Duello d'anime
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NEERA
Duello d’anime
romanzo
MILANO
fratelli treves, editori
1911
Secondo migliaio.
DUELLO D’ANIME
Un libro dovrebbe essere |
Stello vedendo illuminate le finestre del Circolo a quell’ora (oltre mezzanotte) ebbe un lieto sussulto e affrettò il passo sotto il portone ancora aperto, mentre da un piccolo uscio laterale giungevano rumori di sedie smosse e voci alte fra le quali dominava un grido festoso: Viva Filippo Cònsolo!
Il giovinetto — Stello aveva appena vent’anni ed era così esile da sembrare ancora adolescente — spinse quell’uscio con veemenza passando rapido attraverso un breve locale che serviva da vestibolo per entrare nell’unica sala del Circolo dove una quindicina di persone stavano aggruppate, quasi tutte in piedi, intorno a Filippo Cònsolo; fervendo in tutti una gara di potergli parlare direttamente, di ottenerne una parola, uno sguardo.
Stello non ebbe bisogno di chiedere. Comprese che l’amico suo aveva vinto.
Ma allora un assalto improvviso di timidezza, unendosi alla gioia della buona notizia, invece di spingerlo innanzi lo guidò istintivamente verso un cantuccio d’ombra dove giunse inavvertito e dal quale, rimettendosi a poco a poco, potè osservare l’insieme della riunione. Che cosa avrebbe egli detto al trionfatore, poichè la parola elegante di Guido Pesaro sembrava dominare in quel momento le altre ed ogni sorta di complimenti e di felicitazioni erano già state pronunciate senz’alcun dubbio da ognuno di quegli uomini che, pur essendo giovani, lo erano tutti meno di lui e qualcuno di essi vantava un nome già conosciuto? appunto come Pesaro, pieno di un ingegno eclettico che gli permetteva di interessarsi ai più alti problemi sociali non abbandonando gli studi di chirurgia ai quali era particolarmente addetto; o come l’avvocato Daisini, il loro candidato parlamentare, cavaliere senza macchia e senza paura; o come Marco Agrati un po’ frutto secco, oramai, in mezzo a tante speranze giovanili, ma che aveva tuttavia magnifiche doti di intellettualità e di cultura?
Ultimo ascritto a quel gruppo di audaci che non aveva esitato a chiamarsi Circolo degli Eroi, quasi monito costante alla finalità di ciascuno e sfida superba ai deboli ed ai vili, Stello vi si trovava ancora un po’ a disagio, vergognoso della sua nullità. Era stata la sua sconfinata ammirazione per Cònsolo che lo aveva deciso, lui timido agnellino, a entrare in quel branco di lioncelli ruggenti sempre pronti a dare la scalata al cielo, ognuno dei quali avrebbe potuto prendere per motto: “È fra le mie virtudi prima virtù l’orgoglio„.
In Filippo Cònsolo specialmente l’orgoglio si ammantava di così fiere attitudini, ed egli sapeva portarlo con sì nobile disinvoltura, che anche negli eccessi sembrava sul suo dosso la porpora di un re.
Tutto ciò che vi era in Stello di ardenti aspirazioni, di ideali elevati, la sua stessa sensibilità e quel bisogno di slancio che impenna l’ali ad ogni bella fantasia di giovine lo spingevano irresistibilmente verso un modello che gli appariva perfetto. Egli amava in Filippo Cònsolo tutto ciò che egli medesimo avrebbe voluto essere: un ingegno unito ad una volontà, una bellezza ad una forza, una potenza ad una coscienza. Si era dato nella fidente ebbrezza di quell’ora unica nella vita, quando ogni migliore sentimento germoglia nell’anima non ancora tocca dalle prove crudeli, quando in ogni uomo che non sia un degenerato palpita veramente un soffio della divina sostanza in cui si plasmano gli eroi.
La vittoria di Cònsolo era per Stello la vittoria dei propri ideali; e poichè tutta sera egli era passato da un luogo all’altro in cerca di notizie e solo allora, nella festa che gli amici facevano intorno a Cònsolo, aveva avuto la sicurezza del successo, per alcuni istanti si quietò tendendo gli occhi e le orecchie nel frastuono che riempiva la sala.
La formula del Concorso internazionale che il suo amico aveva vinto gli sorgeva nitida nella mente: “Un premio di centomila lire per la migliore opera che o filosoficamente o poeticamente additasse, risvegliando le forze ideali dei giovani, la meta cui tende l’umanità novella„.
Ed egli conosceva il lavoro di Cònsolo pagina per pagina. L’amico glielo aveva letto — a lui solo — in certe ore di febbre intellettuale. Opera altamente filosofica, la percorreva tutta un soffio gagliardo di poesia, e poichè si andava mormorando che l’ingegno di Cònsolo essenzialmente dinamico sembrava riuscire nella missione occulta di attivare le cellule cerebrali anzichè in quella di produrre opere proprie, il trionfo acquistava nella rivelazione un più profondo significato.
Stello disse a sè stesso che finalmente la ricompensa aveva saputo trovare la strada del vero merito; e guardò il suo maestro.
Guido Pesaro continuava a parlare e Filippo Cònsolo lo ascoltava, attento, padrone di sè, dominando l’assemblea colla maestà della sua testa leonina. Per quanto il corpo che la sosteneva fosse di giuste proporzioni, era tuttavia superato, quasi nascosto dalla straordinaria espressione di forza a cui le linee della fronte specialmente davano accento di singolar vigore e che gli occhi sembravano inchiodare con due lame di terso metallo: occhi grigi, di un grigio torbido squarciato a tratti da improvvisi bagliori; occhi freddi con luminosità di ghiacciai; occhi nati per il pensiero, viventi per il pensiero. La bocca il cui labbro superiore si rialzava qualche volta nel mezzo come per allontanarsi sdegnosamente dal contatto, bocca bella e strana di fanciullo crudele che non conosce il bacio e sa invece l’amaritudine del morso, accompagnava con un ritmo di armonia la curva ferma e risoluta del mento perfettamente raso. Tutto il volto, più statuario che umano, più bello che simpatico, si coloriva di un pallore opaco a toni eguali sovra il quale i capelli non molto abbondanti mettevano appena una nota di colore più scuro.
Ad una pausa di Guido Pesaro, Cònsolo rispose:
— Ciò ch’io voglio essere voi non lo sapete ancora.
La sua voce suonò piana, ma si sentiva come avrebbe potuto vibrare alta con maschia sonorità di bronzo e tuonare prepotente, incisiva, dominatrice di turbini e di tempeste.
— Sappiamo che tu devi essere il nostro duce.
— Il nostro duce! il nostro duce! — gridarono tutti.
— Credete in voi stessi, appoggiatevi alle vostre forze, scavate nelle riserve profonde dell’anima vostra. Ogni uomo può essere condottiero di sè stesso perchè virtualmente abbiamo tutti la scintilla dalla quale deve scaturire la luce. L’imitazione è opera sterile.
Così disse Filippo Cònsolo.
— Noi non vogliamo imitarti, ma poichè ci cammini innanzi è giocoforza che ci insegni la strada — ribattè Guido Pesaro.
Daisini soggiunse sorridendo:
— Di tutti noi fino ad ora sei tu solo l’eroe, poichè solo vincesti.
In una tavola a parte l’Agrati e qualcun altro stavano stappando alcune bottiglie di vino di Sciampagna. Stello, approfittando di un momento in cui Filippo Cònsolo era meno circondato, gli si avvicinò per fargli le sue congratulazioni.
Prima di diventargli amico Cònsolo era stato suo maestro. Stello non poteva dimenticarlo; per questo si sentiva umile e piccino al suo cospetto. Nell’ammirazione per l’uomo di pensiero, per l’oratore affascinante, per il dotto, per il saggio, per l’inattaccabile, conservava un poco dell’antica soggezione, di quando Filippo Cònsolo affacciavasi alla cattedra e sotto la sua fronte spaziosa gli occhi corruscanti percorrevano per alcuni secondi i banchi della scolaresca sì che ognuno se ne sentiva tocco. E ricordava i primi entusiasmi, l’estasi congiunta alla gradevole sorpresa di chi vedesse improvvisamente squarciarsi una parete e sorgere di là colle parvenze di un magnifico sogno tutte le bellezze vagamente intuite nell’ardore dell’anima rinchiusa, tutte le verità che la coscienza informe mormorava timidamente al pensiero vigile ma immaturo.
Filippo Cònsolo rappresentava idealmente l’allenatore agile e robusto che lo aveva trasportato dalla grigia palude dove intristiva la sua giovinezza in un aere dolcemente infocato di nobili passioni ritte in armi e pronte a gettarsi nella mischia per sostenere le più audaci battaglie. Meglio che un amore di donna questa amicizia virile era stata al suo palpitante cuore di idealista l’accensione di ogni spirituale fiamma; egli aveva amato ed amava il suo maestro con tutte le forze di un ideale intatto.
Gli si avvicinò tremante di commozione. Che cosa dirgli che non fosse volgare o già detto? Come esprimergli la sua profonda compiacenza di quell’ora?
Cònsolo lo vide venire e gli mosse incontro conscio della timidezza del suo giovane amico. Fu egli che parlò.
— Hai udita dunque anche tu la grande notizia? Scommetto che ne sei commosso.
Si interruppe, guardando fissamente gli occhi di Stello in un angolo dei quali luccicava una piccola stilla. Sorrise allora e dandogli un buffetto sulla guancia mormorò:
— Fanciullo!
Intanto incominciavano a girare i calici spumeggianti di sciampagna. Marco Agrati ne presentò uno a Filippo Cònsolo pronunciando con enfasi:
— II Circolo degli Eroi beve alla salute del suo re!
Venti calici si alzarono, venti voci gridarono evviva. Cònsolo si chinò verso Agrati e Daisini che gli stavano dappresso, e disse loro a bassa voce: — Omnia mihi licent sed ego sub nullus redigo potestate.
Gli amici sapevano che era questo uno de’ suoi motti favoriti e l’averlo pronunciato in quel momento significava che egli non si sarebbe lasciato abbagliare neanche dal successo. In realtà aveva paura di soccombere a una sensazione di piacere che gli sembrava meschina, indegna del suo grande orgoglio. Pensava che quando uno sente veramente in sè la forza di un trionfatore deve accogliere il trionfo come condizione normale della propria esistenza; e si impose una maschera di impassibilità che nemmeno i successivi calici del vino che sopra tutti gli altri inebbria alterarono menomamente.
Esauriti i brindisi la conversazione di generale che era si divise in gruppi. Daisini disse all’Agrati:
— Sai? quella studentessa russa che firma Roussalka scriverà un articolo di fuoco contro le idee di Cònsolo.
— Che se ne infischierà come di ragione. Oh! queste russe! Imbevute di tutta la tristezza della loro barbara terra si riversano come puledre impazzite nei paesi del sole e scendono sulla nostra terra di libertà a seminare tubercoli e nichilismo.
— La Roussalka però è simpatica, — soggiunse Daisini, sempre conciliante.
— Che cosa vuol dire simpatica? Il cavaliere d’industria, la donna galante, il parassita sono generalmente persone simpatiche. Potrebbero esercitare il loro mestiere se non lo fossero? Il commesso viaggiatore deve rendersi simpatico se vuole spacciare le sue droghe o il suo calicot. Tutti coloro che senza alcun merito tendono ad accaparrarsi l’attenzione, l’amicizia o il denaro del prossimo bisogna bene che si rendano simpatici. Potersi permettere di essere antipatici nella nostra società è un lusso da gran signore. Per parte mia mi chiamerò onorato se passerò ai posteri sotto questa etichetta: “Marco Agrati, l’antipatico„.
— Speriamo che ti sia contestata, — soggiunse ancora il buon Daisini.
In quel Circolo irrequieto e turbolento Daisini faceva la parte di moderatore. Egli veniva secondo in anzianità, dopo l’Agrati. Ricco, stimato, buon marito e buon padre, rappresentava l’equilibrio e per la sua specialità di non urtare mai nessuno si conciliava facilmente tutti i voti.
Era stato trascinato a entrare nel Circolo degli Eroi quasi suo malgrado, a parte un grande rispetto per Cònsolo; e vi stava se non a disagio, sempre un po’ sospeso nella speranza di far del bene, non altrimenti un saggio pedagogo che sta a veder ruzzare una brigata di focosi adolescenti e ne frena a tempo le intemperanze.
L’Agrati invece, spostato, malcontento, in lotta perpetua fra il volere e il potere, sentendo l’orgoglio delle qualità che aveva, non accorgendosi di quelle che gli mancavano e non sapendo acquistarle, stanco, disilluso, acre, portava spesso con un gesto di disperazione la sua mano nervosa nei capelli già avviati alla canizie e accoglieva nella bocca sarcastica l’amaro sapore dell’ironia che lo tormentava con morsi strazianti. L’attrazione degli stessi ideali lo aveva avvicinato agli Eroi, ma la presenza di que’ giovani baldi e sicuri che gli correvano innanzi agitando follemente la fiaccola dell’entusiasmo, in lui già fatta fumosa e bassa, rimoveva dolorosamente negli strati più profondi del suo essere l’immagine della divina giovinezza fuggita per sempre. Con altre energie volitive, con altra disciplina morale il suo ingegno veramente grande avrebbe potuto svilupparsi in opere di primo ordine. Ma troppo debole per sorreggere il proprio ideale la statua aveva sprofondato il piedestallo. Egli era nulla più che un vinto.
— Conosci l’ultima avventura di Pesaro? — disse l’Agrati senza rispondere direttamente alla osservazione di Daisini. — Accorso l’altro giorno al capezzale di un amico per confortarlo e sorreggerlo alla vigilia di farsi trapanare il cranio....
— Forse il Montanini?
— Precisamente lui. Figurati che era in cura del celeberrimo.... lasciamo stare il nome. Dunque Pesaro va a confortare Montanini in procinto di farsi trapanare il cranio per un male ignoto che lo tormentava da tanto tempo. Il celeberrimo.... X lo aveva persuaso che non vi era altro modo di uscirne. Pesaro ascolta, guarda, tocca, volta, rivolta, finalmente dà un balzo indietro, estrae di tasca una lancetta delle dimensioni di un temperino, pratica dietro l’orecchio un minuscolo taglio ed a Montanini che quasi non se ne era accorto annunzia placidamente: Eccoti guarito.
— Bellissima. E il celeberrimo X?
— Il celeberrimo X non la perdonerà mai, suppongo, a Guido Pesaro.
— Più intelligente di lui.
— Forse: ma certamente più onesto.
Pesaro che aveva udito si avvicinò al gruppo e con una sottile ironia nel sorriso fine disse:
— O semplicemente più giovane. Chi sa che fra qualche anno non trovi necessaria anch’io la trapanazione del cranio per vuotare un bubbone.
— Viva la giovinezza! — gridarono parecchie voci.
— Sì, — proclamò Filippo Cònsolo avanzandosi in mezzo agli amici, — alziamo ancora una volta il calice e beviamo alla giovinezza, a questa giovinezza che è nostra e che non ci lasceremo sfuggire senza averla prima costretta a tutti i nostri desiderî. Beviamo alla forza audace, al pensiero che non accetta limiti, al coraggio che non conosce ostacoli; beviamo agli Eroi! Noi, poichè abbiamo fatta nostra l’ammirazione per questi esseri superiori ed in essi ci specchiamo con superbia, forse, ma anche con una grande sincerità di ideali, noi crediamo che il nostro dovere è di essere grandi; e se non tutti riusciremo portatori di luce, tutti dobbiamo essere ricercatori di verità, quanto dire Eroi. Beviamo dunque a noi stessi, alle nostre lotte, al nostro divenire!
Risposero tutti in coro: — Beviamo!
La gioconda ebbrezza che correva in ognuno di quei cervelli, e l’ora, e l’occasione, fecero accogliere con entusiasmo le parole del Duce sintetizzanti il loro programma.
Un fragoroso urrà scosse sulla tavola i calici omai vuoti. Poco dopo Filippo Cònsolo si alzò per partire.
Alcuni dei soci erano già usciti alla spicciolata. I rimasti, gli intimi, Stello, Agrati, Daisini e Pesaro furono subito d’accordo per accompagnare Cònsolo fino alla sua dimora.
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La notte estiva, calda e lunata, accolse i giovani nel molle abbandono delle sue braccia e i fumi dello sciampagna un po’ grevi fra le esigue pareti del Circolo si snodarono in più elastiche volute quando l’aria entrò a piene onde nei loro polmoni avidi di ossigeno.
Milano era quasi deserta. Il Duomo rizzava il suo padiglione di trine dando ombra a qualche attardato nottambulo, uomo o donna, che si staccava nelle proporzioni di una piccola macchia bruna sul biancore della piazza già arsa durante il giorno dal sole di luglio e che ora riposava dentro a un velo di luce pallida. La luna, dall’alto di una guglia, batteva in pieno sul volto dei giovani. L’Agrati si fermò di botto gesticolando.
— Ah! tu mi guardi ora? Mi guardi forse perchè ti sembro vecchio? Ma tu sei ben più vecchia di me poichè mi hai conosciuto giovane, mentre io ti ho sempre vista con quelle laide rughe da clown, con quel faccione stupefatto di canonico che digerisce un buon pranzo, con quella untuosità lattiginosa di forma di cacio mal riuscita, con quelle guance flosce e infarinate di peccatrice frolla....
Mi guardi, vecchia luna, come se io non sapessi quante ne hai fatte dal dì in cui ti gabellasti per vergine a quell’imbecille di Endimione, come non sapessi tutte le alcove che hai lambite col tuo raggio osceno, e i complotti e i tradimenti e i delitti a cui facesti da mezzana....
Tu mi segui per le strade adesso, sudiciona! E forse ti prendi beffe di me perchè non sono riuscito a stare in alto come tu stai, o impudica, o ladra che rubasti tante metafore ai poeti e tanti sospiri alle fanciulle da marito!...
Avrebbe seguitato per un pezzo, ma i compagni andavano innanzi, ed egli li seguì, dinoccolato, brontolando fra i denti, tagliando l’aria colla sua canna a manico ricurvo. Svoltarono dietro il Duomo, traversando il largo di Camposanto e per la breve via dell’Arcivescovado, piazza Fontana e via Alciato si trovarono subito nel centro del Verziere.
Era stata giornata di magro e un odore di pesce perdurava intorno ai banchi.
— Ora che sei un uomo celebre, — disse Daisini a Filippo Cònsolo — ti cercherai probabilmente un alloggio migliore.
— Non saprei; ho una camera grande, con aria, luce, piena libertà; del resto, sto così poco in casa e così poco me ne importa! La casa è buona per le donne. Quando venni a Milano mi furono raccomandate le due donne presso cui abito; mia madre stessa se ne interessò; sembra sieno persone decadute, ma a dirti il vero non so nemmeno che faccia abbiano. Se mi deciderò a cambiare mi dirigerai tu. Sono faccende alle quali non capisco nulla.
Guido Pesaro soggiunse:
— A me questi luoghi non dispiacciono. È un cantuccio sopravvissuto alla distruzione di Milano vecchia. Pensate che quella immagine che sta quasi all’angolo di via della Cerva ha visto le esecuzioni dei nobili al tempo dei Visconti.
— Già, i plebei — disse l’Agrati — li giustiziavano in un altro posto per evitare la confusione del sangue rosso col sangue bleu.
— È vero, — continuò Pesaro — morivano divisi, ma vivevano insieme. In mezzo a queste case plebee sorgono ancora le vecchie dimore dei patrizii con una promiscuità che il nostro secolo democratico non tollera più. Guardate. Se prendiamo il palazzo dell’Arcivescovado come centro di un immenso ventaglio le cui stecche si aprono a sud della città troviamo subito a sinistra il palazzo Durini, poi quello dei Visconti, degli Archinti, dei Resta, dei Gola, dei Sormani-Andreani, fino al palazzo Trivulzio.
Erano presso al ponte del Verziere.
Pesaro fece ancora qualche passo, oltrepassò il ponte e segnando colla mano a sinistra:
— Quel cortile nero in riva al Naviglio dove macerano insieme uomini e legname, lavandaie e cenci, non pare la Corte dei Miracoli?
— E a te piacciono questi luoghi? — domandò Daisini — a te igienista?
— Mi piacciono per i loro contrasti e per le memorie che evocano. Ditemi di grazia dove trovereste ancora a Milano un tetto sporgente come questo della casa di Cònsolo, abbellito di draghi volanti? Par di essere indietro di un secolo.
Ristettero davanti ad una casa prospiciente il ponte, vecchia casa rifatta in parte e brutta, ma curiosissima, con quattro grandi draghi rimasti sul tetto come antichi guardiani ululanti al vento in onta a tutti i regolamenti edilizi. Intanto che Filippo metteva la chiave nella toppa gli amici, momentaneamente distratti dalla strada e dal moto, ripresero in coro le loro felicitazioni con un crescendo finale accompagnato da vigorose strette di mano.
Filippo Cònsolo sparve nel buio andito. Non lo avrebbe confessato neppure a sè stesso, ma era leggermente commosso.
Salì le scale con passo rapido pregustando la libertà assoluta della sua camera.
Per quanto padrone di sè e dominatore dei propri nervi, il lavoro intenso degli ultimi mesi unito al desiderio della vittoria aveva deposto in lui un solco di sensibilità entro il quale la notizia fulminea del premio correva con un impeto indomito e selvaggio di fiamma viva. La testa si conservava abbastanza fredda, ma i polsi gli battevano un poco quando dischiuse l’uscio che dalla scala metteva direttamente alla sua camera d’onde gli apparve subito il vano della finestra aperta sulla chiarità della notte.
Tutte le sere gustava la dolcezza di quell’istante in cui le quattro pareti del suo asilo lo accoglievano colla calma fedele di un porto. Egli vi giungeva raramente stanco ma desideroso di trovarsi con sè stesso dopo gli studi assorbenti alla Biblioteca e le lezioni intense che impartiva a uno stuolo di ferventi ascoltatori nelle aule dell’Accademia scientifico-letteraria. Quella sera però, appena entrato, lo colpì un brusìo di voci giù sul ponte ed accorgendosi che erano i suoi amici non ancora sazi di salutarlo si affacciò al lungo balcone che dava sul canale dinanzi al ponte.
La luna limpidissima lasciava distinguere la fisonomia di ciascuno.
Essi erano là, fermi, i cappelli sollevati in alto; Guido Pesaro colla sua barbetta nera acuminata, Daisini composto e sorridente, l’Agrati in attitudine di mago che scruta gli astri, Stello vibrante come una corda di liuto.
Gridavano ancora tutti una volta, l’ultima volta, nella loro ebbrezza goliardica: — Viva Cònsolo!
Egli dovette rispondere, gli altri replicarono. Fu per qualche istante un incrocio di parole e di saluti dal balcone al ponte.
Tacquero finalmente e il tumultuoso drappello svoltò l’angolo, mentre Filippo Cònsolo con una mano appoggiata alla ringhiera penzolava il corpo seguendo il rumore dei passi che si allontanavano.
Accadde allora una cosa singolarissima. Sulla mano che egli teneva appoggiata alla ringhiera Filippo avvertì una impressione morbida e tiepida, fuggevole come se l’ala palpitante di un uccello lo avesse sfiorato passando; più fuggevole ancora; come se un raggio lo avesse tocco o due labbra sovrumane vi avessero sfiorato un bacio estinto prima di scoccare. Si volse di botto.
Una piccola figura bianca stava in piedi dietro a lui, sul balcone, tra la finestra della sua camera ed una seconda finestra che si apriva pure sul balcone.
La sorpresa di Filippo fu abbastanza forte, non troppo tuttavia, riconoscendo nella improvvisa apparizione, cui l’ora tarda della notte conferiva un trepido mistero, la fanciulla che da un anno viveva nella medesima casa, muro a muro, e della quale egli non si era mai occupato. Con piena ragione aveva detto poco prima a Daisini che gli era quasi ignoto il volto delle sue padrone di casa. Sapeva vagamente che erano due, una vecchia e l’altra giovane, ma se colla vecchia scambiava le parole indispensabili, della giovane ignorava anche la voce.
Dolcissima e profonda quella voce gli si rivelò allora pronunciando tutta tremante:
— Oh! Signor Cònsolo, come sono felice!
Per un istante Filippo rimase muto. Non comprendeva il perchè di quella dichiarazione abbastanza sciocca, nè della presenza della fanciulla a quell’ora, in quel posto, quasi alla soglia della sua camera. Avvezzo ad una vita di studi austeri aveva poca pratica delle donne e nella loro compagnia gli accadeva sempre di trovare più impaccio che diletto.
Guardava dunque la fanciulla con una curiosità superficiale e lontana aspettando che si spiegasse. Ella infatti soggiunse, sempre con un gran tremore e un gran fervore insieme, come se una forza lungamente compressa le facesse sbalzar fuori le parole:
— Avevo tanto desiderato che lei vincesse il concorso!
Filippo interruppe con una certa impazienza altera:
— Ma che cosa sa lei del concorso?
La fanciulla chinò il capo sentendo la mortificazione racchiusa in quella domanda e la difficoltà di poter rispondere. Mormorò con un lieve fiato:
— Intesi dire.
E perchè, — stava per chiedere Filippo ma non lo chiese, — lo ha ella tanto desiderato? Concluse invece nel suo interno: Frasi!
Ella continuò col suo filo di voce dolce e profonda, in quel momento un po’ febbrile:
— Eppoi, io raccoglievo le bozze stracciate del suo lavoro, le mettevo insieme, le leggevo.... Mi perdoni signor Cònsolo tanta audacia....
Filippo fu a un punto da voltarle le spalle, seccato che quella donnicciuola si permettesse di ammirarlo e mentre gli rigovernava la camera facesse raccolta dei pezzi di carta che egli gettava sotto il tavolino. Il ridicolo della situazione gli appariva insostenibile; ma proprio intanto che stava per mettere in atto il suo proposito di troncare il colloquio gli occhi della fanciulla gli rammentarono così improvvisamente quelli di Stello, in quella stessa sera, quando una lagrima li aveva velati, che suo malgrado ristette.
Sulla superficie cinica del ridicolo passò per un istante un soffio di commozione. Non è questa la parola che corrispondeva con esattezza a ciò che sentiva Filippo, tuttavia egli subì l’impressione senza analizzarla e per la prima volta guardò attentamente la fanciulla.
Bella non era. L’incertezza delle linee, la povertà del colore, la sobrietà del gesto spiegavano a sufficienza perchè egli non l’avesse mai osservata.
Era però molto giovane e nulla di spiacevole si rivelava all’esame della esile persona, del volto piccolo, quasi immaturo, un po’ sofferente e chiuso come per abitudine di guardare dentro di sè, come certi bòccioli tardivi che si schiudono troppo lentamente sì che il sole ne scolorisce i petali prima ancora che avvenga la piena fioritura.
— Non vedo bene che cosa le dovrei perdonare, — disse Filippo.
— Fui molto indiscreta, — mormorò la fanciulla.
Filippo alzò le spalle.
— Ma lei forse non sa, non ha forse mai provato che cosa vuol dire per un cieco vedere la luce, per un assetato trovare una fonte! Quante volte mentre lei, qui su questo balcone, discuteva co’ suoi amici non supponendo neppure la mia esistenza, io l’ascoltavo nascosta nella mia camera e mi sembrava ad ogni volta che fitti veli si squarciassero intorno a me! Non so spiegarmi meglio. Ma per questa gioia, per il bene ch’ella mi ha fatto, lasci che la ringrazi!
Ella aveva detto tutto ciò con accento modesto, titubante, con un grande ardore frenato da ritenutezza, tenendo aperti e fissi gli occhi dove brillava tutta l’anima accesa, attingendo coraggio nella necessità di spiegare la sua presenza di cui solo in quel momento comprendeva la temeraria arditezza.
Ratto, della rapidità incendiaria di un baleno, un pensiero attraversò la mente di Filippo: Questa donna mi ama! E subito alleggerito della molestia che gli dava una situazione per lui inesplicabile si sentì invaso da improvvisa allegrezza.
— Dovrò credere veramente al mio trionfo se dopo il plauso dell’amicizia mi giungono ancora le corone della beltà.
Così rispose Filippo, mettendo nell’accento un po’ di caricatura, ma nella profonda commozione da cui era dominata la fanciulla non avvertì il tono scherzoso, cogliendo solo la dolcezza del complimento. Ella tremava e palpitava tutta.
— Andiamo, non bisogna dare soverchia importanza a queste premiazioni che sono l’opera di pochi uomini, non del tempo.
— Ah! ma è appunto nel tempo ch’io l’ho conosciuta.
— Davvero? Ella mi conosce?
— Credo.
Filippo dava le spalle alla luce sì che il suo volto rimaneva nell’ombra e non ne apparve il sottil riso.
La fanciulla invece, sempre in piedi sulla soglia della sua camera, era tutta rischiarata dalla luna che sulla fronte giovanile e sul lieve abito bianco sembrava mettere un velo d’argento. Filippo le prese una mano un po’ in alto, intorno al polso, e fu sorpreso dalla straordinaria morbidezza della pelle.
— Allora, poichè ella mi conosce, mi permetterà di volerla conoscere anch’io. Come si chiama?
— Minna.
— Minna! Non è la prima volta che odo questo nome; probabilmente quando sua madre la chiama.
— Non ho madre, — interruppe la fanciulla.
— Già, già, sono cose che dovrei sapere, ma la verità è che non avremmo potuto vivere più vicini e più lontani di quanto abbiamo vissuto fino ad ora. Bisogna rimediare.
Perdurava sottile nei nervi di Filippo la sensazione ricevuta poc’anzi, quel raso fresco e animato della pelle di Minna. Avrebbe voluto rinnovarla e non sapeva come fare. I suoi rapporti colle donne, tranne le donne di sua famiglia, erano sempre stati rapidi e bruschi; non aveva mai ricercato la compagnia spirituale delle persone dell’altro sesso, non la capiva. Solo un momento prima gli sarebbe parso gran ventura sottrarsi a quel colloquio; ora non più. Un fluido sottile gli incalzava il sangue nelle vene accendendogli nel cervello fantasie erotiche.
Ella diceva, incoraggiata dal contegno di lui semplice e dimesso che le cresceva la fiducia:
— Non tentai nemmeno di coricarmi questa sera. Sapevo che sarebbe giunta la notizia; lasciai che la mia compagna andasse a letto, ma io no. Non potevo sperare di parlarle, non lo avrei osato certamente se le grida de’ suoi amici non mi avessero attratta fuori; non pensai nulla allora, non meditai nulla, fui felice, ecco!
Egli pensava: Mi aspettò, mi vuole.
Due ore suonarono alla chiesa della Passione.
— Che notte meravigliosa! — esclamò Filippo, — sarebbe un vero peccato perderla sotto le coltri. Il Naviglio ha luccichii degni della Laguna. Conosce Venezia?
— Oh! — fece lei, stupita della sola supposizione che avesse potuto vedere Venezia.
— Con un po’ di fantasia questo cantuccio le può dare un’idea di Venezia e della Laguna. Guardi laggiù il ponte dell’Ospedale come si disegna netto sullo sfondo del cielo! Chi ci impedisce di chiamarlo “il Ponte dei Sospiri”?... e come svettano superbamente i platani del giardino Sormani pari a un alto pensiero malinconico tra cento pensieri ridenti!
— Sono suonate le due all’orologio della Passione.... S’è fatto ben tardi, io mi ritiro.
— Aspetti un poco. Non si potrebbe nemmeno dormire con questo caldo. Non ha caldo lei?
Le prese ancora la mano salendo delicatamente a toccarle il braccio che emergeva nudo dalla breve manica estiva.
— La sua pelle sembra una foglia di rosa.
Minna ritirò il braccio prontamente, ma una dolce vertigine la teneva inchiodata sul posto; piacere, timore, estasi e insieme soggezione annegavano la sua volontà in una non mai provata ebbrezza.
“Ti ama, ti ama, ti ama„ suggeriva il Demonio tentatore a Filippo.
— Guardi l’Orsa come brilla! Non da quella parte, no, non la conosce? Non sa dov’è l’Orsa?
Minna accennò negativamente col capo.
— Vedo che dovrò insegnarle un po’ di topografia celeste. Da brava, guardi dove guardo io.
La voce di Filippo suonava ferma e nondimeno egli non era già più padrone di sè stesso. La mollezza della notte, il silenzio delle case e dei giardini addormentati, l’acqua del canale nella quale tremolavano i riflessi dei lampioni con un languore di pupille che il desiderio irrora, formavano una cornice diabolicamente suggestiva alla inconscia seduzione della fanciulla che si offriva nella grandezza stessa della propria innocenza, indifesa contro il pericolo.
Egli l’aveva attirata verso la ringhiera e vi stavano appoggiati tutti e due, gomito contro gomito, non più guardando gli astri, ma colle pupille intente al corso lento dell’acqua che accelerandosi in alcuni punti faceva muovere l’ombra delle case come fossero persone vive.
— Il fascino dell’acqua è sempre grande per me, nato sulle rive di un fiume; ma alla notte assume proporzioni addirittura fantastiche. Non le suggeriscono forse questi gorghi misteriosi che la nostra fantasia può arricchire di fondi inesplorati l’ipotesi di sconosciute città, di mondi strani sepolti da secoli? Non so pensare che pochi metri al di sotto di quest’acqua giace uno strato volgarissimo di mota; ci crede lei? Io, oltre agli abissi del cielo e delle onde, intravedo l’infinito. Che notte! Che dolcissima notte!
Un calore nuovo, un accento che Minna non aveva mai trovato nelle parole di nessuno e neppure in quelle di Filippo, la turbavano profondamente. Accanto a quel giovane che da tanto tempo ella adorava in silenzio, al quale aveva in cuor suo innalzato un altare più degno di un nume che di un uomo, sotto la doppia attrazione dello spirito e dei sensi, il fiore della sua femminilità si apriva sitibondo d’amore e di gioia. In quell’istante divino i vent’anni della sua vita trascorsa dileguavano, nulla più esisteva per lei fuorchè l’attimo fuggente. Pure un intimo istinto le suggerì ancora una volta di allontanarsi.
— Che fa? – disse Filippo trattenendola.
— Suonarono altre ore all’Orologio della Passione. E tardi, è tardi.
— E che le importa? Resti. L’ora della passione è quì!
Aveva mormorato le ultime parole all’orecchio di Minna, e poichè sfiorandole la guancia si era sentito invaso da un serpente di fuoco, smarrito e fuori di sè le circondò la vita con un braccio stringendola, mormorandole altre parole tenere e ardenti.
Minna allora come all’improvviso spalancarsi di una voragine ebbe paura e gettò un grido.
Troppo tardi. Filippo l’aveva sollevata da terra soffocandole il grido fra le labbra; l’abito bianco della fanciulla volteggiò per un istante nell’aria e sparve con lui.
❧
Un sonno breve e profondo restituì a Filippo la piena signoria dei suoi nervi. Balzato in piedi col primo sole si vestì rapidamente senza far rumore e gettati in una sacca da viaggio alcuni piccoli oggetti uscì fuori che la casa era ancora tutta immersa nel sonno.
L’idea di andare subito a trovare sua madre gli era maturata intanto che si vestiva per un violento bisogno di moto, di aria, di libertà; quella specie di fuga nelle ore fresche del mattino lo eccitava piacevolmente.
Aveva preso il Naviglio a sinistra per portarsi senz’indugio alla Stazione Centrale e camminando di buon passo respirava con delizia l’aria non ancora contaminata dalle mille esalazioni cittadine.
I giardinetti lungo il canale apparivano freschi di rugiada, animati dal pigolio delle rondini, con una leggiadria giovanile di fronte alle rughe degli alberi intristiti, alle pietre nere ròse dalle acque, tacitamente coperte di muffa. Il gaio sole battendo sui ruderi di sedili abbandonati, di muriccioli cadenti intorno ai quali ramificava ancora per lunga abitudine un brullo avanzo d’edera o di glicine, infondeva un momentaneo calore alle membra assiderate e con esso sembravano risorgere dall’oblio degli anni vecchie storie che le foglie timidamente rinascenti sui tronchi decrepiti si confidavano a bassa voce.
Aveva ragione Guido Pesaro; quella parte di Milano sopravissuta a tanto mutare d’uomini e di vicende conserva una sua poesia particolare della quale forse per la prima volta Filippo Cònsolo subiva il fascino.
Di fianco al canale la fila delle case vecchie anch’esse, curiose, originali, varie, irregolari, con qualche balcone in ferro battuto, col calore intimo delle molteplici generazioni che vi si erano succedute, qualcuna signorile, qualche altra modesta, tutte parlanti una loro voce propria, ripetevano l’eco profonda delle cose vissute. Di fronte alla balaustra barocca del giardino Visconti la casa dove nacque Alessandro Manzoni, semplice, un po’ umile, attrasse come sempre il suo sguardo. Tutti i giorni Filippo percorreva quel tratto di Naviglio posando gli occhi sulle medesime linee, sui medesimi colori, ma in quel giorno il suo cervello più alacre, scopriva forme e sensazioni nuove, nuove associazioni di pensieri, un senso più profondo della vita. Egli guardava al di là delle cose.
Greve e tozzo un barcone usciva lentamente sotto al ponte delle Sirene, rasentando uno di quei cortili neri e decrepiti dove le lavandaie stendono la loro malinconica mascherata di cenci dai molteplici colori sopra uno sfondo di portaccie cadenti, di gradini viscidi, di piccole finestre incornicianti un quadro di miseria ingenuamente consolata qua e là da ciuffi di verde e da qualche fiore coltivato in terrine fesse.
Ma avanzando verso porta Venezia, l’aspetto generale cambiava. Non più vecchiumi, non più luride stamberghe; le case si alzavano superbe nella loro modernità e se restava ai giardini l’aria di abbandono che hanno tutti i giardini in riva al Naviglio, era tuttavia in essi una compostezza che li faceva apparire meno cadenti. Dalle vetrate delle ampie finestre trasparivano eleganti tendine di pizzo e il grembiule bianco di qualche cameriera passava immacolato di freschezza sui terrazzi di pietra dorati dal primo sole.
All’altezza del palazzo Busca salutò un conoscente. Quegli non sapeva ancora nulla della vittoria di Filippo. Anche le altre persone, gli ignoti che gli passavano accanto, non potevano sospettare in lui il trionfatore del giorno. Se lo avessero saputo lo avrebbero osservato con curiosità e molti con invidia.
Filippo era fiero di questo isolamento che lo poneva nella condizione di guardare senza essere veduto. Il suo orgoglio inclinava a mostrargli la città che stava destandosi in quel fulgido mattino di luglio come una bella schiava pròna dinanzi al conquistatore. Il sapore inebbriante del primo morso dato alla gloria gli risvegliava tutte le cupidigie di dominio. Sapeva che non si sarebbe fermata al successo di un Concorso; questo era un primo passo appena, ma quanto gigantesco dal dì in cui era giunto alle porte di Milano povero e sconosciuto in cerca di una cattedra, esitante nelle sue mosse di provinciale, celando l’immensa ambizione sotto una maschera di freddezza dignitosa.
Uscendo dalla romantica strada dei Navigli trovò il Corso Principe Umberto già animato dal via vai delle carrozze indirizzate alla Stazione. Trasse l’orologio e volle confrontarlo con quello dell’angolo di Via Moscova. C’erano pochi minuti di differenza.
Sul piazzale della Stazione urtò un uomo che correva con un fascio di giornali sotto il braccio. Ebbe il pensiero di comperarne uno, ma gli parve troppo presto per esservi stampata la notizia.
Si diresse allora al Ristorante dove sorbì, in piedi, una tazza di caffè nero, poi andò direttamente a provvedere un biglietto di seconda classe per la linea di Parma e attese senza impazienza che arrivasse il treno.
