Della natura degli uomini e delle cose
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* Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza; la ragione è nemica della natura; la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto piú difficilmente sarà grande, quanto piú sarà dominato dalla ragione; ché pochi possono esser grandi; e nelle arti e nella poesia forse nessuno, se non sono dominati dalle illusioni. Questo viene che quelle cose che noi chiamiamo grandi, per esempio un’impresa, d’ordinario sono fuori dell’ordine, e consistono in un certo disordine; ora questo disordine è condannato dalla ragione. Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione. Lo straordinario ci par grande: se sia poi piú grande dell’ordinario astrattamente parlando, non lo so; forse anche qualche volta sarà piú piccolo assai in riga astratta, e quest’uomo strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un altro ordinario ed oscuro si troverà minore; nondimeno, perché è straordinario, si chiama grande; anche la piccolezza quando è straordinaria, si crede e si chiama grandezza. Tutto questo la ragione non lo comporta; e noi siamo nel secolo della ragione (non per altro se non perché il mondo piú vecchio ha piú sperienza e freddezza); e pochi ora possono essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle arti. Anche chi è veramente grande sa pesare adesso e conoscere la sua grandezza, sa sviscerare a sangue freddo il suo carattere, esaminare il merito delle sue azioni, pronosticare sopra di se, scrivere minutamente colle piú argute e profonde riflessioni la sua vita: nemici grandissimi, ostacoli terribili alla grandezza; che anche l’illusioni ora si conoscono chiarissimamente esser tali, e si fomentano con una certa
compiacenza di se stesse, sapendo però benissimo quello che sono. Ora come è possibile che sieno durevoli e forti quanto basta, essendo cosí scoperte? e che muovano a grandi cose? e senza le illusioni qual grandezza ci può essere o sperarsi? (Un esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo come richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze; essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne avrà nessun vantaggio e forse anche danno perché soffrirà piú tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette dalla parte della natura). La natura dunque è quella che spinge i grandi uomini alle grandi azioni, ma la ragione li ritira: e però la ragione è nemica della natura; e la natura è grande, e la ragione è piccola. Altra prova che la ragione è spesso nemica della natura, si cava dall’utilità, cosí per la salute come per tutto il resto, della fatica a cui la natura ripugna e cosí dalla ripugnanza della natura a cento altre cose o necessarie o utilissime e però consigliate dalla ragione, e per lo contrario dall’inclinazione della natura a moltissime altre o dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate dalla ragione: e la natura spesso tende con questi appetiti a danneggiare e a distrugger se stessa.
* Non solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a perfezione la natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza; anzi non imita la natura chi non la imita con naturalezza. Però Ovidio che senza naturalezza la dipinge, cioè va tanto dietro a quegli oggetti che finalmente ce li presenta e ce li fa anche vedere e toccare e sentire, ma dopo infinito stento suo (cosí che a lui bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina) e con una piú tosto pertinacia ch’efficacia; presto sazia, e inoltre non è molto piacevole, perché non sa nasconder l’arte, e con quel tanto aggirarsi intorno agli oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e incontentabilità, ma anche perché egli senza molti tratti non ci sa subito disegnar la figura, e se non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la diligenza, e la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec., questa è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i moderni, questa è quella che col sentimentale e col sistema del Breme e nelle poesie moderne de’ francesi non si ottiene; ché questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec., scopre insomma il poeta che parla, ec. In Ovidio si vede in somma che vuol dipingere e far quello che colle parole è cosí difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si mette; in Dante no; pare che voglia raccontare e far quello che colle parole è facile ed è l’uso ordinario delle parole, e dipinge squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa circostanziola e quell’altra, e alzava la mano e la stringeva e si voltava un tantino e che so io (come fanno i romantici descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi, cosí anche prose ec., tanto in voga ultimamente); insomma in lui c’è la negligenza, in Ovidio no.
* Cercava Longino nel fine del trattato del Sublime, perché al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi, e portava per ragione, parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia. Ora queste non sono madri, ma sorelle di quell’effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri, né forza e impeto e ardore d’animo, né grandi azioni che per lo piú sono pazzie. Quando ognuno è bene illuminato, in vece dei diletti e dei beni vani, come sono la gloria, l’amor della patria, la libertà, ec. ec. cerca i solidi, cioè i piaceri carnali osceni ec., in somma terrestri, cerca l’utile suo proprio, sia consistente nel danaro o altro, diventa egoista necessariamente, né si vuol sacrificare per sostanze immaginarie, né comprometter se per gli altri, né mettere a repentaglio un bene maggiore, come la vita, le sostanze ec., per un minore, come la lode ec. (lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le qualità buone, non accresce la massa, ma la sparte, sí che ridotta in piccole porzioni fa piccoli effetti). Quindi l’avarizia, la lussuria e l’ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l’eccesso dell’incivilimento. E però non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ec., ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati. La piú gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura (seguíta però a dovere); essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile; e certo nessuno chiamerà barbari i romani combattenti i cartaginesi né i greci alle Termopile, quantunque quei tempi fossero pieni di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofici presso ambedue i popoli. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo; tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo piú correre le cose come vuole il sistema del mondo. La ragione è un lume: la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata. Come io dico accadde appresso i greci e i romani: al tempo di Longino già erano quasi barbari, eppure non c’era stata nessuna irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque la barbarie, da quelle civilissime terre, perché la civiltà era eccessiva. Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre orazioni sue politiche: sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente: sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria: meglio la morte che il servizio: che vergogna è questa? Antonio, un tiranno di questa razza, ancora vive ec. E intanto Antonio, che sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto che fosse dichiarato nemico della patria: calcolavano, cercavano ec. quello che in altri tempi senza un istante di deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno: non c’erano piú le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria, la gloria, il vantaggio degli altri, dei posteri ec.: eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere: non piú ardore, non impeto, non grandezza d’animo: l’esempio de’ maggiori era una frivolezza
in quei tempi tanto diversi. Cosí perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia; e poco dopo con tanto piú filosofia, libri, scienza, esperienza, storia, erano barbari.
