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Prima di diventargli amico Cònsolo era stato suo maestro. Stello non poteva dimenticarlo; per questo si sentiva umile e piccino al suo cospetto. Nell’ammirazione per l’uomo di pensiero, per l’oratore affascinante, per il dotto, per il saggio, per l’inattaccabile, conservava un poco dell’antica soggezione, di quando Filippo Cònsolo affacciavasi alla cattedra e sotto la sua fronte spaziosa gli occhi corruscanti percorrevano per alcuni secondi i banchi della scolaresca sì che ognuno se ne sentiva tocco. E ricordava i primi entusiasmi, l’estasi congiunta alla gradevole sorpresa di chi vedesse improvvisamente squarciarsi una parete e sorgere di là colle parvenze di un magnifico sogno tutte le bellezze vagamente intuite nell’ardore dell’anima rinchiusa, tutte le verità che la coscienza informe mormorava timidamente al pensiero vigile ma immaturo.
Filippo Cònsolo rappresentava idealmente l’allenatore agile e robusto che lo aveva trasportato dalla grigia palude dove intristiva la sua giovinezza in un aere dolcemente infocato di nobili passioni ritte in armi e pronte a gettarsi nella mischia per soste-