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Ditele, come anche il gentil cristallo
Gelisi in grembo d’aspre rupi, e come
Giù nel fondo del mar vive il corallo.
VII
Sì, sì ti veggio: a che saltelli, e scappi
Pel ginestro, rio Satiro maligno?
Ma se fra queste branche un giorno incappi,
Tu non farai più cavriola, o ghigno.
5Veracemente io vuò, che allor tu sappi
S’io son, come tu dì, cornacchia o cigno;
E come ’l cuoio ti si tragga, e strappi
Dalla cornuta fronte al piè caprigno.
Giuro, ch’io vuo’ mangiarti vivo, e l’ossa
10Parte a Greco gittar, parte a Libecchio,
Ove non abbian mai pace, nè fossa.
Così trafisse al derisor l’orecchio
L’alto Ciclope, e fè col piè percossa
Tremar Triquetra, e ’l mar che le fa specchio.
VIII
Eran d’Amor le amare sorti ascose
Al giovinetto errante pensier mio,
Quando nel regno di quel folle Dio,
Ripiegò l’ali, e ’l piede in terra pose.
5Ivi mirando non credute cose,
Mentre il pungea di rivolar desìo,
Gli arse le penne Amor protervo e rio
E ’l duro giogo al debil collo impose.
Nè a lui la nuova età più forte è schermo,
10Perchè più lieve il vada omai portando,
Che più grave divien, quant’è più fermo.
Tornerà forse in libertà: ma quando?
Quando fia pigro al volo, all’opra inferme,
Se pria non muor sott’il suo peso amando.
IX
Sparso il crin di fioretti di ginestra,
Cieco d’amor, più che non son le Talpe;
Così l’aria intronò con voce alpestra,