cuor non iscema, anzi s’innova.
Grifagno Amor, barbaro Amor tiranno!
Gran barbarie è la tua, che chi la prova,
Prova senza morire eterno affanno!
XXIII
Quell’alta Donna, che nel cuor mi siede,
E che de’ miei pensier regge il governo,
È così bella, che del Bello eterno
Ella sola quaggiù può render fede.
5Nol puote immaginar chi non lo vede
Qual sia degl’occhi lo splendore esterno;
Ma vie più caro è quel candore interno,
Che nell’alma purissima risiede.
Oh gran bontà dell’increato Amore,
10Ch’un’anima sì bella a me scoprìo,
Che a venerar mi chiama il suo Fattore!
Or se tanto s’appaga il desir mio
Nel mirar lei, e m’è contento il cuore,
Che sarà in Cielo in contemplare Iddio?
XXIV
Già la civetta preparata, e il fischio,
Amore aveva, ed il turcasso pieno
Di verghe infette di tenace vischio,
E d’amoroso incognito veleno.
5E perchè fosse ai cuor più grave il rischio,
Lacci, e zimbelli racchiudea nel seno,
E reti d’un color cangiante e mischio
Tutto lo zaino suo ingombro avièno.
E quindi al bosco ad ucccellare uscito
10Il malvagio, e perverso uccellatore,
Prese di cuori un numero infinito.
Altri uccise di fatto, altri in orrore
Chiuse di ferrea gabbia; e a questi unito
Or piange, e piangerà sempre il mio cuore.
XXV
Vanarello mio cuor, che gir’intorno
Qual notturna farfalla a un debol lume,
Vi lascerai quelle superbe piume,
Onde ten vai sì follemente adorno.
5Vilipendio per te, vergogna e scorno
In quel fosco splendor fia, che s’allume,
E se non hai più che propizio un Nume,
Veggio nascer per te l’ultimo giorno.
Volgiti a miglior luce, e guarda al Cielo,
10Che ognor ti mostra sue bellezze eterne,
E a sè ti chiama con pietoso zelo:
E pur quelle lassù bellezze esterne
Altro non sono, che un oscuro velo
Di quel Bello immortal, ch’entro si scerne.
XXVI
Di fitto verno in temporal gelato
Trovai Amor mezzo dal freddo estinto,
Ignudo, scalzo, e di pallor dipinto,
Senza la benda, e tutto spennacchiato.
5E vedendolo allora in quello stato
Da una sciocca pietà preso, e sospinto,
Io m’era quasi a ricettarlo accinto
Del tiepido mio sen nel manco lato.
Ma quegli altiero e di superbia pieno,
10Rivolto in me con gran dispetto il guardo,
Di focoso m’asperse atro veleno:
Senti, poi disse, come avvampo, ed ardo
In mezzo al giaccio, e come fuoco ho in seno;
E via sparendo, mi colpì d’un dardo.
GIACOMO RICCATI.302
Quel, che per tante vene, e non invano,
Sincero Insubro sangue in te deriva,
Col puro sangue Carno e col Germano
Misto, o Sposa felice, or si ravviva.
5Pensa agli Avi comuni, in cui fioriva
Vigor di senno e gagliardìa di mano:
Pensa alle Donne illustri, immagin viva
Di prudenza, e del sesso onor soprano.
Mira quei, che cortese il Ciel ti rende
10Genitori novelli, e la modesta
Virtù, che in lor fra le delizie splende.
Poi dì allo Sposo, e in lui lo sguardo arresta:
Oh quanto ad emular da noi si prende,
Oh quanto da imitare a i figli resta!
ELENA RICCOBONI.
Di sdegnoso furor tutto ripieno
Stavasi Amor dal mio dispregio offeso:
Bramò vendetta, e per ferirmi il seno
Sin’or più di un’aguato al cuor mi ha teso.
5Ma invano uscìa lo stral dall’arco teso,
Che spuntato cadea sovra il terreno:
L’Arcier vedendo il suo bersaglio illeso,
Più fiero allor provò d’ira il veleno.
Tutto dispetto alfin spezzò quell’armi,
10Indi togliendo ad Imeneo la face,
Prese da quella il fuoco, onde avvamparmi.
Arrise all’opra il Nume; e fatto audace,
Disse Amore, io potrò pur vendicarmi:
Mi accese il crudo, e un tal ardor mi piace.
GIO. BATTISTA RICHERI.
I
Io già non t’offro indiche gemme ed oro,
Che ricca sorte il Cielo a me non diede;
Ma t’offro eterno amore, eterna fede,
E di carmi immortali ampio tesoro.