Nel carrozzone al quale affacciossi finalmente c’erano già due signori ed una signora, ma restando vuoto un posto d’angolo lo prese e vi si stabilì subito, isolandosi, colla faccia rivolta al finestrino. La ridda dei suoi pensieri era infinitamente più interessante che non qualsiasi compagno di viaggio.
Sulla intima profonda soddisfazione della vittoria che raddoppiava le sue forze vitali, Filippo pur rattenendo il freno alla fantasia giudicata da lui un elemento inferiore, veniva costruendo le prime traccie di un avvenire oramai al sicuro dalle meschine preoccupazioni finanziarie. Sobrio, austero, parco nei desideri, la ricchezza col suo corteo di lusso e di godimenti non aveva mai fatto parte dei suoi sogni; tutto preso nelle cose dello spirito la sua ambizione oltrepassando le barriere dei piaceri mondani mirava a conquiste ben altrimenti superiori, più acri e più difficili. Tuttavia anche il denaro è una forza. Egli lo sapeva e si rallegrò di poter aggiungere questa alle altre, al servizio delle altre.
A un tratto uno de’ suoi compagni che stava leggendo un giornale del mattino comprato alla stazione disse alla signora:
— Il premio internazionale delle centomila lire lo ha vinto un certo Filippo Cònsolo.
— Che premio? — chiese sbadatamente la signora.
— Premio per un libro.
— Oh Dio! ve ne sono già tanti!
— Dei premi?
— Anche: ma volevo dire dei libri.
— Si tratta di un libro speciale, non ricordo bene i termini del concorso, infine deve essere un libro di valore. Pensa che il concorso era internazionale.
— E chi è questo Filippo Consolo? — chiese ancora la signora accomodandosi sul volto la veletta.
— Non lo so affatto.
Filippo ebbe un istante di viva curiosità avrebbe voluto leggere lui stesso ciò che stava scritto nel giornale, ma non si mosse.
— Centomila lire sono bei denari. Se le avessi io! – sospirò la signora.
Ora Filippo si volse lentamente verso colei che lo stava invidiando con tanta inconsapevolezza di essere ascoltata e poichè i loro occhi si incontrarono, ella che era abituata a servirsene ad ogni occasione, illanguidì lo sguardo. Filippo intanto ripeteva fra sè un verso di Maeterlinck: “Vedo una piccola anima di cuciniera in fondo a quelle pupille„. Si rifece col volto al finestrino e più non si mosse, finchè il treno giunse a Parma.
A Parma una breve fermata e poi con una ferrovia secondaria, giù verso il Po, alla piccola antica città che egli non amava, ma dove c’era sua madre, la sola donna colla quale si sentisse in comunanza d’anime.
Appena la ferrovia imboccò il ponte di ferro sul fiume Filippo distinse nel panorama della piccola città adagiata lungo la riva la forma turrita dell’antica Rocca, avanzo medioevale significante le remote origini di quella che fu borgata al tempo degli Estensi e dei Gonzaga, da essi vicendevolmente contesa e che Maria Teresa d’Austria eresse al grado di città. Appunto vicino alla Rocca, un po’ isolata, un po’ triste e scialba, sorgeva la sua vecchia dimora.
Semplice fu l’incontro di Filippo colla madre. All’annuncio del successo ella non diede in escandescenze nè mostrò soverchia meraviglia; pareva quasi che lo aspettasse. Penetrata da profonda compiacenza, ma calma e dignitosa, si strinse al seno la testa del figliuolo amato e per alcuni istanti nessuno dei due parlò.
Madre e figlio si assomigliavano moltissimo nella maschera marmorea del viso che un pallore opaco dai toni eguali spiritualizzava in singolar modo. Ed erano gli stessi occhi luminosi e freddi, di un grigio torbido, la stessa bocca sdegnosa rifuggente al bacio.
Solo la fronte che in Filippo si allargava con linee potenti, persino eccessive, dando l’impressione di una scatola cranica formata per il cervello di un gigante, si era nel volto della madre disegnata delicatamente come una cupola d’avorio sopra un bassorilievo antico.
Austera nelle gramaglie vedovili non mai abbandonate, la signora Consolo aveva in circostanze penose e scarsa di mezzi allevato cinque figli dei quali solo Filippo le era rimasto, raccogliendo l’esempio di tenacia e di inflessibilità ch’ella gli aveva dato. Egli venerava in sua madre la più eccelsa delle donne; assai più che di tenerezza il loro affetto era formato di ammirazione e di orgoglio, poichè si sentivano superiori ai loro simili e solidali in un tacito disprezzo per le piccole cose che interessavano gli altri.
Ma essi non poterono chiudersi subito come avrebbero desiderato nella loro gioia intima e silenziosa. La zia Aglae che viveva nella stessa casa accorse prontamente a far festa al nipote. Era una donnina alta, magra, nervosa, debole, impressionabile, che camminava a sbalzi, parlava a scatti e teneva sempre con sè uno sciallino di lana per mettersi sulle spalle quando la temperatura scendeva di mezzo grado.
Dopo essersi congratulata con grandi esclamazioni e trapassi dal riso alle lagrime, la zia Aglae volle sapere se Filippo aveva fatto buon viaggio. Viaggiare, per lei era una specie di disastro. Due sole volte era stata a Milano e quantunque vi si fosse preparata con tutte le cautele di dieta speciale, di scialli convenienti e di sali d’ogni qualità, ne aveva fatto entrambe le volte una malattia. Per questo considerava sempre un viaggiatore che non fosse mezzo morto come un essere straordinario. Avendola Filippo assicurata che stava benissimo, gli domandò allora se trovava sempre il suo conto nell’alloggio di Milano, e se vi sarebbe rimasto: al quale improvviso cambiamento di idee, Filippo aggrottò le sopracciglia.
— Non so, non so, non vi ho ancora pensato.
— Ti converrà forse – soggiunse la madre – prendere un domicilio più decoroso, conforme alla tua nuova condizione, per quanto possa dispiacere a quelle povere donne se non dispongono di altre risorse. La ragazza avrà tuttavia un mestiere nelle mani.
— Non ne so nulla, non me ne sono mai occupato.
Zia Aglae interruppe:
— S’è fatta bella la ragazza?
Filippo questa volta strinse le spalle con una mossa tra l’indifferente e l’indispettito e prese il cappello annunciando che andava a fare un giro in paese.
Egli diceva paese invece che città, perchè se ampie belle e dritte erano le vie fiancheggiate da costruzioni signorili la mancanza di popolazione e di commercio le rendeva squallide. Nobile scheletro di un organismo che si era andato lentamente consumando restavano le linee grandiose dell’impianto a fare testimonianza della vita gagliarda di un tempo; ma la vita attuale gretta, meschina, indolente, consumata dagli odii di parte e da guerricciuole intestine, non era più che quella di un povero paese.
Filippo fece una sua solita passeggiata lungo l’argine del fiume imbevendosi delle inalterate bellezze ivi radunate dal vasto arco del cielo sospeso sul corso imponente del Po, fra verdi boschi schierati a perdita d’occhio lungo le rive, col suggestivo contrasto dei due ponti: il ponte di chiatte, logoro, abbandonato, morto, e il nuovo ponte in ferro sul quale correva a rari intervalli il treno rumoreggiando fra l’alto silenzio.
Stabilito da molti anni fuori del paese Filippo non conosceva oramai più nessuno, tranne i pochi rimasti in rapporti d’amicizia con sua madre. Potè quindi allungare il suo giro indisturbato, movendo verso il centro sotto l’arco a bugne eretto in onore di Giuseppe d’Austria e rallentando il passo in via Baldesio dinanzi alla bella casa del XV secolo elegantemente ornata di lavori in cotto. Un falegname sulla sua bottega lo salutò ed egli rispose al saluto senza menomamente rammentarne il nome.
Qualche testa femminile si profilava sfaccendata e curiosa dietro le grosse inferriate dei piani terreni, qualche lembo di gonna svoltava rapidamente tra i battenti delle porte accostate, qualche voce veniva dagli orti chiusi riboccanti di salvia e di erba Luigia, e insieme a queste rapide visioni gli risorgevano nella mente graziose avventure dell’adolescenza e dei primi anni della giovinezza. Ma tutto ciò gli appariva nelle proporzioni di un canocchiale capovolto, piccolo, lontano, sfuggente.
Attraversando la piazza rivide i due Caffè rivali, l’uno di fronte all’altro, identici a quello che erano stati dieci, venti, trent’anni, cinquant’anni primi, coi soliti oziosi seduti a parlar male di tutto e di tutti, e la padrona e il gatto dietro il banco a sbadigliare.
Un pensiero di disperazione gli attraversò il cervello: se fossi obbligato a passare la vita qui! e prese il largo e per il lato opposto a quello da cui era partito si ricondusse a casa dove la madre lo attendeva calma con un raggio orgoglioso sulla fronte d’avorio.
Nel frattempo si era sparsa la voce del grande avvenimento e gli amici, i conoscenti, qualcuno anche di coloro che non ne avevano l’abitudine ma che approfittarono volentieri della circostanza speciale, vennero a presentare le loro congratulazioni. L’ordine del pranzo ne fu turbato e scosse le tranquille abitudini della famiglia. Quasi tutti poi anzichè mostrarsi colpiti o ammirati o soddisfatti dell’onore conferito a un loro concittadino non nascondevano le segrete cupidigie risvegliate dalla somma che sola rendeva tangibile ai loro occhi materiali la fortuna e il merito dì Filippo Cònsolo.
Ognuno di quei visitatori se anche non pronunciava dinanzi all’eletto la cifra del premio la andava rimestando nel proprio cervello, la sussurrava al vicino, la perdeva a spizzichi ed a commenti per tutti i pori della pelle, sì che dall’una all’altra casa del paese, in tutte le vie, in tutte le piazze, nelle vòlte degli archi trionfali, non si ebbe in breve che un’eco sola ripetuta a sazietà: — Centomila lire! Filippo Cònsolo ha guadagnato centomila lire!
L’ultima visita fu quella della sottoprefettessa. Giunse accompagnata dalla figlia quando i Cònsolo, levandosi da tavola, si erano portati a prendere un po’ di fresco nel piccolo giardino domestico, metà giardino, metà orto. Filippo seccato fece per gettare il sigaro che aveva acceso allora allora.
— Ma le pare? — si affrettò a dire la sottoprefettessa accompagnando le parole con una mossa così vivace verso il giovane che quegli arretrò due passi — continui, continui. Noi siamo abituate al turno; anzi ci piace. Non è vero Ninetta? Come riescono insopportabili le donne che non sanno tollerare le abitudini degli uomini! Per me lo dico sempre a Ninetta: siamo docili, pieghevoli, dolci, serene, mansuete. Ciò vale molto più della bellezza.
Intanto che zia Aglae portava fuori qualche sedia la signora Cònsolo ricevette con molta dignità le congratulazioni della nuova venuta, la quale tuttavia mostravasi tanto commossa della vittoria del giovane Cònsolo che la madre ne risentì una specie d’imbarazzo e scambiò con Filippo un’occhiata furtiva.
— Chiamiamoci fortunate mia cara signora — seguì a dire la sottoprefettessa con crescente calore — in mezzo a tanti figliuoli discoli e libertini, a tante ragazze vanitose e civette; i nostri, non faccio per dire, formano una eccezione meravigliosa. Non conosco in tutto il paese un giovanotto che possa mettersi a riscontro del signor professore qui presente, e in quanto a Ninetta solo se non fossi sua madre potrei tesserne l’elogio meritorio. Cara signora, cara signora, ringraziamo Iddio!
La bocca schiva della signora Cònsolo si atteggiò a un lieve sorriso ironico.
— Anche mio marito mi pregò di porgere i suoi rallegramenti al professore e di chiedergli se possiamo sperare nel piacere di una sua visita.
— Riparto domattina per tempo — rispose Filippo.
— Così subito! Ma tornerà presto?...
— Non credo.
— Ah! — fece la signora, mascherando sotto una esclamazione celiosa l’interno disappunto — bisogna amare il proprio paese.
— Non ho tempo di amare — disse ancora Filippo.
L’incredibile dichiarazione cadde nel mezzo del piccolo circolo col tonfo cupo di una pietra gettata in un pozzo.
Ninetta che aveva fino allora tenuto gli occhi bassi si pose a guardare intensamente un cespo di lattuga. Dopo brevi istanti la sottoprefettessa si alzò, nessuno la ritenne, e appena uscita quell’ultima visita la signora Cònsolo fece mettere il catenaccio sulla porta.
Soli finalmente nella angusta ma cara e famigliare cinta dell’orto che il crepuscolo riempiva d’ombra, la madre pose dolcemente una mano sulla spalla di Filippo.
— Sei deciso a partire domattina?
— È necessario mamma.
— Comprendo. Che faresti qui se non perdere un tempo prezioso? Tu hai ora l’obbligo di tutti i condottieri, non ti appartieni più.
Queste parole rispondevano così perfettamente al pensiero di Filippo che egli trasalì come se qualcuno gli avesse frugato nel cuore; ma la mano era nota e lieve e in intima corrispondenza con tutto il suo essere.
— Vedi — disse Filippo dopo un breve silenzio — tutta questa gente — tracciò dinanzi a sè un gesto vago e lontano — tutta questa piccola gente mi invidia per le centomila lire del premio. Essi non possono neppure immaginare a quali lidi approda la mia ambizione.
Le due immagini puerili della sottoprefettessa colla figliuola, ultima rimasta nella retina dei loro occhi, vi balenarono ancora un istante, ma nè la madre nè il figlio credettero di dovervi spendere una sola parola. Essi si intendevano sempre così. I1 loro grande orgoglio soddisfatto gioiva di quell’isolamento. Principalmente Filippo non amava dividere con altri le sue opinioni e i suoi sentimenti poichè la divisione implica un principio di tenerezza e di abbandono che erano affatto estranei al suo temperamento. Egli sapeva che le idee di certe menti superbe sono terribili. Guai se ne trapelasse qualche cosa.
— Tu hai il tuo mondo dentro di te, che mai può importarti il resto? Sei solo, sei forte. Nessuno deve distoglierti dal tuo cammino.
Parve forse a Filippo di avvertire un recondito timore nella voce materna? Egli si affrettò a soggiungere:
— Nessuno, sta sicura; nè uomini, nè cose.
La signora Cònsolo sentì ch’egli diceva la verità. Trepida per il figlio tanto amato costretto a vivere fuori della sua vigilanza si manifestava sempre in lei quando lo rivedeva un’ansia segreta di scoprire se vi fosse alcun che di mutato in quell’anima tanto somigliante alla sua ma che era pure spinta dalla logica dei fatti in un ambiente opposto. — Donna temeva le donne e le disprezzava anche un poco.
Quest’orgoglio e questa gelosia infrenati da una grande padronanza di sè stessa, emanazione sottile di un cuore che egli conosceva appieno e che era tutto suo, dava a Filippo una gioia egoistica e profonda. Passare così nella vita scrutatore e signore dei sentimenti che gli si agitavano intorno, di tutti curioso e da nessuno tocco, non era il suo sogno superbo?
La notte scendeva umida, molle, pregna degli odori che le piante dell’orto esalavano in un miscuglio acuto di fiori e di erbe aromatiche. Madre e figlio stavano in piedi, vicini; la madre leggermente appoggiata al di lui braccio colla fronte eretta biancheggiante nella oscurità, altera. E parlarono ancora, lenti, con grande dolcezza, con intimo accordo, architettando piani d’avvenire, immemori del tempo. Quando si riscossero, la madre guardò il cielo che si era tutto coperto di nuvole e disse:
— Ieri a quest’ora la luna era splendida. Dove ti trovavi ieri a quest’ora?
Ma non attese la risposta, presa da un brivido sottile. Forse qualche goccia di rugiada scossa dalle fronde le aveva inumidito il volto e un ombra, forse l’ala di un uccello notturno, era passata sopra il suo capo. Non era ciò, non era ciò. La signora Cònsolo avvertì un ostacolo sorto improvvisamente tra lei e suo figlio, fra il suo pensiero e il pensiero di Filippo. Che cosa? Un fantasma, un sogno, un desiderio, un rimpianto, un rimorso?...
Sentì che in quel momento egli si era staccato da lei, che le sarebbe stato impossibile afferrarlo, che le sfuggiva in quel momento e colle pupille aperte nel buio fissò avidamente in silenzio il profilo immobile del bel marmo ch’ella aveva scolpito.
— Filippo, — disse a un tratto stringendogli la mano — posso essere sicura che non prenderai alcuna seria decisione riguardo alla tua vita senza dirmelo prima?
Filippo rispose silenziosamente alla stretta materna.
— Prometti, — insistette la signora Cònsolo.
— Non ti fidi di me?
— Prometti.
Filippo tendeva ora l’orecchio a un rumore indistinto come di pianto lontano. La madre disse:
— Non è nulla, è la catena di un pozzo che cigola. Filippo, mio Filippo, prometti!
Chinossi egli sulla fronte chiara nella oscurità della notte, chiara nel bruno delle vesti vedovili, e toccandola leggermente mormorò:
— Sta sicura.
❧
Le ultime ore di quella notte che per Filippo erano state letificate da un sonno profondo dovevano trascorrere nella cameretta di Minna senza che la fanciulla potesse un solo istante chiudere le palpebre.
Rientrata in preda ad un orgasmo doloroso, quasi folle, si irrigidì rivedendo la sua cameretta così ordinata, così placida, così tranquilla e cadde in una specie di stupore come se dinanzi a ’ suoi occhi si fosse rizzata un’altra sè stessa, tanto simile e pur tanto diversa, col suo cuore, col suo pensiero, ma con un fatto orribile di più.
Eppure Minna non pianse, non imprecò. Il fiore che la bufera improvvisamente investe, schianta, solleva, atterra, torce, frantuma, quale resistenza può opporre se non un gemito subito represso nel violento cadere dei suoi petali e un piegarsi verso le proprie radici obbedendo alla forza bruta?
Minna non pianse, non imprecò. Abbandonata sopra una seggiolina accanto al suo letto, colla fronte appena riversa contro il guanciale, le braccia rilasciate lungo il grembo, fisse ad arco le palpebre come e proprio di coloro che contemplano una voragine, continuò ad assistere allo sdoppiamento di sè stessa rifacendo passo a passo il cammino che l’aveva condotta all’ora fatale.
Che era mai stata la sua vita prima che vi apparisse Filippo Cònsolo? Ed era stata vera vita, o non piuttosto una condizione di letargo dolorosa e umiliante, dalla quale forse non sarebbe uscita mai, come una pianticella radicata in fondo a un burrone che non saprà mai, che non conoscerà mai la bellezza delle vette? E che era per lei Filippo Cònsolo se non la lampada accesa nelle tenebre di una cupa notte, il calore in mezzo al gelo, la risurrezione dopo la tomba, l’universo, tutto!
Umile, ignara, ardente, rinchiusa, Minna aveva avuto qualche volta la visione di un uomo più alto di tutti gli uomini, il quale sorgendo colla potenza di un duce si traesse dietro le turbe ammirate e estasiate. Che fosse il più bello, il più nobile, il più puro, il più forte; che da lui venisse la luce di cui era sitibonda l’anima sua, che parlasse, che destasse il nucleo di forze occulte schiacciate dalla meschinità della sua esistenza ma ruggenti sordamente in fondo al suo essere, ed ella si sarebbe prostrata nella polvere dinanzi a lui. Ecce ancilla. – Queste parole, queste oscure parole che mille bocche pronunciano nella monotonia di una inconscia preghiera, Minna le vestiva di una tenerezza appassionata per offrirle al suo ideale con uno slancio di dedizione incondizionatamente intera. La forma? il modo? Ella non aveva chiesto ciò. Non discuteva, non mercanteggiava, Il suo sogno veniva a lei e lei andava al suo sogno: Ecce ancilla.
Certo, nel suo pensiero di vergine doveva aver foggiato diversamente il sacrificio; ma la rivelazione brutale di un fatto che non sospettava neppure e che l’avrebbe pervasa d’orrore in qualunque altra circostanza, di fronte all’uomo ch’ella aveva scelto ad arbitro del suo destino non volle approfondire; non volle sopratutto che l’egoistica pietà di sè stessa scemasse il significato grandioso, quasi religioso, della sua dedizione. Si infiammò al contrario nella generosità di quell’olocausto rapito colla sicurezza dispotica di un Dio, ceduto coll ’umiltà ardente di un devoto.
Non era stato tutto il suo amore per Filippo Cònsolo un lungo e segreto atto di adorazione? Ed ella si considerava così poca cosa; era realmente così poca cosa!
Fin dove giungevano le sue più lontane memorie Minna vedeva una fanciullina vestita a bruno che nessuno chiamava bella, che nessuno baciava mai, intorno alla quale non fioriva nessuno dei sorrisi dell’infanzia.
Figlia di un amore colpevole, orfana, raccolta da una vecchia donna dalla mente ottusa e dal cuore aggrinzito, il mistero della sua nascita avea sempre gravato su di lei quale colpa atavica di cui era giustizia che dovesse portare le tristi conseguenze.
Dal gesto sdegnoso che le porgeva il pane al gesto disgustato che si ritraeva dal suo contatto come da un oggetto immondo, tutta la miseria dell’abbandono le si era rivelata fino dall’età più tenera infliggendole una mortificazione di tutte le ore, di tutti i minuti. La faccia astiosa della vecchia, la sua voce nemica, le sue preoccupazioni grette e meschine, una casa decrepita senza grandezza, una educazione trascurata senza libertà, una solitudine senza pensiero, un’atmosfera grigia che dalle pareti si stendeva ai cuori, che copriva, che invadeva anima e sensi e andava crescendo cogli anni nella esuberanza mostruosa di una orribile muffa, queste, ed altre tristezze avevano innalzato fra Minna e il mondo una parete di carcere.
A scuola, mal vestita, mal pettinata, goffa, ignorando i giuochi e il riso, non sostenuta dalle tenere previdenze materne, tarda della riluttante maturanza dei germi sui quali grava soverchio peso, la sua solitudine continuava più dolorosa ancora, irritata dalla crudele inconscienza delle fanciulle felici e dalla vuotaggine dell’insegnamento che non le arrecava nessuna luce infliggendole un peso di più.
Povera, non bella, non amata, priva di spirito, ecco qual’era il suo retaggio; e la triste convinzione penetrandola ogni giorno più le cresceva l’avvilimento sviluppandole un pathos di timidezza morbosa nel quale rinchiudeva il suo profondo bisogno di simpatia deluso.
E si era isolata ancora rassegnandosi alla tristezza di non poter comunicare coi suoi simili, senza chiedersi se ella fosse veramente inferiore, accettando il fatto compiuto che la faceva diversa e per la stessa diversità lontana. Le si era venuto in tal modo formando uno stato d’animo somigliante a quello che potrebbe avere un esiliato in un’isola d’alto mare dove ogni comunicazione fosse stata interrotta. Non potendo svilupparsi esteriormente ritorse verso il suo interno le facoltà di amare e di pensare. Sensibilissima agli urti, la sua psiche tuttochè sognante aveva una saldezza d’acciaio. Era in lei insieme alla sua umiltà ed alla sua rassegnazione una molla che la spingeva subito fuori delle volgarità dove continuamente minacciava di naufragare e dalle quali con un rapido volo si inalzava a sè.
Tale facoltà di astrazione le aveva impedito di essere infelice per intero; ma sempre sola in presenza di atti e di parole che le erano straniere, quel veder ridere e veder piangere e discutere e interessarsi di cose che ella non comprendeva, e l’impossibilità di farsi intendere, e il vuoto che le si faceva intorno, e la forzata inazione, le avevano a poco a poco tessuto un velo di malinconia dolce e rassegnata che era come il pudore del suo dolore. Nessuna idea di rivolta l’aveva mai tentata. C’è nel gesto della ribellione un istinto plebeo che ripugnava alle sue intime delicatezze. li suo sistema di difesa tutto concentrico le aveva valso qualche volta da parte della vecchia compagna l’accusa di egoista, lei che si sarebbe gettata in un rogo pur di ardere! Allora conobbe Filippo Cònsolo.
L’ora, il giorno, il colore del tempo, quando mai ella avrebbe dimenticato ciò?
Già da parecchi mesi la vecchia aveva pensato di supplire alle spese ognor crescenti coll’affitto di una delle poche camere che componevano il loro alloggio, la più bella, quella che nei giorni migliori era stata destinata a salotto; ma restia ne’ suoi pregiudizi di piccola reddituaria a profittare di un lucro che secondo lei indicava una decadenza di grado non si era decisa che nel caso particolare di quel professore venuto dalla provincia, raccomandato da antiche conoscenze quale persona seria e che alla lontana poteva anche passare per un parente. Ella non mancò mai in seguito di introdurre abilmente ne’ suoi discorsi cogli estranei questa insinuazione senza pro-nunciarsi in modo positivo, ma lasciando intendere che si trattava di un favore reciproco.
Così in un giorno piovoso della fine di ottobre, quasi clandestinamente, Filippo Cònsolo aveva portato un baule e due casse di libri nella stanza più bella dell’appartamento, prendendo possesso di un ampio cassettone a piano di marmo e di una libreria capace che aveva appartenuto ad un vecchio prete.
Minna non lo aveva visto quel giorno. Mentre rientrava da una corsa fatta la sua compagna le disse appena: — È arrivato. Ha detto di trasportargli il letto dall’altra parte; sarà per domattina. Niente altro.
Ma ricamando sotto la sua finestra all’ultima luce del sole morente, Minna udì il forestiero che camminava in su e in giù, mettendo a posto i libri, leggendo forte il titolo di qualcuno; e quella voce nuova che penetrava nella sua camera, quella voce di uno che non conosceva e che pur veniva a raggiungerla nella sua intimità le aveva fatto l’impressione acuta di un grido di sentinella nella notte.
Anche nei giorni seguenti non lo incontrò subito. Egli usciva di buon mattino; la porta della sua camera non comunicava coll’appartamento; la sola comunicazione era la finestra che metteva sul balcone accanto alla finestra della camera di Minna, la quale per un intimo senso di pudore non usciva mai sul balcone quando il forestiere era in casa. Incominciava d’altra parte la cattiva stagione e le finestre rimanevano chiuse.
Fu una domenica d’autunno inoltrato, in quel breve periodo di bellezza ritardataria chiamato l’estate di S. Martino che la vecchia attirò Minna sul balcone e mostrandole un signore che attraversava il ponte:
— Ecco — disse — il signor Cònsolo.
Minna lo vide di scorcio, vestito di un abito azzurro cupo, snello e forte, il bianco pallido della guancia tagliato dai baffi bruni, la testa possente china sul petto in atto meditativo. Lo seguii fin dove potè collo sguardo, ma egli prese il Naviglio di sinistra che fa una rapida svolta e scomparve a’ suoi occhi. Il Naviglio era lucente quel giorno, gonfio d’acqua, le case vi si specchiavano con nitidi contorni: Minna pensò che egli passava davanti alla bella balaustra del giardino Visconti e che l’avrebbe ammirata.
Riportando poi gli occhi a destra li tenne fissi per qualche istante sulle alte vette dei due alberi ancora verdi ma già tocchi del pallor dei moribondi che dal giardino Sormani si slanciano insuperate antenne verso il cielo. Non sapeva spiegarsene il perchè ma quelle due vette così vicine e che non si toccano mai, quelle prigioniere della terra anelanti all’infinito le davano un senso di nostalgia e di malinconia insieme così spesso ripetuto, così noto, così dolce al suo cuore che di quegli alberi faceva per lei due fidi amici e il cadere delle loro foglie la rattristava sempre un poco.
La solitudine più cupa l’attendeva colla brutta stagione, privata della vista famigliare degli alberi, dell’acqua, dei mattini ridenti animati dal cinguettio delle rondini sui vecchi muri, dai bei tramonti laggiù verso Porta Romana, quando il cielo fiammeggiava in una curva di luce drappeggiato d’oro e di porpora con una morbidezza di cupola fantastica sospesa sopra la città. Era la solitudine fredda della sua camera, dove l’immaginazione della fanciulla soffocata dalla ferrea muraglia di una esistenza meschina fioriva sotto le sue pallide mani nelle roselline delicate, negli esili steli delle viole che ella disseminava sulla stoffa del suo lavoro contando lentamente le ore che suonavano alla chiesa della Passione e confrontandole col quadrante di una pendola rococò appoggiata sul marmo bianco del caminetto senza fuoco.
Filippo Cònsolo doveva essere l’animatore di questa spelonca. Minna non lo vedeva quasi mai, ma si era abituata a vivere con lui attraverso la parete delle loro due camere.
Lo udiva camminare, smuovere le sedie, voltare le pagine, scrivere, qualche volta fischiare a bassa voce un motivo d’opera, o uscire in una interiezione; e tutto questo nel breve tempo che stava in casa, brevissimo durante il primo anno, allungato poi per l’assiduità da lui concessa al lavoro elle stava preparando per il Concorso.
La camera del forestiere la rifaceva per solito la vecchia; Minna tuttavia vi penetrava qualche volta ad aiutarla ed era allora una curiosità di guardare quei libri, di toccarli, di leggerne una o due pagine, alla sfuggita. Per solito da queste visite apparentemente indifferenti ella ne riportava una commozione, un calore, per cui anche la solitudine ascetica della sua propria camera sembrava abbellirsi di una luce nuova, di suoni e di voci indistinte, come di cori lontani che si avanzassero nell’aria.
Una sera Cònsolo aveva avuto degli amici: Stello, l’Agrati, altri. Una vivace discussione li occupava tutti. Cònsolo sfoggiò le magnifiche risorse della sua dialettica stringente sostenendo l’ideale dell’ascensione umana di fronte all’Agrati che la negava.
Alto, alato, fiero, superbo, Cònsolo riportò un trionfo non difficile ma brillante. La parete che divideva la sua camera da quella di Minna rimbombò delle parole di quei giovani audaci che le sapevano maneggiare quali spade affilate e dal cozzo delle idee rimbalzanti, nel corruscamento dell’immagine luminosa, la commozione che Minna ne ricevette fu profonda.
Finalmente ella udiva il verbo preciso che veniva a plasmare le sorde ribellioni di tutto il suo essere contro il gretto materialismo della vita quotidiana. Finalmente le era dato di scorgere il confuso embrione de’ suoi sentimenti prendere consistenza di pensiero. Esisteva dunque un’atmosfera diversa da quella che ella aveva sempre conosciuta, che credeva la sola possibile? L’anima chiusa stava dunque per aprirsi.? la bocca muta avrebbe parlato? Non sarebbe più sola?
Quella sera Filippo Cònsolo le parve l’uomo divinizzato dal suo ardente desiderio e da quella sera l’anima di Minna si era data a lui.
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Che intenso ardore di passione era stato il suo per quasi due anni! Con quale amara, voluttà aveva assaporato le torturanti ebbrezze che ai nobili cuori di donna dà un amore senza speranza!
Era vero ch’ella raccoglieva avidamente i fogli sui quali Filippo aveva abbozzato i suoi pensieri perchè del suo pensiero appunto ell’era innamorata, e mai, neppure in una visione lontana, aveva vagheggiato altro conforto all’infuori di quello di vivere nel raggio della sua orbita, e ascoltarlo e adorarlo in silenzio...
Questo era stato il suo grande sogno di devozione e d’amore. Altra la realtà.
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Abbandonata sovra una seggiolina accanto al suo letto, colla fronte appena riversa contro il guanciale, le braccia rilasciate lungo il grembo, fisse ad arco le palpebre, come è proprio di coloro che contemplano una voragine, Minna stette fin che la luce importuna del sole entrò a riscuoterla.
Sorse allora con un moto lento congiungendo le mani e sollevandole fino ad appoggiarne il dosso sovra gli occhi dove le tenne un istante premendo fortemente, poi di scatto le disgiunse; e solamente allora una piccola lagrima amara le punse l’orlo delle palpebre, rimpianto soffocato di ciò che non era più.
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Affacciandosi alla nuova vita, a quella pagina del suo destino che un soffio d’uragano aveva bruscamente voltata, Minna non sentì il peso del suo segreto. Poichè nessuno al mondo era mai penetrato nel suo cuore e non aveva nè famiglia nè amiche che si interessassero a lei, e la sua passione era nota a lei sola, trovò naturale di restare ancora sola nell’impeto della gran bufera.
Un po’ più pallida appena mosse alle consuete occupazioni, alle cure casalinghe che ella compiva senza slancio, e senza ripugnanza, docilmente attaccata al dovere, non immaginando neppure che potesse essere diversamente. Ebbe un lieve sussulto quando la vecchia le annunciò che il loro pigionale era già uscito, ma non fece commenti.
Grave, sentendo scaturire dalla sua difficile posizione un dovere di più, entrò nella camera di Cònsolo senza jattanza e senza timore. La vecchia l’aveva già rigovernata, ma ella conosceva il posto dei libri, il modo preferito di collocare la poltrona, la disposizione delle tende sulla finestra, e attese a tali minute cose con un ardore concentrato dove si quietava la profonda ferita del suo cuore.
Servirlo così umilmente in silenzio non avviliva Minna, poichè ogni atto della sua mano era nobilitato dallo spirito di sacrificio che lo faceva assurgere al gesto sacro della protezione; quel gesto quasi di difesa che le donne conoscono così bene, sieno esse madri od amanti. Ogni oggetto appartenente a Filippo, toccato da Filippo, vestiva per la sua anima religiosa il significato mistico che hanno agli occhi dei fedeli gli arredi del tempio.
In tale condizione dello spirito la sua calma si rafforzava con un soffio di ottimismo elevato dove l’istinto sicuro dell’idealista le veniva rivelando l’intima. bellezza che si nasconde in ogni sofferenza umana.
E poichè la più piccola gioia bastava a sostenere il suo ardore, si commosse riconoscendo un nastrino azzurro che ella teneva al collo la sera innanzi appeso con una certa grazia sulla cornice del quadro che fronteggiava il letto. Ne afferrò i capi, li allacciò, e fermandoli con uno stretto nodo le parve di fermare per sempre con essi il ricordo dell’ora in cui Filippo le aveva detto di amarla.
Quando sarebbe rientrato Filippo?
Inconsciamente era questa la domanda che si rivolgeva Minna mentre andava e veniva per la casa. E che cosa vi sarebbe di mutato alla sua vita? altra domanda alla quale tuttavia Minna non dava ascolto, troppo presa nelle ansie della prima, trepida per l’incontro che desiderava e che temeva ad un punto, avida della parola di Filippo e vergognosa de’ suoi sguardi.
Sospese le lezioni all’Accademia in causa delle ferie estive, Cònsolo non aveva orario fisso; ma quando metà della giornata passò senza che egli apparisse, la fanciulla divenne inquieta e più che mai increscioso la infastidiva il vaniloquio della sua compagna, stornandola dal pensare all’uomo amato senza riuscire a farglielo dimenticare.
A un momento, sotto il calore della giornata di luglio che gravava intenso nella piccola camera dove Minna lavorava insieme alla vecchia, una grande spossatezza la prese; il ricamo le cadde dalle mani allentate e un sospiro le sollevò il petto. Forse in quel momento avrebbe parlato e guardò la vecchia con questa intenzione; ma nel piccolo spazio che le divideva sorsero all’improvviso tanti ostacoli, tante lontananze di tempo e di affetti che era come se valli e burroni stessero fra di loro e la parola che smaniava nel desiderio del volo si arrestò. Disse appena:
— Sai che ha vinto un gran premio?
— Che premio?
Minna accennò colla mano la camera attigua.
— I1 signor Cònsolo?
— Lui.
— Ce n’è dei fortunati! A noi queste cose non càpitano.
Minna si pentì subito della confidenza e ricacciò di nuovo in fondo al cuore la sua gioia, il suo dolore, le sue speranze.
Meglio la confortava il lavoro. Quando era stato per lei il momento di scegliere un mezzo che potesse aiutarla a vivere, la meschina consigliera che le stava ai fianchi non aveva saputo trovare niente di meglio, per non degradarsi diceva lei, che l’insegnamento. Ma Minna che della scuola conservava il ricordo di infinite noie e di inenarrabili tristezze vi si era opposta con una resistenza muta dove la sua volontà non ebbe neppure bisogno di agire perchè il caso stesso accorse in sua difesa. Mediocre scolara non fu ritenuta abile agli esami e da questo scorno che con grande indignazione della vecchia ella accolse con perfetta indifferenza Minna si era rifugiata nel ricamo, la soave occupazione delle donne antiche, dove la sua anima sognante adagiavasi libera nelle care fantasie del pensiero intanto che la mano creava opere di bellezza per gli occhi.
Ognuno dei fiori sorti con tanta leggiadria sotto le sue agili dita sapeva di quanta amorosa pazienza li aveva contornati il pensiero segreto dominante tutti gli atti della fanciulla; e quanta leggerezza di esecuzione quel continuo stato di estasi conferiva ai punti levati su dalla stoffa come battiti d’ala, come trilli d’allodola, come piccole scintille scoppiettanti da un gran fuoco nascosto.
Minna faceva bello il suo lavoro e il lavoro abbelliva la sua solitudine con un tacito ricambio di armonie squisitamente femminili.
Quel giorno gli steli di una ghirlandetta che ella stava tramando sopra una sottile stoffa di velo avevano già risposto alle sue inquietudini celate, distendendosi con sicurezza sull’aereo tessuto, e ad ogni petalo aggiunto pareva che il cuore della ricamatrice esultasse. Quando verrà? — mormorava insistentemente la voce del cuore. — Pazienza! — dicevano le foglioline appena nate. — Mi ama davvero? (era il sibilo serpentino del dubbio). — Coraggio! — dicevano ancora le foglioline. -Coraggio! — ripetevano tutti i fiori della ghirlanda. — Coraggio! — gridava il cuore di Minna.
Un suono di campanello sul tardi la fece sussultare. Chi poteva essere? La vecchia era uscita; ella mosse verso la porta tremando tutta. Stello stava in piedi sul ballatoio della scala, avendo bussato invano all’uscio di Cònsolo.
Non era lui, ma era un suo amico, il più intimo forse, il discepolo prediletto. Minna, che pure gli aveva parlato una volta sola, ne prevenne la domanda con uno slancio che li avvicinò subito.
— Non c’è — disse — non venne mai a casa in tutto il giorno.
— È dunque uscito presto?
— Credo — rispose Minna arrossendo.
Il fluido misterioso della simpatia avvertendo Stello che con quella fanciulla poteva intrattenersi liberamente dell’amico, soggiunse, per il bisogno ingenuo di parlarne:
— Non ha udito questa notte il baccano che abbiamo fatto sul ponte?
Minna chinò il capo assentendo.
— L’abbiamo disturbata forse? Ma, eravamo tutti così lieti della vittoria. Sa, nevvero, il premio ottenuto?
Il volto di Minna apparve così trasfigurato nell’estasi; era così evidente la sua commozione che Stello, senza indagarne il perché, sentì di trovarsi dinanzi a un’anima degna di partecipare al suo entusiasmo.
— Sì, sì, tutti quelli che lo conoscono devono essere lieti oggi. Ha visto i giornali?
— No, — disse Minna mortificata.
— Ne ho qui due, glieli lascio. Senza dubbio li avrà visti anche lui, ma li tenga per quando rientrerà.
— Non so quando.
— Non importa. L’ho cercato dappertutto, ma non importa, non importa. Deve pur tornare a casa un momento o l’altro. Gli dica che venni per vederlo; no, non gli dica nulla, ritornerò. Buon giorno.
