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Giacea nobil Garzon presso ad un rio;
Ivi sedea la sua vezzosa Clio,
E un vago stuol di Ninfe, e di Pastori.
Tre Donzelle col canto i dolci amori
Sfogavan sì, che Apollo a lor s’unìo,
E disse a quelle: come ben vegg’io
Le Grazie unite a’ miei diletti Eori!
Al crin poi del Garzon formò un innesto
Di sagri allori, e di dorate piume,
Ond’ei levossi in maestade onesto.
L’aere allor balenò di nuovo lume,
E udissi intorno dir: Ulisse è questo,
E risuonar Ulisse il prato, e ’l fiume.
VII
Solo co’ miei pensieri all’aria bruna
Passeggiando una sera al Tebro in riva,
Donna vidi appressarsi a me giuliva,
Dicendo: non temer, son la Fortuna.
Per man mi prese, e poi guidommi in una
Città, che per Entello allor fioriva;
Quando altra donna dispettosa, e schiva
S’armò contro di noi d’ira importuna.
Era l’invidia, e con maligno cuore
Discacciò la Fortuna, ond’io restato
Son come uom cieco in faccia allo splendore.
Or la richiamo, ed al primiero stato
Tornami, dico; non è già tuo onore
Prendermi, e poi lasciarmi abbandonato.
VIII1
Era di filli al cor dolce ristoro
Un Canario gentile a lei diletto,
Che mostrava col canto aver nel petto
Di musici contenti un nobil coro.