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sensibilità e quel bisogno di slancio che impenna l’ali ad ogni bella fantasia di giovine lo spingevano irresistibilmente verso un modello che gli appariva perfetto. Egli amava in Filippo Cònsolo tutto ciò che egli medesimo avrebbe voluto essere: un ingegno unito ad una volontà, una bellezza ad una forza, una potenza ad una coscienza. Si era dato nella fidente ebbrezza di quell’ora unica nella vita, quando ogni migliore sentimento germoglia nell’anima non ancora tocca dalle prove crudeli, quando in ogni uomo che non sia un degenerato palpita veramente un soffio della divina sostanza in cui si plasmano gli eroi.

La vittoria di Cònsolo era per Stello la vittoria dei propri ideali; e poichè tutta sera egli era passato da un luogo all’altro in cerca di notizie e solo allora, nella festa che gli amici facevano intorno a Cònsolo, aveva avuto la sicurezza del successo, per alcuni istanti si quietò tendendo gli occhi e le orecchie nel frastuono che riempiva la sala.

La formula del Concorso internazionale che il suo amico aveva vinto gli sorgeva nitida nella mente: “Un premio di cento-