Stello era già in fondo alla scala; ma il breve dialogo, rapido, scucito, eppure tutto palpitante dell’incontro di quelle due anime investite della medesima fiamma, fu un raggio luminoso nella lunga giornata di Minna. Le parve di entrare maggiormente nella vita di Filippo, poiché un suo amico si era degnato di parlargliene, e se non fosse stata la sua timidezza dolorosa a serrarle le labbra, quante cose avrebbe voluto domandargli!
Leggendo poi nei giornali le grandi lodi prodigate al vincitore di una gara alla quale avevano preso parte i migliori ingegni, la coscienza della propria pochezza le fece aumentare quell’ardente sentimento di gratitudine che conferiva al suo amore la religiosità di un culto, per cui anche il desiderio troppo intenso di rivedere Filippo doveva nella sua schietta modestia essere frenato da un concetto più alto della sua missione di donna che ama; e siccome ad ogni nobile pensiero che si sviluppava in lei Minna sentiva crescere una forza, ella vibrava tutta di una nuova idealità quando al tramonto prese posto sul balcone col suo ricamo fra le mani, aspettando.
Ed era pur quello il posto dove, aspettando, aveva trascorsa la vita fino allora; quello e nessun altro, non essendosi mai mossa per nessuna circostanza, mai!
Quando fiorivano le glicini in primavera, quando ingiallivano le foglie in autunno, ed anche nel pieno estate quando le acque del canale passavano fresche e lucenti sotto le finestre portando lungi le foglie che cadevano dai rami protesi, Minna su quel balcone aveva provato fin da bambina le acute nostalgie della bellezza. Da allora il giardino di casa Sormani che era la massa di verde più opulenta offerta ai suoi occhi, la attirava colle ombre misteriose dei fitti alberi.
Ella pensava quanto dovevano essere felici le persone che vivevano là dentro; e se scorgeva una carrozza varcare il portone del bel palazzo signorile e svolazzare nella brezza lieve la piuma bianca di un cappello di donna, un’onda di sensazioni le gonfiava il petto, ardente anelito a tutti i doni della vita che il destino sembrava averle negato per sempre, ma anelito senza forma precisa, come un sogno.
Vedeva passare da lontano l’amore, la gioia, le espressioni dell’intelligenza, le conquiste del sapere, e il suo movimento di slancio somigliava ad una benedizione. Poichè esultano nel mondo la gioventù e la bellezza, poichè i fiori profumano nei giardini dei felici, poichè vi sono pupille piene di luce e labbra che sorridono, mani che si stringono, cuori che si intendono, la vita è bella. Bella anche se qualcuno solitario nell’ombra non riesce a stringere nel proprio pugno una materiale conquista, anche se molte lagrime scorrono inavvertite. Vi è tal sogno che supera in bellezza qualsiasi realtà.
Confuse assai queste idee di Minna, più intuizioni che idee, fiori dell’anima che nessuna benefica cultura aveva ancora districato dalla larva germinale, ma che ricchi di una linfa nutriente gonfiavano in silenzio le loro gemme.
E ancora in quel tramonto caldo di luglio, come l’anno prima, come tutti gli anni rimastili nella memoria, Minna dal suo balcone scorgeva nella casa prossima alla sua bambine allegre saltellanti intorno alle gonne materne, fanciulle che l’occhio vigile dei genitori accompagnava con amorosa prudenza, verso cui una mano delicata andava ad accarezzare i capelli o ad allacciare un nastro mentre da una bocca non sempre veritiera, ma che l’affetto istruiva, uscivano le parole tanto care ad ogni giovane donna:
— Quanto stai bene!
«E tu pure, tu pure finalmente!» trillava il cuore di Minna, braciere infocato dal ricordo dei baci di Filippo.
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Un soffio leggero copriva di piccole increspature le acque del Naviglio.
Non era già più il crepuscolo e non la notte ancora. La cupola d’oro e di porpora laggiù, verso porta Romana, aveva ceduto ad una zona di cielo pallido striato di verde e di violetto; il ponticello dell’Ospedale andava perdendo i contorni; solo i due platani del giardino Sormani acuminati a guisa di pini svettavano ancora, bruni fantasmi nell’agonia del giorno.
Si accese improvvisamente un fanale sul ponte; poi due, poi tre, poi tutta la fila fantastica schierata lungo il Naviglio; ed altri lumi vari di colore e di grandezza apparsi alle finestre, danzanti nel riflesso dell’acqua che dava loro fluidità eleganti di silfi, movimenti bruschi e maliziosi di gnomi. Minna si sporse dal balcone guardando a destra ed a sinistra.
L’orologio alla chiesa della Passione suonò nove colpi.
Il brusio della strada andava scemando a poco a poco; chiudevansi i negozi sul ponte, i passeggeri si facevano rari.
Da via della Stella sbucò un’ombra rasentando il muro: quando si trovò in vicinanza dei fanali l’ombra si divise in due per riunirsi un momento dopo e perdersi lungo il Naviglio di San Damiano...
La notte era calata piena, intera, col suo silenzio rotto a tratti da rumori misteriosi: una persiana che sbatte, un ramo d’albero che si spezza, un animale che getta un grido, una carrozza che ruota in lontananza trasportando chi? dove? E l’acqua del Naviglio sempre più cupa, che va, va, passa sotto all’Ospedale, sotto alla camera dei morti... Muore forse uno in questo istante?
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Dieci ore suonano all’orologio della Passione.
Minna per fare qualche cosa si scioglie i capelli, li lascia scorrere sulle spalle, li scuote, e sente il sollievo momentaneo di un laccio infranto. Sospira, guarda le finestre in giro, tenta di riconoscere, ma invano, le persone che attraversano il ponte.
In alto, poche stelle appaiono sul cielo velato. Impossibile discernere l’Orsa. Dalla grondaia del tetto i quattro draghi sporgono le teste enigmatiche nell’oscurità.
Passa una mandolinata...
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Undici ore.
Uno strillo di bimbo ferisce l’aria, aguzzo come una stilettata: Mamma! «Mamma!» Strilla ancora il bambino, grida ancora “mamma!” Minna ne è tutta sconvolta...
Perchè egli non torna?
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Dodici ore.
Un ubbriaco canta verso il Verziere, ulula un cane; nelle acque del canale sobbalza il tonfo di un corpo ignoto.
Minna, vinta dal languore, si trascina nella sua camera e cade vestita sul letto.
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Dormì? sognò? pianse?...
Il fischio di una sirena attraversa la città addormentata. È l’alba.
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Trascorso il primo periodo dell’attesa, quello in cui Minna sperava di vedere accorrere Filippo ardente dello stesso suo amore, il sentimento della propria dignità prese il sopravvento ed ella evitò d’incontrarlo. Furono giorni dolorosissimi, durante i quali dovette passare attraverso le più crudeli incertezze.
Filippo non stava più in casa; presto alzato al mattino, non si sapeva quando rientrasse alla sera. Nel silenzio angoscioso delle sue notti insonni Minna, coll’orecchio teso alla parete che li separava, moriva d’ansia chiedendosi se fosse stata vittima di una allucinazione mostruosa o di un cinico inganno; ma tratteneva il fiato perchè egli non udisse, perchè non sospettasse neppure. Lui partito recavasi furtiva nella camera ancora calda del suo respiro e copriva di baci folli il guanciale concavo della testa che vi si era posata, delirando d’amore e di dolore.
A volte invece si chiedeva se l’atto supremo della sua dedizione non avesse disgustato Filippo allontanandolo da lei come da un oggetto indegno e spregevole. Sentiva allora la gravità della sua colpa, accusandosi di non essersi difesa meglio, vinta da quel sentimento della sua pochezza che la rendeva tanto umile dinanzi agli altri e rassegnata alla sua sorte di miseria.
Un giorno si incontrarono mentre egli scendeva le scale e lei saliva.
Credette di svenire. La scala era angusta, mal rischiarata; ella si strinse contro il muro per lasciarlo passare intanto che il suo piccolo volto pallido esprimeva angoscia e vergogna.
Cònsolo ebbe un lieve moto di sorpresa, quasi appena allora si ricordasse di quel che era stato. La salutò, le disse alcune parole gentili. Minna corse a rifugiarsi nella sua camera, ebbra di gioia. Alla sera sul balcone si ritrovarono.
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L’estate passò rapidamente. Gli amici di Cònsolo lo sollecitarono a cambiar casa, ma egli si mostrava indeciso. Aveva dei progetti in mente non ancora ben definiti; uomo di studio e di abitudini semplici non concedeva alcuna importanza nè alle apparenze, nè ai materiali vantaggi. Si sarebbe adattato a vivere da asceta in un deserto pur che il suo sogno di conquista potesse diventare realtà, ma cambiar casa a quale scopo? Lo avrebbe fatto nella sola ipotesi che l’incidente de’ suoi rapporti con Minna avesse minacciato la sua indipendenza; ma la docilità della fanciulla ad accettare il fatto compiuto senza recriminazioni e senza accuse lo liberava da ogni noia così come di ogni rimorso.
Di tutto ciò che era accaduto egli non si sentiva responsabile. Non lo aveva provocato ella stessa? In fondo non trattavasi altro che di una di quelle buone fortune come ne càpitano facilmente ai giovani. Cònsolo non vedeva più in là della buona fortuna, e Minna che gli era apparsa nella migliore delle interpretazioni una incosciente poteva pur dirsi fortunata di trovare al suo primo fallo un uomo serio che non l’avrebbe compromessa. Alla confessione di quella sua lunga passione segreta, non solo non prestò fede, ma non prestò neppure attenzione, troppo lontano dalle cose sentimentali per poterle nemmeno comprendere.
Apparteneva alla categoria dei cerebrali a freddo. Nato per il pensiero e capace di morire per una propria visione di gloria o di bellezza, tutto ciò che riguarda le donne il loro amore le loro aspirazioni il loro destino doveva essere nel concetto che egli si formava dei valori scoria e numeri inutili.
Quando affermava che non aveva tempo di amare era sincero. Egli non amava che le verità dello spirito, non era curioso che del sapere; e queste verità e questa scienza inseguiva indefessamente, ansiosamente; era la sola cosa viva per lui.
Tutto il resto, uomini e donne, non contavano nulla, non rappresentavano, non gli dicevano nulla; le donne meno ancora degli uomini. Esse non tenevano nella sua vita un posto maggiore del bicchiere d’acqua che doveva cavargli la sete. Natura singolarmente complessa bastava a sè, si completava di sè.
Se ammetteva la superiorità di sua madre, era per non rinnegarsi, perchè la madre di un iddio è necessariamente una dea.
Minna poteva ben essere la donna fatta per un uomo simile, l’ancella, la schiava, l’atomo vivente nella sua ombra; pronta a lasciarsi schiacciare se l’interesse del suo orgoglio lo avesse richiesto.
Anche la scarsa bellezza di Minna, anche la sua ignoranza e la cornice meschina che la inquadrava, tutte queste circostanze di inferiorità accarezzavano in Cònsolo l’istinto di dominio.
Il suo modo di considerare la donna conservava attraverso l’inoculazione di una civiltà che non aveva avuto presa nel suo temperamento dispotico la violenza e l’egoismo primordiale della razza.
L’adattamento fu rapido. Nessuno di loro modificò la propria vita; nessuno intorno a loro si accorse che dopo d’essere vissuti due anni stranieri l’uno all’altra, l’ora segnata era giunta rompendo il tessuto dei sogni col più indistruttibile dei fatti. La stessa vecchia donna che stava in casa non avvertì nulla.
Il professore attendeva a’ suoi studi senza scambiare una parola di più, senza il benchè menomo accenno ad una intimità maggiore; nè il contegno di Minna poteva lasciarla indovinare.
Sempre taciturna, il trillo delle risate giovanili non aveva mai forzato la chiostra delle sue labbra che sembravano chiuse da un invisibile suggello; nè la scintilla di un gaio pensiero mai aveva illuminato l’ombra che cingeva le sue pupille immobili come fisse ad una meta lontana. Era sempre stata così. E se più sottili le labbra si stringevano a rinserrare un arcano, se più fosco l’arco degli occhi proiettava fin sulle guancie l’ombra delle voluttà segrete, chi avrebbe potuto accorgersene?
Tutta la forza del silenzio era in lei e la cingeva e la chiudeva in una impenetrabile corazza.
Mai forse donna onesta ebbe una caduta così rapida, così impensata, così priva di rimorsi come quella di Minna; ma è anche difficile essere più ingenui di lei, unire tanta rettitudine a tanta ignoranza, a un carattere così fondamentalmente serio, a un candore di esperienze che la faceva apparire in certe occasioni deficiente. Nè discorsi di amiche, nè letture erotiche, nè precocità di sensi o pervertimento d’immaginazione l’avevano preparata all’urto della realtà amorosa. Era caduta nell’insidia del sesso colle bianche ali di colomba spiegata senz’alcun sospetto.
Ma amava. Nella vampa di fuoco che da due anni le struggeva l’anima era mai possibile che ella si soffermasse a rimpiangere il suo velo virgineo incenerito? Amava, e nel calore del rogo ogni nuovo combustibile aggiunto sciogliendo la forma terrena vestiva con sciarpe di fiamma la nudità del suo pudore.
L’estate passò in tal modo lasciando Minna a ricamare silenziosa sul balcone, così tranquilla negli abiti bianchi che la sua abile mano adornava di leggeri trafori da indurre a crederla una statua, se non fosse stato il movimento ritmico del braccio che alzava l’ago facendole sbocciare in grembo la flora meravigliosa del suo lavoro di Aracne.
L’autunno, non solo i bei giorni dorati della fine di settembre, ma anche l’ottobre grigio e triste, vide la ricamatrice fedele al suo posto; un po’ più pallida forse, e più lento e più stanco il movimento del braccio traente l’ago, quasi circonfusa di un indistinto mistero che le aurelava l’umile fronte.
Gli occhi di Minna, pure stanchi, si sollevavano tratto tratto a contemplare il paesaggio in cui le tinte sole erano mutate; più cupa l’acqua del canale sotto i morsi del primo freddo, ingiallite le foglie che ancor rimanevano sugli alberi, più malinconici i giardini, più sfumato sull’orizzonte il ponticello dell’Ospedale, diminuite le vette dei platani nel parco Sormani; ma tutto così noto, così caro al suo cuore riconoscente che ella ritardava sempre il giorno della separazione.
Furono le pioggie di novembre alternate colla nebbia che la obbligarono a rinchiudersi nella sua cameretta e lo fece ancor più di malavoglia del solito, oppressa da un peso inesprimibile, da un malessere indefinito che la rendeva triste, che le faceva tornare a gola il sapore di ogni cibo e parer nauseabondi i più soavi profumi. Ricamava in quel tempo il corredo di una sposa e alla trama della lieve batista mille pensieri ella andava intrecciando che erano come spine tra i fiori del suo lavoro.
Chi più di lei aveva sognato l’amore benedetto? l’amore che gli uomini rispettano, che Dio fa santo? l’amore che dice alla donna: «Vieni, ti apro la mia casa, ti dò il mio nome, riposa sul mio cuore». Oh! dolcezza essere amata così e poter camminare fieramente in mezzo a’ suoi simili tenendo alta la fronte che nulla ha da nascondere!
Minna attribuiva alla stagione quella malinconia insolita, quell’insolito malessere, e ricamava, ricamava indefessamente.
— Lavori troppo — le disse un giorno la vecchia sua compagna — hai le guancie infossate, sei magra, sei livida. Gran testardaggine è stata la tua a non voler studiare quando eri in tempo. Ora faresti qualche cosa di meglio che la ricamatrice e non saremmo obbligate a tenerci in casa un pigionale decadendo dal nostro rango di famiglia.
Discorsi antichi, logori per la continua ripetizione, ai quali Minna non rispondeva. Aveva anche rinunciato dopo innumerevoli tentativi ad avere notizie precise su quel famoso stato di famiglia a cui la vecchia alludeva con molto sussiego ma che non era mai stata capace di spiegare. Le sue rivelazioni in proposito erano di volta in volta così contraddittorie, la sua memoria e la sua coscienza si smarrivano in un tale garbuglio di fatti incoerenti che riusciva impossibile prestarle fede. Così Minna si era da lungo tempo rassegnata al mistero della sua nascita, a quella specie di velo gettato fra lei e il mondo per cui le erano sconosciuti tutti i vincoli che stringono gli umani fra di loro e quasi non si immalinconica più come un tempo a vedere una madre che baciava la sua creatura, ma da quello stesso sentimento di abbandono prendeva lo slancio ad allargare il dominio della propria coscienza, a fabbricare in essa la sua casa e il suo avvenire.
Il suo avvenire? Ella non osava pensarvi in que’ giorni di indicibile tristezza, mentre soffriva di un male sconosciuto, oppressa dalle quattro meschine pareti che a volte sembravano soffocarla. Tuttavia voleva esser forte; e che Filippo sopratutto non si accorgesse delle sue pene.
La settimana prima di Natale nevicò abbondantemente. Le acque del Naviglio torbide e dense scorrevano con lentezza fra le due rive coperte di neve, i rami secchi degli alberi scomparivano sotto la neve, i tetti delle case ne erano sovraccarichi e il cielo bianco, fioccoso, ne minacciava ancora. Minna che aveva dovuto uscire per le sue commissioni rientrò intirizzita, lagrimosa per il gran freddo e contrariamente al solito trovò Cònsolo che discorreva colla sua compagna.
— Egli — spiegò subito costei — mi avverte che va in famiglia a passare le feste.
— Mia madre me ne ha pregato — soggiunse Cònsolo rispondendo a uno sguardo interrogatore della fanciulla e disse ancora scherzando: — Con questo freddo forse non mi invidia. Mi pare ch’ella abbia molto freddo.
— Sì, non mi sento le mani attaccate.
Cònsolo gettò uno sguardo sulle piccole mani che Minna avea spogliate del guanto per riscaldarle stropicciandole e a Minna parve che le si fosse appoggiato sopra un raggio caldo.
La sera dopo, quando Filippo rincasando tardi passò, come ne aveva ormai l’abitudine, nella camera di Minna, le pose in grembo un manicotto dicendo:
— Non voglio che queste povere mani abbiano ad agghiacciarsi intanto che sarò lontano.
Com’è buono! pensò Minna, commossa fino alle lagrime.
Quel pegno visibile dell’interessamento di Filippo, quel grazioso manicotto tiepido e morbido la consolò molto nella malinconia del giorno di Natale. Ella ascoltò le tre messe d’obbligo alla chiesa della Passione tenendo strette le mani nella dolce prigione di pelliccia, affondandovi tratto tratto il volto come per intenso raccoglimento; e tornò a casa, rasentando il muro senza guardare in giro, sentendosi straniera all’intima festività delle famiglie felici, agli allegri focolari, alle mense circondate di bimbi esultanti. Si incrociavano intorno a lei gli auguri delle buone feste, ma nessuno le era destinato ed ella correva, correva rasentando il muro colle mani sprofondate nel manicotto di Filippo, rondinella sperduta cui attendeva sotto le grondaie un nido freddo al quale si sentiva straniera.
Terminò la giornata nella camera di Cònsolo sotto pretesto di riordinare i suoi libri, riordinandoli infatti per il bisogno di stare con lui, di vivere dove egli viveva, di conoscere quelle carte ch’egli amava tanto e che ella pure voleva amare. Da quando la mente superiore di Filippo Cònsolo l’aveva, prima colpita, poi penetrata a poco a poco sforzandone l’intelligenza che il gelo degli affetti aveva paralizzata e che si apriva ora sitibonda di luce, le era venuto anche il gusto della lettura per la stessa legge armonica che ad una ruota spostata ridona l’elasticità del moto appena sia rimessa nel suo giusto equilibrio.
Tutte le facoltà psichiche di Minna scosse dalla rivelazione palpitavano ansiose. Ella sapeva ora che la vita deve essere una ascesa infaticata verso una meta che innalzandosi si allontana sempre più e ciò lungi dallo scoraggiarla la infiammava di entusiasmo.
Sullo scrittoio di Filippo c’era un ferma-carte di cristallo chiudente il ritratto di sua madre. La madre medesima aveva trovato questo modo per essergli presente a tutte l’ore da quel posto. Benchè immobili le pupille d’acciaio della signora Cònsolo, luminose e fredde, ricercavano quelle del figlio parimenti fredde, parimenti luminose, continuando attraverso la lontananza la fusione delle loro anime unite nello stesso ambizioso amore.
Questo ritratto attirava Minna con un fascino crudele, che se la appassionata somiglianza con Filippo fondendo le due immagini in una immagine sola le dava nel rimirarla uno struggimento di tenerezza, veniva pure dalle pupille acute della signora Cònsolo, dalla fronte imperiosa, dalla bocca schiva, dal mento che sapeva il dominio, una vaga, strana, indicibile sensazione che gliela faceva sentire nemica. Li vedeva allora riuniti nella casa che era la loro, felici dei loro affetti, con tutto un passato che li legava, stretti dallo stesso nome, stretti dallo stesso sangue, mentre ella era così sola, senza tetto, senza famiglia, senza nome! Ma ancora non si scoraggiava. Umile sempre, avvilita mai, tendeva innanzi il cuore e le braccia ed era quasi nell’attitudine di una inconsapevole sfida che mormorava pianamente cogli occhi fissi negli occhi della signora Cònsolo.
— Anch’io lo amo! — e più basso ancora, senza parole, senza forma concreta, emanazione invisibile della sua coscienza, un soffio appena, lievissimo: forse il sentimento di esserne degna.
La seconda festa di Natale volgendo alla fine Minna attendeva da un momento all’altro il ritorno di Filippo, più che mai oppressa dall’ambiente che senza di lui era come aria priva di ossigeno; più che mai straniera alla vita vuota di pensiero che le stava intorno, dove persone e cose erano muti ed insensibili fantasmi che non avevano mai risposto alle ardenti curiosità del suo spirito.
La sua compagna si era appisolata in un cantuccio presso alla stufa di ghisa semispenta dimenticando di accendere la lucerna e Minna godeva della mezzaluce del crepuscolo invernale incombente sul silenzio della cameretta come di un velo soffice che la cullasse e la accarezzasse, mentre ella stessa cullava ed accarezzava i suoi profondi pensieri d’amore, perdendo di vista a poco a poco i mobili che si sprofondavano nell’ombra dalla quale emergeva appena la curva della campana di vetro protettrice della vecchia pendola. Su quell’unico punto luminoso Minna teneva gli occhi distrattamente colla sensazione vaga che dovesse restringersi di minuto in minuto fino a scomparire del tutto, quando le parve che la dormiente nel sonno si lagnasse; allora levandosi ratta in piedi andò a lei e la chiamò per nome.
Non ottenendo subito risposta accese la piccola lucerna col piede di bronzo, col paralume di carta, che serviva alle loro brevi veglie e vide la compagna che ansimava col capo rovesciato indietro, stralunando gli occhi, la persona stecchita, le mani che brancicavano nel vuoto. Intanto che Minna correva all’uscio per chiamare qualcuno, Filippo Cònsolo saliva le scale.
Furono loro due insieme senza guardarsi, senza parlare, che accostandosi alla vecchia, tentarono di rianimarla ma invano. Ella rantolò ancora un istante, poi la testa di rovesciata che era le cadde sul petto.
— Un medico! un medico! — gridò Minna.
— È inutile — rispose Filippo. – È morta.
La parola più terribile in quell’istante che la cosa stessa, perchè la precisava recandone in certo qual modo il suono alle orecchie impreparate di Minna, la colpì con violenza. Ella non aveva ancor visto a morire nessuno.
Si appoggiò contro la tavola prossima a mancare; ma nello stesso momento che la morte appariva a’ suoi occhi sgomentati, un improvviso, arcano impulso di vita saliente su dalle viscere la scosse con un rapido colpo, come di un cuore nuovo che palpitasse sotto il suo cuore, come di una piccola mano che battesse alle pareti del suo seno annunciandole il mistero dell’Essere... Invano volle cercare gli occhi di Filippo; Filippo non la guardava, Filippo non s’era accorto di nulla. E rimase così in piedi, appoggiata alla tavola, ascoltando con trepidazione sacra la prima rivelazione della maternità.
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In quella occasione Cònsolo si comportò bene, occupandosi del funerale e di tutte le particolarità noiose e rattristanti che accompagnano la dipartita ultima.
Quando ogni cosa fu terminata egli parlò a Minna della necessità di separarsi, non essendo conveniente che una fanciulla di venti anni abitasse con un giovane poco più che trentenne.
Minna comprese la ragionevolezza di tale proposta, ma sentì pure che ella non l’avrebbe pensata, che sola al mondo e libera e amante, i giudizi della società non riuscivano a toccarla. Fu in omaggio a lui, alla sua riputazione di uomo serio e perchè non voleva in nessun modo essergli di ostacolo che accettò senza dibattito una proposta in fondo alla quale le sembrava di scorgere una lontana minaccia di abbandono.
Una sera molto tardi, in un’ora di dolcezza, Minna osò confessare il suo gran segreto... e benchè la cameretta dove si trovavano (era la sua) giacesse nella penombra di un lume agonizzante, vide con terrore la contrarietà che subito invase la fronte di Filippo e lo sguardo pieno di spavento che squarciando il gelido acciaio delle sue pupille scoperse il passaggio di un pensiero cattivo.
Ancora ella si mostrò umile e remissiva, non chiedendo, non pretendendo nulla, felice solo di essere amata da lui e di portarne un pegno indelebile; così che Filippo ricomponendosi e riprendendo signoria su se stesso la assicurò gravemente del suo appoggio per il futuro; ma insistette vieppiù nella urgenza di provvedere affinchè ogni pretesto di maldicenza fosse tolto, e ciò, diceva, in omaggio al suo onore di fanciulla, non mostrando neppure di avvedersi che vi fosse un altro mezzo per tagliare la strada alla maldicenza e per difendere l’onore di una fanciulla.
In fretta e furia come si potè trovare, non essendo il tempo dei cambiamenti di pigione, Cònsolo affittò una camera nella prossima via di S. Barnaba, ma al momento di trasportarvi i suoi libri si accorse che non vi era modo di collocarli. Dovette allora rassegnarsi a fare una scelta portando con sè i volumi indispensabili e lasciando gli altri nella antica camera sotto la custodia di Minna che assai se ne compiacque, sembrandole per tal modo di non perdere del tutto le care consuetudini, di vivere ancora un po’ insieme, di continuare la sua iniziazione al mondo delle idee verso cui la spingeva tanto la spiritualità del suo temperamento quanto il bisogno di inalzarsi fino a lui.
Il distacco nondimeno le riuscì doloroso.
— Vieni — le disse Filippo con un movimento di compassione che l’orgoglio stesso gli imponeva verso una così fragile creatura — accompagnami al mio nuovo alloggio. Vedrai che la strada è breve.
Era la prima volta che uscivano insieme. Minna commossa ripeteva fra sè: Come è buono! Come è buono! e si stringeva al suo fianco coll’illusione di prenderne possesso in pubblico, di affermarsi sua.
Il tramonto grigio di una giornata d’inverno li avvolgeva nel suo velo. Camminavano lesti lungo il Naviglio dove in quell’ora non si incontrava anima viva. Quando passarono rasente il muro del giardino Sormani Minna espresse un suo pensiero tante volte ripetuto nelle lunghe soste al balcone:
— Chi sa — disse — di quanti amori questi alberi sono stati testimoni!
— Non quanti, ma quali amori, io mi domanderei piuttosto — rispose Filippo con alterezza. — L’amore in sè stesso non ha nulla di peregrino, solo può conferirvi un alto valore la qualità dell’anima che lo prova.
— L’amore — soggiunse Minna timidamente — non è una fiamma divina che eguaglia tutte le anime?
— Non dire sciocchezze te ne prego e non parlare di cose che non comprendi. Le anime alte sono sempre sole; non vi è che l’ideale che le possa congiungere, ma all’ideale una donna non arriva mai.
Minna pur provando l’impressione confusa di una ingiustizia non seppe che rispondere, perchè se pronta era la sua mente ad accogliere le scherme del pensiero le mancava la parola per esprimerle convenientemente.
Oltrepassato il giardino di casa Sormani, raggiunsero il triste edificio dell’Ospedale dove sbocca la via di S. Barnaba girando intorno al Brefotrofio. Le lugubri memorie di quel luogo assalirono subito Minna. Ella sapeva che non molti anni prima c’era ancora fisso nel muro lo sportello della Ruota che si apriva per accogliere appena nati i bambini che le madri abbandonano. Ricordava le descrizioni udite di ombre nere vagolanti nella notte col vivente fardello nascosto sotto gli abiti e quel gesto terribile della mano che segnava con un giro di ruota tutto un destino.
Palpitante d’orrore guardò Filippo. Come era mai possibile che egli non sentisse il contrasto delle passioni che si agitavano in lei in quel momento? Ma no. Filippo rasentò col braccio il posto del fatale sportello senza che un muscolo del suo corpo trasalisse. Il suo pensiero era lontano; mai lo aveva sentito così lontano come allora; e la sensazione di solitudine che l’aveva perseguitata tutta la vita le si rinnovava a fianco dell’uomo amato in quel grigio e freddo crepuscolo invernale, lungo il Naviglio che volgeva le acque torbide gonfie dalla gran neve caduta, quasi sinistre sotto la luce verdognola dei primi lumi che si accendevano boccheggianti sotto le raffiche diaccie.
La nuova camera in via S. Barnaba era piccola, antipatica, male arredata. Minna ne scoperse subito i difetti e coll’ardore che metteva in tutte le cose che riguardavano Filippo si pose a riordinarla. Non c’era fuoco, il freddo penetrava umido e intenso dai muri imbiancati a calce e dalle commessure della finestra ironicamente riparate da un rotolo di stoffa; tuttavia ella si tolse il mantello per essere più libera nei movimenti. Il suo corpo sottile e fragile incominciava ad arrotondarsi con una curva che era ancora di grazia e che aggiungeva quasi un’attrattiva di femminilità matura all’espressione ingenua del suo volto. A un tratto Filippo la vide impallidire e appoggiarsi alla sponda del letto.
— Non è nulla – disse Minna prevenendo una domanda che forse non sarebbe venuta, ma che ella volle interpretare nello sguardo acuto di Filippo, e soggiunse sorridendo: — Ho fame.
— Ti riconduco a casa. Hai almeno qualche cosa di pronto?
L’imbarazzo visibile di Minna diceva chiaramente che ella non aveva pensato al pranzo. Cònsolo guardò l’oriuolo: segnava le otto. Anche lui doveva pranzare.
— Andiamo – fece senz’altri commenti.
Giù per S. Barnaba, in vie remote che Minna non conosceva neppure, vie spopolate e squallide di quartieri eccentrici, Cònsolo la fece camminare a lungo non avvertendo che ella trascinava il passo stanco e breve. Sostarono finalmente a una modesta trattoria dove Cònsolo era ben sicuro di non incontrare nessuno di sua conoscenza e si fece servire il pranzo in un salottino a parte.
Come era stata una gioia per Minna l’uscire insieme a Filippo doveva essere una gioia anche maggiore questo primo pane mangiato insieme, ostia santa che confermava il sacramento occulto del suo amore. Ma Filippo era taciturno; era sempre taciturno vicino a lei quando non parlava l’istinto sessuale e se, al tempo dei loro ritrovi segreti, Minna poteva essersi illusa a tale proposito, avvertiva ora con sicurezza la sistematica assenza del suo amante in quelle soste dei sensi, quando all’incontro ella si sentiva trascinata verso una fusione intima e profonda di ciò che maggiormente aveva amato in Filippo, l’ardore dello spirito che in lei stessa anelava ad una sempre più eccelsa attività.
La sua impressione costante era quella di un assetato che attratto dalla freschezza cristallina di una sorgente vi accorre, e come vi era accorsa! ma appena giunto la trova arida ed asciutta.
Nel salottino della trattoria, piccolo, tappezzato di rosso con fiorami gialli, tiepido di una atmosfera afosa nella quale passava a tratti odore di tabacco e odore di cavoli bruciati, Minna avvertì subito un senso di malessere. Per quanto avesse dichiarato di avere appetito toccò appena il cibo, oppressa da quegli odori, suggestionata dalle tinte stridenti della tappezzeria che nello stato di debolezza in cui si trovava assumevano forme fantastiche di fuoco e di sangue. Nella camera attigua due uomini discutevano di denaro. Mille lire, mille dugento, tremila; poi un gran salto: ventimila, poi di nuovo indietro: mille, mille dugento, tremila. Le cifre si incrociavano, salivano, scendevano; ogni tanto se ne aggiungeva una nuova.
Trentamila lire! gridò alla fine uno di quegli uomini battendo un gran pugno sulla tavola e nello stesso tempo la voce di una bambina piagnucolante per sonno implorava: Voglio andare a casa! Voglio andare a casa!
Il desinare fu rapido e taciturno; quando Cònsolo si levò in piedi per afferrare il cappello Minna si sentì sollevata da un gran peso. Fuori, l’aria fredda della notte le battè sul volto dandole una sensazione di ristoro e i primi passi furono piacevoli nelle vie deserte che incominciavano a coprirsi di un leggiero strato di ghiaccio. Ma il cammino si allungava straordinariamente dinanzi alle poche forze di Minna.
Ad ogni nuovo svolto ella si guardava attorno cercando un punto di orientamento; ed erano sempre vie lunghe, sconosciute, non più quelle percorse prima.
— Abbiamo sbagliato strada? – arrischiò ella con un gran tremore.
— No, non è sbagliata, è solamente diversa – rispose Filippo.
— Mi pare molto più lunga.
— Cammina, cammina.
Minna non disse più nulla. Oramai le veniva meno anche la forza di parlare, aggrappata al braccio di Filippo sul quale cercava di pesare il meno possibile, con un ronzio confuso nelle orecchie, le viscere martoriate da uno stiramento doloroso. Si raccapezzò alla prima casa di Porta Venezia. Che giro lungo avevano fatto!
Dinanzi al portone di uno di quei bei palazzi che fiancheggiano il Corso si avvicendava una compatta fila di carrozze. C’era un grande ricevimento in una famiglia signorile e attraverso i cristalli delle carrozze e delle automobili si profilavano testine ingioiellate, bianche pelliccie e occhi scintillanti di persone felici, ma Minna si sentiva così stanca che guardò appena.
— Ti credevo miglior camminatrice – disse Filippo avvertendo la fatica che ella faceva per tenergli dietro.
Nessun pensiero, nessuna allusione allo stato in cui si trovava. Minna si scusò:
— È forse la mancanza d’abitudine.
Quando svoltarono sul Naviglio, solamente a vedere il luccichio dell’acqua punteggiata dagli innumeri fanali e la cinta misteriosa dei muricciuoli intorno ai giardini pieni d’ombra, ella sussultò lietamente sentendosi vicina a casa. Giunsero alla fine e Cònsolo fu abbastanza gentile per accompagnarla disopra, ma appena entrati ebbero un istante di imbarazzo durante il quale egli guardò colle sue pupille acute la fanciulla che si era lasciata cadere sopra una sedia.
“Perchè mi guarda così fissamente?„ – pensò Minna.
— Sei dunque molto stanca?
— Molto.
Filippo esitò, battendo sul tavolino un colpo o due colla sua canna, poi:
— Allora ti lascio?
Dal fondo delle sue membra indolenzite più ancora che il bisogno di riposo sorse in Minna la protesta dell’amore. Mormorò:
— Subito?
— Che farei qui? È tardi.
Minna chinò il capo sul petto.
— E poi, se sei stanca riposerai meglio sola. Hai forse paura?
— Devo pure abituarmi.
— Giustissimo. Anch’io sarò solo – e soggiunse sorridendo coll’aria di protezione scherzosa che prendeva sempre quando voleva dire qualche cosa di amabile: – Penserò a te.
Il tono guastò la nota. Minna ne ricevette un senso di freddo. Vedendo che non parlava Filippo concluse:
— Allora buona notte.
— Buona notte.
Ancora una pausa. Volle dire una parola, poi la mutò, poi, secco:
— Dunque vado.
Un’onda di passione disperata salì, gemendo, dal cuore di Minna: ma al varco delle labbra si restrinse, si compose, e non un soffio ne traspirò quando sollevando il volto illuminato da una rassegnazione angelica ella rispose:
— Buona notte.
Filippo partì. Ella ne udì il passo lungo le scale, udì sbattere la porta. Fece un movimento per recarsi alla finestra e vederlo passare sul ponte ma non fu capace di muoversi; era sfinita di forze, con quello stiramento doloroso nelle viscere che le procurava una contrazione di tutte le membra.
Perchè egli l’aveva guardata così fissamente? Le venivano alla memoria racconti raccapriccianti di bambini nati in condizioni eccezionali e di madri snaturate che li avevano uccisi con le proprie mani.
Non riusciva a capire come ciò fosse possibile, ma la visione macabra la ossessionava nella solitudine assoluta dell’appartamento vuoto, così stremata e affranta, priva di consigli e di cure.
Più tardi si trascinò sul letto, ma dormì male e il breve sonno fu interrotto da apparizioni tragiche di corpicini mutilati, di bare alternate a bare in una fila interminabile e su dalle bare rigettando lungi il coperchio vedeva sorgere testine ingioiellate, bianche pelliccie, occhi ridenti...
Il mattino dopo quando fece per alzarsi si accorse di non poter reggere in piedi e colpita da un misterioso terrore si tornò a adagiare semivestita sul letto, tutta compresa da un alto e generoso sentimento di responsabilità verso quel futuro che ignorava ma che aveva accettato colla serietà dei cuori che quando si danno, si danno interamente per la gioia e per il dolore; cuori saturi di energie affettive che racchiudono in sè l’ammirabile potenza di rinascere ogni giorno; cuori che la sventura non atterra, che la lotta non consuma, che il disinganno non distrugge e per i quali ogni alba è un nuovo principio di vita.
Anche il pensiero di Filippo prese il secondo posto di fronte al nuovo dovere che le si era rivelato. Egli venne prima di sera e trovandola a letto le fissò in volto ancora le pupille come la sera prima, informandosi con un certo calore di quel che fosse accaduto.
Che cosa aspettava dunque?
Minna credette di calmarlo assicurandolo che un pericolo c’era forse stato, ma non c’era più, perchè si sentiva meglio e rimaneva a letto solo per prudenza; ma egli si mostrò così contrariato e di cattivo umore che Minna volle persuadersi ciò fosse per il dispiacere di vederla sofferente.
❧
— Ha già fatto il trasloco?
— Sì, in via S. Barnaba.
— Mi pareva che la camera fosse troppo esigua.
— Non basterà certo, ma per il momento se ne accontenta lasciando qua la maggior parte de’ suoi libri.
Il dialogo si svolgeva fra Stello e Minna sulla soglia dell’uscio.
— Ero venuto per sapere se ha portato con sè un volume che mi preme di consultare.
— Se crede di assicurarsene entri pure: chi sa che a momenti egli stesso non giunga.
Il nome di Cònsolo non era stato pronunziato, ma non occorreva perchè parlavano sempre di lui. Passandole davanti nello stretto vano dell’uscio che ella teneva aperto, Stello avvertì l’espressione di patimento diffusa nel volto e nella persona della fanciulla, come di rosaio dopo la tempesta, e ingannandosi nella interpretazione di quel dolore le disse alcune parole di conforto per la perdita che aveva fatta della supposta parente.
— Non era mia parente — rispose Minna con semplicità — non ho parenti, non ne ho mai avuti. Sono sola al mondo.
— Io pure sono solo.
Le due dichiarazioni si incontrarono così spontaneamente che quel filo di simpatia già altra volta allacciato fra di loro in occasione del trionfo di Cònsolo strinse subito un secondo nodo e parve a entrambi che si conoscessero da tanto tempo, che fossero quasi fratelli. Realmente si assomigliavano un po’, gracili nelle membra e pallidi, con una timidezza che velava l’espressione dei loro occhi paralizzando la grazia dei loro movimenti.