5Questi sempre vivranno; e tu per loro,
Cintia n’andrai di chiara fama erede;
E di quella beltà, che in te risiede,
Il grido udrassi ognor dall’Indo al Moro:
Al par di quello della bella Argiva,
10E di mill’altre più famose e mille
Fia, che ’l tuo nome eternamente viva.
Nè già bramo da te, che a mie faville
Arda il tuo cuor: ma sol, che acerba e schiva
Non mi celi il fulgor di tue pupille.
II303
Di Giove intorno al vasto globo io miro
Quattro stelle ora sceme, ed or crescenti
Che nell’alta del Ciel parte s’uniro
Di quel gran Mondo a illuminar le genti.
5Nè col folle pensiero io già deliro
Immaginando colassù Viventi,
Cui riflettan quegli astri erranti in giro
Del Sol, quando s’asconde, i rai lucenti,
Veggiam pur, se la Luna in Cielo appare,
10Che sola a noi splende nell’ombra oscura,
Non ai boschi insensati, ai monti, al mare.
Così ad altri Viventi arde la pura
Luce di quelle argentee faci e chiare;
Che a vuoto oprar non seppe mai Natura.
III304
Là di Saturno al denso globo intorno
Del gran Fabbro divin l’eterna cura
Vasto cerchio formò, che nell’oscura
Notte d’aureo splendor fiammeggia adorno;
5E cinque Lune, a riparar del giorno;
Gli estinti lumi, allor che il Ciel s’oscura
Egli ripose in giro, onde la pura
Luce a quello si sparga ampio soggiorno.
Perchè lontano il Sol così vivaci
10A quel Cielo non vibra i raggi ardenti,
Egli tante v’accese ardenti faci
Fissa in opre sì belle i guardi intenti,
Mira quegli astri luminosi, e taci
Tu, che nieghi a quel Mondo i suoi Viventi.
IV305
Se nel notturno orror, Cintia, ti prese
Giammai desìo di rimirar le stelle,
Tu le credesti picciole facelle
Per vaghezza dei guardi in Cielo appese.
5Eppure l’ererno Creatore palese
Far volle a noi la sua grandezza in quelle;
Che non meno del Sol vivaci e belle
Formolle, e d’immortal fiamma le accese.
Nè quei globi sì vasti, onde riluce
10L’ampio vuoto del Ciel, ei fè per noi,
Che debil ne veggiamo e scarsa luce;
Ma ogni astro è un Sole, che co’ raggi suoi
Altri mondi rischiara, e il giorno adduce
A quante genti immaginar ti puoi.
V306
Già gran madre d’imperi ora sen giace
Donna reale abbandonata e sola:
Gloria non più, solo ricerca pace,
E pace ancora il suo destin le invola.
5Marte con sanguinosa accesa face
A lei d’intorno si raggira e vola;
Piangendo soffre ella i suoi danni e tace,
Rimirando se alcun pur la consola.
Annibale, dal marmo in cui ristrette
10Son tue membra, alza il capo, e a lei rivolto
Lieto rimira alfin le tue vendette.
Ma benchè suo nemico, un nembo accolto
Scorgendo in lei di tante empie saette,
Spero vederti lagrimoso il volto.
VI
Per nero fiume, che sulfurea l’onda
Volge tra sassi, sovra fragil barca,
Ov’è nocchiero Amor, piangendo varca
Catenato il mio Spirto all’altra sponda.
5Ahi qual Terra m’aspetta atra, infeconda
D’ogni vaghezza, e d’ogni pregio scarca!
Ivi l’aria d’orrore ingombra, e carca,
Ivi sol crudo affanno. e pianto abbonda.
Già venni all’altra riva. Ecco s’attiene
10L’àncora al fondo: io scendo, e già d’Averno
Premo col piè le disperate arene.
Ma fugge il tetro orror, e più non scerno
Fiume, barca, nocchier, lido, e catene:
Pur sono ancor nell’amoroso inferno.
VII307
Del vago Adon, per gelosìa di Marte,
Spento Vener piangea l’infausto amore;
Ma non porgean conforto al suo dolore
Tante lagrime e tante indarno sparte.
5Quando ella vide il suo gentil Pastore
Scolto per te, Parodi, e sì dall’arte
Finto il volto divin, che in ogni parte
Più vago era di quel, ch’avea nel cuore:
Frenando allora il pianto suo, risolse
10Dar vita al freddo sasso, e l’immortale
Fuoco dal Ciel per animarlo tolse.
Già gl’infondea nel sen spirto vitale;
Ma la mano arrestò, ch’ella non volse
La bell’opra immortal render mortale.
VIII308
Questa è colei, che abbandonata e mesta
Sull’erme piagge dell’alpestre Nasso
Piacque a Lenèo, che nuovo amante al lasso
Spirto di lei sedò la ria tempesta.
5Ma s’è pur dessa come immobil resta?
Come non volge i rai, nè muove il passo?
