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Se con la adorazione troppo ardente e troppo umile di Filippo ella aveva oltraggiata in se stessa l’impronta più alta della personalità, ecco che risorgeva ingigantita nel grido del bambino uscito dalle sue viscere, nel figlio suo! poichè, ella lo sentiva bene, il figlio era suo. Invano si era detta tante volte fra i divini vaneggiamenti dell’amore «io porto il figlio di Filippo». No. Quella carne ch’ella aveva scarcerata lacerando la propria, quel cuore che aveva pulsato all’unisono col suo cuore, che insieme al suo aveva sfiorato l’ala della morte e morendo insieme non avrebbe formato che un essere solo sui valichi dell’eternità; oh! quello era bene suo figlio.

Una forza straordinaria le veniva dall’avvenimento solenne che l’aveva messa in contatto col mistero della creazione, avvincendola alla catena che in una lunga teoria di secoli le donne si trasmettono silenziosamente reggendo nelle loro piccole mani i destini dell’universo. Atomo sperduto nella vastità della terra ella si era ricongiunta al perchè della propria vita e fatta padrona del filo che Dio aveva posto nelle sue mani