Intanto che Stello cercava nella libreria Minna si era ripresa il suo ricamo. Seduta accanto alla finestra, nella bianca luce invernale che le pioveva sul capo chino e sulle piccole mani librate nell’aria con un ritmico movimento di colomba, ella cadeva nella visuale di Stello e lo distraeva dolcemente prolungando la ricerca del volume.
— Non c’è — disse alla fine il giovane staccandosi dalla libreria.
Forse — pensò Minna levandosi di scatto — si trova nell’ultimo scaffale. E vi salì con un balzo troppo brusco che le diede un sussulto nelle viscere.
— Che ha? — fece Stello vedendola mutarsi in viso.
Lui stesso si mutò con tale commosso movimento di simpatia che per la prima volta in vita sua Minna comprese la soavità di una carezza amica e se ne sentì penetrata di indicibile conforto.
Ella sedette di nuovo sorridendo a Stello per rassicurarlo, ma Stello guardandola la trovava così cambiata che una grande compassione gli saliva su dal cuore.
— Si è fatta male?
Minna disse di no col capo.
— Però soffre...
— Da qualche tempo non ho più la salute di prima; ma non è nulla, non è nulla — soggiunse precipitosamente.
Stello non volle insistere: continuava però a guardarla nelle guancie assottigliate, nella piega dolorosa delle labbra e guardandola così dappresso scopriva in lei certe piccole bellezze modeste che a tutta prima non apparivano; l’orecchio delicatissimo di una forma perfetta, il collo bianco e rotondo, la pelle di un tessuto liscio di camelia, e quelle mani, quelle agili mani alate, fragili, fini, quasi palpitanti di un’anima propria a cui la signorile occupazione del ricamo aveva conservato una purezza ideale di linee. E ancora, nella improvvisata vicinanza, una emanazione discreta di eleganze intime fatte non di lusso ma di abitudini delicate, per cui l’aria intorno a lei sembrava scevra di contatti materiali e i trafori leggeri di cui le sue abili dita di ricamatrice le avevano ornato lo scollo dell’abito si sollevavano sul suo petto col soffio appena percettibile di una nuvola nell’aria.
Un vivo interesse, una pietà gentile tenevano Stello inchiodato dinanzi alla fanciulla. Con un nobile slancio di altruismo egli avrebbe voluto aiutarla in qualche modo, farle del bene.
— Poveretta! — esclamò; e tacque non sapendo più che cosa dire nè come ritirarsi, dimentico del motivo per cui era venuto.
Un drappello di gente passava in quell’istante sul ponte. Minna alzò la testa. Quattro ceri sfilarono, una bara, delle donne abbrunate... Stello guardò al di sopra della testa di Minna.
— Oh! — disse a fior di labbro — quella povera ragazza.
— La conosce?
— Suppongo sia il funerale della suicida.
— Quale suicida?
— Non sa nulla? Ne ha parlato tutta Milano.
— Ma io non conosco nessuno.
— I giornali...
— Non ne vedo mai.
— È strano, è strano. Lei non è una persona di questo mondo.
— Forse — appoggiò Minna col suo sorriso melanconico e dolce.
— Quand’è così non potrà nemmeno comprendere certe brutture. Immagini una fanciulla buona come lei, come lei onesta e pura che un briccone ha sedotta e resa madre... Ah! vede? Ella trema già, diventa smorta... Immagini l’orrore, la disperazione, la follia della povera tradita: poichè lo scellerato rinnegò il figlio, trattò la sedotta da calunniatrice abbandonandola in tale stato miserando da spingere l’infelicissima a suicidarsi col bambino in seno.
Il volto divenuto cereo che Minna chiuse tra le palme rimase a lungo sotto la chiostra che lo proteggeva e quando finalmente lo liberò Stello non vi lesse che un profondo senso di pietà.
— È orribile nevvero?
— Sì, orribile.
— E l’assassino vive!
Alla parola assassino un brivido percorse il corpo di Minna e una rapida vampa di rossore le invase il volto.
Con somma meraviglia di Stello ella disse lentamente quasi parlando a sè stessa:
— Nulla giustifica il suicidio.
— Neppure quando il suicidio morale è già avvenuto? Quando mancano ad un tratto tutte le fedi, tutte le promesse, e il mondo crolla intorno a noi, e la società ci ripudia, e la persona alla quale tutto abbiamo sacrificato ci ride in volto?
— Neppure allora. Non abbiamo ognuno di noi un mondo nostro nella nostra anima?
Stello la guardava ora con un sentimento prossimo alla venerazione. Quale grande bellezza gli si veniva rivelando?
— Tuttavia — soggiunse con umiltà deferente — se la croce è troppo grave, se si cade, e nessun Cireneo è presso a noi, se siamo soli di fronte all’abisso, chi ci sorreggerà?
Una violenta lotta interna agitava Minna. Chino su di lei Stello se ne inebriava come dinanzi ad un’anfora che pur chiusa esala un divino profumo. E dolcemente incalzando:
— Chi la sorreggerebbe, lei, così sola?...
Minna, con un grido che la trasfigurò tutta accendendole negli occhi una fiamma non mai vista, rispose colla sicurezza di una inspirata:
— Io!
E Stello, il giovane entusiasta, raccolto con rapido impulso un lembo della veste di Minna lo baciò religiosamente.
Si trovavano oramai entrambi in uno stato di esaltazione ideale a cui Stello aggiungeva il desiderio ansioso di illuminarsi vieppiù ai raggi di quell’anima, di penetrarla e di compenetrarsene; e anche di parlarle di sè, di rivelarsi tutto, affinchè ella lo conoscesse, con un bisogno improvviso di intimità e di confidenza che dava ali alla sua timidezza.
— Ma chi le ha suggerita questa nobile fede in sè stessa, chi? — e senza aspettare risposta Stello continuò: — Io incomincio appena a impossessarmene riconoscendo di doverlo ad un alto esempio. Povero, triste, solo, in ardua lotta col bisogno stavo per abbandonarmi alle miserie della vita lasciando andare alla deriva ogni dote della mente se Filippo Cònsolo non si fosse trovato sulla mia strada per indicarmi che cosa deve fare un uomo.
Minna che aveva trasalito impercettibilmente susurrò piano:
— Tanto lo ama?
— Fu il mio Salvatore. Vi è quasi sempre nello svolgersi di una giovinezza virile il giorno della tentazione e quante volte la nostra sorte dipende dal primo amico incontrato!
— Ella pure non aveva famiglia?
Stello parve esitare un istante, ma poi trascinato da una forza irresistibile di espansione disse rapidamente:
— Sono un trovatello.
— Un trovatello? — esclamò Minna commossa. — Un fanciullo abbandonato.
— Sì!
— Oh! Signore — fece ella ancora sospirando per i mille invisibili attacchi che questa parola aveva colle sue proprie pene.
— Forse anche lei?...
— Non precisamente. La mia compagna diceva di aver conosciuto mia madre morta nel darmi alla luce... non so altro.
— E chi l’ha educata?
— Educata? ma io sono una ignorante.
Voglio dire chi le ha ispirato i sentimenti ch’ella ha, che trapelano da ogni suo gesto, da ogni sua parola?
— Il vento che corre sulle roccie non lascia cadere talvolta qualche polline? Ho letto questo pensiero pochi giorni or sono, qui. (Accennò i libri sparsi per la camera di Filippo). Leggo ora, ciò che non potevo fare prima per mancanza di libri che mi interessassero.
— E vi sono qui dei libri che la interessano? — chiese Stello sorpreso.
— Oh! non tutti — si affrettò a soggiungere Minna — come li potrei comprendere? Ma anche nei volumi superiori alla mia intelligenza trovo spesso delle frasi, delle osservazioni che mi schiudono un mondo di idee, e questo mi riempie di una gioia che non le so dire; mi interessa, mi piace, non mi sento più sola. Qualche volta (si era animata parlando, così che le sue guancie avevano preso l’incarnato di una giovane rosa) provo l’illusione di avere pensato io stessa certi pensieri, ciò che non è possibile veramente.
— Al contrario. La portata dei libri che meritano di essere chiamati grandi è appunto quella di ridestare le forze dormienti dell’anima; non si comprende nè si gusta se non quello che noi stessi proviamo, sia pure confusamente, allo stato di embrione. L’opera del genio sarebbe inutile se non vi fossero nel mondo milioni e milioni di anime che aspettano la fecondazione.
Una nube offuscò d’ombra leggera la fronte di Minna intanto che ascoltava tutta vibrante le parole di Stello. Filippo non le aveva mai parlato così!... Quel colloquio spirituale rispondeva talmente all’inconscio anelito di tutta la sua vita che la sua ritrosia ne fu vinta e piena di espansione continuò:
— Quando trovo uno di questi pensieri che mi... come dire?
— Illuminano.
— Precisamente, che mi illuminano e mi fanno veder chiaro in me stessa, li copio. Faccio bene?
— Certo. Sarà interessante la sua copia.
— Vuole vederla?
L’ingenuità di Minna era un’attrattiva di più per Stello. Rispose subito che avrebbe visto ben volentieri la scelta da lei fatta.
— Ma è poca cosa — disse Minna, quasi pentita della sua audacia.
— Non importa. Dall’alba si giudica il giorno.
— E accade sovente che si sbaglia! — soggiunse Minna con una spigliatezza così nuova, così insolita in lei, che il suo malinconico volto se ne rallegrò tutto e parve ritornare per un istante bambina.
Lesta, sollevando il coperchio del suo paniere da lavoro, ne ritirò pochi fogli tenuti insieme da un filo di seta e li porse a Stello con grande semplicità. Stello lesse:
“Che vale cercare la giustizia dove non può essere? Esiste forse altrove che nella nostra anima?„
— Ed ella vi si rassegna?
— Bisogna sempre accogliere una legge che ci fa padroni di noi stessi. Non le sembra?
Stello prese la sua matita e scrisse in margine al foglietto: “Bisogna sempre accogliere una legge che ci fa padroni di noi stessi„.
— Ecco la mia conferma.
Minna arrossì di piacere. Stello lesse ancora:
“Perchè un fiore dia tutto il suo profumo è necessario che venga schiacciato„. Ciò è molto triste, non lo voglio sottoscrivere. Vediamo quest’altro: “Chi non ama senza speranza non conosce amore„.
— Le sembra vero questo?
Stello che aveva lasciato cadere i fogli rimase un po’ pensieroso.
— Sì — disse alla fine — deve essere vero.
Entrambi tacquero per un po’ di tempo battendo col pensiero vie diverse. Non si sentiva che il lieve scricchiolio della sedia di Minna quando faceva un movimento per distendere il suo ricamo o il rumore secco delle forbici appoggiate sul tavolino.
— Sono indiscreto, — disse improvvisamente Stello. — Cònsolo non viene.
— Farò io la sua ambasciata. Gli dirò che il signor Stello... ma, Stello è il nome od è il cognome? Me lo sono domandato tante volte.
— Non è nè il mio nome nè il mio cognome, quantunque tutti oramai mi chiamino così.
— Ah! ho capito, è quello che si dice un pseudonimo.
— Nemmeno, perchè io non ho mai scritto per il pubblico e non ho pseudonimi.
Minna non aggiunse altro, ma il giovane riafferrando con slancio l’occasione di prolungare un colloquio che lo interessava straordinariamente, spinto anche dalla fiducia che gli veniva nel contemplare l’anima limpida di Minna, disse:
— Vuole saperlo? è tutta una storia.
E come Stello si accingeva con naturalezza alla confidenza, Minna trovò pure naturale di sospendere il lavoro per prestargli seria attenzione, attratti tutti e due dal pendio innocente dove due freschi rivoli fratelli confondono le loro acque a mescere i loro cuori somiglianti.
— Le ho detto che sono un trovatello. Per mia ventura fui raccolto da una buona famiglia che non rese troppo dura la mia prima infanzia; ma appena varcai i dieci anni la sete del sapere mi prese così fortemente e mi si svilupparono sogni, desideri, aspirazioni talmente in contrasto con tutto quello che mi circondava da rendermi assolutamente infelice. Forse ella ha un’idea di ciò?...
— Dica che non conosco altro — corresse la voce profonda di Minna.
— Conosce la tristezza di una gioventù senza sorrisi, non perchè non si abbia voglia di sorridere, ma perchè nessuno ci risponde? Più triste ancora: veder ridere per cose che farebbero piangere, se questa linfa benefica del pianto non fosse diseccata alla sua sorgente da un continuo stato di marasma, da uno stupore doloroso che ci fa apparire imbecilli, mentre nei nostri petti si agitano compresse e violentate le divine forze della vita?... E doverci stringere in noi quando la natura ci chiama colle sue mille voci! stare immobili quando si vorrebbe correre, chiudere occhi ed orecchi quando si vorrebbe guardare e ascoltare, stringere il vuoto colle nostre braccia così avide d’amore e di tenerezza!
Trascinata da quella esposizione precisa delle sue proprie sensazioni, Minna interruppe:
— Diventare allora timidi con tanta energia di volontà! freddi con tanto ardore! Sentirsi come in maschera in mezzo a tanti visi scoperti! e sapere che il nostro volto guadagnerebbe a scoprirsi e non poter strappare la maschera...
Sorpresa ella stessa di aver osato dir tanto, si arrestò; ma Stello infervorato riprese colla foga propria dei timidi, quando per una ragione o per l’altra riescono a gettar via il morso che li paralizza.
— Così, così! Ed io amo Cònsolo perchè fu lui che mi innalzò alla vita del pensiero, lui il mio maestro nel significato più ampio e più nobile che dovrebbe sempre avere questo vocabolo troppo bistrattato. Io ho creduto in lui quando le forze stavano per abbandonarmi, e se dovessi perdere la fede in Cònsolo non crederei più a nulla in questo mondo.
Minna ascoltava ansimando lievemente, con un orgoglio intimo ed una intima ebbrezza cui solo tradiva la luce degli occhi.
- E però, prima ancora di conoscere Filippo, è questo che volevo dirle, una fanciulla sorrise benevolmente alla mia triste adolescenza. Non un’amante, no, nemmeno un’amica. Era una fanciulla maggiore di me, venuta a passare qualche tempo nella stessa famiglia dove abitavo io, in provincia. Una fanciulla diversa dalle solite, molto seria, molto riservata, infelice forse; non ho mai saputo bene chi fosse. Io ero allora un ragazzo scontroso e selvatico; non parlavo mai con nessuno. Il solo momento di trovarci insieme sarebbe stato quello della cena che si prendeva in comune, ma io divoravo in fretta la mia parte e correvo a nascondermi in una specie di sottoscala dove avevo ammucchiato qualche libro e dove alla luce di un moccoletto passavo le mie ore migliori, finchè il moccolo durava. Ella mi sorprese una sera, quantunque al suo avvicinarsi mi fossi affrettato a spegnere il lumicino. Avevo una grande soggezione, ma ella mi diede un fiammifero per riaccendere il moccoletto e si informò con dolcezza del libro che leggevo. Era una Antologia scolastica mezzo sdruscita. Mi disse che anche lei amava molto la lettura e leggemmo insieme un Inno di Manzoni... Ma la annoio certamente con queste puerilità?...
Minna scosse il capo senza parlare.
— Poi leggemmo i Sepolcri di Ugo Foscolo che per dire il vero ella comprendeva poco, ed io meno, ma che ci trasportavano colla bellezza musicale del verso. Da quella sera ci ritrovammo sempre. Ella mi dava dei libri, io dei fiori che andavo a cogliere sui monti o nel piccolo orto di casa. Una sera invece di incontrarci nel sottoscala uscimmo appunto nell’orto. C’era una luna deliziosa, le aiuole imbalsamavano l’aria... Mi pare di avere incominciato allora ad amarla.
— L’amò dunque?
— Sì, ma non glielo dissi. Fu uno di quegli amori acerbi ai quali gli scettici non credono e che pure accolgono tale un nucleo di forze vergini come mai più si troveranno più tardi nello sperpero violento che le passioni fanno delle nostre qualità migliori. Ci incontrammo così ogni ogni sera nell’orto, le parlavo della mia vita meschina, del misero avvenire che mi aspettava, dei miei sogni, de’ miei desiderî. Spesso ci guardavamo in silenzio, le offrivo ogni volta dei fiori freschi, ed ella mi mostrava quelli appassiti che conservava in un sacchetto appeso alla sua cintura. Quando venne il giorno della separazione credetti che mi si amputasse una parte viva di me. Ci salutammo con una grande malinconia. Sfogliai allora un geranio che ella prediligeva e glielo versai tutto in grembo; avrei voluto distruggere l’orto intero perchè nulla restasse dietro a lei di ciò che non potevo chiudere nel mio cuore. Quasi tutta la notte sotto la sua finestra farneticai in deliri pazzi. Ella che dormiva con altre donne apparve un istante nel vano dei vetri dischiusi e lasciò cadere su di me una parte dei fiori che le avevo dati, ultimo saluto.
— Non la vide più?
— Non la vidi più, non ne seppi più, non ne saprò più nulla mai. Oltre un anno la sua immagine mi guidò attraverso l’aspra lotta per la vita spronandomi e confortandomi, e poichè la gentile mi aveva dato un nome di sua scelta, poichè nei nostri colloqui ella mi chiamava Stello, adottai questo nome che mi ricorda l’episodio più soave della mia adolescenza.1
Stello tacque e Minna pure tacendo si sentì invasa da una inesplicabile e pur dolce malinconia, come un rimpianto, come una sensazione nostalgica di cieli intraveduti e lontani, mentre perdurava fra loro il profumo di quell'amore non nato, di quell'amore impossibile.
❧
Cònsolo non poteva avvezzarsi a lavorare nella nuova camera angusta di via S. Barnaba; vi dormiva appena. La maggior parte dei suoi libri essendo rimasta nell’alloggio antico passava ancora molte ore accanto a Minna; non precisamente insieme, ma al di là di quella parete dove a lei era così dolce udirne i passi e misurarne il respiro.
Pensare a Filippo, attenderlo, ubbidirlo, indovinarne i desideri., scrutarne i bisogni, farsi di giorno in giorno più fine, più elevata, per rendersi degna del di lui amore; questa la vita di Minna. Del suo proprio avvenire, mai una parola, mai un accenno.
Solamente ai primi giorni di marzo, Filippo, mentre ella traversava la camera seguendone collo sguardo in apparenza distratto la curva della persona che andava accentuandosi, disse:
— È necessario prendere un provvedimento. Non puoi restare qui nello stato in cui ti trovi; se ne accorgerebbero tutti.
Minna fece un atto di sorpresa non scevro di sgomento. Filippo spiegò meglio.
— La stagione che si apre con tanto sorriso di cielo dopo un inverno rigidissimo offre un ottimo pretesto. Andrai in campagna per vedere di rimetterti un poco, di combattere l’anemia. Non c’è nessuno che verrà a chiederti le ragioni, ma è sempre bene averne in serbo. Sceglieremo un posto vicino dove potrò venire a trovarti. Quando tutto sarà finito ritornerai qui. Ti va?
Due o tre domande bruciavano le labbra di Minna, tuttavia si astenne dal pronunciarle nel timore continuo di apparirgli meschina e dappoco. Non che ella stessa si sentisse dappoco nelle intime aspirazioni dell’animo, ma riconosceva di essere povera nei mezzi di manifestarle. Dominata dalla superiorità di Cònsolo le sembrava che l’unica strada per raggiungerlo nelle alte sfere dell’ideale fosse quello di bruciare in silenzio il suo immenso amore col gesto di adorazione ardente e devota che fa salire in nuvole odoranti dai sacri turiboli gli aromi della mirra e dell’incenso.
Scorsa poco più che una settimana da quel primo accenno, Cònsolo espose, non più in linee schematiche ma seguendo un calcolo ordinato e preciso, la decisione di affittare per lei un piccolo alloggio nei dintorni di Monza.
— Mi basterà una camera — disse Minna spaventata dalla prospettiva di un lungo soggiorno.
— No, ho già in vista un grazioso appartamento con giardino dove starai molto meglio. Avrai luce, aria, fiori, spazio.
— E non avrò te!
L’appassionata protesta sfuggì a Minna suo malgrado. Cònsolo soggiunse, modificando appena colla calma dell’accento la durezza della frase:
— Non pretenderai che io stia appeso alle tue gonne. La mia missione nel mondo è ben più alta che non sia quella di tener compagnia a una donna.
Ancora una volta Minna soffocò la rivolta della sua spiritualità offesa anelante a una fusione di vita con lui. Forse non era ancora giunto il momento; forse non meritava ancora l’amore di Cònsolo. Non aveva la soave fanciulla di una favola antica consumato tre abiti di ferro, tre bastoni di ferro, tre paia di scarpe di ferro prima di congiungersi all’amato? Mostrerebbe ella minor pazienza e minor coraggio?
Era già una cosa grande che ella portasse nelle sue viscere il figlio di Filippo. Questo pensiero, quando ella riusciva a impadronirsene profondamente, aveva il meraviglioso potere di fugare gli assalti dello scoraggiamento. Le responsabilità del suo stato allora lungi dall’abbatterla le sviluppavano nuove energie. Si sentiva la depositaria del sangue stesso e dell’anima di Filippo; una parte di lui non era già trasmigrata nelle sue vene? La vita nuova che le pulsava dentro non era forse la vita di Filippo? L’essere unico che doveva nascere da loro due la consacrava, prima ancora di mostrarsi, nella solenne nobiltà di madre e dinanzi all’augusto mistero, qualunque fossero le sue preoccupazioni, Minna provava quel movimento fluttuante di inesplicabile orgoglio che avviluppa in certi istanti tutto l’essere come una carezza invisibile.
Era veramente orgoglio, od era la semplice rivelazione di una forza latente, del potere occulto che fa grande la donna al disopra di ogni grandezza umana, per quanto sia misera, fragile, ignorante, solo che senta l’altezza vertiginosa della sua missione? solo che la senta?
Faticosamente, a stento, come una sepolta viva che va brancicando al buio e si scarnifica le mani per tracciarsi un sentiero attraverso le pareti che la costringono, proseguiva Minna la sua ricerca affannosa verso la luce urtandosi a tutti gli ostacoli che le veniva suscitando la sua timidezza, il suo abbandono di orfana nel mondo, gli scrupoli stessi della sua limpida coscienza nella quale ella si specchiava sempre con umiltà sincera; e se tali scrupoli la paralizzavano qualche volta nel movimento di ascesa le rendevano pure ogni conquista più salda e più efficace; così che l’atteggiamento dell’anima sua, tanto profonda quanto inconsapevole, le permetteva di assistere senza discuterli ai continui misteriosi rapporti che si svolgevano fra la sua coscienza e il suo avvenire. Ciò metteva tanta calma, tanta sicurezza in lei, anche nelle ore che sarebbero parse le più disperate.
E doloroso se non disperato doveva essere il distacco dalla casa dove aveva trascorsa tutta la vita, che, se pure intravista la possibilità di uscirne un giorno, era con tutt’altra veste e con altro cuore e ferma la mano in un’altra mano. Ora Filippo la allontanava da sè quasi vergognandosene, quasi ritraendosi in quell’istante supremo volesse rendere sempre più palese l’abisso che li separava.
Usciva sola dalla dimora dove aveva vissuto in solitudine, ma accanto ad oggetti noti, famigliari al suo occhio, alla sua mano; improntati a quell’aspetto amichevole e fraterno che vestono intorno a noi le cose viventi delle nostre gioie e dei nostri dolori; le cose che amiamo per tutto ciò che hanno visto e trattenuto di noi, dove giorno per giorno il tempo ha impresso una data, dove la storia intima delle nostre anime ha scritto una parola che noi soli sappiamo leggere.
Dalla modesta camera dove aveva prima sorpreso il passo di Filippo, poi ascoltato con tanta commozione le sue dispute cogli amici, al balcone muto testimonio della fuga scolorita dei suoi giorni a complice della bufera che l’aveva improvvisamente sconvolta, erano stati quelli i confini del suo mondo fino allora; e i dolci sogni di cui lo aveva popolato, le timide speranze, i desideri inconsapevoli e furtivi vi avevano pure tracciato una tenue rete ondeggiante dalla bassa seggioletta di paglia dove Minna sedeva a ricamare, alla vecchia pendola del caminetto, e alle tendine della finestra da essa rimossa per gustare intera la vista del Naviglio sulle cui acque fuggenti le sembrava sempre di correre un poco, di correre incontro all’avvenire. Spezzare così questa trama, interrompere il dolce e malinconico incanto delle abitudini per affrontare l’ignoto di un involontario esilio, era tale tristezza da imprimere un solco nel cuore fedele di Minna.
Pure Minna non voleva essere infelice. Le idee e le sensazioni si avvicendavano nel suo cervello con un magnifico ritmo d’ordine e di armonia. Umile ma forte, lo scoraggiamento non la dominava mai così assolutamente da non lasciarle zampillare dentro una misteriosa linfa rinnovatrice di tutte le energie. Era un’anima troppo sana perchè lo scetticismo la potesse intaccare; somigliavano i suoi pensieri ad una matassa di fili variopinti che scuotendosi mostrano ora una tinta ora l’altra, e quando il nero sembra dominare ecco improvvisamente un vivido filo scarlatto di gioia impulsiva o un tenero verde di speranze lontane che emerge e sovrasta.
Raccogliendo lentamente le sue robe ella vi univa il corredino per il nascituro accarezzando ognuno di quei piccoli oggetti coll’occhio e colla mano, cedendo a una mollezza di visioni dolcissime che le facevano balzare teneramente il cuore; brevi pensieri, piccoli raggi fuggenti. Era il profilo di una culla sulla quale la fronte austera di Filippo si curvava irraggiata di un nuovo affetto; era una mensa intorno a cui sorrideva la pace di una famiglia concorde; era l’ombra sacra di una alcova riconosciuta dinanzi agli uomini e dinanzi a Dio; era la gioia profonda, inaudita, di portare un nome adorato, di sollevarlo alto sulla folla come un ostensorio d’amore...
Momenti di ebbrezza e di illusione! Ma poichè durante quei momenti Minna si sentiva felice nel suo ingenuo cuore questa piccola felicità fioriva di tutte le rose del miracolo.
Non dimenticò di porre nella valigia l’esile quaderno sul quale aveva trascritto i pensieri che l’avevano maggiormente colpita sfogliando i libri di Filippo.
L’ultimo era stato questo: “Lo spettacolo più bello e più virile è quello di un’anima che conquista sè stessa ora per ora„.
Che ne avrebbe pensato Stello? Dopo il lungo colloquio avuto un giorno non le si era più presentata l’opportunità di stare insieme. Due o tre volte appena lo avea visto alla sfuggita, questo discepolo di Filippo, emulo suo di adorazione e di entusiasmo.
Con chi parlerebbe ora di lui?
— Intanto che sei in campagna — avea detto Cònsolo — stabilirò ancora qui il mio domicilio.
Di tale decisione Minna fu lieta, lieta di saperlo in mezzo agli arredi che ella doveva abbandonare, ma che non le sembravano più abbandonati se dovevano servire a Filippo. Ed era forse un passo verso una più intima fusione, verso un assetto definitivo della loro esistenza?... Questo pensiero, questo dubbio, questa speranza, comunque si atteggiasse l’ascoso desiderio della sua anima era desso che saliva lentamente dai più profondi recessi della sua sensibilità: saliva, saliva a dominare ogn’altro pensiero; così forte che ella temeva di tradirsi; poichè avea giurato a sè stessa che non ne avrebbe parlato per la prima, mai, a costo di soffrirne, a costo di morirne, mai ella avrebbe chiesto una ricompensa al suo amore!
Il giorno che precedette la dipartita ella salutò dal balcone tutti i suoi amici inanimati: il canale così limpido e festoso per le acque appena rinnovate scorrenti nell’alveo mondo; gli alberi dei giardini intorno turgidi delle prime gemme; le note case, il ponticello dell’Ospedale lontano tagliato netto sullo sfondo che si incurvava laggiù verso Porta Romana con bagliori di padiglioni serici frangiati d’oro; e le alte vette dei due platani cui l’avvinceva una così lunga e misteriosa simpatia; e i draghi paurosi sporgenti dal tetto come oscure minaccie sospese...
Quale grande cambiamento sarebbe avvenuto in lei il giorno del ritorno? Che cosa avrebbe annunciato alle acque, agli alberi, al cielo, alle forme sensibili che avevano incorniciato il suo sogno?
Cònsolo la sorprese sul balcone e indovinando facilmente i pensieri che l’agitavano sorrise di quel suo sorriso superiore più gelido di qualunque gelida cosa.
— Si fantastica?
— Un poco...
Così rispose Minna, ma correggendosi soggiunse:
— Gli spettacoli della natura, anche ristretti, non fanno sempre fantasticare?
— Secondo. Le donne e i bambini fantasticano sulle danze della polvere in un raggio di sole.
— E tu no?
Cònsolo alzò le spalle; ma si trovava di buon umore quel mattino e consentì a soggiungere:
— È inutile spiegare a te ciò che non puoi comprendere. Pensa solo questo: che siamo sopra due piani differenti; io dal mio vedo te e tu non puoi vedermi. Gli atomi di polvere ti suscitano certamente l’idea di toglierli con un cencio.
Scherzava? Minna che non aveva mai ottenuto da lui un discorso serio esitava a rispondere, felice di udirlo parlare, riprendendo tutta intiera la sua parte di umiltà.
Egli continuò senza guardarla:
— Atomi d’oro. Bel soggetto per un poeta sentimentale. Io non vedrei in essi se volessi occuparmene che la turba degli spiriti imbelli roteanti inconsci attorno a un centro luminoso; ma non li guarderei. L’uomo che è al disopra di tutte le cose create quando si china verso la natura deve farlo col solo scopo di coltivare la propria volontà. Il filo d’acqua che si scava una strada attraverso una roccia rodendo le pietre, la formica che trascina un peso superiore al suo corpo, la gramigna che pur di assurgere avvolge e soffoca le messi in fiore, ecco ciò che io guardo. Le forze, le forze della vita! E il più forte è sempre colui che ha voluto esserlo, che non ha mai dispe-rato, che lottò furiosamente, non per morire da martire ma per vincere da eroe. Contro tutto e contro tutti, l’opera di vita è opera di coraggio.
Cònsolo, avvezzo a parlare dalla cattedra senza guardare il suo pubblico, aveva dimenticato la presenza di Minna. Egli non vide la fulgente luminosità degli occhi che lo guardavano estasiati, già lontano, rientrato nella reggia gelosa del suo pensiero come un sultano superbo che fa incendiare il ponte sul quale egli è passato.
Ma perchè? gemeva Minna torcendosi le mani sul parapetto del balcone tentando il piacere crudele di sentire il ferro della balaustra morderle le carni. Perchè?
E in quel momento, rapidissimo, dileguato già appena sorto, un sibilante sospetto le guizzò attraverso il cuore; così repentino e fuggitivo ch’ella non trovò subito un nome per esso e mentre lo stava cercando le moriva la sensazione nuova nel cadere della forma inconsistente che le si era per un attimo affacciata al cervello.
— Lesta, lesta! – gridò Filippo dalla sua camera.
Ella chiuse rapidamente le valigie. Voleva anche assicurare le persiane della finestra, ma Filippo soggiunse:
— È inutile. Prima di sera sarò di ritorno.
Nella carrozza chiusa che li portava alla stazione Minna aveva un desiderio folle di riprendere il discorso dove Filippo lo aveva lasciato. Anch’ella si sentiva piena di coraggio; voleva soprattutto dimostrarlo in quella occasione per non lasciare nessuna tristezza dietro a sè. Aspettava che egli dicesse una parola, che accennasse ad un gesto d’affetto o di rammarico per la loro separazione. La parola non venne e Minna allora fu presa da una mollezza, da un bisogno di affettuosità e di baci quale deve provare un bambino che si trova improvvisamente al buio, solo.
La sua prossima maternità le suscitava talvolta questi impeti di tenerezza implorante.
Ella aveva appena vent’anni e nessuno prima di Filippo l’aveva baciata mai!
La carrozza correva veloce; già i Navigli erano scomparsi, già apparivano case e vie meno note: ecco l’edificio della stazione, ecco la folla dei viaggiatori; l’esilio incominciava.
Intanto che Filippo prendeva i biglietti Minna si arrestò sulla soglia della stazione, rivolta verso la città, con un gruppo in gola che sapeva di pianto. “Se dovessi morire!„ pensò.
Ma come Filippo ritornava coi biglietti ella sorrise mormorando piano: L’opera di vita è opera di coraggio. Oh! se egli avesse voluto solamente comprenderla!...
❧
Madre.
Fu in una notte silenziosa e profonda, dopo di avere trascorso due giorni fra la vita e la morte, che Minna aperse gli occhi riafferrandosi alle memorie.
Le sembrava di tornare da un paese remoto, fiaccate le forze dal lungo viaggio e nello stesso tempo sentendosi più leggera, con un vago fluttuare di immagini nella mente ancora per metà assopita, lente le braccia sulle coltri, tutte le membra abbandonate in uno stato di ineffabile languore.
Un lumicino sul canterano dava un pallido chiarore alla camera, così lieve che gli oggetti si distinguevano appena, confondendo la realtà da essi emergente con una immateriale nebbia di sogno nella quale si dibattevano le ultime impressioni dolorose vinte a poco a poco da un largo diffondersi di calma riposante.
A un tratto, nella pace quasi conventuale di quella camera dove vaporava un impercettibile odore di cammomilla, si udì un vagito. Rapidamente Minna diede un balzo tendendo il volto e le braccia verso la voce dell’essere nuovo che era nato da lei.
— Non si agiti per carità!
Così pregò al suo fianco una donna che Minna non aveva scorta prima.
— Vederlo! – mormorò Minna.
La donna, movendo cautamente verso una piccola culla posata ai piedi del letto dove giaceva Minna, ne tolse il bambino e lo mostrò; ma come l’appassionata contemplazione della giovane madre la esaltava troppo sì che una vampa vermiglia ne aveva invaso il volto esangue, la donna affrettossi a ricollocare il bambino nella culla non senza soggiungere:
— È sano come una lasca e bello come un angelo.
Debolmente Minna chiese ancora:
— E non venne... nessuno?
— Nessuno, – fu la risposta.
La parola semplice, chiara, cruda, cadde colla secchezza sonora di una percossa sulla sensibilità dolorante dell’inferma che tornò a chiudere gli occhi mentre un sospiro invano represso sollevava la rimboccatura delle coltri; e il pensiero già apparsole una volta repentino, fuggitivo, informe, le si riaffacciò col bagliore istantaneo di una lama snudata: Non mi ama!
Ma ella era troppo sfinita allora per soffermarvisi. Il dolore stesso appena sorto, dilagava, moriva in una crisi di languore che la distese cerea sul guanciale.
Da quando Minna si era stabilita per volontà di Filippo in quella casa di campagna egli non era venuto a trovarla che una sol volta. E pochi giorni prima, nella imminenza del grande avvenimento dove tutta la vita di Minna era concentrata, ad un suo telegramma che suonava un grido disperato di richiamo Filippo aveva risposto con una lettera scusandosi di non poter accorrere subito per gli impegni che lo trattenevano in città.
Niente altro.
La gelida missiva giaceva a portata di mano nel cassetto del tavolino dove Minna rinchiudeva i suoi lavori e dove andò a cercarla appena le forze le tornarono a poco a poco, sperando di potervi leggere fra le righe una parola d’affetto che le fosse sfuggita prima, o una promessa, o una speranza. l suoi occhi schiusi oramai al mistero dell’essere, le sue mani tremule ancora dall’aver bussato alle porte dell’eternità, si posavano ansiose su quel foglio che gli occhi di Filippo avevano percorso, che le mani di lui avevano piegato all’atto della sua volontà altera, sentendo irremissibilmente di non essere lei stessa che un fragile foglio dove egli aveva impresso con un gesto indifferente le parole del suo destino.
E attese ancora.
Votata per temperamento e per circostanze alla vita contemplativa l’attività di Minna tendeva a svolgersi sopra una scala di lotte interne, di conquiste graduali, verso quel Vero che ella intuiva per intima forza ma che nessuno le aveva insegnato mai. A differenza de’ suoi simili che vedeva entrare nelle battaglie dell’esistenza preventivamente corazzati dall’affetto dei genitori, dall’educazione, dall’ambiente famigliare, ella si era trovata nella necessità di procedere anzitutto a formarsi una corazza; e non ne conosceva ancora la resistenza, non sapeva fino a qual punto avrebbe potuto lottare; più che tutto voleva essere sicura di aver ragione. La felicità per lei consisteva in questo: poter guardare dritto innanzi a sè e darsi intera a qualche cosa che fosse al disopra di sè. Non per altro amava Filippo; e se la sua devozione doveva procurare il benchè minimo bene a colui che ella poneva al disopra di tutti gli uomini avrebbe nella sua umiltà benedetto qualunque sacrificio.
Ma dalla sera in cui Minna credette di stringere fra le braccia il proprio ideale Filippo le era sfuggito ogni giorno un poco. Realmente era mai stato suo? La scena fatale del balcone rievocata, mille e mille volte le sembrava vieppiù incomprensibile messa a confronto della vita presente e l’onta, che nell’ardore ideale della dedizione non aveva allora quasi avvertita, le si appesantiva con ombre fosche nello squallore desolato dell’abbandono da cui si sentiva minacciata ora.
Egli capitò all’improvviso, una sera mentre Minna stava seduta al lume delle stelle sopra un piazzaletto fronteggiante la casa. Lo riconobbe subito, appena comparve nell’ombra del vecchio angiporto che isolava la piccola dimora della via maestra, e gettò un grido per la sorpresa, per la gioia insieme.
Filippo la invitò a non far rumore per non attirare la curiosità dei vicini.
— Vieni, — disse ella dolcemente posandogli l’estremità delle dita sull’omero. — Vieni a vederlo.
— Chi? — fece egli distratto.
Aveva chiesto “chi„! Minna credette di non vederci più, tanto il sangue le si era gelato nelle vene e il cuore aveva rallentato i battiti. Mormorò avvilita:
— Il bambino.
— Oh! non mancherà tempo. Dimmi piuttosto come hai passato questi mesi.
Pronta ad afferrare con riconoscenza il più lieve indizio di interessamento Minna rispose:
— Ma bene, bene fino all’ultimo giorno, quando ti mandai il telegramma.
— Non è ciò — interruppe Filippo con un principio di impazienza. — Intendo dire se hai saputo conservare il segreto sulla tua posizione.
— Non vedo mai nessuno tranne la buona donna che mi presta qualche servizio e che mi ha curata....
— Ti crede vedova?
— Le ho detto che mio marito è lontano...
— Male.
— Che cosa dovevo dire?
— Nulla.
Filippo si era seduto sulla panchina rustica occupata prima da Minna. Ella però non ebbe il coraggio di metterglisi accanto e stava in piedi, titubante, sentendosi invasa dal malessere di quell’equivoco che era tra loro, che voleva sforzarsi a dimenticare nelle sue lunghe giornate di solitudine ma che rinasceva ad ogni colloquio sempre più denso e sempre più amaro.
Era lì, dinanzi a lei, l’uomo che ella aveva tanto amato, che amava ancora; era quella persona snella e forte, il bianco pallido della guancia tagliato dai baffi bruni, la testa possente, gli occhi di un grigio torbido, pungenti e freddi. Tutto ciò ella vedeva al chiaro lume delle stelle, palpitando nella sua gran passione; ma usciva da quella muta forma d’uomo una tale energia di volontà che la sua tenerezza ne restava paralizzata. La grotta meravigliosa colma di scintillanti gemme che ella aveva intravista nelle ore oramai lontane del passato restava chiusa ed impenetrabile al suo amore.
