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Stesi l’ampio dominio in ogni parte:
Ch’ove in pregio eran l’opre, ove all’obblio
Si fea guerra, e fiorian gli studi e l’arte
Ivi era il regno, ivi l’imperio mio.
XIII
Sul Tebro io l’ebbi, e poi che gli occhi al Vero
Aprii, del Verbo all’apparir disparve
Quel tessuto splendor d’ombre e di larve,
Che l’Alme abbaglia, e qui s’appella Impero.
5Stupio Natura, ed inarcò l’altero
Suo ciglio Roma nel gran dì che apparve
Il real fasto conculcato, e parve
Quasi agli occhi negar fede il pensiero.
Ma fatto appena l’immortal rifiuto,
10Me sull’eccelse mie ruine alzai,
Nè a me Regno mancò mai, nè tributo.
E me tant’alto sovra me levai,
Che non ha mai col Regno altri saputo
Regnar, quant’io senza regnar regnai.
XIV1
Morte, che tanta di me parte prendi,
E lasci l’altra del suo albergo fuore,
Se intendesti giammai che cosa è amore,
O ti prendi anco questa, o quella rendi.
5E se tant’oltre il poter tuo non stendi,
Armami almen del tuo natìo rigore,
E contra i colpi del crudel dolore
Tu, che sì m’offendesti, or mi difendi.
Ma nè d’erbe virtù, nè d’arte maga,
10Nè a risaldar bastanti unqua sarieno
Balsami di Ragion sì acerba piaga;
Onde lentando al giusto duol il freno
Forz’è ch’io pianga, e del mio Ben la vaga
Immago adombri in queste carte almeno.
- ↑ Questo, e gli seguenti Sonetti sono in morte di Camilla da Filicaja Alessandri.