E non parla, e non spira? Ah, ch’è di sasso,
E tua grand’opra, o gran Parodi, e questa.
Da qual parte del Ciel l’altra, e serena
10Fronte togliesti, e tai bellezze e tante,
Onde cosa moral rassembra appena?
Oh! se tal d’Arìanna era il sembiante,
Già non avrebbe in sull’ignuda arena
Pianto la fuga dell’ingrato Amante.
IX
Empio tiranno Amore, io dissi un giorno,
Invan sei contro me di strali carco:
Gira pur la tua face all’alma intorno,
Che vedrai chiuso alle tue fiamme il varco.
5Non fa l’incauto cuor più mai ritorno
A quei barbari lacci, ond’ora è scarco:
Colmo pur di dispetto, e pien di scorno
Gitta la rea faretra, e spezza l’arco.
Rivolto a me diss’ei: Nel cuor tu serbi
10Orgoglio così fier, perchè non senti
Più vivo il duol dei primi strali acerbi.
Ma se mirar vuoi come l’arco avventi
Nuove saette, i lumi tuoi superbi
Volgi di Nice alle pupille ardenti.
X
Gonfio torrente, di palustri canne
Cinto le chiome, arresta il corso all’onda,
Arresta il corso, ond’io ti varchi, o vanne
Più lento: Egle m’aspetta all’altra sponda.
5E benchè nato in rozze erme capanne
Farò, che alle tue laudi Eco risponda,
Onde tinto d’invidia il Tebro andranne,
Il Mincio, e Sorga, e quel ch’Etruria inonda.
Deh se giammai per vaga Ninfa ardesti,
10Ch’ardono ancor nel freddo letto i fiumi,
Non sien tuoi flutti alle mie fiamme infesti.
Ma tu non m’odi, e teco selve e dumi
Porti fuggendo. Ah se per me non resti,
Resta almeno a mirar d’Egle i bei lumi!
XI
Cinto il crin di gramigne e di ginestre
L’ispido mio Caprar si ringalluzza
D’intorno a Fille, e il rozzo ingegno aguzza,
E snello fassi come un Fauno alpestre.
5Nè vede il folle di color terrestre
Tinto il suo ceffo, e non sa quanto ei puzza:
Deh, Fille, un tant’orgoglio omai rintuzza,
Ond’egli disperato s’incapestre.
So che di lui ti ridi, e col sogghigno
10Apertamente all’alire Ninfe il mostri;
Ma sappia anch’egli il suo destin maligno.
Digli, che di rossore omai s’innostri,
Mirando al fonte il volto suo ferrigno:
Filli non nacque a darsi in preda a’ mostri.
XII
Allor che Dio nel memorabil giorno
L’Universo creò, nel centro pose
Dell’ampia sfera il Sol di luce adorno,
E virtute attrattrice in esso ascose.
5Per abbellir questo mortal soggiorno
L’aurate Stelle in alto al guardo espose,
E i solidi Pianeti al Sole intorno
In distanze ineguali egli dispose.
A questi allor che di sua mano usciro
10Impresse retto nel gettarli il moto,
Ma per brevi momenti indi il seguiro;
Perchè, attratti dal Sol nel centro immoto,
Forman, piegando il vasto corso in giro,
Eterna elisse nell’immenso vuoto.
XIII
Giace gran Donna; di color di morte
Tinta le guance, e lagrimosa il volto,
E al suol rivolge le pupille smorte,
Per non mirar quanto il destin le ha tolto.
5Languido cade il braccio, che sì forte
Il Mondo a soggiogar fu pria rivolto;
Gli antichi esempi di volubil sorte
L’ira del Cielo in lei tutti ha raccolto.
Passaggier, che la miri, or dimmi: è questa
10Quella che fu nella trascorsa etate
Chiara per tante memorande gesta?
Ah! tu piangi, chè in lei le già passate
Glorie più non ravvisi, e sol le resta
Il misero piacer di far pietate.
XIV
Entro a povera culla Iddio sen giace,
E tra fieri tumulti ha in guerra il cuore,
Che a turbargli del sonno anche la pace
S’arma di rimembranze aspre il dolore.
5Sogna, che dietro ad un piacer fugace
Là corre l’Uom ’ve il guida un cieco Amore,
E benchè la ragion mostri fallace
Il suo cammino, ei vuol seguir l’errore.
Quanto, e per chi soffrire a lui conviene
10Gli dimostra il pensiero, e varie forme
Rinnovarsi nel Mondo ognor sua morte.
Ah! se invece di pace acerbe pene
Avvien, ch’il sonno a lui nimico apporte,
Deh! chi risveglia il mio Signor, che dorme?
QUIRICO ROSSI.309
Io nol vedrò, poichè il cangiato aspetto
E la vi