E non accorgevasi Filippo che essa moriva di tale spasimo?
— Ho sete — egli disse. — C’è dell’acqua fresca?
Minna non osò riproporgli di entrare in casa. Andò ella stessa a prendergli un bicchier d’acqua e poi senz’accorgersene, vinta dal languore della stagione, sedette ella pure sulla panchina ma occupandone solo l’estremità per modo che tra lor due restava posto da posare il bicchiere.
Aveva una gran voglia di parlargli del bambino. Si era illusa che egli stesso l’avrebbe desiderato; egli invece continuava a tacere bevendo l’acqua a piccoli sorsi. Era singolare l’impressione di lontananza che le dava la massa nera del corpo di lui, come se in luogo di un bicchiere d’acqua stesse fra loro uno sconfinato mare.
Che cosa dirgli per attirare la sua attenzione?
— È molto tempo che non vedi Stello? — mormorò alfine.
— Stello?... Ti interessa? È curioso. Anch’egli mi chiese un giorno di te. Gli risposi che sei andata in campagna per salute.
— Che angelica creatura!
Filippo alzò le spalle:
— Bisogna essere uomini e non angeli.
— Stello è giovane ancora, si farà. Ha tanto sentimento, tanto desiderio di bene e poi ti ama e ti ammira così sinceramente!
Filippo rise di un riso crudele. Rideva sempre così quando voleva dire una cattiveria.
— Toh! un’idea. Dovreste sposarvi voi due.
Il bicchiere rovesciato lasciava cadere l’acqua rimasta sulla mano di Minna che non se ne accorgeva neppure. C’era già tanto freddo nelle sue vene, nel suo cuore, nell’intimo della sua povera anima calpestata; non poteva sentirne di più. Avrebbe voluto gridare «oh! Filippo!» ma la voce le venne meno e l’inutilità del suo amore le fu in quell’istante così manifesta che se è possibile comprendere da vivi l’annientamento della morte ella lo comprese, allora.
Il silenzio che seguì fu penoso, forse per entrambi; forse Filippo era già lungi nel mondo delle astrazioni quando un fievole vagito ruppe l’aria e Minna scomparve nell’interno della casa.
All’alba del giorno dopo Filippo fu lesto in piedi per poter raggiungere il treno. Minna al suo fianco disfatta lo aiutava nei minuti preparativi.
I suoi occhi cinti di una zona livida attestavano l’angoscia della notte, ma egli non se ne accorse. Per alcuni istanti si fermò ai piedi del letto dove il bambino dormiva nella sua culla; tuttavia avendo Minna fatto il gesto di rimuovere il velo che lo copriva disse subito quasi a prevenire una molestia:
— Non lo destare – e restò cogli occhi fissi su Minna.
Minna era una di quelle donne che meschine sotto la pompa degli abiti eleganti rivelano nella semplicità del vestiario intimo recondite ed insospettate bellezze. La sua carnagione di morbidissimo raso dava al suo collo ed alle sue braccia l’attrattiva di una freschezza incomparabile e i delicati ricami di cui sapeva ornare la sua innocente civetteria ne accrescevano l’incanto. In quel momento la mussolina di un accappatoio velava appena la grazia del suo corpo che la recente maternità aveva sviluppato come un bel frutto maturo offrendosi inconsciamente agli sguardi. Mentre ella chinavasi in atto amoroso sulla culla Filippo pronto per la partenza la cinse da tergo con un abbraccio sensuale.
— Ahi! – ella fece torcendosi come sotto l’impressione di una ferita.
E il bacio violento che aveva accompagnato l’atto le rimase tutto il giorno sulle labbra, suggello incancellabile della sua vergogna.
Questo sentimento tardivo della vergogna andava sviluppandosi in Minna quanto più le cresceva la persuasione di non essere amata da Filippo. Se nei primi tempi lo stordimento, la timidezza, la sua stessa innocenza erano state guardiane dell’illusione, se fino alla prova suprema del figlio le fu concesso sperare, cadevano ora le rosee bende del sogno dietro cui celavasi a lei ignara la realtà. Il turpe fatto di essersi concessa ad un uomo che l’aveva presa per subitaneo capriccio la manteneva ora nell’ignobile volgarità di un vincolo puramente carnale da cui rifuggivano e i suoi istinti e la sua fierezza e la grandiosità stessa del suo amore.
Comprendeva finalmente di qual fatale inganno fosse stata vittima, senza poter accusare nessuno, neppure Filippo che non l’aveva circuita delle solite reti della seduzione, che era caduto egli stesso in una avventura non voluta e non cercata. Per questo ella tentava scusarlo nel suo pensiero; e più scusava Filippo più accusava se stessa e accusandosi non si faceva grazia di nessuna circostanza attenuante, spinta dal suo irresistibile bisogno di verità, sentendo che solamente in essa avrebbe potuto trovar pace.
La sua vita di donna giovane era finita per sempre. La trepida attesa, la palpitante speranza, quello stato delizioso di un cuore che si apre, che si dona, che si insalda in una fede non potevano più essere le sue gioie. Ella era stata la vergine folle che aveva lasciato spegnere la sua lampada. Nessuno l’avrebbe riaccesa mai più!
Tale persuasione intima e profonda le cresceva a poco a poco un abito di sottile mestizia non priva di nobiltà e per ciò solo sufficiente a pascere la sua anima di graduali ascensioni verso un concetto sempre più elevato della felicità umana.
Alla remissiva fiducia che avea riposto fino allora in Filippo le si veniva inavvertitamente sostituendo per un lungo lavorio occulto di trasformazioni e di sovrapposizioni il sentimento più fermo del proprio valore e dell’obbligo di fortificarlo con un esercizio di sorveglianza continua.
La creaturina che di lei e per lei viveva era come il nucleo delle nuove energie che salivano dalla coscienza di Minna a tutte le forme del suo pensiero sfaccettandolo di prismi meravigliosi e di insospettati acquietamenti.
Se con la adorazione troppo ardente e troppo umile di Filippo ella aveva oltraggiata in se stessa l’impronta più alta della personalità, ecco che risorgeva ingigantita nel grido del bambino uscito dalle sue viscere, nel figlio suo! poichè, ella lo sentiva bene, il figlio era suo. Invano si era detta tante volte fra i divini vaneggiamenti dell’amore «io porto il figlio di Filippo». No. Quella carne ch’ella aveva scarcerata lacerando la propria, quel cuore che aveva pulsato all’unisono col suo cuore, che insieme al suo aveva sfiorato l’ala della morte e morendo insieme non avrebbe formato che un essere solo sui valichi dell’eternità; oh! quello era bene suo figlio.
Una forza straordinaria le veniva dall’avvenimento solenne che l’aveva messa in contatto col mistero della creazione, avvincendola alla catena che in una lunga teoria di secoli le donne si trasmettono silenziosamente reggendo nelle loro piccole mani i destini dell’universo. Atomo sperduto nella vastità della terra ella si era ricongiunta al perchè della propria vita e fatta padrona del filo che Dio aveva posto nelle sue mani per guidarla verso la luce, per quanto grande fosse il compito richiesto, anzi appunto per ciò, si sentiva crescere meravigliosamente il coraggio.
Rivelazione piena di tenerezza alla quale non aveva mai pensato prima, che nella singolare solitudine della sua casa le era sempre mancata l’occasione di osservare, le appariva ora l’abbandono inerme dell’uomo appena nato; fragile abbozzo che non potrebbe campare nè crescere se una donna non gli prodigasse le più delicate cure. Il simbolo della madre sorgendo dinanzi a lei nella sublime maestà d’una missione unica al mondo le schiudeva il segreto di tutte le bellezze create e la investiva di una autorità che se non manifestavasi ancora in forma concreta esisteva però già in potenza prendendo dominio di tutto il suo essere interiore.
Aveva gran bisogno Minna di questo aiuto invisibile, di questo occulto germinare di forze perché i giorni dell’attesa ricominciarono lunghi, lenti, monotoni, spossanti nel loro vano risorgere di illusioni che ogni mattino faceva sbocciare e che ella seppelliva ogni sera sotto un singhiozzo represso.
Passavano i mesi, passavano le stagioni, adducendo rare e frettolose sempre le visite di Filippo. Invano ella chiedeva di far ritorno in città; egli trovava pretesti nuovi ad ogni accenno per costringerla a restare. La salute del bambino era uno di questi, quantunque il bambino crescesse come un fiore e Filippo non se ne occupasse affatto.
Una volta, mentre stava sotto l’arco dell’angiporto a vezzeggiare suo figlio, Minna vide passare un gruppo di persone fra le quali riconobbe Marco Agrati. Anch’egli la riconobbe, non subito, ma quando era già innanzi alcuni passi.
Si volse tuttavia a riguardarla e la salutò.
Minna, a cui nella grande solitudine ogni piccola cosa sembrava un avvenimento, ridisse l’incontro a Filippo che se ne mostrò irritatissimo e le ingiunse di non uscire mai più dal piazzaletto che fron-teggiava la casa.
Non sapendo in qual modo spiegarsi il malumore di Filippo per un fatto così semplice Minna fu tentata di vedervi un accesso geloso e sperò forse in un rinfocolamento di passione; ma nulla venne a legittimare la sua speranza.
L’estate era finita da un pezzo; moriva l’autunno; già l’inverno si annunciava nelle brevi giornate grigie di nebbia, negli alberi che si sfrondavano, nel silenzio degli uccelli e degli insetti. Dalle fessure delle finestre mal riparate i brividi della tramontana raggiungevano Minna alle spalle mentre stava preparando calde vesticciuole al piccino. Sopraggiunsero poi le pioggie, fitte, monotone, insistenti, rigando i vetri di lagrime, insinuando nelle camere la tristezza dell’umidità e dell’abbandono. Minna aveva freddo, freddo nelle ossa, freddo nel cuore, e quantunque valorosa la sorprendevano pure alcuni momenti di nostalgia acuta durante i quali le tornava alla memoria una strofa straordinariamente malinconica che ella aveva udita qualche volta in bocca alla sua vecchia compagna morta:
Vorrei vorrei morir
Ma prima di morir sentirmi dir
Cara consorte.
Allora, ne’ suoi anni adolescenti, Minna avea trovato la strofa priva di senso. Ora, ripetendola, le saliva alla gola un gruppo di pianto.
❧
Filippo Cònsolo passò l’inverno in una solitudine raccolta e studiosa, preparando le sue lezioni all’Accademia e correggendo le stampe della sua grande opera che usciva già in una seconda edizione dopo essere stata tradotta nelle principali lingue europee.
Si era staccato anche dal Circolo degli Eroi dove l’attitudine spavalda ed aggressiva di nuovi addetti non rispondeva più alla evoluta pienezza delle sue forze plasmate oramai dentro a un modulo sul quale si appuntavano gli sguardi delle coscienze più elevate e ch’egli stesso voleva dirigere ad una meta sicura convergendo in esse tutte le sue forze.
Durante le vacanze di quell’anno aveva intrapreso un viaggio all’estero e se ne tornava appunto in una giornata della fine di settembre, piena la mente delle grandi metropoli straniere il cui alito poderoso gli aveva soffiato nel volto una febbre nuova di conquiste, tanto maggiormente padrone di sè in ragione delle maggiori cose delle quali si era impossessato il suo spirito.
Arrivava a Milano sul morire del giorno, quando già le ombre soffici e avvolgenti scendevano sui fabbricati velandone i contorni e penetrando nelle strade dove si aprivano l’una dopo l’altra le pupille luminose dei fanali ricevevano ad ogni nuova accensione come la trafittura di uno spillo d’oro.
Filippo volle regalarsi un prolungamento delle sue sensazioni di viaggiatore dimenticando ciò che di Milano sapeva già per mettersi nello stato d’animo di uno che vi giunge per la prima volta, sforzandosi di ricevere un’impressione nuova che forse sarebbe la più esatta e la definitiva.
Egli sentiva ora la necessità di affermarsi in tutto, di concretare in forma assoluta le ricerche speculative della sua mente orientandole verso uno scopo determinato. Dopo di avere percorse le vie del centro lasciandosi dietro i caffè fiammeggianti di centinaia di lampadine elettriche rifrante sulle vesti chiare delle donne sedute fuori e il brulichio degli uomini sempre eguali nei loro giri concentrici intorno all’abitudine, uscì all’aperto verso i bastioni, oltre i bastioni, spinto dal bisogno di camminare ancora.
Vista dall’esterno, dove l’ultima rete dell’illuminazione andava scemando, la città gli appariva misteriosa e fantastica. Quale città? Era Londra, era Vienna, era Parigi? Non voleva sapere il nome. Bastavagli di udire il ritmo di quel respiro poderoso dove la vita pulsava con tutte le sue febbri, dove tumultuavano le passioni con balzi di pantera in furore. Egli ascoltava la sua propria belva, la selvaggia pantera del suo orgoglio, esaltarsi in quella magnifica esposizione di forze, tendersi proterva all’avvenire.
E camminò, camminò perdutamente per vie semibuie, senza curarsi più di nulla, senza guardare i rari fantasmi che passavano come lui silenziosi e sconosciuti nella notte altissima, sotto una volta stellata oscillante con ondeggiamenti di veli; finchè si ritrovò solo, assolutamente solo, dinanzi alla mole del Duomo sorta di un subito allo svolto di una via; così tutta alta, candida e pura sulla città dormente da fargli oltrepassare l’impressione, pur così viva, di bellezza tangibile che da essa veniva per assurgere alla visione di una reggia iperbolica dove ogni sogno di grandezza e di gloria sembrava trovare l’espressione adeguata al proprio ideale.
Terra, cemento, pietre ed umili forze piegate alla volontà superiore e forze grandi piegate anch’esse alla necessità, non era questo l’insegnamento dei secoli? E può, chi cerca la vittoria definitiva, arrestarsi a meschine considerazioni, fossero pur mille, o non piuttosto immolarle tutte a quella sola verso cui tende la sua ambizione?
Si era fermato sotto la statua del gran Re, appoggiandosi un istante al cancelletto di ferro che la circonda; ma insofferente di tale attitudine accidiosa riprese il cammino pronunciando con lentezza a fior di labbro: Ciò che dev’essere, sia!
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La vecchia dimora dei Cònsolo, laggiù verso la Rocca, sulla riva sinistra del Po, vecchia dimora un po’ triste e scialba, vide arrivare Filippo; e la madre che non lo aspettava ma che da lungo tempo ne nutriva ardente e chiuso il desiderio arrossì impercettibilmente nel bel volto marmoreo con uno sfolgorio improvviso degli occhi grigi, simili agli occhi di Filippo. Anche allora come sempre, la gioia del ritrovarsi fu in quelle due anime altere e fredde sottratta alla curiosità degli astanti e gli sfoghi rumorosi del ricevimento spettarono alla zia Aglae che li contava con avidità fra le poche emozioni della sua vita. La signora Cònsolo tuttavia avvertì fin dal primo sguardo la preoccupazione di Filippo.
Il maltempo aveva guastato un versante del tetto, pioveva nella camera di Filippo. Zia Aglae che vi aveva radunato tutti i recipienti disponibili per raccogliere le acque volle mostrarglieli ad uno ad uno, lagnandosi che il muratore chiamato d’urgenza non si lasciasse vedere e si diede subito attorno per allestirgli un’altra camera provvisoria. Voleva egli dormire nella sala di ricevimento oppure nella stanza di guardarobe attigua alla camera di sua madre?
Filippo scelse quest’ultima. Dava così poca importanza a tal genere di preoccupazioni che non riuscì mai a comprendere perchè durante il resto della giornata la zia Aglae non facesse altro che correre innanzi e indietro portando sulle braccia montagne di guanciali e blocchi di coperte.
Ma questa vita umile e primitiva nella quale egli aveva pure trascorsi gli anni dell’adolescenza, riveduta a lunghe distanze e per poche ore, esercitava sul suo spirito una dolce influenza di narcotico che dava pace a’ suoi nervi acquietandoli in una pausa di contemplazione molle.
Seduto nel tinello accanto a sua madre, mentre sulla finestra piccola e stretta scendevano i rivoli della pioggia a guisa di torbidi veli cenerognoli, egli seguiva collo sguardo una fila di boccali di forme differenti collocati sul cornicione alto di un cantonale, il cantonale verniciato di giallo dove egli andava da ragazzetto a trafugare lo zucchero.
Ogni tratto la madre insinuava una domanda sui suoi viaggi, sulla sua salute, se andava in società, se avesse fatto conoscenze nuove. Filippo rispondeva distratto, e la signora Cònsolo che se ne accorgeva variava le domande con una volubilità insolita stringendo i giri a mo’ del nibbio quando cala verso la preda, nella speranza di avvicinarsi alla di lui interna preoccupazione, dominata sempre dal timore di perdere la confidenza di suo figlio.
— L’ultimo là in fondo è fesso, — disse Filippo a un tratto.
— Sì, — rispose la madre alzando gli occhi — dovresti saperlo perchè sei stato tu, in una delle tue furie bellicose. Non ti ricordi di quel tempo quando vedevi dovunque nemici da combattere?
— Vasi di terra cotta, — soggiunse Filippo ridendo.
Piacque alla madre quel riso. Ella rivedeva il suo fanciullo, il bel fanciullo dalla bocca crudele che baciandola la mordeva sempre un poco. E si illuminò ella pure di un sorriso che diede alla sua fronte d’avorio il riverbero di una aurora.
— Ti ricordi? — incalzò, — come fosti per tutti quelli anni il terrore e l’ammirazione de’ tuoi compagni? Quanto li dominavi e li superavi in ogni cosa! E il tuo stemma che inventasti e dipingesti tu stesso, d’oro in campo azzurro? Ti ricordi? Era un leone armato di lancia che balza incontro al sole col motto: Post Deo Ego.
La fronte di Filippo grave di pensieri si reclinò un istante dinanzi alla evocazione di quelle memorie.
— Post Deo Ego, — ripetè la madre con voce bassa dove tremava l’ardore di una oscura fiamma — è molto, ma tu allora non giudicavi che fosse troppo.
Filippo si scosse. Egli fece un movimento per accostarsi vieppiù a sua madre, ma un acciottolio di piatti nell’attigua stanza e il passo sollecito di zia Aglae lo rigettarono prontamente indietro.
Le vicende di un fringuello abbattutosi sul davanzale della finestra, preso, messo in gabbia e fuggito ancora, tenne lo scettro dei discorsi fino all’ora della cena. La signora Cònsolo di tanto in tanto guardava suo figlio col segreto struggimento di poterne leggere i pensieri. Gli aveva scòrto sulle tempie due o tre capegli bianchi e quella vista la rimestava dolorosamente. Era mai possibile ch’egli invecchiasse? soffriva forse? e di che cosa?
Finalmente essendo venuta l’ora di andare a letto zia Aglae accese tre candele in tre candelieri d’ottone e accompagnò l’atto con questo aforisma: Quando piove si sta bene sotto le lenzuola.
Appena madre e figlio furono entrati nelle rispettive camere ebbero un solo pensiero: riunirsi.
Si incontrarono, si urtarono quasi sulla soglia della stanza di guardaroba dove era stato rizzato un letto per Filippo, comprendendo entrambi che il momento era giunto; il momento che apriva un’ora solenne.
Pure tentarono di indugiare ancora. Liberi alla fine e soli, l’ansia di sapere cedeva nella signora Cònsolo a un improvviso allarme; era l’istante di debolezza che fa impallidire il paziente dinanzi al ferro del chirurgo. Che cosa stava per dirle Filippo del quale non aveva mai potuto in tutto il giorno incontrare lo sguardo denso di mistero?
Timidamente la madre passò la mano sulla rimboccatura del letto mormorando:
— Starai bene qui?
— Oh! non importa, mamma, non importa. Devo parlarti in argomento grave.
Come sotto il colpo d’una pugnalata invisibile la signora Cònsolo si appoggiò contro i guanciali dove la mano era già tesa in attitudine di carezza. Per un attimo il silenzio aleggiò sul suo volto il soffio della morte. Più di così non poteva soffrire. Qualunque fosse la forma del dolore che la aspettava l’intensità di esso era stata già divinata dal profondo suo amore materno.
Ella era pronta.
— Io ti ho promesso, non è vero? — cominciò Filippo a bassa voce — di non concludere nessun atto importante della mia vita senza dartene avviso.
— Sì, certo — interruppe la signora Cònsolo, riafferrandosi ad una informe speranza.
— Ebbene... forse ci hai pensato qualche volta anche tu. È naturalissimo, infine, un momento o l’altro doveva accadere...
— Che cosa? che cosa?
Filippo si mordeva le labbra in silenzio, gli occhi torbidi e scuri. La madre tremava verga a verga.
— Metti in calma, ti prego.
— Sono calma, parla.
Ancora una pausa, ancora un attimo di invisibile terrore, ancora la sensazione della voragine spalancata... Poi, lentamente, Filippo mormorò:
— Prendo moglie.
No, non era solamente questo. La madre comprese che egli aveva cercato la parola più semplice per non atterrirla, ma che c’era dell’altro. Fu tuttavia con un assoluto dominio su sè stessa che ripetè nel modo più tranquillo che le fu possibile:
— Prendi moglie?
Oh! senza dubbio, infinite volte ella aveva pensato alla ignota rivale che il destino le avrebbe preparata e nessuna ipotesi di bellezza e di fastigio le era mai parsa soverchia alla propria ambizione, a quella di lui.
Un gran nome, un grande censo, una eccelsa gloria non era ciò che meritava il suo Filippo? Aveva fin anche la persuasione che non esistesse sulla terra una donna degna di lui: ma se vi fosse, e fosse la più alta e la più invidiata, egli l’avrebbe saputa conquistare. Ripetè dolcemente:
— Chi prendi, Filippo?
Per quanto ella volesse essere forte l’imbarazzo del giovane era tale che tutta la tortura del dubbio e del sospetto ricominciarono a straziarla.
— Non è una lieta notizia che ti dò — soggiunse Filippo sfuggendo ancora lo sguardo di sua madre — è l’annuncio di un fatto ineluttabile.
— Come? Già concluso?
— Quasi.
— Matrimonio d’amore?
Filippo alzò le spalle, mentre il più malvagio de’ suoi sorrisi gli piegava le labbra ad una smorfia sarcastica.
— Ti sembro stoffa di innamorato io?
— Di interesse allora?
— È orfana e povera.
— Non capisco — fece la signora Cònsolo lasciando cadere le braccia a guisa di molla che si rallenta in seguito ad uno sforzo eccessivo.
Ciò che Filippo doveva dire era così difficile, così umiliante, che egli paventava il suono della propria voce.
Il cuore, più che l’orecchio materno udì:
— Sposo Minna.
Uno scatto terribile, un balzo ed un urlo di fiera colpita a morte:
— Tu?
E in questo monosillabo c’era tutto. Esso voleva dire: Tu, nutrito dei migliori succhi del mio orgoglio, tu, il lioncello che l’anima mia plasmava nel più alto concetto della forza e del dominio, tu nato re per il diritto divino dell’intelligenza, anelante ai più alti destini, despota della tua e dell’altrui volontà, tu cadere sì meschinamente?
Affranta, nella impotenza di piangere, ma sentendo che tutto il suo sangue si tramutava in lagrime, la signora Cònsolo disse ancora per un istinto di reazione:
— Non è possibile!
E siccome Filippo taceva, chiusa la fronte fra le mani, ella gli si accostò tentando di accarezzarlo, disposta a cadere a’ suoi ginocchi pur che smentisse l’orribile cosa, ripetendo:
— Non è possibile, vero? non è possibile!
— Parole inutili, mamma. Bisogna saper accogliere coraggiosamente ciò che non si può evitare. Io devo sposare quella donna.
— Ma l’ami dunque? — gridò la signora Cònsolo con un impeto di gelosia selvaggia.
— Non l’ho mai amata, non l’amo, non l’amerò mai. Te lo giuro.
— E dunque?
Grave come rintocco di squilla che nella altissima notte annunci disgrazia la voce alterata di Filippo pronunciò:
— C’è un figlio.
— Ah! — fece la madre coprendosi gli occhi con ambedue le palme.
Ne seguì un silenzio lungo, angoscioso, pieno di singulti repressi. Ma fu ancora lei che osò romperlo per poter figgere lo sguardo fino in fondo alla sua sventura. Rifacendosi dolce e carezzevole per un intimo bisogno di speranza, disse:
— Se non l’ami però, se non l’hai amata mai, vuol dire che fu un istantaneo capriccio. Nulla ti lega ad una donna che come è stata tua sarà di cento altri.
— No, non fu d’altri.
— L’hai sedotta?
— Neppure. Ella si donò.
— Oh! allora — esclamò la signora Cònsolo con uno scoppio che sembrava quasi di gioia — tu non hai nessun obbligo. È una svergognata che tornerà a fare domani quello che ha fatto ieri.
— La credo onesta.
— Onesta! onesta! — ripetè la signora Cònsolo coi pomelli delle guancie accesi per l’indignazione e per la collera. — Tu parli di una simile onestà davanti a tua madre?
— Perdono — mormorò Filippo, mordendosi le labbra.
Quest’umile parola detta da lui, in quel momento, sciolse le lagrime della forte donna che colle pupille lucenti, nella vibrazione passionale di tutto il suo essere, prese la mano di Filippo e stringendola:
— Senti. Una sola cosa tu devi fare; dà a me il bambino e congeda la femmina provvedendo al suo avvenire. Non rispondi? Scuoti il capo? Forse che un uomo ha l’obbligo di legarsi a vita con tutte le donne che gli si buttano tra le braccia?... Un uomo come te!... Tu hai bisogno di essere libero; e se mai dovessi assoggettarti al giogo coniugale, quanti compensi esso deve offrirti! Per te, per il tuo avvenire, per gli amici di cui sei faro, per tutti coloro che hanno riposto in te la fede dei loro ideali, per il mondo che ti guarda, per la gloria che ti aspetta, Filippo, mio Filippo, bada a quello che fai! E un passo irrevocabile del quale porteresti per tutta la vita il peso e la vergogna — ed io lo schianto!
— Credi tu — disse Filippo con voce sorda — che questi ragionamenti io non li abbia già fatti? Mi hai chiesto se l’amo perchè l’odii, ed è giusto che tu la debba odiare la donna che si è posta fra me e il mio destino, che ha atterrato le tue speranze e abbattuto il mio orgoglio facendomi debole e vile. È giusto che tu la abborra la straniera, l’intrusa, l’eterna nemica che sempre sta in agguato della forza virile per abbassarla al suo sesso. Maledicila o madre!
La voce di Filippo si era fatta più cupa, i suoi denti scricchiolavano convulsi mentre soggiunse chinandosi su di lei, quasi sibilando:
— Pure, ascolta: io l’odio anche di più.
Madre e figlio si guardavano in fondo agli occhi palpitanti, spasimanti, oppressi da un tragico silenzio. Dopo lunga pausa:
— Làsciala, — disse ancora una volta la signora Cònsolo risolutamente.
— Non posso.
— Il bambino lo porti qui, lo alleverò io, sarà un altro te stesso.
— Ella non consentirà.
— Mette dei patti la svergognata?
— Càlmati. Non chiede, non pretende nulla, ma il figlio è suo. Poichè siamo fuori della legge non ho alcun diritto su di lui.
— Ebbene, — incalzò la signora Cònsolo con una durezza improvvisa nelle pupille — quando è così, essendo fuori della legge, che te ne importa del figlio?...
Filippo comprese il segreto desiderio nascosto dietro queste parole e rispose col suo accento più persuasivo:
— Io sono con te in tutti i tuoi sentimenti, bada, in tutti; nello sdegno, nello sprezzo, nella rivolta; e deploro con te che questa sciagurata cosa sia avvenuta; e darei metà del mio sangue per distruggerne fin la memoria. Ma ti prego, seguimi ora in un altro ordine di idee. Hai parlato del mio avvenire? Si tratta appunto di ciò. Vano è pensare che cosa avrei fatto senza questa catena al piede. La catena c’è, occorre che non mi impedisca di camminare; io la schiaccierò innanzi che essa mi arresti. Comprendi nevvero? Sai, tu che mi portasti nel tuo grembo, quale sia la forza di una ambizione che mira a tutte le altezze, che agogna a tutte le potenze: Sono l’uomo che fanciullo diceva: Post Deo, Ego. Guardami bene in faccia, mamma, e pensa, pensa, il più ardente de’ miei sogni potrebbe cadere se si venisse a conoscere che il sostenitore della morale e della famiglia ha un bastardo per il mondo. Occorre per la riuscita de’ miei progetti che la mia vita sia limpida come cristallo. Intendi?
— Ma...
— Prevengo la tua obbiezione. Vuoi dire che non è necessario di far sapere codesto fallo. Lo si saprebbe egualmente. Nulla rimane nascosto nella vita di un uomo quando si espone nella battaglia politica. Vi sono troppi interessi attenti intorno a lui per scoprirne il punto debole, per demolirlo. La mia candidatura è imminente; non sarebbe prudenza lasciare questa breccia aperta alla malignità dei nemici. Non dubitare, ho studiato la questione sotto tutti gli aspetti; se fosse stato possibile respingere da me, da te, questo amaro calice non saremmo qui ora a torturarci a vicenda.
— È dunque inevitabile?
— Inevitabile.
— Quella femmina ti avrà in suo potere! — esclamò la signora Cònsolo torcendosi le mani con accento disperato vibrante di indignazione e di furore geloso.
— No, mamma, no mai!
— Non puoi ritardare almeno?
— Non posso.
— E fai conto di sposarla?
— Subito.
— Se mi mettessi a’ tuoi ginocchi?
— Non potrei ascoltarti.
— E se ti comandassi?
— Non potrei ubbidirti.
— Vedi quanto ti domina? Vedi?
— Ah! no. È una inconsciente, una ignara, una sentimentale, un nulla. Rassicurati; non potrà esercitare alcuna influenza su di me, ammesso che ne abbia avuta una sul mio destino. Per il mondo avrò fatto un matrimonio d’amore; esso è abbastanza sciocco per crederlo, ma in casa mia lei non ascenderà di un solo grado; il suo posto rimarrà quello ch’è stato finora, posto di ancella.
— Bada: io non la voglio riconoscere, non la voglio vedere! — disse improvvisamente la signora Cònsolo rizzandosi altera.
Filippo annuì con un gesto. Ella soggiunse con amarezza:
— Sarai infelice presso a lei.
— Non ho mai pensato a fondare la mia felicità sull’amore di una donna. Conosci le mie opinioni in proposito. Nessun rimpianto dunque.
— Ma porterà il nostro nome!
Filippo ebbe uno scatto impaziente.
— Mamma! — gridò pallido per dolore, — di coraggio ho bisogno, non di rimproveri.
— Hai ragione — disse la signora Cònsolo, calmandosi ad un tratto con uno sforzo della volontà così energico che tutta la durezza de’ suoi occhi le si diffuse sul volto cingendolo di una maschera marmorea sotto la quale lo spasimo non dava più nessun guizzo.
Filippo mormorò cupamente:
— Non parliamone altro. Vuoi?
Madre e figlio si strinsero la mano in silenzio e quel tacito patto scese fra loro colla triste solennità di una pietra calata sopra una tomba.
❧
— La signora Cònsolo è in casa?
Sempre timido, con un sentimento di ritrosia anche maggiore del solito, Stello faceva questa domanda alla servetta che era venuta ad aprirgli l’uscio di un secondo piano a metà di via Montebello.
E non solo ritrosia provava, ma una commozione, quasi un batticuore, all’idea di ritrovarsi, dopo tanto tempo che non la vedeva più, dinanzi a Minna fatta moglie di Filippo Cònsolo.
Annunciando il suo matrimonio come avvenuto da un pezzo Filippo aveva soggiunto brevemente che lo stato di salute di Minna e il lutto per la morte della di lei compagna lo avevano consigliato ad evitarle allora qualsiasi commozione, compiendo in segreto le nozze e ritirandola a vivere lontana dalla città. Gli amici si guardarono bene dal chiedere di più; ammirarono ancora una volta il generoso disinteresse di Cònsolo e nessuno andò a verificare l’atto di nascita del bambino.
Ora Stello muoveva pieno di deferenza ad augurare il Capo d’anno alla sposa.
Minna lo accolse colla solita semplicità calda e cordiale; tanto lieta, tanto raggiante in volto che gli parve duplicata in bellezza al punto da sentirsene quasi imbarazzato.
— Vede che grazioso appartamento ha saputo trovare Filippo? Io amavo per abitudine il mio vecchio quartiere sul Naviglio e i vecchi ponti e i vecchi giardini dagli alberi contorti; ma devo pure riconoscere che anche questi quartieri nuovi hanno la loro leggiadria. Osservi dalla finestra la chiesa dei protestanti come si presenta bene, tutta rossa in mezzo al verde che le fa corona.
Parlava Minna e Stello la guardava, ammirandola in ogni linea, in ogni movimento. Coll’entusiasmo proprio delle giovani spose ella volle fargli gli onori del recente nido cogliendo ad ogni tratto l’occasione per tessere gli elogi di Filippo, sul suo gusto, sulla sua avvedutezza, su delicate previdenze che ella non mancava di attribuirgli ascoltando una segreta commozione traboccante di gratitudine che le faceva quasi un obbligo di mostrare a tutti la sua felicità.
I dubbi che ella aveva avuto altre volte sull’amore di Filippo s’erano ritratti forzatamente dinanzi al fatto compiuto del matrimonio e non le fu difficile persuadersi che le durezze, l’indifferenza, la longanimità di lui erano state nient’altro che una prova, un’esperienza per vedere se ne fosse degna.
Oh! sì, era molto felice. Il raggio luminoso dei trionfatori metteva una nota squillante sulla sua fisionomia per solito così timida e scolorita. Aveva la parola più sciolta, il passo più disinvolto; il fiore della gioia era sbocciato nel suo cuore inghirlandandola tutta; disotto alla flanellina leggera dell’abito il suo seno palpitava come palpita la gola di un uccello quando canta.
Pure Stello pensava con inesplicabile rimpianto al giorno lontano in cui l’aveva trovata sola, triste, ammalata e alla strana conversazione seguita tra loro, piena di confidenza improvvisa e di profondi fascini. La ricordava Minna? Era già sposata allora?
Minna avvertì la nube sulla fronte del suo giovane amico e con materna sollecitudine abbondò di cortesie, rammentando come anch’egli fosse solo al mondo bisognoso di affetti in aspettativa forse dell’ora luminosa che sorrideva a lei. Avrebbe voluto dargli un po’ della sua gioia, ma non sapeva in qual modo. Lo guidava intanto di camera in camera finchè giunta alla soglia della sua propria si arrestò, mostrandogli attraverso l’uscio socchiuso il bambino che riposava in culla; Stello notò subito che vi era accanto un piccolo letto comune. Marito e moglie non dormivano dunque insieme? Facendo questa riflessione dentro di sè Stello si sorprese ad approvarla.
— E quando potrei trovare Filippo? — chiese accomiatandosi. — Ha egli conservato le sue abitudini?
— Siamo qui da così poco tempo che non abbiamo ancora abitudini — rispose Minna sorridendo al pensiero delle piacevoli faccende che la tenevano occupata. — Si figuri che Filippo pranza oggi in casa per la prima volta.
Stello si allontanò persuaso di lasciare dietro a sè una donna felice. Ma quanto doveva esserlo Filippo!...
Minna aveva detto il vero affermando che non vi erano ancora abitudini nella giovane famiglia. L’improvviso matrimonio celebrato a Monza nella più assoluta segretezza (anche in ciò Minna ravvisava un delicato riguardo di Filippo), il trasloco a Milano in via Montebello, tutte le brighe e le occupazioni di un alloggio nuovo l’avevano tenuta in uno stato di orgasmo dolcissimo e assorbente. Ripresa dal suo grande zelo amoroso si era messa con ardore a lavorare per Filippo, per il nido che egli le aveva regalato e nessuna dedizione le sembrava eccessiva.
In quei primi giorni di trambusto egli usciva a pranzare alla trattoria.
Minna col pretesto del bambino rimaneva in casa; i posti di umiltà seducevano il suo temperamento appassionato e timido. Non si era ancora accorta che operando così alimentava il disprezzo di Cònsolo.
Alla fine di quel giorno il breve desco era ammannito nel tinello odorante di mobili nuovi. Minna aveva posto un mazzolino di fiori sulla mensa davanti a Filippo, per festeggiare l’inaugurazione della loro vita in comune; ma Filippo non se ne accorse.
Accigliato, con quell’espressione di freddezza impenetrabile che metteva tanta soggezione a Minna, sedette, senza deporre un giornale che teneva fra le mani; nè le rivolse la parola mai se non per interrogazioni riguardanti il servizio della tavola.
Così doveva essere tutti i giorni.
Se Minna tentava di avviare il discorso sopra soggetti elevati, verso quelle regioni intellettuali che sole l’avevano spinta ad amare Cònsolo, egli la rimetteva invariabilmente con un gesto, con un monosillabo, con uno sdegnoso alzare delle sopracciglia così lontana da lui che una zona di ghiaccio sembrava avviluppare il cuore di Minna e la sua ragione smarrita, confusa, andava chiedendosi invano: perchè?
Intanto ella leggeva nei fogli, nelle Riviste che affluivano in casa, gli elogi incondizionati alle virtù di Filippo Cònsolo.
Raramente, si diceva, un ingegno elevato come il suo andava congiunto a tanta serietà di intenti, a tanta saldezza di carattere. Esso era l’uomo che il paese attendeva. Una fitta schiera de’ suoi allievi, di coloro che si erano inebbriati all’idealismo un po’ aristocratico e intransigente delle sue lezioni, ne sostenevano con vivacità la candidatura al Parlamento, facendosi quasi un merito di perderlo come maestro per offrirlo alla patria in qualità di campione.
Anche i giornali stranieri, quelli stessi che si erano occupati di Filippo Cònsolo in occasione del premio internazionale, si congratulavano col partito che aveva saputo scegliere fra i suoi uomini il migliore, colui che offriva le sicure garanzie di portare finalmente alla Camera italiana una coscienza integra, che avrebbe saputo emergere da tutte le sétte, da tutte le combriccole, fissa l’alta mente al bene della nazione.
E Minna pensava che Filippo aveva ragione di essere orgoglioso, composto com’egli era di un etere superiore dalla purezza inafferrabile e mortale a chi non viveva al pari di lui nel mondo esclusivo delle idee. Ma pure, perchè non ascoltava egli il fruscio d’aie dell’anima vicina e potendo sorreggerla col suo volo possente preferiva calpestarla?
Terribili questi perchè di Minna. La vita in comune li andava sviluppando di giorno in giorno sempre più profondi, sempre più avvolgenti.
Non erano scorsi che pochi mesi dall’inebbriante miraggio del matrimonio e già l’angosciosa domanda si riaffacciava alla mente indagatrice di Minna: Mi ama? Non mi ama? Un grande fatto militava ora in favore di Cònsolo; egli l’aveva sposata. Era dunque andato fino in fondo al suo dovere coscienziosamente. Nessuno poteva più rimproverargli nulla; nè Dio, nè gli uomini: meno che tutti, Minna.
Ma perché, ancora, dopo l’amplesso virile e fin nell’istante stesso dell’abbandono il brivido che fa sacra la voluttà non li scuoteva entrambi ed ella si rialzava ogni volta come da una sconfitta, col rossore sulla fronte e nel cuore l’amarezza del più amaro tossico?
