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Sulla tua scorza, Arbor gentile, e viva
Sempre mai la tua chioma, il frutto e il fiore,
Dimmi: quinci passò colei, che avviva
E strugge insieme i miei pensieri e il core?
Posò forse il bel fianco in questa riva
Sola? O seco era, ohimè! qualche Pastore?
Chi fu, ch’impresse queste, che riserba
Orme diverse la segnata arena,
E chi premuti ha questi fior, quest’erba?
Ah che un gelo m’è corso in ogni vena!
Albero taci, che s’è tanto acerba
La dubbia, e qual fia mai la certa pena?
XI
Dentro vaghe pupille accolte avea
Le invisibili sue quadrella Amore,
E quivi come accorto Cacciatore,
Che il tempo aspetta, cauto s’ascondea.
Io, che d’usarle frodi non credea
D’uopo avess’egli a saettarmi il core,
Senza por mente e senza aver timore,
Passai laddove ascoso ei m’attendea.
La piaga inaspettata all’alma affanno
Minor recò dell’incivil sorpresa,
Vincer potendo d’altro, che d’inganno;
E conoscermi fece in ogni impresa
Egualmente ferir come Tiranno
E chi lui segue, e chi a lui fa contesa.
XII
La vaga onesta Vedovella, e forte,
Che il Duca Assiro non coll’elmo, e l’asta,
Ma col bel viso, e le parole accorte
Vinse, e restar potèo libera e casta;
Allor che sola l’ebbe tratto a morte,
Che il vino, il sonno, e amor non gliel contrasta,
Di Betulia omai lieta in sù le porte
La testa affisse inonorata e guasta.
Poscia parlò: là nella tenda giace,