Contraria per istinto a tutto ciò che fosse reazione violenta compivasi nondimeno in lei lentamente quell’evolversi graduale della dignità che già incominciato da lungo tempo, sospeso, ripreso, in balia degli eventi più che della volontà propria, plasmava nella povera fanciulla abbandonata a cui nessuno avea pòrto aiuto mai una compagine nuova di donna forte; tanto più forte per essere uscita sola dalla fossa d’ignoranza in cui era cresciuta, per essersi punta ai rovi ed avere imporporata la via col sangue delle sue ferite.
Sentiva, sentiva con una disperata certezza che la felicità dell’amore quale l’aveva intravveduta nella sua anima teneramente femminile, sperata fino a pochi giorni innanzi, le sfuggiva inesorabilmente.
Comunque fossero i sentimenti di Filippo a suo riguardo, ella non osava ancora precisarli, c’era fra loro un abisso che la dedizione di un’intera vita non sarebbe bastata a colmare.
— Filippo! — aveva esclamato una sera cadendogli davanti in ginocchio con un supremo slancio d’amore — ho sete dell’anima tua. Io non ti comprendo; parlami!
Ed egli si era messo a ridere con sì crudele sarcasmo da comunicarle l’impressione materiale dello spazio che li separava.
Allora veramente un impeto di rivolta aveva scosso il petto di Minna; lo aveva scosso senza che un grido di protesta o di dolore giungesse alle sue labbra perchè un sentimento più forte del dolore, più forte dell’amore, un sentimento nuovissimo, limpido, impetuoso, intero, balzò dal fondo della sua coscienza e la portò in alto sottraendola all’insulto. Accoglieva alla fine, lei così modesta, il nobile orgoglio di sentirsi l’anima grande. Sullo spazio che si era improvvisamente aperto fra loro due, dove echeggiava ancora il riso insultante di Filippo, ella posò lo sguardo dritto e fermo de’ suoi occhi senza lagrime in fondo ai quali balenò il coraggio di una sfida.
Qualche cosa era caduto in quell’attimo, si era infranto, era morto per sempre.
❧
Poco tempo dopo le dimissioni di Filippo Cònsolo il Circolo degli Eroi si sciolse e rallentarono con esso molte delle fervide amicizie e dei superbi ideali raccolti intorno al nome battagliero del Duce.
Guido Pesaro si era trovato una moglie ricca, non esercitava più la chirurgia e le questioni sociali le lasciava andare per la loro china.
Daisini, il cavaliere senza macchia e senza paura, aveva concentrate le forze della mente e della coscienza nobilissima nel suo arduo compito di deputato, dando alla famiglia le poche ore che gli restarono libere. Stello, il fedele, rimaneva.
Un giorno Filippo aveva condotto a casa all’ora del desinare l’Agrati. Era pallido, macilento, colla barba irsuta e grigia. Minna notò ch’egli si preoccupava di ricacciare tratto tratto dentro la manica i polsini della camicia.
Mangiò molto, parlò poco; e siccome il poco che disse era crudelmente amaro, Minna volle confortarlo facendogli osservare che a questo mondo se c’è il male c’è pure il bene.
— Sì, — le rispose — ma il bene è l’illusione e il male la realtà. Per un certo tempo i nostri denti sembrano bianchi e i nostri capelli sembrano neri, ma siccome a breve andare i denti anneriscono e i capelli imbiancano trionfa e dura precisamente l’opposto di ciò che appariva. L’amore è illusione, e come illusione non v’ha dubbio che esista, ma la realtà cioè quello che sopravvive è l’oblio. La salute cede alla malattia, la vita alla morte, il tutto al nulla. Uno stolido getta in mare una gemma preziosa e i sapienti della terra riuniti non sanno ripescarla.
— Andiamo, via, vuoi sorprendere coi tuoi soliti paradossi la semplicità della signora.
Era Cònsolo che aveva pronunciato questa frase dall’apparenza insignificante, ma la di cui ironia sottolineata specialmente nella parola semplicità rivolta a colei che egli non chiamava mai sua moglie, non mancò il colpo là dove voleva ferire.
L’Agrati soggiunse:
— Il paradosso sta alla verità come il riccio alla castagna. Chi si arresta alla superficie non sente che la puntura; spezzare il riccio occorre per trovare il frutto. Tua moglie è una signora molto intelligente e sono persuaso che mi dà o mi darà ragione.
— Quando avrà spezzato il riccio – ribattè Cònsolo con un sorriso ironico.
Chiunque avvicinasse anche per poco la giovane sposa, vecchi e nuovi amici, non esitavano a giudicarla degna del grande onore che le era toccato, riconoscendo bensì in tale scelta una nuova prova dell’ingegno di Filippo, ma attratti singolarmente dai meriti personali di Minna che nelle prove ardenti della passione aveva visto svolgersi ognuna delle energie occulte chiuse dentro di sè colla esuberanza magnifica di un fiore giunto al completo sviluppo dei suoi colori e del suo profumo.
Triste ancora, ella non permetteva alla sua tristezza di fiaccare la sua energia, e nemmeno di uscire da quel silenzio sacro dell’anima dove non vi è più posto per un’altra persona che non sia un altro sè stesso, Provava in certi momenti una voluttà selvaggia a riprendersi, a sentirsi intera, a consacrare al proprio miglioramento quell’ardore di passione che aveva profuso per tanti anni sull’altare di un idolo insensibile e crudele.
Nelle pagine di Filippo, Minna leggeva con un crescendo di entusiasmo lo svolgimento di quei pensieri che l’avevano tanto attirata a lui facendole credere che le loro anime fossero eguali.
“Come il soldato antico forbiva la spada per una santa guerra e l’agricoltore l’aratro per dissodare le zolle infeconde e l’orefice gli ordigni dell’arte sua affinchè l’oro risplenda in tutto il suo fulgore e vi si incastonino le gemme simili a rari e meravigliosi pensieri condensati, noi dobbiamo coltivare il nostro Io, quanto dire il fascio di armi che una forza occulta superiore d’assai al nostro giudizio ci ha pôrto affinchè ne usassimo per nostra difesa nella lotta degli istinti volgari colle attrazioni della suprema bellezza„.
Queste queste le parole di Filippo. E altrove: “Si può immaginare uno sciocco, un presuntuoso, un povero di mente tutto pervaso dal sentimento altruistico di fare il bene? Qual bene potrà fare se non quello di sottoscrivere una colletta o di accettare un posto di segretario in un Comizio? Pensiamo invece al santo egoista che vive raccolto nella sua anima come in un tempio lavorando assiduamente con austere rinuncie, con intimi sacrifici, con ferree discipline, affinchè da quel tempio irraggi sempre più la luce dell’intelletto, unico sole benefico ai cui raggi si scalda l’umanità. L’uomo che regge nelle sue mani la sorprendente lampada del pensiero da quale maggior dovere è incalzato, se non dal dovere di tenerla accesa e ben alta sulla folla acciò i più lontani possano scorgerla, e i timidi, e gli affranti accostarsi per averne luce e calore? Non dunque il portatore della lampada può preoccuparsi del brucherello che gli agonizza a lato o della radichetta vizza che si frange sotto il suo passo poichè la sua missione è di vegliare colle pupille sollevate e la mano salda„.
E sia, — concludeva Minna.
— Ho creduto di comprenderlo e mi sono ingannata; egli è stata la bufera che mi portò in alto; il suo compito è finito; ora tocca a me. Perchè ostinarsi a pretendere dagli altri la propria felicità? Esiste forse un bene che non abbia principio in noi stessi? Sia amore o sia fede, sia trionfo di lavoro o ebbrezza di sensi, sia coscienza di un potere o esercizio di una volontà? Se io cedo, se mi frango, se muoio sotto il suo disprezzo insolente avrà ragione lui: sarò la radichetta insignificante, sarò il bruco volgare che impunemente si schiaccia.
Dinnanzi a tale ipotesi Minna palpitava e fremeva, colle labbra strette, l’occhio raccolto e fisso in una visione interna.
— Ma se mi sollevo, se lo eguaglio, se lo vinco la ragione è mia!
Mettersi nel vero. Ecco ciò che le premeva inesorabilmente; e superarsi; allacciare le idee e le esperienze con un filo unico, infrangibile, fatta persuasa che non vi sono idee isolate, che ognuna di esse è figlia e madre di altre innumerevoli le quali tutte riunite concorrono a formare la nostra corazza morale; e che non esiste separatamente la grandezza, l’ingegno, la bontà, la felicità, perchè le espressioni della forza sono molte, ma la forza è una sola e possederla significa essere grande, essere buono, essere felice.
Il mondo si allargava intorno allo sguardo indagatore di Minna; ogni giorno capiva qualche cosa di più, qualche piccola cosa che andando a raggiungere nel fondo pensoso della sua mente un materiale di osservazioni già da tempo accumulate contribuiva all’edificio della sua anima nuova. Il suo tremendo disinganno d’amore, uccidendo in lei l’ammirazione per Cònsolo aveva pure rinfocolata la fiamma ardente della sua sensibilità spostando il centro dall’uomo all’idea; e poichè appunto l’idea aveva prima amata in lui era ancora una prova d’amore e di fedeltà che gli offriva, ma così alta che il solo pensarla le dava le vertigini di una ebbrezza senza nome.
Questa chiara coscienza, questo intimo orgoglio che non si struggeva nel disprezzo di ciò che non fosse sè stesso, ma che tacito stava nel suo cuore a guisa di corona chiusa sovra una fronte di principe, era il solo schermo impassibile ch’ella opponesse al contegno mortificante di Filippo.
L’arma però aveva due tagli; che Filippo senza riconoscerne la natura doveva avvertire, in quella da lui stimata misera donna, una resistenza occulta che lo esasperava. Minna, dal canto suo, sapendo che gli uomini quando hanno torto ricorrono alla brutalità si sentiva imprimere ad ogni violenza di Filippo un volo di ascensione sempre più alto e più sicuro. Lo scambio della loro posizione per avvenire lento non era meno decisivo. Cessando di venerare Filippo, Minna incominciava a giudicarlo.
Lo aveva pensato tutto saldo e lucente come una bella lama snudata; lo ritrovava invece a strati sovrapposti e lo sorprendeva in frequenti dissidi fra l’idea e l’azione, fra il principio e l’opportunità. Abilissimo nel nascondere agli altri la propria debolezza Filippo non si dava la pena di sorvegliarsi con Minna, reso cieco dall’orgoglio che sanguinava perenne in lui accusandola di quell’istante di oblio che li aveva incatenati per sempre; orgoglio violento, quasi folle, che dinanzi all’orgoglio muto della donna si inferociva della furia del toro aizzato da un drappo rosso, sì che la voleva bassa e volgare a giustificazione del suo disprezzo.
Minna stava osservando con vero terrore e con un vero spasimo dell’anima lo sfasciarsi di quel mirabile gruppo di energie che era la mente di Cònsolo per il fatto di un amor proprio avvertito appena nelle lacerazioni che ella vi imprimeva suo malgrado e che non le era possibile di evitare, presa ella stessa nel vortice della propria trasformazione. In qual modo avrebbe potuto impedire agli amici di Filippo la stima e la nobile simpatia che le tributavano se rendersene meritevole era ciò che maggiormente urgeva alla sua sete di perfettibilità?
Ma l’omaggio di tutti era una smentita troppo forte al disdegno di Filippo perchè egli non vi si ostinasse come dinanzi ad un ostacolo ribelle al suo volere. Ubbriacato di vanità maschile scendeva a rappresaglie meschine che andavano al punto di godere, e non nascondere il suo godimento, quando Minna cadeva in qualche piccolo errore o innocentemente confessava le lacune della sua istruzione. Una volta in cui il bambino essendosi ferito con un balocco si pose a percuoterlo per sfogo di vendetta puerile, Minna ebbe la percezione esatta del risentimento che ispirava la condotta di Cònsolo a suo riguardo. Così egli faceva con lei, acciecato da un odio che gli riusciva incomprensibile, che sembrava acuirsi di giorno in giorno per un misterioso processo di fermentazione del quale le sfuggiva la causa.
Un raggio improvviso le venne da un discorso tenuto una sera in sua presenza. Si era in piena febbre elettorale. Gli amici intorno a Cònsolo discutevano animatamente; egli fingeva di non interessarsi troppo alla propria elezione; ma il pallore delle sue guancie volgendo in certi momenti all’azzurro livido tradiva un sussulto represso che era la conseguenza immediata della lotta interna.
— Daisini solo è sicuro del suo collegio — aveva detto Cònsolo rispondendo al voto fiducioso di Stello il quale si affrettò a soggiungere:
— Ammetto la vittoria facile per Daisini circondato com’egli è di elettori antichi e fedeli, ma anche tu hai amici fedeli disposti a combattere fino all’ultimo sangue per la tua riuscita. Non ne dubiterai spero.
Marco Agrati che stava mordendo il manico ricurvo della sua indivisibile canna soggiunse senza alzare gli occhi:
— Molto più che il nostro amico è al riparo dello scandalo suscitato or ora dall’onorevole Lippari.
— Uno scandalo? — interrogò Stello.
— Sì... Filippo lo conosce certamente. L’onorevole Lippari per impedire la candidatura del suo rivale Tommasi ha saputo scovare una storiella di fanciulla sedotta e abbandonata che in questi tempi di ricerca della paternità e di femminismo a oltranza non può mancare di procurargli dei fastidi e fors’anche impedirgli l’elezione.
Terminando la frase l’Agrati aveva sollevato gli occhi e nel medesimo istante Filippo abbassava impercettibilmente i suoi. Nulla più che un rapido lampo; ma caduto in direzione così precisa da squarciare il velo di tenebre attraverso il quale Minna aveva cercato invano fino allora di collegare il perchè del suo matrimonio col contegno di Filippo.
Quella rivelazione cinica che ella intuì subito essere la vera spiegava ogni cosa. Filippo non l’avrebbe mai sposata se non avesse preveduto un ostacolo alla sua carriera futura non più di propagatore di idee ma di conduttore. Non l’avrebbe sposata perchè non l’aveva mai amata.
La infaticabile ricercatrice di verità, l’anima sitibonda di chiarore, non tremò, non rifuggì, non respinse questo crudelissimo vero. Così. E allora, quasi scenario di monti e di valli che da una eccelsa vetta l’occhio contempla svolgersi in piani digradanti ognuno vestito di sua particolar luce, vide ella tutta la fatale trama del suo errore; incominciando dal primissimo sorgere del sogno amoroso quando senz’avere ancora scorto Filippo Cònsolo ne ascoltava trepidando il rumore dei passi attraverso il tavolato che divideva le loro camere; sogno che sarebbe forse rimasto allo stato di una fluttuante ebbrezza solitaria se la scena violenta del balcone non l’avesse d’un tratto piombato nella più inesorabile realtà; e mentre ella si era fatta dell’amore uno stato di elevazione quasi religiosa egli non aveva visto in lei che una volgare avventura di maschio.
L’illusione non era più possibile. Minna anzi si meravigliò della sua lunga cecità, dovuta in parte alla assoluta innocenza, in parte all’ardore stesso della sua passione che per tanto tempo potè nutrirsi di sè.
Ma ripensando a tutto quello che era seguito dopo, alla mortificante attesa, al ritorno concesso come una grazia, ai rari istanti di abbandono subito cancellati con una ostentazione di freddezza altera, alla cura costante di tenerla lontana da sè, dalla sua anima, dai suoi pensieri, ripetendole sempre che ella era una femminuccia ignorante indegna di comprenderlo, a tutti questi ricordi accompagnati da gesti, da sguardi, da silenzi che si collegavano tra loro affluendo ai recessi della sua memoria con una ridda diabolica di scherno, ella sentì la profondità dell’insulto come un colpo rapido e mortale, come se ognuna di quelle piccole punte, di quelle piccole fitte che aveva sopportate in silenzio si fossero riunite a formare un terribile fendente e le fosse questo calato improvviso sul cuore.
Ora vedeva con grande chiarezza la sua miseria; ma non era già essa completa fin dalla triste sera in cui Filippo l’aveva accompagnata fuori di casa, in quel grigio crepuscolo invernale lungo il Naviglio volgente le acque torbide, gonfie della molta neve caduta, quasi livido sotto la luce verdognola dei fanali che si accendevano boccheggianti sotto le raffiche diaccie? Non aveva allora palpitante d’orrore rasentato il muro dove si apriva una volta la Ruota per i fanciulli abbandonati, ella che già sentiva agitarsi in grembo il figlio del suo disonore?
E quella uggiosa stanza di trattore dalla tappezzeria rossa a fiori gialli, con quell’odore nauseabondo di tabacco e di cavoli bruciati, dove si era trovata tanto male senza che Filippo se ne accorgesse’? E il ritorno così faticoso, per quelle vie interminabili...
Un nuovo sospetto attraversò la mente di Minna. Certo egli lo aveva fatto apposta, per stancarla, per sfinirla, colla speranza sinistra di sopprimere il disgraziato frutto di un legame che gli era già divenuto odioso. Ah! quello sguardo fisso, ostinato, quello sguardo che sembrò allora comandare ciò che il labbro non osava, quello era lo sguardo di un nemico.
Giunta per la logica dei fatti a tale spietata affermazione, Minna la accolse col gesto risoluto del guerriero che si strappa la lama dalla ferita e pensò che se Filippo era il maroso che investe e atterra ogni ostacolo, ella poteva ben essere la roccia che nulla può rimuovere.
❧
Colla conquista della propria coscienza Minna si trovò forte di una nuova gioia. Non era più la gioia di prosternarsi schiava d’amore dinanzi a un simulacro di perfezione; era la gioia più attiva e più nobile di arrivare alla perfezione stessa, di crearla in sè, di moltiplicarla intorno a sè. Quanto più l’orgoglio sterile di Filippo la faceva soffrire, cresceva in lei l’orgoglio santo di superarlo, poichè ella sentiva di avere una grazia che a lui mancava totalmente: la grazia di darsi e di dimenticarsi.
Insieme a questa presa di possesso di sè medesima ingigantiva nel cuore di Minna il sentimento profondo della maternità. Filippo non amava il figlio nato contro il suo volere. Nei primi tempi Minna ne aveva sofferto orribilmente, perchè non capiva; ora non più.
L’evoluzione di tutto il suo essere sensibile e pensante assoggettato ad una logica infallibile le faceva riconoscere con uno slancio magnifico di rinuncia che ella era sola a proteggere quel disgraziato frutto di un istante di oblio; e ne era fiera; ne era quasi felice. Prendendo il bambino sulle sue ginocchia si compiaceva a riconoscerne i lineamenti simili ai propri; ed anche non aveva egli i freddi ed acuti occhi di Filippo, bensì due occhi semplici e buoni nei quali le sembrava di specchiarsi come in acqua tersa. Erano sue quelle membra esili, quella pelle fina, quel timido sorriso che appariva così raramente tra labbro e labbro lumeggiando appena lo spiraglio dell’intelligenza. Nulla di Filippo era rimasto in quelle carni che il suo amore solitario aveva plasmate, che erano state nutrite all’ombra della sua tristezza, irrorate dalle lagrime segrete che le ciglia rattennero ma che erano cadute a goccia a goccia nel suo sangue.
E come ella sentiva il possesso materiale del figlio uscito dal suo grembo era pure colpita dalla grandiosità della missione materna che la investiva di un potere creatore d’anima.
Oh! quanto vibrava il suo orgoglio, poichè infine si riconosceva orgogliosa, non essendo stata la sua timidezza che un eccessivo scrupolo della sua coscienza; vibrava il suo orgoglio nuovo tanto diverso dall’orgoglio di Filippo, e saliva per mille gridi di esultante conquista ad afferrare lo scettro della sua naturale dignità. Ella avrebbe circondato il figlio suo di tutta la tenerezza sua, gli avrebbe infusa la propria anima sensibile ed amante e tutto l’egoismo di Filippo non sarebbe valso a farlo altro da ciò che essa voleva che fosse.
Dalla scrivania di Filippo il fermacarte contenente il ritratto della vecchia signora Cònsolo attirava ancora l’attenzione di Minna per la somiglianza tra madre e figlio che la colpiva sempre in singolar modo.
Al pari di lui quella donna doveva avere l’intelletto acuto e il cuore chiuso ai teneri sentimenti. Fin da quando nei primi giorni del matrimonio Minna ebbe un espresso rifiuto al desiderio di conoscerla ella non ne aveva parlato più, intuendo una ostilità che l’avversione di Filippo doveva ribadire a mille doppi; ma se dall’ingiustizia di tale apprezzamento le germogliava una sottile amarezza avvelenata da antichi ricordi sentiva di non dover chinar la fronte dinanzi a lei.
Ella aveva pur dato la vita a un Cònsolo e nessuna potenza del mondo poteva impedire che il suo sangue, i suoi nervi, tutta la sua personalità fisica e psichica entrasse a modificare rinnovandola la nascente generazione dei Cònsolo. Mina si infiammava al pensiero che la sua sensibilità sarebbe penetrata a guisa di semente buona in quella razza di calcolatori e che l’orgoglio come lo sentiva lei avrebbe adunato fiori di bellezza nuova, fiori di bontà su quelle fronti marmoree che la commozione non alterava mai.
Tenuta sulla soglia di quella casa che le era vietato di varcare ella ne sforzava le porte col pensiero evocando le camere rinchiuse nella tranquilla penombra della vita di provincia, e l’austera figura della matrona imperante su tutto un passato.
Ma ecco, bastò un istante alla vampa dell’amore per distruggere i frutti di una vita intera, ecco la strada trionfante nell’avvenire che la gran passione di Minna le aveva dischiusa attraverso la volontà di due esseri che la disprezzavano.
Che cosa erano più i dolori del suo amore respinto dinanzi a questa grande riabilitazione della maternità consciente? Se l’amore di Filippo le mancava, ella aveva tanto amore nel cuore da offrirne luce e calore a tutta l’esistenza che ancora l’attendeva. Nessuno aveva il diritto di renderla infelice finchè ella non lo avesse voluto; e non lo voleva. Ella apriva le braccia a tutte le sensazioni come il viandante raccoglie un fascio di fiori che trova sul suo sentiero: ella ne intesseva ghirlande per sè e per il bambino che le cresceva a lato.
Voleva esser buona, voleva essere intelligente, voleva anche esser bella per diffondere intorno a sè la gioia della vita e farsene una consolazione.
Non era questo il santo egoismo racchiuso nelle parole di Filippo? Ella almeno lo intendeva così. Forse ha la luce diversi riflessi a seconda dell’oggetto sul quale si posa? Minna oramai non ne dubitava più perchè Filippo possedeva bensì lo sguardo dell’aquila che affronta i raggi del sole, ma era sufficiente che la sua vanità venisse smossa per alzarsi a guisa di nebbia ad oscurargli la netta visione delle cose.
Minna aveva pagato colla rovina di tutte le sue illusioni il posto di osservazione che le permetteva di scorgere intera la figura di Cònsolo quale nessuno de’ suoi amici la poteva conoscere, avendo egli nascosta ogni sua debolezza di fronte agli altri uomini per dominarli e innanzi alla donna desiderata per conquistarla; ma tutto abbandonandosi alla propria natura in presenza della donna che non gli rappresentava più nè uno stimolo nè un trionfo.
Ed anche in tale apparente umiliazione sentiva Minna una dolorosa fierezza che dava impulso al volo della sua anima, come se Filippo fosse un poco in suo potere stimolando la sua generosità ed ella potesse ancora una volta ritorcere verso di lui le sdegnose parole che egli aveva pronunciate un giorno: “Siamo sopra due piani differenti; dal mio scorgo te e tu dal tuo non mi puoi scorgere„.
Tutto lo giudicava ora. Fallito alla prova delle urne, contrariamente alle previsioni del collegio che lo aveva portato, Cònsolo parve raccogliersi indifferente ne’ suoi studi: ma ella vedeva l’ambizione di lui accovacciata nell’ombra ad aspettare e gli leggeva sulla fronte un avvicendarsi di pensieri torbidi quali certo non aveva avuti al primordio della sua giovinezza, quando poteva credere nella sua grande fiducia in sè che bastasse tendere la mano per afferrare ogni sua voglia.
Sotto l’impressione dell’abbattimento che Filippo doveva risentire in quei giorni ella era quasi disposta a compassionarlo, presa ancora da un riverbero d’amore, come scintillano un istante rifrangendo i raggi del sole che tramonta i vetri delle case già prossime a sprofondarsi nella notte; ma era un sentimento di forza che non la faceva soffrire più Chi soffriva sinceramente dell’insuccesso di Cònsolo alla deputazione era Stello. Sulla eloquenza puramente cerebrale di Filippo egli e Minna, questi due profondi sentimentali, avevano innestato il fiore dei loro cuori e poichè l’illusione permaneva in Stello e la dignità di Minna nulla lasciava trapelare dei propri disinganni, i loro rapporti restavano invariati nella soavità di un vincolo che la frequenza del ritrovarsi aveva trasformato in una salda amicizia.
Niuna cosa era più dolce per Stello dell’ora serotina che egli soleva dedicare a Filippo ed a sua moglie, riunendoli entrambi in un medesimo slancio di ammirazione devota. Privo come egli era di famiglia trovava nel piccolo appartamento di via Montebello il tepore del focolare che non aveva mai posseduto e accanto all’uomo che stimava sopra tutti gli altri una gentile incarnazione di donna sorridente all’inconscio desiderio della sua giovinezza. Egli aveva sempre qualche questione da sottoporre al giudizio del suo antico maestro, ma alcune volte Filippo tardava a uscire dal suo studio, e allora la serata trascorreva più intima fra Minna e il bambino sul quale il suo bisogno di tenerezza si riversava completo, senza neppure avvertire un lontano rimpianto che in un cuore meno puro del suo si sarebbe affermato nella forma acuta dell’invidia.
Per Minna l’ammirazione di Stello era, dopo la grande tempesta del suo amore, come un balsamo sulla ferita.
Ritrovava le istesse idee che l’avevano sedotta in Filippo trasportate in un temperamento di assoluta schiettezza e di più semplice congegno.
I loro colloqui, anche trattando argomenti insignificanti, si abbellivano della fraterna simpatia delle loro anime: nè vi poveva ostacolo la mutata opinione di Minna sul valore vero di suo marito poichè ella si era fatta un dovere di conservarne alto il prestigio fedele all’ideale di lui se pure lui vi aveva mancato. Era anzi questo per il momento il suo maggior dovere; e come sempre avviene che lo spirito innalzandosi si soddisfa trovava in esso consolazione e forza per proseguire.
Aveva letto in un antico mito che “sul vertice di una montagna inaccessibile stava ritto fra i ghiacci e sotto il furore dell’aquilone (portata lassù da mani ignote) un’urna di marmo nero. Nessuno dei valligiani vi si era mai accostato perchè la tradizione diceva che quella fosse l’urna del Mistero, inviolabile e sacra. Guai a chi l’avesse tocca!
“Da innumeri secoli, per lunghe generazioni gli uomini la adoravano in silenzio riportando da quel culto dove ognuno svolgeva la parte migliore di sè i più nobili impulsi. Bastava che si accennasse all’urna del Mistero perchè i tristi si ravvedessero e molti in pericolo di cadere tornassero sulla buona via.
“Gli afflitti si confortavano pensando che l’urna racchiudesse aiuti soprannaturali, i giovani giuravano in nome dell’urna, i vecchi dinanzi all’urna pregavano.
“Tutti erano penetrati dalla potenza del Mistero. Ma un empio temerario riuscì una volta a salire sulla vetta del monte e spezzata l’urna e trovatala vuota scese a narrare la scoperta agli uomini.
“Da quel giorno il culto dell’urna fu soppresso, gli uomini non pregavano più e le tristizie e i vizi di essi crebbero a dismisura„.
Afferrò subito Minna il significato di questa pagina di profonda poesia e ne colse quel supremo senso di gioia che dà a chi si affatica nella ricerca del vero la conferma e quasi l’approvazione dei grandi pensatori. Essere sicuri di aver ragione è il segreto di tutti gli eroismi.
Stello la trovò quella sera ancor più bella del consueto, cogli occhi brillanti della interna luce, rosea di commozione. Egli la credeva in armonia con Filippo e interpretò diversamente il contegno della giovane donna.
— È dunque deciso, – disse Stello in tono ilare.
Minna, sorpresa, sollevò gli occhi e intanto che stava pensando a qual cosa potesse alludere l’amico, egli soggiunse:
— Nella posizione di Filippo gli era impossibile dire di no. Vi fu qualche difficoltà a fargli accettare la proposta di condurre anche le signore, ma infine tutto è combinato.
— Ma io non capisco, sa?
— Il banchetto....
— ?
— A Daisini.... i vecchi amici.... per festeggiare la sua rielezione. Ah! ora comprendo. Filippo le preparava una graziosa improvvisata ed io, sciocco, gliene sto guastando il piacere. Basta, non dico altro.
La supposizione che Filippo potesse godersi il piacere di farle una graziosa improvvisata fece spuntare un sorriso leggermente amaro sulle labbra di Minna, la quale tuttavia entrò subito nell’idea di Stello e soggiunse che certamente se Filippo non aveva parlato di quella festicciuola era per farle meglio gustare il fatto compiuto.
Mettendo così in rilievo la delicatezza di suo marito Minna gustava la voluttà di mentire per un nobile fine. Molta parte della riputazione di Cònsolo era in suo potere ed ella voleva accrescerla con tutta la sua forza. La vendetta non alligna solamente nelle anime basse. È una vendetta grandiosa quella di superare colla generosità il proprio avversario.
Stello lo aveva detto un giorno: “Se dovessi perdere la fede in Cònsolo non crederei più nulla a questo mondo„ e insieme a Stello quanti altri si erano fatti di Filippo Cònsolo un ideale per la loro vita! Ella lo sapeva e ne gioiva.
Quest’uomo, comunque fossero gli oscuri meandri della sua coscienza, esercitava realmente una influenza elevatrice sulla grande massa dei giovani che sapeva conquistare e dominare. In presenza di tale risultato i disinganni di Minna non potevano avere nessuna importanza, non dovevano averla. Sacerdotessa ardente di un culto che era tutta la sua fede, preferiva mentire a sè stessa piuttosto che tradirla. Ella pensava all’Urna del Mistero.
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Nella sala principale del ristorante alla moda le lampadine elettriche rifrangevano la loro luce opalina sugli argenti e sui cristalli della tavola apparecchiata dove una leggera ghirlanda di fiori correndo fra il nitore della tovaglia ne accendeva di note più vive la uniforme bianchezza.
I commensali giungevano a coppie, a piccoli drappelli, guardandosi in giro, cercando i conoscenti. Le signore liberate dalla pelliccia si accomodavano i nastri e le trine; gli uomini con aria noncurante sbirciando i cartellini che segnavano i posti andavano in traccia del loro nome.
Si prevedeva che il pranzo sarebbe stato piacevole col meno di politica possibile. Le signore specialmente essendo riuscite a farsi ammettere dardeggiavano la loro gioia dagli occhi e dal sorriso, apparecchiandosi a nuovi trionfi.
In due anni di matrimonio Minna non era uscita mai in pubblico accompagnata da suo marito.
Tempo addietro sarebbe stata commossa e felice di quella specie di presentazione; ora fece la sua entrata molto semplicemente, serbando il contegno serio e attento di chi studia il terreno dove mettere i passi. Sapeva che Filippo se la portava di mala voglia cedendo alla pressione della maggioranza e questa lieve ombra malinconica che le velava la fronte le dava sopra le altre donne, qualcuna più bella, qualche altra più elegante di lei, un particolar segno di distinzione che la fece subito nota.
— Occorrono, — disse Guido Pesaro, elegantissimo, con una gardenia all’occhiello e che sembrava ispezionare dalla soglia dell’uscio ogni nuovo arrivato — quattro generazioni per fare un lord, due per fare una lady; ma a costei è bastato diventare la moglie di Cònsolo per trasformarsi di botto in una signora a modo.
Un muso di faina acuto ed insolente protendendosi sulla spalla di Pesaro soggiunse:
— Quella è una donna superiore, una mosca bianca, levatevi il cappello.
— Ah! sei tu Agrati? — esclamò Pesaro voltando il capo — non credevo che saresti venuto.
— Tre cose sono sacre, — dichiarò Marco Agrati — il danaro, la digestione e la parola data.
— Anche l’amicizia.
— Ma che! Amico, nemico, sono due faccie della stessa cosa. Oggi mi stai davanti e ti chiamo amico, domani a tergo non mi curerò più di te.
— Grazie — rispose ridendo Guido Pesaro a cui era da lungo tempo palese l’ironia amara dell’Agrati.
Intanto la sala si era riempita di gente che a poco a poco scambiandosi dei complimenti, cedendosi il passo con dei scusi, pardon, la prego, andava prendendo posto intorno alla tavola. A Minna toccò di avere alla sua destra l’Agrati; a sinistra un signore che non conosceva. Filippo si trovava quasi al centro della tavola, vicino a Daisini. Minna lo scorgeva attraverso una diagonale in mezzo alla quale ondeggiava rilucente di fresco oro la bionda testa della signora Pesaro, una lunga barba di ignoto, la manica celeste di un’altra signora e cinque o sei volti irrequieti di giovani allievi dell’Accademia.
Poco lungi una signora piccolina vestita di grigio salutò l’Agrati con ripetuti cenni della testa.
— Toh! fin qui è venuta — mormorò egli.
Involontariamente Minna fece un movimento verso la signora vestita di grigio.
— La conosce? — chiese l’Agrati.
— No certo. Io non conosco nessuna di queste signore.
— Nemmeno la moglie di Pesaro?
— Nemmeno.
— Guardi laggiù, vicino a Cònsolo. È la fortunata proprietaria di quella chioma dai riflessi di zecchino; una specie di divisa per far sapere a tutti che ha dell’oro fin sopra i capelli.
— E la piccolina allora?
— La piccolina, poveretta, vive in provincia dove si annoia assai e per consolarsi si mette in corrispondenza più o meno sentimentale con tutti i romanzieri, poeti, commediografi, e giornalisti, uomini celebri in qualsiasi modo purchè giovani, e poi vi ricama sopra un romanzetto e chiama ciò fare della letteratura. Una forma come un’altra di caccia all’uomo. Avrà scritto, suppongo, anche a Cònsolo; carta grigia con filetto bianco, una freccia sull’angolo sinistro col motto “dove ferisco, risano„. Non so se ne abbia una per ogni corrispondenza. Può chiederne a Filippo... lei non è gelosa?
Minna fece prontamente un gesto di diniego, ma non disse più nulla, scandalizzata dalla maldicenza dell’Agrati e non volendo farsene complice con una nuova inchiesta. Si pose invece a guardare in silenzio gli altri commensali; Daisini dal volto affilato e stanco dove era tutta spiegata come in un programma la sua bontà e la sua mansuetudine; Pesaro, bello, intelligente, gentile della gentilezza propria delle persone felici. Non vedeva Stello, doveva trovarsi al lato estremo della tavola, mascherato forse dalle protuberanze elefantesche di un signore che stava allacciandosi il tovagliolo sopra il nastro della commenda.
Nè il suo silenzio valse, perchè l’Agrati che aveva seguìto la parabola dei di lei sguardi si affrettò a scoccare il dardo velenoso:
— Quello è il beccamorti della letteratura. Vive sui defunti. E la sua specialità. Bel bestione nevvero? e innocuo. Pesta sì qualche volta i piedi ai vicini perchè è tanto grosso, ma lo fa senza malizia. Però non si capisce come possa continuare ad occupare tanto spazio nel mondo, avendo la natura orrore del vuoto...
— Oh! ma lei è terribile, non rispetta nulla, — esclamò Minna.
— Rispetto il vero merito; non è mia colpa se lo trovo di rado. La voce dell’Agrati risuonò cupamente con una profondità dolorosa di ferro che si rivolta dentro a una piaga.
Per un po’ di tempo la giovane signora Cònsolo non osò nemmeno più guardarsi in giro, ma voleva pur vedere quale fosse il contegno di Filippo, e se egli si accorgeva di lei; vi riuscì spostando leggermente la sedia nella sua direzione.
Altera, olimpica, la fronte di Filippo emergeva su tutte le altre con quella linea violenta che la capigliatura sembrava rispettare incorniciandola sobriamente con un sottile cerchio bruno quale siamo soliti vedere nelle antiche incisioni. Egli non aveva accanto nessuna signora; i due uomini che gli stavano a destra ed a sinistra Minna non li conosceva; scambiavano qualche parola fra loro, ma il suono non arrivava alle orecchie di Minna.
A un dato momento ella vide Filippo sporgere innanzi il capo come per ascoltare qualcuno che gli parlava attraverso la tavola, poi sorridere lievemente, abbassare le pupille sul piatto e rivolgerle ancora nella medesima direzione con una scintilla dentro ch’ella non vi aveva mai vista.
Il brio dei commensali cresceva ad ogni portata dei vini che i camerieri versavano in silenzio nelle sottili coppe. Il pranzo toccava il suo punto più piacevole fra le sensazioni gustate e quelle che si stavano aspettando; si incrociavano le conversazioni, le voci salivano più alte; qualche ventaglio a pagliuzze iridate si agitava sulle guancie accese di una signora; la manica celeste scivolando un poco giù dalla spalla aveva scoperto un omero bianco; il grosso Commendatore sbuffava e soffiava tentando di mettere maggior spazio fra la sua pancia e la tavola; la lunga barba dello sconosciuto prendeva parte al banchetto alzandosi e abbassandosi col movimento delle mandibole.
Minna credette indovinare che quel signore fosse uno scienziato.
— È semplicemente un alpinista, — rispose l’Agrati — riposo delle cellule cerebrali e sviluppo dei garretti.
Le montagne Minna non le aveva mai viste tranne sui limiti estremi dell’orizzonte, ma la entusiasmavano:
— Deve essere bello — disse — posare il piede e lo sguardo dove nessuno andò prima di noi.
— Oh! se non è che questo, quando spacca una mela posa la mano e lo sguardo sovra un punto che nessuno vide e toccò prima di lei. La suggestione fa tutto in tali cose.
Minna si rifece a tacere guardando ora di nuovo suo marito che ascoltava in attitudine meditabonda alcune frasi vibrate del suo vicino. Rimpetto a lui, dove aveva guardato prima sorridendo, squillava audace con intonazioni allettatrici e proterve una vocetta femminile, ma non si poteva vedere fin là. Improvvisamente la vocetta pronunciò il nome di suo marito con un accento che era insieme imperioso e provocante: — Cònsolo, ascoltatemi dunque! Vi faccio paura?
Minna trasalì. Filippo tornò a sporgere il capo innanzi, tornò a sorridere, e rispose poche parole che andarono perdute nel frastuono generale. Incominciavano allora i brindisi. Lo spettacolo affatto nuovo interessava Minna moltissimo; ella aveva la vibrazione vergine delle persone cresciute lungi dalla società. Seguendo curiosamente l’incrociarsi dei bicchieri vide una piccola mano di donna allungarsi fin nel mezzo della tavola per toccare il bicchiere di Filippo.
Era una mano agile, nervosa, ornata da uno smeraldo di una dimensione inverosimile che copriva tutta una falange dell’anulare.
— Ma chi c’è in faccia a mio marito? — chiese finalmente all’Agrati con un principio d’impazienza.
Se ella dal suo posto non poteva vedere, l’Agrati, che veniva dopo, vedeva meno ancora.
— A più tardi, — disse. — Intanto permetta che dedichi a lei il mio brindisi rispettoso e sincero.
— Ma io non ho meriti...
— Bevo al suo coraggio.
— Il mio coraggio? — esclamò Minna arrossendo violentemente.
Pensò subito che l’Agrati l’aveva conosciuta ne’ suoi giorni di miseria e maligno com’era voleva forse rammentargliela, ma le bastò gettare uno sguardo su quel volto devastato dalle passioni per leggervi il più schietto sentimento ammirativo.
— Guardi — disse l’Agrati con una rapida transizione di idee — guardi la posa di Daisini in questo momento. Non somiglia a Gesù nella cena degli apostoli? quando disse: “Uno fra voi mi tradirà?„
Turbata, Minna soggiunse:
— Oh! ma qui non vi sono traditori.
— Che ne sappiamo noi?
Pronunciando queste ultime parole la fisionomia mobilissima dell’Agrati mutò tutta; divenne dura e sarcastica.
Il banchetto finì in un frastuono di grida festose e di sedie smosse. Vi fu un momento di confusione durante il quale Minna tentò di avvicinarsi a suo marito e stava per raggiungerlo quando la stessa vocetta da sirena che aveva udito poc’anzi pronunciò con un singolare accento che stava fra la preghiera e il comando: “Mi volete offrire il vostro braccio, Cònsolo?„, e nello stesso tempo una figura femminile vestita di verde con frangie d’oro si appese al braccio di Filippo trascinandolo lontano.
Minna non amava più suo marito e non conservava nessuna illusione sul suo conto, ma nella provocazione di quell’atto e nel modo col quale si svolse avvertì un’offesa latente alla sua dignità di moglie, alla sua delicatezza di donna.
L’Agrati era scomparso. Si trovò, si sentì sopratutto, sola: macchinalmente i passi la portarono dietro a Filippo, non potendo staccare gli occhi dalla ignota che gli stava appesa al braccio con evidente abbandono, curiosa di mirarla in volto. La persona non era bella; meschina di forme appariva schiacciata sotto l’abito troppo ricco e quelle frangie d’oro ballonzolanti sulla magrezza delle scapole facevano pensare ad una scimmia vestita per la fiera.
Ella ebbe per un istante l’impulso di raggiungere Filippo, ma una breve riflessione la consigliò di restare nell’ombra e così inavvertita seguì la coppia nel giro che fece intorno alla sala, perdendola di vista ogni tratto, ritrovandola, osservando con quale leziosaggine la ignota parlava a Filippo e come egli sorridesse compiaciuto. Una frase le giunse all’orecchio intera: “Ah! Cònsolo, come mi piacete! Troppo. Siete pericoloso!„ La risposta di Filippo le sfuggì.
In quel mentre Guido Pesaro che attraversava la sala con sua moglie si fermò per presentarla alla signora Cònsolo. Non furono che poche parole scambiate sul modulo consueto delle presentazioni: un complimento, un inchino, una stretta di mano. La signora Pesaro tuttavia fu gentilissima; più attempata del marito, già molto bella e rifatta con un’arte squisita, ebbe per Minna così giovane e così semplice un sorriso pieno d’indulgenza che Minna accolse con gratitudine.
Intanto Filippo colla sua compagna erano scomparsi.
Minna sedette allora rassegnata in un cantuccio accanto ad una vecchia signora dall’aspetto imponente e dallo sguardo buono intorno alla quale si alternavano con segni di rispetto uomini e donne. Venne a riverirla anche il grosso Commendatore che sulla corpulenta persona portava un viso tondo da bamboccio e parlando aveva una maniera di atteggiare la bocca come se gli spuntasse una pipita sulla punta della lingua; tali particolarità congiunte all’aria di importanza che egli si dava lo rendevano buffo assai.
Minna ricordò l’epiteto col quale lo aveva definito Marco Agrati. Venne anche la piccolina vestita di grigio e recitò un discorso infiorato di eleganze retoriche; portava una catenella intorno al collo dalla quale pendeva una larga croce smaltata colla scritta: “Chacun porte sa croix„.
Ogni cosa che vedeva aveva per Minna l’interesse che alle menti aperte e riflessive dà lo svolgersi della vita umana nelle sue molteplici manifestazioni; comprese quelle che sembrano le più lievi e sono talvolta le più significative.
Osservando e ascoltando ella aspettava che suo marito ripassasse e nel guardare l’andirivieni della folla aumentata da nuovi sopraggiunti si accorse che altri locali dovevano essere annessi alla grande sala del banchetto. Pensando di incontrare più presto suo marito, Minna si diresse dove vide una porta aperta in mezzo a due tende di velluto e fatti pochi passi appena incespicò quasi nello strascico dell’abito verde sciorinato a’ piedi di un piccolo divano. Là il suo sguardo si incontrò direttamente collo sguardo di Filippo.
Erano seduti tutti e due in intimo colloquio. Minna potè finalmente scorgere la donna in faccia, pallida, scialba, con un segno di scrofola sulla guancia sinistra, ma così animata dal desiderio di piacere, così scintillante di brio che ne scendeva quasi un velo sulla sua bruttezza. Il suo corpo di rachitica viziosa si piegava in una mossa felina di straordinaria audacia e la sua voce dalle cadenze teatrali parlava, parlava, parlava...
Minna arrossì e per un intimo senso di pudore distolse subito gli occhi; non però senza avere prima ricevuto l’urto degli occhi di Filippo che rimasero fissi su di lei con una intenzione di scherno della quale sentì tutto l’oltraggio. E passò oltre, meravigliata di non soffrire, col cuore fatto di ghiaccio, insensibile.
Aveva detto bene all’Agrati, non pativa di gelosia. Il suo amore per Filippo era morto intero e tutte le ferite che egli le infliggeva secondando un cieco istinto di vendetta non colpivano che un cadavere.
— Se Dio vuole, eccola!
L’esclamazione ingenua fu pronunciata alle sue spalle mentre tornava nella sala grande. Si volse e vide Stello. Quella faccia leale di amico non le fu mai tanto cara.
— Dove è stata fino ad ora? – chiese il giovane con schietto accento di rammarico. – A pranzo eravamo talmente lontani che mi fu impossibile neanche di vederla... E dov’è Filippo?
— Lo ignoro – disse Minna abbozzando un mezzo sorriso – non è di prammatica che in società marito e moglie stieno divisi? C’è tanta gente qui!
— Sì, è vero, troppa! L’idea prima di festeggiare Daisini è stata soffocata da una quantità di altre idee, interessi, desiderî che ne mutarono completamente il carattere. Le signore hanno vinto la loro battaglia. Ha osservato quante signore?
Minna interruppe:
— Ve n’è una vestita di verde... con frangie d’oro... era seduta dirimpetto a Fillippo...
Stello crollò il capo.
— Non so. Non guardai nessuno.
La frase in sè non aveva nulla di speciale ma parve a Minna che il giovane vi rinchiudesse un pensiero nascosto che per il momento le diede una grande dolcezza. Ella trovava spesso così inaspettati conforti, lievi battiti d’ali invisibili, piccoli fiori che il turbine le lasciava cadere in grembo. Stello soggiunse:
— Ha almeno avuto un buon vicino a tavola?
— Agrati.
— L’avrà divertita coi suoi paradossi?
— Egli è tanto beffardo che mi intimidisce.
— Ma non è cattivo! Gli è accaduto come all’uomo che aveva voltata la pelle; non sa? È una leggenda tedesca. Un uomo era tanto sensibile agli urti della vita che ogni offesa gli penetrava addentro nelle carni a guisa di cilicio, finchè stanco di soffrire si rivoltò la pelle mettendo fuori tutte le spine che aveva dentro e allora toccò agli altri a pungersi ogni volta che lo avvicinavano. Marco Agrati nacque con tutti i doni dell’intelligenza e del cuore. Il destino gli fu avverso.
— Il destino? — fece Minna pensierosa.
— Sì, se è destino il bene e il male che ci portiamo dentro. di noi. Egli sentì forse esageratamente l’ebbrezza della sua gioventù e del suo ingegno. Vi è sempre nella vita di un uomo intelligente l’ora di delirio che gli fa sognare tutte le bellezze, tutte le perfezioni. È l’ora eroica. Poi sopraggiunge la verità che è molto diversa, e allora si sviluppa il senso critico, tanto più acuto in proporzione del disinganno sofferto. Non è cattiveria, non è malignità; è ultimo colpo del guerriero ferito a morte contro il nemico del proprio ideale. Agrati non ha potuto raggiungere la bellezza sognata e si sfoga a smascherare le brutture che vorrebbero vestirne la parvenza. E un satirico amaro che nasconde il naufragio di un sentimentale.
— E che cosa fa veramente l’Agrati? — chiese Minna con pietoso interesse.
— Che cosa fa? Nulla e tutto. Vive di giorno in giorno come gli uccelli. Per pagarsi il banchetto di questa sera digiunerà una settimana.
— Con tanto ingegno!
— Con tanto ingegno egli è ora un vinto della vita. Lo rode il più terribile dei disinganni, quello di sentirsi un uomo mancato. Non credo vi possa essere maggiore tristezza. Egli ha la coscienza di valere molto più di tanti arrivati alla gloria ed alla fortuna e insieme alla esasperazione del tempo perduto lo punge un’ironia continua che l’abitudine della critica inviperisce fino allo spasimo. Povero e caro Agrati!
Ciascuna delle parole di Stello si ripercuoteva risvegliando un’eco simpatica nel cuore di Minna. Parlando con lui, ascoltandolo, un senso di calma riposante le scendeva per ogni vena. Vicino a lui si sentiva protetta e compresa e nell’accordo di sentimenti che sempre li univa il suo amor proprio avvilito dal disprezzo di Filippo si rialzava con uno schietto palpito di gioia. In mezzo a quella società dove ella si trovava un po’ perduta e straniera l’incontro di Stello le parve un’àncora che la saldasse a un posto sicuro.
Stavano così dolcemente insieme quando furono raggiunti dall’Agrati che si unì a loro picchiettando subito la conversazione di osservazioni pungenti. Egli conosceva tutti e mentre gli sfilavano davanti li falciava ad uno ad uno con un colpo di lingua. — D’improvviso Minna gli domandò:
— Non ha veduto lei una signora vestita di verde.... con frangie d’oro.... piuttosto brutta....
— Che fa a Cònsolo una corte spietata? — completò l’Agrati tranquillissimamente.
— Oh! — proruppe Stello inquieto, osservando il volto di Minna che si era coperto di una vampa ardente.
— Ma non vuol dir nulla — soggiunse l’Agrati. — Vi è forse qualcuno che prenda sul serio quella cabotine?
La parola giunse nuova all’orecchio di Minna; ella guardò Stello in attitudine interrogativa.
— Zitto, — fece lui.
Cònsolo attraversava la sala dando ancora il braccio alla donna vestita di verde ed erano con loro tre o quattro uomini che la sguaiata traeva dietro alla sua parlantina inesauribile, vertiginosa, istrionesca, provocando l’uno, motteggiando l’altro, colla impertinenza temeraria di un monello che quando è al sicuro dagli scapaccioni si permette tutto.
— Pare impossibile, — disse Stello appena si furono allontanati, rispondendo ad una osservazione che aveva fatta dentro di sè, ma che non era difficile indovinare.
— La conosce? — chiese Minna.
— Solo di vista.
— È già una grossa disgrazia per i tuoi occhi — soggiunse l’Agrati.
— Minna proruppe con un calore che sforzò il freno impostasi durante tutta la serata:
— Ma infine chi è?
Marco Agrati in mancanza della canna si mordeva l’indice della mano.
— Una gran signora, — disse Minna ingenuamente — a giudicare dal gioiello che porta in dito.
— Giusto: una gemma falsa; ecco la sua qualifica esatta.
— E come si chiama?
— Gemma falsa, lo ha detto. Che importano gli altri nomi ch’ella può avere? Il suo vero nome è questo. Falsa nel gioiello da regina Saba così fuori di posto sulla sua mano di questuante; falsa nell’abito frangiato d’oro che ella scroccò certamente con basse genuflessioni e con arte funambulesca allo spoglio di qualche Dama compiacente; falsa nella seduzione in cui riesce col fascino morboso dell’orrido; falsa nell’ingegno che si atteggia a copia servile dell’ingegno altrui; falsa nelle amicizie dalle quali spreme tutto il possibile vantaggio e getta poi come buccia di limone quando non le servono più. Le basta?
Approfittando della pausa di Marco Agrati, Stello introdusse una parola di moderazione, allo stesso modo che si mette un cuneo nella fenditura di un albero che minaccia di cadere.
— Esageri forse?
— No, non esagero. È un fenomeno di improntitudine che ho studiato assai bene. Non sai che quella donna è capace di fare le capriole in piazza per ottenere un invito a pranzo?
— Pure è accolta dovunque — riprese l’anima candida di Stello.
Marco Agrati si abbandonò ad uno scroscio di risa convulse.
— Ah! ah! ah! Non sempre i signori ebbero giullari per divertirli? e non è ciò che il mondo fa sempre di trascurare gli onesti e credere ai farabutti? Tieni a mente ragazzo: Coi piedi si cammina sulla terra, colle ali nell’aria, colle pinne nell’acqua, ma strisciando si arriva in qualunque luogo. La vanità umana è tale da non risparmiare neppure le persone che per il loro ingegno dovrebbero essere immuni da tali mistificazioni, così si vedono tuttora le volpi scodate che fanno aprire il becco ai corvi vanagloriosi.
Era diretta a Cònsolo quest’ultima frecciata? Minna lo sospettò; e lei che non aveva provato prima il morso della gelosia sentì ora il contraccolpo della umiliazione che l’acuta critica dell’Agrati infliggeva a suo marito. Le doleva sopratutto che il discorso continuasse in presenza del discepolo divoto.
— Andiamo, — disse con una disinvoltura che fu sorpresa ella stessa di trovare pronta all’appello — andiamo a raggiungere Filippo. Egli ci sarà grato della liberazione.
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Un chiaro tramonto estivo metteva i suoi bagliori sulle torricelle aguzze della chiesa dei Protestanti; alto volava in cielo uno stuolo di rondini e gli alberi intorno davano un senso di frescura ai bimbi del vicinato che vi accorrevano con strilli e risa.
Chi passando a quell’ora da via Montebello avesse guardato ad una finestra dell’appartamento di Cònsolo la giovane madre affacciata, china amorosamente sul fanciullo che le domandava questa o quella spiegazione, e sullo sfondo della tappezzeria elegante proiettarsi a tratti l’austero profilo dell’uomo celebre poteva ragionevolmente pensare: ecco una famiglia felice.
Minna sola aveva il segreto di questa calma apparente, ella sola ne conosceva l’amaro prezzo d’onde veniva alla sua fronte quel raggio di divina malinconia, suggello che la vita imprime a tutti coloro che ne spremettero l’inebbriante veleno e non ne morirono ma ne serbano sul volto come un riflesso di stupore, come l’ombra della gran luce che la sofferenza quando è fortemente sopportata accende nelle anime con una pienezza intensiva dell’essere, con un senso della realtà per cui lo stesso dolore non appare più quale contrasto della gioia, sì bene parte integrante e indivisibile di una esistenza intera.
Erano giorni torbidi. Una improvvisa caduta del Ministero riapriva le elezioni dopo poco più di un anno dacchè le avevano chiuse. Le ambizioni sopite si risvegliavano agguerrite di nuova esperienza, col battito di speranze nuove che spiegano le ali. Intorno a Filippo qualcuno bisbigliava che il momento era giunto.
Quel medesimo mattino Stello vibrante di entusiasmo poneva sotto gli occhi del maestro la frase abbastanza significativa di una gazzetta della capitale: «Se avessimo avuto Filippo Cònsolo a ministro dell’Istruzione, come egli sarà certamente un giorno, lo scandalo attuale non sarebbe avvenuto». E Minna aveva visto impallidire sotto il superbo vaticinio il volto impassibile di suo marito. Ella conosceva bene quell’unico sintomo di una commozione che trattenuta da una potente forza di volontà saliva appena alla superficie dell’epidermide colorandola dei frigidi riflessi di un ghiacciaio.
Ora il bimbo, stanco di guardare dalla finestra, correva in su e in giù.
— Portalo via, — disse Filippo.
Minna lo attrasse a sè cercando di interessarlo a qualche gioco silenzioso.
— No, no — riprese Filippo con impazienza, — portalo via.
Ella si ritirò con suo figlio in un’altra stanza, ma tratto tratto la vivace natura del fanciullo prorompeva con un grido festoso o con un balzo che faceva tremare l’impiantito.
— Non potrò dunque liberarmi da quella seccatura? — gridò brutalmente Filippo schiudendo l’uscio.
Allora Minna disse al piccino:
— Vuoi che andiamo a passeggio?
La proposta fu accolta con gioia. Uscirono, madre e figlio, tenendosi per mano, risalendo corso Principe Umberto fino ai Navigli. Colà giunta, Minna rimase un istante indecisa se dovesse entrare nei Giardini, ma il Naviglio di via Senato la attrasse subito nel fascino antico e piegò verso quello oltrepassando le case signorili, i terrazzi vasti e chiari, colla mente fissa a una meta più lontana.
Anche il Naviglio di San Damiano, breve, senza carattere, con un solo giardino rammodernato, non le diceva nulla. Più avanti, più avanti!
L’ora era deliziosa. Una luce bionda ondeggiava nell’aria; tutta la festività delle dolci serate estive si rovesciava nelle vie; da ogni casa le finestre si spalancavano come polmoni avidi di ossigeno: fanciulle vestite di bianco apparivano e sparivano sui balconi lanciando nella brezza molle che li fasciava di morbidi vapori i trilli argentini delle loro risa.
Il ponte delle Sirene balza improvvisamente sull’arco del cielo, così infuocato laggiù verso Porta Romana, subito sopraffatto da una sfilata di catapecchie nere decrepite, cadenti, con certi veroncelli coperti di assi dove i grossi sorci e tutti gli insetti brulicanti intorno al Naviglio scavarono una tana, dove strisciano le formiche, dove martella il tarlo, dove canta il grillo, dove il ragno tesse e la mosca depone le ova e la zanzara fischia e la piattola a notte fatta batte le scaglie sul legno marcio che si sbriciola a poco a poco.
Da molto tempo, Minna non rivedeva più quei luoghi. Venendo dai nuovi quartieri di Principe Umberto il contrasto doveva essere forte; le parve in realtà che quell’angolo della vecchia Milano sopravissuto alle trasformazioni di un secolo fosse ancora più nero, ancora più cadente e decrepito di quanto le era sembrato in tutti gli anni della sua giovinezza passati fra quelle rovine. Eppure non provava alcun senso di ribrezzo; erano come vecchi amici diventati più vecchi, diventati più brutti, ma aventi ancora quella voce nota e nella voce la magica parola dei ricordi.
I piccoli giardini cupi, umidi, coi nodosi alberi protesi sulle acque del canale, coi muricciuoli scrostati piangenti stille di salnitro, con frammenti di antiche panchine, con traccia di scale distrutte, con scheletri di pergolati che furono e che ancora distendono i tenaci avanzi delle rame disseccate lungo i fianchi delle casupole che tante cose videro, ridestano nel cuore di Minna quale eco di fanfare lontananti nel tempo le visioni, le speranze, le sciagure, le lotte: tutto ciò che era stata fino allora la sua vita.
Piccoli giardini serrati fra alte case, poveri di fiori e ricchi di verde, piccoli giardini tristi e solitari, giardini abbandonati, giardini morti. Minna li guarda con profondo amore.
Le sue prime nozioni sulla campagna ella le aveva prese suggendo durante gli eterni pomeriggi delle estati milanesi la fresca umidità di quegli alberi, inebbriando lo sguardo nelle folte masse verdeggianti che le davano l’illusione di principii di foreste. Ella aveva cantato colle rondini che accorrevano in primavera ad appendere i nidi sotto gli embrici imbruniti di muffa; ella aveva scherzato colle farfalle che scarse e timide aleggiavano intorno alle glicini pallidamente rinascenti dai tronchi annosi. Quei poveri, quei tristi giardini erano un po’ suoi, erano parte della sua povera e triste giovinezza; ella non poteva rivederli senza commozione.
Procedendo lentamente nel suo cammino lascia a destra la balaustra barocca dei Visconti, a sinistra via della Passione in fondo alla quale rizza la fronte augusta il tempio su cui sta scritto: Amori et dolori sacrum.
Ed ecco il rozzo Ponte del Verziere, ecco di nuovo l’aureola smagliante, il padiglione d’oro e di porpora che il tramonto spiega sull’orizzonte del cielo, laggiù verso Porta Romana; ecco il ponticello dell’Ospedale, ecco il palazzo Sormani coi due platani gemelli, ed ecco finalmente la sua casa!
Sciatta, volgare, vecchia senza mistero, ignuda senza nobiltà, la vista di quell’ampio fabbricato dà a Minna una stretta al cuore; ma i draghi, i draghi vigili sull’alto tetto non sono forse ancora quelli che i suoi occhi innocenti avevano tante volte contemplato con un senso arcano di paura e di fascino? Ma il balcone, il balcone che sa, non si apre ancora alla brezza palpitante pregna dei pòllini rapiti ai vicini arbusti? E le acque del Naviglio non passano ancora lente, continue, riflettendo le case e le finestre e le piante che tremano sul lucido specchio come persone vive?
Minna avverte che il balcone è vuoto, chiuse le persiane, silenzio tutto intorno. Nessun indizio di altre esistenze le turba la maestà dei ricordi. Ella può vedere ancora se stessa in una sera di estate, una sera simile a questa, spiare da quel balcone il ritorno di Filippo e l’evocazione è così ardente, così precisa, che le si piegano i ginocchi, prossima a venir meno.
— Mamma.... — frigna il bambino.
Minna si riscuote; teme d’essersi allontanata troppo; ma no, il piccino è avvezzo a lunghe passeggiate.
— Sei stanco? — gli chiede teneramente.
— Sì, sono stanco.
— Molto, molto?
— Sono stanco.
— Torniamo indietro allora.
Tornano; lentamente perchè il bambino si fa trascinare e Minna ne studia con pazienza il breve passo. I suoi pensieri sono fuggiti, tale uno storno di uccelli cacciati dalla raffica. Ella non si occupa ora che di suo figlio.
Lo spettacolo dei fanali che si accendono ad uno ad uno raddoppiati dal riverbero dell’acqua distrae per un po’ di tempo il piccino; egli non intende staccarsene; vorrebbe scendere la scaletta del Naviglio per andare a toccare quelle belle fiamme nell’acqua.
Anche Minna le guarda attirata da un incanto che le memorie rivestono di indicibile fascino melanconico. Una frase pronunciata da Filippo nella notte fatale le attraversa la mente: “Io oltre gli abissi del cielo e delle onde intravedo l’infinito„. Che cosa aveva voluto dire? O piuttosto, che cosa aveva ella creduto di intendere?
— Ho un sassolino nella scarpetta — dice il bambino.
Minna tenta persuaderlo che non può essere, che non vi sono sassolini sulla strada.
— Ho un sassolino.
— Dove?
— Qui.
— Perchè dici che hai un sassolino?
— Perchè mi fa male.
— Cammina, cammina che non è nulla.
Il bimbo fa una ventina di passi e poi si arresta.
— Mi fa male qui.
Leva in alto il piedino e Minna si curva a guardare: scioglie la piccola scarpa, la scuote, la palpa per ogni verso.
— Vedi che il sassolino non c’è Docile il bimbo si lascia rimettere la scarpetta, ma dopo breve tempo torna a piangere in silenzio. Minna lo prende in braccio e lo porta per un lungo tratto. La gente che passa guarda quella giovane signora carica del dolce peso.
Ella non se ne avvede neppure.
Un po’ portandolo un po’ trascinandolo giunge a casa; lo sveste subito, lo mette a letto, osserva il piede che è leggermente gonfio, ma come il bimbo si addormenta placidamente Minna si tranquillizza.
Due giorni dopo a tavola il bambino è svogliato, rifiuta i cibi, strepita, piange.
— È insopportabile con questi capricci! — esclama Filippo. — Bisogna farglieli finire.
— Non ha ancora l’età della ragione — mormora Minna dolcemente.
— I freni incominciano dal giorno in cui si nasce.
— È vero, ma forse oggi si sente male.
Dicendo così Minna gli tocca la fronte, le guance, il collo.
Il bambino se ne schermisce con un atto dispettoso e strilla. Filippo infuria; egli infuria sempre contro il piccino alla più piccola occasione. Minna comprende istintivamente che tutto quel furore è un residuo dell’odio dedicato a lei, e più ancora della crudeltà contro se stessa la offende nel suo profondo sentimento di giustizia la bassa vendetta compiuta sopra un innocente; il suo concetto della responsabilità se ne accresce. Sentirsi necessaria alla sua creatura è uno stimolo che le raddoppia le forze nello stesso tempo che le dà la misura del suo potere. Filippo non le ispira più nessuna soggezione; ella ha verso di lui la deferenza della compagna, la gentilezza della donna educata, ammira ancora il suo ingegno, si inchina alla sua cultura; ma moralmente non lo riconosce suo superiore. La voce della coscienza la fa libera. Sente di poter contrapporre all’ideale ambizioso di Filippo un ideale d’amore infinitamente più alto e tanto basta alla sua fede.
La notte trascorre agitata. Il bambino si volta e si rivolta lagnandosi nel sonno. Ad ogni momento Minna balza dal letto per osservarlo. Ha le guancie accese e il respiro affannoso. Scotta. Certamente ha la febbre. Gli pone il termometro: trentotto gradi a mezzanotte; alle due del mattino sono trentotto e qualche linea; in seguito le linee salgono, salgono; trentanove e quattro segna il termometro quando l’alba imbianca il vano della finestra.
Minna sa che la febbre nei bambini è un fenomeno abbastanza comune; ciò che la inquieta è il mal di gola del quale si lagna il suo piccino. Lo spettro della difterite si affaccia subito al suo pensiero amoroso e corre alla camera di Filippo per sollecitarlo a chiamare il medico.
Egli accoglie con indifferenza la notizia che il bambino ha la febbre, ma non si oppone alla chiamata del medico.
Minna respira poiché il dottore accorso d’urgenza la assicura che i sintomi difterici non si riscontrano nelle fauci del piccolo ammalato; tuttavia le pareti interne della gola sono segnate da due striscie ardenti; il dottore chino sul letto procede ad una visita accurata di tutto il corpo, osserva, scruta, tocca, ascolta e non si pronuncia. Rizzandosi in piedi dopo l’attento esame senza distogliere lo sguardo dal volto febbricitante si limita a dire che si vedrà domani.
Minna spera; ma la notte che segue è cattiva, la febbre sale a quaranta gradi; il bambino accusa dolori dappertutto, le sue carni bruciano. Non può essere cosa lieve. In un attimo Minna passa in rassegna tutte le malattie conosciute, teme che il medico non comprenda, si dispera di non comprendere lei stessa e conta angosciosamente le ore che la separano dal mattino.
Il medico arriva con una puntualità che dà subito a Minna un istante di sollievo. La seconda visita è ancora più lunga e più minuziosa. Vi assiste anche Filippo.
— La difterite è assolutamente esclusa — chiede Minna che teme sopratutto quel terribile morbo.
— La difterite la escludo.
— Pure gli duole tanto la gola.... — soggiunge Minna. Segue una lunga. pausa; il dottore sembra incerto, guarda ancora le fauci arrossate, invitando Cònsolo a guardare:
— Vede, non vi sono placche difteriche.
Scopre il petto; osserva minutamente la pelle; esclama:
— Ecco!
Minna pende dalle sue labbra.
— I sintomi, — conclude il dottore ricoprendo il corpicino denudato — sono formali. Si tratta di scarlattina.
A tale annuncio Filippo che si trovava a ridosso del letto fa un rapido passo indietro. Minna se ne accorge e lo guarda in faccia. Egli è pallido.
— Meno grave, nevvero? — chiede ella al dottore.
I1 dottore si stringe nelle spalle:
— Lascia maggior tempo alla cura, ma il pericolo è uguale e il contagio anche.
Minna torna a guardare Filippo con insistenza, col bisogno crudele di sapere che cosa si agita sotto quel livido pallore che gli sbianca il volto quando è fortemente commosso. E forse l’amor paterno che si ridesta, od è....
Ella non ardisce formulare con una parola precisa l’odioso sospetto. Prende una mano del bambino, la bacia e porgendola al marito, dice:
— Senti come arde.
Minna, il dottore, il bambino guardano Filippo. L’istante è angoscioso.
Negli occhi di Filippo passa una fiamma tragica che momentaneamente lo deforma, ma subito ricomponendosi finge di non aver inteso l’invito e rigido, severo, autorevole, pronuncia, avviandosi verso l’uscio:
— Meglio lasciarlo tranquillo.
— Anche vile! — mormora Minna.
❧
Dopo quindici giorni di inquietudine dolorosa e di notti vegliate al capezzale del piccolo infermo Minna riposava sulla poltrona accanto al lettino; riposava, confortata dalle parole del medico e dall’andamento della malattia che seguiva il suo corso regolare.
Non dormiva però Minna; stava appena cogli occhi chiusi, colla testa appoggiata alla spalliera della poltrona, le belle braccia allentate sul grembo in una posa di abbandono e di acquietamento dove i suoi nervi tesi dall’ansia di quei giorni e dalla fatica di quelle notti si ritempravano in una soave morbidezza. Le sembrava di riposare in fondo a un’acqua tranquilla che la avvolgesse tutta di un velo dolcemente isolatore per cui nessuna delle pene consuete le molceva più il cuore fatto obblioso in quel torpore benefico.
Una voce nota la scosse. Era Stello che dall’anticamera chiedeva notizie del bambino alla domestica. Minna felice di poterle dare migliori balzò all’uscio per rassicurare lei stessa l’amico che aveva preso parte vivissima al suo dolore.
— Dunque sta proprio meglio?
— Sì, sì.
— Fuori di pericolo?
— Credo.
Stello sembrava esitante a formulare una domanda. Minna lo prevenne.
— Desidera vederlo?.... Non ha paura per il contagio....
— Oh! signora! — fece Stello sorridendo. — Le pare che io debba temere ciò che lei non teme?
Un’ombra oscurò la fronte di Minna, nè Stello poteva indovinarne il perchè. Soggiunse per uno scrupolo delicato:
— Se non disturbo.
Minna sorridendo schiuse l’uscio ed il giovane entrò dirigendosi subito al lettino del bimbo con affettuosa sollecitudine; solo dopo averlo salutato e accarezzato parve cercare qualcuno nella camera.
— Credevo che Filippo fosse qui.
Minna si guardò bene dal dire che Filippo non entrava mai. Rispose semplicemente:
— È uscito.
— Più presto del solito.
— Sì, è uscito col cavaliere Serpilli.
— Il cavaliere Serpilli? Non ho mai udito questo nome.
— È un nuovo amico di Filippo.
— Deve essere nuovissimo poichè non ne so nulla affatto. Chi è?
— Lo ignoro. arrivato ieri.
— Un professore?
— Non crederei. Viene da Roma. Parlano sempre di politica; mi pare si tratti delle elezioni.
Stello si mostrò meravigliato.
— Crede lei che Filippo pensi sul serio a presentarsi? — chiese Minna.
— Noi tutti lo vorremmo; ma nel collegio dell’altra volta la riuscita è troppo incerta per non dire impossibile. Il partito contrario è compatto e da una seconda sconfitta il nome di Cònsolo uscirebbe diminuito. Egli ha già dei nemici che lavorano in segreto a denigrarlo.
— Vi sono altri collegi.
— Uno solo accoglierebbe Filippo, quello di Daisini. Capirà che non se ne può neppure parlare.
Un movimento del bambino attrasse tutta l’attenzione di Minna. Anche Stello ricondotto allo scopo della sua visita si curvò sul guanciale del piccolo ammalato.
— Mi pare che la febbre ritorni — mormorò Minna improvvisamente.
Andò a prendere il termometro e lo pose sotto il braccio del figliuoletto che si prestava docilmente a tutte le cure, immobilizzato dalla stessa debolezza, abbandonandosi colla fiducia intera che solo le madri sanno ispirare.
Durante l’attesa silenziosa e grave Stello girò lo sguardo intorno. Non era mai entrato in quella camera, non vi sarebbe entrato mai senza la malattia del fanciullo. Era la camera di Minna. Pensò: “È la sua camera„, e subito l’occhio la percorse con uno sguardo che sembrava accarezzarla, sorvolando con timido ed appassionato pudore il letto che si allungava accanto al lettuccio del bimbo, il lavabo scintillante di lucide porcellane, lo specchio che accoglieva la sua immagine, l’armadio custode delle sue robe, i candidi lini stesi su alcuni mobili, ricamati da lei, penetrati dal fresco profumo di nettezza assoluta che era il profumo stesso di Minna, simile in ciò alla fragranza dei fiori alpini scevri di acuti e conturbanti aromi ma sui quali i venti e le nevi immacolate agitano la freschezza delle loro ali.
— Una linea appena — disse ella scuotendo il termometro.
— Una linea non ha importanza — si affrettò a soggiungere Stello.
— Temo sempre.
Ella sedette al capezzale del bimbo tenendo le pupille fisse sul caro viso leggermente arrossato e tanto assorta nell’ansiosa contemplazione che Stello non osò interromperla nè per parlare nè per accomiatarsi.
Guardava distratto il tavolinetto dove stavano allineate in bell’ordine le fiale e gli involti delle medicine, ma tutta la sua attenzione era sospesa intorno a lei con una immobilità che sapeva di incanto.
La luce di una lampadina elettrica velata di seta celeste dava alla camera una intonazione di notte lunare che si prolungava fuori della finestra aperta sulla via in quell’ora silenziosa e muta. Faceva caldo, eppure in confronto della giornata che era stata caldissima la brezza serotina umida delle piante e delle acque circostanti infondeva un senso di benessere un po’ languido, di una dolcezza voluttuosa che prendendo Stello improvvisamente lo dominava a sua insaputa in quella camera dove una giovane donna aveva sparso i segreti più sottili della sua femminilità, dove ella stessa appariva nella penombra del torsello fluttuante e vaga quasi visione sorta da profondi desideri inconfessati.
Olezzi di giardini lontani, sorriso di cieli imprecisi, musiche, onde, armonie di colori, ritmi inafferrabili eppure deliziosi, tutto un tumulto di immagini si affacciava alla ridesta sensibilità di Stello.
Era come un tallire di germi che lungamente compressi sbocciavano alla prima vampata di sole; ed erano in realtà vampe brucianti che gli salivano al cervello da ogni più remota fibra sbattuta e percossa nell’impeto di una commozione come mai avea provata l’eguale.
A un tratto Minna disse piano: “Dorme„: e nel gesto che fece per rimboccare il lenzuolo sulle spalle del bimbo il raso bianco delle sue braccia sfuggì al leggero accappatoio che le ricopriva descrivendo una curva piena di grazia.
Rimase un solo istante in quella positura, ma Stello che la guardava ne ebbe una vertigine e come uno smarrimento dolce e profondo che lo tenne fra il sogno e la realtà in possesso di quel tanto di ragione che bastava appena a fargliene godere l’oblio di minuto in minuto più avvolgente.
— Dorme? — ripetè egli movendo qualche passo per dominare il proprio turbamento.
— La febbre non cresce — rispose Minna.
— Non tornerà più, vedrà. Il periodo ascendente è chiuso. Ora è questione di un po’ di pazienza.
Ristettero in piedi a contemplare il bambino. Stello esclamò con appassionata ammirazione:
— Come le somiglia!
— Nevvero? — soggiunse Minna soavemente compiaciuta mentre si curvava sul pargoletto a ravviargli una ciocca di capelli.
Stello, seguendo cogli occhi la piccola mano, pensava da quanto tempo egli la conosceva. Da cinque, da sei anni? Quante volte l’aveva veduta la piccola mano della ricamatrice levarsi a volo col lucido ago? Quante volte quella dolce figura di donna gli era apparsa nelle ore più solitarie della sua melanconica giovinezza a portargli il sollievo di un’anima sorella! E poi.... e poi....
I ricordi si confondevano nella mente di Stello: certe inflessioni di voce, certe sfumature nello sguardo, un gesto, la foggia di un abito lo avevano a tratti impressionato. Un giorno Minna si era pronunciata in favore delle viole mammole, ed egli non aveva più potuto guardare un mazzolino di mammole senza pensare a lei. Oh! se fosse stata sua sorella! Per molto tempo lo desiderò. Ora non più. La parola affettuosa e calma, la parola sorella urtava il nuovo stato del suo animo. Egli non la vedeva più cogli occhi di prima. Egli soffriva ora vicino a lei, pur sentendosi felice, di una sofferenza inesplicabile che raggiungeva quella sera il delirio. Comprese la necessità di allontanarsi; lo comprese senza potersi muovere, senza saper trovare una frase di congedo.
Fu ancora Minna che venne in suo aiuto porgendogli la mano; ma nel toccare quella di lui avvertì una tale sensazione insolita, un calore e un freddo insieme, una specie di brivido interno che la fece esclamare:
— Anche lei, mi pare, ha la febbre.
— No no — disse prontamente il giovane più confuso che mai.
Minna lo guardò, vide il suo pallore, vide il suo turbamento e tacque. La rivelazione fulminea la commosse. Compianse lui, compianse se stessa. Poi con voce maternamente soave, un po’ malinconica, con una lagrima occulta, forse, soggiunse nel modo il più semplice e pacato:
— Buona notte, signor Stello.
— Buona notte signora — rispose Stello colla gola stretta. — Domani il bimbo starà bene, vedrà, coraggio!
— Confido in Dio.
Stello esitò un istante sulla soglia dell’uscio. Gli sembrava di avere altre cose a dire per il bimbo, per Filippo. Balbettò invece ancora: «Buona notte!» e uscì a precipizio.
Rimasta sola accanto al figlio addormentato Minna cercò di riafferrare quel dolce torpore che l’aveva invasa in prima sera; cosa che non le fu possibile. Troppi sentimenti affluivano al suo cuore e vi cozzavano in stridenti contrasti. L’ironia del destino le si presentava ancora una volta nella forma crudele di una offerta che ella non poteva accettare. Un sospiro profondo e tenero le sollevò il petto: Povero Stello!
Ma il suo proprio dolore, il tiranno di tutti gli istanti, voleva la sua preda. Dovette ritornare ad esso.
Abitualmente Filippo o non usciva o rincasava presto; solo da qualche giorno le sue assenze si prolungavano, nè Minna fino allora vi aveva fatto caso, ma dalle poche parole pronunciate da Stello quella sera la sua attenzione era stata ridesta ed ora cercava di spiegarsi le nuove abitudini di Filippo.
Sempre esiliata dal di lui pensiero, Minna quasi non se ne rammaricava più poichè con un inconscio processo di ape che dai fiori sparsi sugge il nettare ella aveva già tratto dall’incontro di quella lucida intelligenza tanto da fabbricarsi un suo alveare a parte, dove era malinconicamente felice, ma pur felice in qualche modo; e riconoscendo di dovere a Filippo il primo impulso a salire le bastava questo vincolo, benchè indiretto, per sentirsi solidale in tutto ciò che egli avrebbe fatto. Con lui senza di lui; era il motto implacabile e fiero che ella si era scelto e che teneva gelosamente custodito in fondo al cuore.
Con lui senza di lui: pensava Minna e ripeteva a bassa voce nel silenzio profondo della sua camera dove il bambino dormiva così lieve che non se ne udiva neppure il respiro. Con lui: come lo aveva conosciuto; come lo aveva sognato, ardente e puro nel suo nobile intelletto, nel fascino di un ideale superbo. Senza di lui: disamata, misconosciuta, reietta.
Uno scatto rapido, ispirato tanto da un impeto di sdegno quanto dal bisogno di affermarsi indipendente e forte, portò Minna al davanzale della finestra e di là sollevò la faccia verso il cielo magnificamente stellato che le diede subito una sensazione fisica di sollievo, mentre i suoi occhi scrutando l’impenetrabile volta andavano in cerca di più sottili e più intimi contorti.
Finalmente il passo di Filippo risuonò sul lastrico; Minna si ritrasse dal davanzale movendogli incontro nell’attiguo salottino. Egli era accigliato e torbido più del consueto. Non la vide o finse di non vederla.
— Sta meglio, — disse Minna alludendo al bambino.
Filippo non rispose subito.
— Ho temuto per un istante che gli tornasse la febbre, ma non venne. Ora riposa tranquillo.
— Bene, bene.
Filippo pronunciò in fretta quella sola parola ripetuta due volte quasi a levarsi dal fastidio di cercarne altre e buttando sulla tavola alcuni giornali che teneva in mano si ritirò prontamente nella sua camera. Minna per abitudine di ordine prese quei giornali e stava riponendoli nell’apposito scaffale quando le cadde lo sguardo sopra un segno di matita azzurra tracciato a fianco di un articolo. Lesse:
“Nei circoli che si pretendono all’avanguardia delle informazioni si parla molto di un celebre professore di cui oggi non vogliamo fare il nome aspettando che egli posi la sua candidatura per combatterla a oltranza. Rammentiamo appena che la sua audacia superba parve genio un giorno ammantata com’era di solida cultura (siamo troppo onesti per negargli tal merito), ma sopratutto di un delirante sogno di conquista. E si impose. Fu preso sul serio; ebbe onori, popolarità, quattrini. Sta bene.
“Ma che quest’uomo di lettere già beneficiato di un premio non indifferente, questo pontefice di idealismo nebuloso già in possesso di una bigoncia voglia dare la scalata al Parlamento e da topo di biblioteca quale sempre fu pretenda trasformarsi in aquila alata e in leone battagliero per la felicità dell’Italia, questo poi no.
“Non è di ambiziosi che abbisogna il paese, non di aridi condensatori di frasi che già ne abbiamo troppi e degli uni e degli altri. L’uomo che noi appoggeremo non è necessario che sia un dotto; anzi meglio è se uscito dalle viscere del popolo avrà conosciuto l’aspro lavoro quotidiano, e più che le dottrine imparaticcie si possa ammirare in lui l’indipendenza del carattere e quella alta coscienza che di fronte agli urgenti problemi umanitari sia disposta a immolare ogni suo orgoglio, ogni suo egoismo, rispondendo così alla fiducia che gli elettori riporranno in lui.
“È il celebre professore quest’uomo? Ripetiamo di no. Costui appartiene alla categoria degli idealisti a freddo, cerebri senza cuore o aventi il cuore di Prometeo eternamente roso da un orgoglio sterile, utili qualche volta come allenatori e suscitatori di entusiasmi, ma incapaci essi di dare un solo palpito di sè stessi agli altri uomini„.
Intanto che leggeva, Minna si sentiva affocare le guancie. Il ritratto buttato giù con mano rude e pesante era tuttavia di una somiglianza che non poteva sfuggire a nessuno. Che cosa ne aveva pensato Filippo?...
❧
Filippo, chiuso nella sua camera, impartiva ordini precisi per non essere disturbato. Al medico che faceva ancora una visita di quando in quando per il bambino, oramai guarito, Minna disse quel giorno:
— Mio marito non sta bene, non so che cos’abbia.
E alla sera, quando venne Stello all’ora solita, Minna ripetè la sua frase dubbiosa e inquieta. Stello se ne impressionò vivamente non ignorando la sorda guerra che si preparava intorno a Filippo. Volle forzare la consegna, ma appena entrato nella camera di Cònsolo ne uscì quasi subito turbato e sconvolto mormorando:
— Sì davvero, deve sentirsi male.
Intuì Minna che suo marito si era lasciato sorprendere da uno di quegli scatti di violenza che ella sola finora gli conosceva. Si affrettò a soggiungere:
— Non vuole confessarlo per forza d’animo, ma soffre. Le assicuro che soffre, che è realmente ammalato. E poi deve avere ben gravi preoccupazioni.
— Il mondo è triste, — gemette Stello con accento di chi parla a sè stesso.
— Non ignoro ch’egli ha dei nemici.
— Ah! — fece Stello — speravo che questo dolore le fosse risparmiato.
— Perchè? È meglio conoscere tutto. Io non ho paura del dolore.
Il giovane abbassò la fronte in atto di umiltà, ripreso dalla ammirazione che già altre volte gli aveva ispirata quella donna e che lo faceva ora vergognare di non sentirsi sempre forte vicino a lei. Dopo qualche istante di silenzio soggiunse:
— Il dolore sarebbe sopportabile se non fosse così spesso congiunto all’ingiustizia.
— Pure l’ingiustizia è legge della vita.
Minna aveva pronunciate queste parole con sì accorato convincimento che Stello si sentì dare un tuffo nel sangue.
— Ma allora?
— Allora bisogna accettarla.
Riflettè un secondo, corrugando le ciglia, colle labbra strette e disse ancora:
— Andare oltre.
Pianissimo Stello chiese:
— Fin dove?
Ella tracciò colla mano un gesto lieve nell’aria, un gesto che accennava lontano, che staccava i loro pensieri.
Colla acutezza della sua sensibilità eccitata Stello avvertì l’ostacolo non nuovo sorto fra loro due, fatto o persona che egli ignorava, ma di cui sentiva la misteriosa esistenza che tanta parte gli toglieva di quell’anima e nell’ansia di riafferrarla volle riportare il dialogo allo stesso punto da cui aveva preso principio.
— Filippo soffre realmente degli attacchi che gli si muovono in questi giorni. Sono feroci; forse egli non li conosce tutti.
— Lo chiamano uno sterile orgoglioso — disse Minna con amarezza.
— Quest’è l’invidia che parla; ma quando vi si mischia la calunnia come nell’accusa di portarsi nel collegio di Daisini....
Si arrestò. Un moto di sorpresa gli fece comprendere che Minna ignorava tale particolare e volle deviarne l’attenzione soggiungendo presto:
— Impossibile occuparsi di tutto quello che dice e fa la gente.
— Si dice dunque che mio marito aspira al seggio di Daisini? — interruppe Minna con accento risoluto. — Sarebbe una cattiva azione non è vero?
— Non ci pensi un solo istante! — gridò Stello con fuoco. — Tanto varrebbe supporlo ladro o traditore. È una assurdità come appena la può concepire la mente briaca di un avversario politico. Chi lancia simili accuse fa a fidanza sulla striscia che il male si lascia sempre dietro; la calunnia è come il carbone; per quanto si pulisca una macchia di carbone ne resta tuttavia qualche cosa, un’ombra, una traccia, una diminuzione di candore. Si sa benissimo che la verità deve venire a galla, ma intanto il sospetto s’insinua, serpeggia, tiene gli animi sospesi ed è tutto guadagno per i maligni. Lasciando da parte l’atto indelicato verso l’amico che diminuirebbe l’alto concetto in cui tutti teniamo Filippo, quale gioia nel campo avversario che vedrebbe così disperdersi sopra due nomi i voti da tanti anni raccolti intorno a Daisini! Assurdo, assurdo, assurdo!
Nella foga improvvisata il giovane non si era accorto del mutamento avvenuto sul volto di Minna, della fissità del suo sguardo e di una ruga profonda che la concentrazione sopra una visione interna veniva scavando sulla sua fronte.
— Lei non ha parlato di ciò a Filippo? — chiese a voce bassa, un po’ rôca.
— Ma le pare? Si potrebbe riderne se Filippo fosse un uomo allegro. Sul serio, me ne vergognerei. Non ci pensi, le ripeto. Molto probabilmente non si troverà neanche questa volta il collegio per Cònsolo, ma nè egli vorrà accorarsene, nè i suoi amici perderanno fede.
L’intrepida difesa di Stello passò come una dolce carezza fraterna sul cuore di Minna. Lui partito però il dubbio che le si era sollevato nella mente crebbe.
Avvicinando il contegno di Filippo alle visite di quello sconosciuto che fin dal primo momento le aveva ispirato una segreta ripulsione, e col ricordo di alcune frasi alle quali non aveva allora dato importanza ma che le si venivano schiarando a poco a poco, Minna credette di intravedere un corpo ben vivo e reale sotto la calunnia combattuta ingenuamente da Stello.
Colla nessuna pena che Filippo si dava per nascondersi agli occhi di Minna ella non poteva ignorare i fermenti della sua ambizione delusa nello scacco delle ultime elezioni.
L’altalena degli accasciamenti, delle ire subitanee, delle cupe preoccupazioni, degli scatti ingiustificati, tutte le debolezze, tutte le defezioni che sfuggivano agli amici ed agli ammiratori l’umile donna vedeva e raccoglieva tacitamente perché una donna può sempre scorgere un lato dell’uomo che gli altri uomini non sanno vedere.
L’amore medesimo di cui ella avea circondato Filippo la collocava in una situazione speciale, le conferiva speciali diritti. Chi lo aveva adorato con eguale tenerezza se non forse Stello? Pure Stello non conosceva gli spasimi di due anni di desiderio e l’olocausto di se stessa compiuto in un istante, e le lagrime, e lo strazio di una vita spezzata per sempre. Stello credeva ancora.
Ma lei che aveva visto cadere giorno per giorno tutte le illusioni, lei che aveva raccolta la sfida lanciatale senza alcuna pietà per la sua debolezza, e poichè era andata fino al fondo d’ogni esperienza in cerca della verità, lei poteva guardare in faccia il suo destino senza tremare.
Filippo Cònsolo trovavasi al bivio di colui che posta troppa fidanza nelle forze della giovinezza vede travolgere l’onda precipitosa degli anni senza avere ancora afferrato il suo sogno di conquista e deve decidersi fra il morire puro o il vincere a qualunque patto. Quale delle due vie avrebbe scelta?
Minna si era coricata agitando nella mente questi pensieri che le impedivano di prender sonno quando uno squillo prolungato del campanello in camera di suo marito la colpì di un segreto terrore.
Accorsa prontamente trovò Filippo che smaniava nel letto cogli occhi ardenti di febbre.
Aveva rotto il suo orologio da tasca, voleva sapere quante erano le ore e che giorno del mese fosse; fece altre domande ancora, saltuarie, slegate, lagnandosi di un forte dolore al capo e respingendo tutte le cure che Minna volle prodigargli.
Alla veglia angosciosa seguì una giornata di lotta per indurre Filippo a ricevere la visita del medico. Non voleva essere ammalato, non era stato ammalato mai: gli sembrava che la sua volontà dovesse dominare le insidie del morbo. Bello di una violenta bellezza che gli accentuava le linee del profilo accendendo bagliori di lampo nella lama gelida delle sue pupille, tendeva le braccia con un gesto di atleta quasi ad allontanare da sè l’invisibile nemico. Stello che non volle aspettare la sera per avere notizie lo trovò in questo stato.
— Egli pretende di alzarsi, — disse piano Minna — ma non può. Guardi quegli occhi!
Stello propose di mandare a chiamare il medico senz’altro, senza domandarlo a Filippo. Andò anzi lui stesso.
Il medico era assente per un consulto. Minna attese d’ora in ora, di minuto in minuto fino a notte, fino all’alba. All’alba accorse Stello di nuovo e mentre tutti e due in preda alla più grande agitazione decidevano di chiedere soccorso altrove, venne.
Filippo giaceva assopito; al periodo di esaltazione essendo subentrata una fase di abbattimento con sintomi vari, complicati, oscuri. Anche il giorno dopo la malattia non si era dichiarata. Persisteva un complesso di dati contradditori che visibilmente imbarazzavano il medico facendogli temere il procedimento di un male sinuoso e coperto dove la scienza correva tutti i rischi dell’impreveduto.
Minna intanto aveva preso il suo posto al capezzale di Filippo, il quale nei momenti più lucidi le chiedeva insistentemente se fosse venuto Serpilli; e alla risposta negativa si mostrava così contrariato che Minna stava fra mille crucci ripensando alle parole di Stello e agli attacchi dei giornali. Quando finalmente un giorno Serpilli giunse, ignaro della malattia, ella lo introdusse con una segreta ambascia dove era pure un vivo desiderio di verità e di luce.
— Vedi? — gridò Cònsolo appena Serpilli apparve sulla soglia — eccomi ferito prima ancora di dar battaglia.
— Brutto contrattempo — rispose Serpilli con una voce secca che Minna trovò sommamente spiacevole. — Come si farà col discorso agli elettori?
— Oh! se non è che questo, — fece Filippo, — io spero di trovarmi in piedi fra un paio di giorni. Sono già preparato.
Qui Filippo pronunciò una frase che si perdette nel rumore di un oggetto caduto a terra. Minna raccolse l’oggetto e lo depose delicatamente al posto, indugiandosi a ravviare alcune cose qua e là, con passo lieve, non avvertita dai due uomini che la dimenticarono completamente seguitando a parlare tra loro come se ella neppure esistesse.
Per questo nessun conto che suo marito faceva di lei Minna posta sull’avviso potè raccogliere dal colloquio di Filippo collo sconosciuto la certezza assoluta che stavano preparando una candidatura Cònsolo da opporre alla vecchia candidatura Daisini.
L’ambizione di Filippo stanca di aspettare non temeva di attaccarsi all’amico collegandosi a un gruppo de’ suoi avversari.
Il banditore di magnanimità, l’idealista, l’eroe, gettava a un tratto la maschera. Avrebbero veduto tutti il suo volto livido di orgoglio insaziato, ma sarebbe giunto. Era quello che voleva. Quale ambizioso ha mai discusso sui mezzi per arrivare?
“Tanto varrebbe supporlo ladro o traditore„ aveva detto l’ingenuo Stello; ed era ladro era traditore. I dolori passati, le ansie, l’inganno, le umiliazioni, il dispregio, tutto si allontanava, sfuggiva, scompariva dinanzi a questo orribile vero.
Minna ne fu atterrita. Non era più la sua persona, non era il suo amore e la sua felicità che naufragavano; era l’onore di Filippo, era quella fede in una suprema bellezza per cui gli si era data umilmente senza rimorso, per cui tanti giovani cuori prima di lei, dopo di lei lo avevano seguito in una via di ascensione che il tradimento di Filippo doveva spezzare forse per sempre.
Alle sue lagrime segrete si sarebbero aggiunte le lagrime di altri disillusi, il disinganno avrebbe tentato altre fedi; altre coscienze meno salde della sua sarebbero insorte negando, e così la propaggine del male esempio diramato giù per la china avrebbe investito, abbattuto, distrutto ciò che Minna aveva amato al mondo più ancora che l’amore.
Sola al capezzale di Filippo nella notte che incombeva lenta e solenne Minna stava quale statua composta, fermo lo sguardo e tranquillo, ma dietro il solco profondo della sua fronte il pensiero roditore scavava, scavava.
Eccole adunque dinanzi disarmato, vinto forse, l’uomo che un istante di oblìo gettava nelle sue braccia e che non le aveva perdonato mai di essere stata l’involontario incentivo della propria debolezza. Dopo sette anni di umiliazioni e di sprezzo non era ancor sazio l’odio che dall’orgoglio ferito del maschio sgorgava in polla velenosa sulla donna inerme e l’indistinta sensazione di averlo finalmente in suo potere gonfiava di una linfa generosa il petto di Minna, quasi tesoro di promesse gioie, quasi porta dischiusa sopra una interminabile fuga di nuove ascensioni.
Lo vedeva assopito nel torpore della febbre, colla testa riversa sul guanciale, non dòma ancora eppure già sfiorata da un’ala invisibile che gettava un’ombra sulla rigidezza fiera dei lineamenti. Era nelle sue mani; lui così forte, lei così meschina! Una pietà la prese, improvvisa per quel disfarsi di una forza che si era atteggiata a dominatrice degli eventi e che cedeva sotto la percossa proditoria di una debolezza latente, corrosa nella profondità delle sue radici, minata nell’intima essenza del suo orgoglio, agonizzante per un ultimo ironico insulto dinanzi a lei, alla mercè sua!...
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Il medico veniva due volte al giorno inquieto per l’andamento subdolo della malattia che faceva presupporre un focolare d’infezione interna e nella attesa che si manifestasse aveva ordinato tranquillità assoluta e vigilanza continua.
Appena Stello, l’amico fedele, era ammesso per pochi istanti sulla soglia della camera, ma quanto alle cure da prestare all’infermo Minna respingeva qualsiasi aiuto. Provava una voluttà sottilissima a trovarsi sola con Filippo, a reggerlo tutto sulle sue braccia, a tornare quasi ad amarlo di un amore immateriale dove tutto l’aroma della sua anima sembrava esalare nell’attesa di un’ultima dedizione.
Che cosa poteva fare ancora per lui? — chiedevasi appassionatamente, guardandolo muta con una intensità di espressione che l’assenza del di lui sguardo rendeva più sicura e che sembrava ridare al suo cuore il battito alato dei primi tempi, quando lo amava senz’averlo veduto, solamente per udirne la voce che ne ridiceva gli alti pensieri.
Suggestionata dal silenzio raccolto della camera che sembrava isolarla da tutto il suo passato, ella giungeva a dimenticare i torti di Filippo, e rifarlo invitto nella sua corazza di eroe. Perchè non si compirebbe il miracolo? Non ardeva il suo cuore come ara? Non era pronta la sua fede? Che cosa, che cosa l’aspettava ancora?
Verso il sesto giorno Filippo parve uscire dal torpore e subito chiese notizie di Serpilli. Minna non gli disse che era venuto parecchie volte, ma quando Filippo volle vedere le lettere giacenti ella tentò bensì distoglierlo da questo pensiero, ma poichè la contrarietà lo irritava al punto da minacciare una crisi, dovette consegnargliele. Tra esse ve n’era una che Serpilli stesso aveva portata.
Febbrilmente, con una forza che gli veniva dalla eccitazione nervosa, Filippo allontanando colla mano le altre lettere dopo averne scorso in fretta con l’occhio la soprascritta, si concentrò tutto in quella di Serpilli. Via via che leggeva i suoi occhi si accendevano, dilatavansi le sue nari col movimento meccanico del puledro che aspira fin dai primi passi la vertigine della corsa e sulle sue guancie, delle quali la malattia non aveva peranco intaccate le nobili linee, Minna che lo osservava attentamente vedeva diffondersi quello speciale pallore azzurrognolo che era in lui il segno sicuro della commozione.
Subito, quasi temesse di perder tempo, Filippo chiese una penna. Pensava Minna ad un breve biglietto di risposta, ma quando vide che sotto le dita rattrappite di Filippo le pagine si andavano accumulando divenne inquieta. Volle osservargli la prescrizione medica dell’assoluto riposo, ma non mostrando neppure di averla intesa egli continuò a scrivere. La mano gli tremava un poco; a un certo punto piegò la testa quasi vinto dalla stanchezza, tuttavia non smise.
In capo a un’ora un fascio di fogli scritti giaceva sulla coltre. Piccole e fitte stille di sudore gli imperlavano la fronte.
— Smetti! — scongiurò Minna.
Gli occhi di Filippo sembravano due bracieri affondati in una fosca caverna; una striscia livida li cingeva tutt’attorno e livide erano le labbra serrate in uno sforzo supremo della volontà. C’era della grandezza nella lotta che quell’uomo sosteneva contro un nemico misterioso ad armi disuguali.
— Filippo.... — tornò a pregare Minna.
— Vattene! No, resta; dàmmi una busta.
La busta presentata da Minna era troppo piccola. Egli si impazientì tentando invano di farvi entrare tutti i fogli scritti: volle cercarne lui stesso un’altra nella cartella, ma di minuto in minuto il suo volto si disfaceva. Compì a stento l’atto di mettere i fogli nella nuova busta e mentre stava per apporvi l’indirizzo la penna gli cadde di mano. Minna lo udì mormorare con voce rôca dove ancora si drizzava come in un’ultima difesa l’imperio della sua volontà:
— Manda a Serpilli, subito, a Serpilli.
Minna ricordando in qual modo improvviso fosse morta la sua vecchia compagna si curvò piena d’ansia sul corpo del marito che giaceva esanime. Filippo respirava, era vivo. Tuttavia qualche cosa che non si vedeva, che pure era giunto e che riempiva la camera di un brivido pauroso diede a Minna la visione lucida dell’al di là; e ancora una sùbita tenerezza le sconvolse il cuore dinanzi allo sfasciarsi di tanta forza, uno struggimento, un’ansia di interrogare, di discendere negli abissi di quella sfinge che stava per sparire senza avere rivelato il suo segreto.
Come doveva essere tremenda la passione dell’uomo che agonizzava sotto i suoi occhi! Ella ne spiava le tracce sul volto contratto. Non forse egli aveva lottato disperatamente colla sua ambizione, e l’ambizione lo aveva travolto e moriva, forse, forse moriva di questo atroce conflitto? Poteva la sua piccola anima femminile, la sua dolce anima di amante comprendere ciò? Era sicura di averlo sempre compreso? E se non si comprende come si può giudicare?
Un gran dubbio che somigliava ad un rimorso scosse l’attenta coscienza di Minna risollevandone per un istante l’antica umiltà che la spinse a inginocchiarsi dinanzi al letto di suo marito. Che cosa avrebbe potuto fare per salvarlo? Lo chiedeva a Dio, a se stessa ed alla spoglia quasi inanimata di Filippo, disposta a ricominciare la vita per lui, a portare il proprio amore tanto in alto da raggiungere la di lui ambizione e assorbirla in un magnifico rogo d’amore.
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Stello ora non si muoveva più dalla casa di Cònsolo.
Consci del pericolo imminente gli amici, i discepoli, gli ammiratori urgevano alla porta per avere notizie. Un bollettino della malattia era stato deposto all’ingresso, ma non tutti se ne accontentavano. Volevano sapere, volevano vedere. Un malore così improvviso piombato sopra una virilità che sembrava fusa in una tempra d’acciaio sorprendeva tutti, anche coloro che non ne erano afflitti, anche i nemici.
Qualcuno propose un consulto e il consulto fu deciso e fatto immediatamente ma senza pratico risultato. Il medico consulente al pari del medico curante dichiarò di trovarsi innanzi all’enigma di un morbo ignoto.
L’ultima notte Minna che non aveva fino allora abbandonato il letto dell’infermo dovette sobbarcarsi a prendere alcune ore di riposo colla promessa che sarebbero venuti a chiamarla al primo sintomo di peggioramento. Infatti, verso l’alba, Stello subentrato a lei nella missione pietosa la fece avvertire che Filippo stava male.
Appoggiato ai guanciali, coll’occhio aperto e vitreo, Filippo non mostrava di avere conoscenza del proprio stato; ma quando vide Minna tutta la vita gli affluì allo sguardo e la fissò con tale insistenza che ognuno dei presenti e più che tutti Stello credettero a un disperato saluto d’amore. Solo Minna non cadde nell’inganno. Ella sapeva che suo marito pensava ai fogli scritti il giorno prima.
Filippo tentò allora di pronunciare qualche parola che gli uscì tronca dalle labbra mentre la luce delle pupille gli si spegneva a poco a poco sotto un velo d’ombra. Da quell’istante non riconobbe più nessuno. Pulsava ancora il suo cuore che già nell’intelletto si era fatto buio.
L’angoscia di Stello sfogavasi in singhiozzi. Non poteva, non voleva credere. Aveva troppo amato in Filippo il maestro, il duce, l’amico, e troppo lo aveva innalzato al di sopra degli altri uomini perché non gli mancasse con lui tutto un nucleo di forze spirituali che trascinavano, cadendo, la rovina di ogni sua speranza e calpestavano le rose più pure del suo sogno giovanile.
Erano in due a’ piedi del letto ad assistere l’agonia di Filippo. Stello, dato tutto intero al dolore; Minna già vedova del suo ideale ma fedele ad esso e compresa del dovere di tenerlo alto al disopra dei propri disinganni; Minna, pure addolorata, si trovava avvolta in quell’etere di sentimenti superiori dove il dolore nel suo significato umano perde ogni potere e al di sopra di esso la coscienza di trovarsi al proprio posto si innalza sfolgorante di sì viva luce che tutta l’anima ne resta pervasa e consolata.
— La madre non ha risposto? — chiese Stello a bassa voce benchè Filippo non fosse più in grado di udire.
— Minna accennò negativamente col capo.
Il silenzio si distese lugubre e solenne proclamando il trionfo della morte sulla vita, più eloquente di qualsiasi grido, più tragico di qualsiasi lotta.
Il silenzio, cioè la rassegnazione, l’impotenza, il nulla.
Per un po’ di tempo il respiro affannoso dell’uomo che moriva battè l’aria con un palpito d’ala invisibile, poi anche quello cessò. Filippo Cònsolo, il suo ingegno, la sua forza, la sua ambizione, il suo orgoglio, non erano più.
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Il medico accorso per verificare il decesso scoperse il petto di Filippo e mostrò a Minna alcune piccole macchie rosse mormorando: Le riconosce?
— Scarlattina! — esclamò Minna, mentre l’urto di sensazioni diverse le suscitavano in cuore terrore e pietà e l’immagine di suo figlio scampato dallo stesso morbo la faceva palpitare per la commozione.
Rapidamente intanto si diffuse la voce che Filippo Cònsolo era morto di scarlattina e nessuno pose in dubbio che egli l’avesse presa stando presso al letto del bambino. Per tale circostanza fu affrettata la cerimonia della deposizione nel feretro e soppressa la pompa del funerale.
La sera medesima stava la cassa mortuaria accuratamente rinchiusa nel mezzo della camera, schierati mestamente i famigliari fra le torcie accese e pronti i necrofori, quando nel vano della porta spalancata, alta ed impressionante visione apparve una figura di donna tutta chiusa in negri veli, sollevati appena sovra i capelli a mostrare la fronte d’avorio e i fieri occhi luminosi e freddi che Minna riconobbe subito.
Ella pure, la donna velata, come ne avesse lunga consuetudine, seppe discernere Minna fra le altre persone. Si avanzò a lenti passi (solo un imperioso dominio vietava che fossero vacillanti ma il volto era spaventosamente pallido) e quando fu dinanzi a Minna la interrogò cupamente:
— Che avete fatto di mio figlio?
Nessuno in quella camera conosceva la nuova venuta ma tutti si ritrassero con un moto di istintivo rispetto sentendosi penetrare nelle vene il brivido delle ore sacre alla morte. Minna rispose colla sua voce soave dove tremavano le più intime fibre:
— Signora, piango con voi!
Le due donne stettero così l’una di fronte all’altra per la durata di un attimo, esse che non si erano vedute mai prima d’allora; e parve che in quell’attimo volessero a vicenda strapparsi il ricordo dell’anima di colui che avevano amato sopra ogni cosa al mondo, parve che i loro sguardi rapidi ed acuti si ricercassero come in un supremo e decisivo combattimento. Minna pensava: “Ella lo ha portato nel suo grembo„ — ed era gelosa. Pensava la madre “Costei me lo ha rapito„ — ed era gelosa. E spasimavano entrambe, e le lagrime trattenute per orgoglioso pudore cadevano in goccie roventi sui loro cuori.
Poi i negri veli si agitarono nel ritmo di un passo che si avvicendava trepidante e un gran grido risuonò improvviso. La madre aveva scôrto il feretro!
Muti, compresi della tragicità dell’istante, ognuno dei presenti si raccolse piamente, mentre l’austera figura dalla rigidità marmorea cadeva e scioglievasi su quella ultima forma del figlio morto, tutta scossa da un brivido che si ripercuoteva in onde magnetiche intorno a lei, quasi un impeto di rivolta delle profonde viscere materne contro l’implacabile destino.
Quando l’ombra nera si rialzò un piccolo segno semicircolare, impronta di un bacio disperato e sanguinante, macchiava il coperchio del feretro là dove giaceva la testa di Filippo.
— Signora, — disse Minna spingendo verso la desolata il suo piccolo bambino, — è il figlio di Filippo. È vostro figlio.
Sostò. Ella col gesto inconscio di chi non appartiene più alla vita fissando le pupille smarrite sul fanciullo: vide gli occhi dolcissimi, vide le linee incerte del volto, e la bocca timida, e tutte le forme, tutta l’anima di Minna rivissuta nel figlio suo.
— Ah! non è Lui! — esclamò con impeto di selvaggia disperazione. E togliendosi ratta, come portata da un nembo, chiusa ne’ suoi negri veli, quale era apparsa sparì.
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— Viole! viole! — gridavano i fanciulli e le fanciullette del contado rincorrendo i passeggeri. — Viole! Viole! — ripetevano le donne ferme sui canti delle vie coi loro cestelli sulle braccia.
Era la stagione in cui la terra fa dono agli uomini delle sue prime grazie. L’aria portava in grembo volate di pòlline, gli arbusti si coprivano di fiori, ogni ramo aveva la sua gemma. Anche la città dei morti partecipava a questa letizia del creato rifiorendo in ogni zolla, sotto gli alberi che si infoltivano del verde caro alla pietà dei superstiti.
Due signorine passeggiavano lungo i Colombari leggendo le epigrafi. Disse l’una:
— Perchè chiamano il cimitero un luogo triste? Il cielo vi ride così ampiamente, i viali sono ben tenuti, le tombe fresche di rose e in ognuna di esse riposa una persona così piena di meriti!
L’altra rispose:
— Nei Colombari non mi piacerebbe a stare.
— Nei Colombari no; ma guarda questa fuga di alberi, quale dolce ombreggiatura rameggia sul bianco marmo delle lapidi.
— La tristezza è che i morti non vedono la loro bella dimora.
— Per ciò è buono che i vivi vengano a prenderne conoscenza.
— C’è molta gente oggi.
— Si inaugura il monumento a Filippo Cònsolo.
— Io non l’ho conosciuto.
— Io sì. Assistevo alle sue lezioni con tre altre amiche. Ci chiamavano le inseparabili e ne eravamo tutte e quattro innamorate.
— Di Cònsolo? Davvero?
— Davvero, davvero. Bisognava udire la sua voce, incontrarsi una volta sola col lampo de’ suoi occhi, non puoi immaginare, via! La sua parola resterà uno dei più alti godimenti spirituali che io abbia avuti e il suo volto uno dei più virilmente belli che io abbia visti.
— È morto giovane?
— Sì, abbastanza giovane; ammogliato però.
— Oh! la fortunata!
— Fortunata davvero.
— E meritevole?
— Oh! Una donna da nulla; crestaia, sarta o giù di lì. Solita storia che se c’è un uomo di valore va ad annegare in un cucchiaio d’acqua.
Continuava ad affluire gente dal cancello del cimitero; si formavano dei gruppi; qualcuno ammirava i monumenti nuovi, altri godeva semplicemente l’incanto della magnifica giornata primaverile.
— Dov’è il posto? — chiese ad un guardiano uno che non aveva. pratica del luogo.
Il guardiano non ebbe bisogno di chiedere quale posto perchè la cerimonia dell’inaugurazione era stata annunciata su tutti i giornali e solo tendendo la mano additò da lungi lo spazio dove sorgeva, coperto ancora, il busto dedicato alla memoria di Filippo Cònsolo.
Già le rappresentanze arrivavano; la rappresentanza del Municipio, quella del Prefetto, dell’Accademia Scientifico-Letteraria, degli Studenti, i Circoli Politici, le Società a cui Filippo Cònsolo avea prestato l’appoggio del suo consiglio o il prestigio del suo nome; poi i giornalisti, i curiosi, gli oziosi, qualche avversario in cerca dell’occasione di dir male, qualche ambizioso che aveva spiato alla morte di Cònsolo un posto vuoto e tentava di mettersi in vista rizzandosi nell’ultimo raggio della sua gloria. infine le donne, le donne che vanno dappertutto, invadenti, prepotenti, sotto le cupole variopinte dei loro cappelli, nello scintillio delle loro orecchie indiamantate.
— Perchè — chiese un ignaro — tanto sfoggio di rappresentanze ora? Non si ebbe già la cerimonia del funerale?
— Appunto perchè non vi fu cerimonia allora. Cònsolo soccombette ad una malattia misteriosa, ma siccome i medici gli riscontrarono traccia di scarlattina e poche settimane innanzi suo figlio era stato ammalato di scarlattina, venne presa la misura del seppellimento senza pompa.
— È stato dunque vittima di un contagio?
— Vittima di amor paterno, perchè fu certamente curando il figlio che egli prese il male.
— Ciò lo rende doppiamente grande.
— Senza dubbio. Eroe del pensiero e martire dell’amore.
La frase ebbe successo. Tre o quattro dei presenti si incaricarono di ripeterla; un giovinotto che prendeva delle note a matita si affrettò a scriverla nel proprio taccuino.
— Dicono che è morto per aver curato un fanciullo ammalato di scarlattina — spiegò una donna a un’altra donna.
— Oh! poveretto!
Le simpatie si allargavano intorno al nome di Filippo Cònsolo. A molti che lo avevano udito pronunciare senza sapere qual fosse il suo valore intellettivo e ne erano rimasti forse un po’ mortificati non pareva vero di potersi rifare nel campo sentimentale e rincaravano la dose.
Qualcuno avendo annunciato che quell’uomo di tanta scienza si era degnato di vegliare una notte intera al capezzale del proprio figlio l’effetto fu così commovente che un altro facendosene il portavoce aumentò subito a tre il numero delle notti.
— Chi ha ingegno — sentenziò una matrona dall’aspetto di direttrice scolastica, — ha anche cuore.
Il tepore dell’aria e la serenità del cielo in quel dolcissimo pomeriggio avevano adunato e trattenevano nel campo santo molta più gente di quanto s’avrebbe potuto immaginare. Per tal modo la dimostrazione all’estinto riusciva di una grandiosità che si imponeva. Essa offriva ad ognuno dei convenuti il soddisfacimento di credersi una persona di importanza, e poichè uno per uno erano tutti contenti di sè si trovavano nella miglior condizione per giudicare con benevolenza il vicino.
Questa folla simpaticamente preparata raggiunse l’emiciclo dove già il gruppo degli intimi stava pronto ai piedi della statua. Fra i giovani si discuteva animatamente sul valore morale di Filippo Cònsolo. Tutti convenivano di avere riportato dal contatto con lui una spinta verso l’alto; e chi ne vantava l’eloquenza, chi la dialettica, chi la salda fede idealista.
— E dire che negli ultimi giorni la passione politica di partito osò offuscare con infami calunnie questa illibatezza morale che resterà, meglio ancora del suo grande ingegno, la gloria più pura di colui che piangiamo!
— La politica è una sozza megera, rallegriamoci che egli non vi abbia potuto tuffare le proprie ali.
— Al contrario, un uomo della forza di Filippo Cònsolo poteva levarsi ben al di sopra dei bassi pantàni dove affogano gli altri. Fu peccato che non riuscisse alle elezioni.
Marco Agrati passava in quel momento in compagnia di Guido Pesaro.
— I giovani merli – borbottò fra i denti col suo sorriso caustico, – stanno aguzzandosi il becco. Non sanno che egli ebbe tutte le fortune; anche quella di morire in tempo.
A breve distanza da loro Daisini e Stello accompagnavano Minna che si teneva a mano il bambino.
Un anno di vedovanza avea di poco cambiato Minna. Era sempre la donna dalla modesta bellezza, dolce e grave, solamente più sicura di sè nell’incesso, nella parola, nello sguardo.
Raccoglieva ella con profondo sentimento l’onda palpitante degli elogi che salivano alla memoria di Filippo e meglio ancora la tacita commozione che prese tutti i cuori quando, sollevata la tela che le ricopriva, apparvero magistralmente fuse nel bronzo le maschie sembianze di lui. Fu un momento indescrivibile, breve come tutto ciò che è intenso, ma in quel momento Minna assaporò come da una essenza concentrata l’aroma di mille rose in una goccia. Sentiva nell’insistenza degli sguardi che la venivano a cercare sotto il lungo velo di lutto l’importanza che il suo contegno aggiungeva alla perdita fatta. Nessuno dei presenti avrebbe mai saputo che appena morto Filippo ella aveva abbruciato un pacco di fogli scritti nel doppio delirio della febbre e dell’ambizione, ma tutti dovevano misurare dal suo dolore la grandezza del cuore che non batteva più.
Così ella voleva che Filippo sopravvivesse alto e puro. Così ella lo avrebbe portato sulle sue braccia alle soglie dell’immortalità!
Ritta di contro al fiero volto che il bronzo riproduceva con mirabile efficacia, Minna osò guardare nelle immobili pupille colui che l’aveva giudicata indegna di accogliere un nobile ideale d’amore e se può chiamarsi trionfo il fiore amaro che spunta sulle rovine di un’anima ella offerse quel trionfo alla propria fede.
Quando la folla si disperse formando alla estremità dei viali piccoli punti neri brulicanti fra le tombe pensò che la parte migliore di Filippo sarebbe rimasta, atomo invisibile, seme diffuso in tutti quei cuori; e se anche nuovi uomini dovessero poi cadere sotto il peso di un sogno troppo vasto, altri uomini sempre più puri, sempre più ardenti ne avrebbero suggellata l’eredità immortale.
Il più sincero, il più convinto dei discepoli non era forse vicino a lei? Finiva allora Stello di pronunciare un discorso che aveva sprigionate scintille di entusiasmo e i pochi rimasti ne parlavano ancora tra loro e Stello vibrava nella sua timida sensibilità, eccitato, commosso, raggiante.
Mai volta azzurra di cielo nè verde cornice di alberi aveva in quel luogo del pianto raccolto un più alto fervore di vita, uno slancio più unanime verso la perfezione. Minna se ne sentiva avvolta e protetta. Sullo sfondo del cielo primaverile la sua figura si disegnava con delicato rilievo mentre i suoi occhi fissavano nell’orizzonte un punto lontano. Una pienezza di vita, un senso quasi traboccante della missione che ancora la aspettava sulla terra le faceva gonfio il seno di un palpito in cui tutte le sue aspirazioni si raccoglievano come in un supremo acquietamento.
— Mamma, — chiese a un tratto il bambino — non vedrò più papà?
— Verremo qui a trovarlo sempre, — rispose Minna.
— Ma papà non verrà più a casa nostra?
— Non può venire, — disse ancora Minna con malinconica dolcezza. Il bimbo dopo avere riflettuto un istante insistette:
— E un altro papà non c’è?
L’osservazione ingenua e inaspettata fece salire una vampa di rossore alle guancie di Stello; i suoi occhi della trasparenza d’acqua pura misero a nudo con tanta prontezza lo stato del suo cuore e l’ardita speranza che vi folleggiava da obbligare Minna a cogliere il momento per strappare anche quella gentile illusione da cui tanta soavità di conforto le era pur venuta nelle passate tristezze. Tremava un poco, pietosamente, ma non era un obbligo verso il fedele discepolo? verso lui sopratutto, che doveva raccogliere intatta l’eredità dell’esempio, e non dubitare e non sospettare mai che l’uomo a cui si rendevano gli onori di una quasi immortalità fosse realmente l’eroe del cui nome una donna si fa la religione di tutta la vita?
Minna sentiva che anche questo era un suo dovere, così dolce e mesto, così intimamente attaccato per mille invisibili fili alle profondità dolorose del suo essere che non esitò. Rispondendo al bambino, ma con una intonazione che dava alle sue parole il carattere sacro di un giuramento, disse:
— Quando si è avuto un padre come il tuo non si può sostituirlo.
Il suono della sua voce ripercotendosi nell’aria mite e dolce di quel giorno, sotto quegli alberi di un verde così tenero, sembrò chiedere la natura a testimonio del voto che ella scioglieva legandosi per sempre alla memoria dell’estinto. E con maggiore gravità, con accento profondo, guardando Stello, soggiunse:
— Il posto di Filippo Cònsolo non può essere occupato da nessun altro.
Stello chinò la fronte in silenzio.
Minna, sollevando la sua, pensò che tutta la parabola era compiuta.
Fine.
Note
- ↑ Questa medesima scena si trova, ma raccontata dalla sconosciuta fanciulla, nel volume di Neera Anima sola.