E la ragione, facendoci naturalmente amici dell’utile proprio e togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società e inferocisce le persone.
* Tutto è o può esser contento di se stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose.
* La natura, come ho detto, è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira. Questa nimicizia di queste due gran madri delle cose non è stata accordata se non dalla religione, la qual sola proponendo l’amore delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza di premio nella vita futura, ha conciliato con mirabile armonia la grandezza, generosità, sublimità, apparente pazzia delle azioni (come son quelle dei martiri, il distacco dai beni terreni, da’ parenti, dalla patria ec., il disprezzo della morte, il sacrificio de’ piaceri e di tutto all’amor di Dio al dovere ec.) colla ragione: armonia che fuor della religione non si può trovare se non a parole, perché, tolta la speranza della vita futura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza della virtú, della sapienza, della verità, della beltà personificata in Dio, la cura di questo essere intorno ai portamenti nostri ec., l’amore di lui ec., non ci sarà mai, si può dire, azione eroica e generosa e sublime e concetti e sentimenti alti, che non sieno vere e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo, quanto piú cresce l’impero della ragione, come già vediamo, e che sono illusioni quelle grandezze anche presenti, nelle quali la religione non ha parte, e che collo indebolirsi la forza della fede negli animi scemano presentemente quelle azioni sublimi, delle quali erano molto piú fecondi i secoli passati ignoranti, che il nostro illuminato. Similmente si può dire della dolcezza e amabilità di tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere e colla religione sono verità, e alle quali la ragione per se ripugnerebbe; la quale com’è nemica della grandezza cosí è nemica della profonda e vera bellezza, e con lei, come tutto è piccolo, cosí tutto è brutto e arido in questo mondo.
* Uno dei casi nei quali il seguir la ragione è barbaro e il seguir la natura è irragionevole ma religioso però, è di un padre, per esempio, che veda il figlio cosí affetto da dover essere assolutamente infelice vivendo, da dover penare sempre e senza riparo, tra dolori acuti, tra mancanza di tutti i piaceri, tra una noia perenne, tra una vergogna cocente per le imperfezioni fisiche ec. Desiderar la morte a questo figlio, poniamo caso anche malato, anche disperato da’ medici, anche moribondo, o vero non solo desiderarla, ma non dolersene, consolarsene non piangerne amaramente, è ragionevole e barbaro; e come barbaro e snaturato, cosí anche contrario ai principii della religione.
* Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici; quando la previdenza de’ mali, (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d’infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra, che lo porta né si può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti; perché ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura che vi sia un animale, e questo il piú perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità e una specie di contraddizione colla sua esistenza, al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all’essere di quella tale sostanza (che per l’uomo è impossibile di conseguire), e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacché un uomo disperato della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n’annoia, ne patisce (cosa snaturata) e s’uccide come vediamo che fa (impossibile ne’ bruti). L’uccidersi dell’uomo è una gran prova della sua immortalità. Verri, Notte Romana 5, colloquio 5. * Linguaggio mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa originale e poetica introdotta cosí in qualche poesia, come, ma poi scioccamente se ne serve, il Sannazaro nell’Arcadia, prosa 9, ad imitazione di quella favola, s’io non erro, circa Esiodo.
* E tanto è miser l’uom quant’ei si reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro, egloga ottava. Ora in quello stato ch’io diceva in un pensiero poco sopra, egli non riputandosi misero né anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione alquanto simile a quella che i’ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e cosí tutti secondo che si stimano infelici.
* Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore. Non ho mai con piú forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de’ quali è formata la presente condizione umana, forzata a temere per la sua vita e a procurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora che l’è piú grave e che facilmente si risolverebbe a privarsene di sua volontà, ma non per forza d’altre cagioni. E vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in tutto il resto, ché l’analogia è uno dei fondamenti della filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e discorso, affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l’uomo non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali, come i fanciulli e le bestie: e l’essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii costituenti, comuni anche a tutti gli altri esseri, come dire l’amor della vita, e turba l’ordine delle cose, poiché spinge infatti al suicidio, la cosa piú contro natura che si possa immaginare.
* Moltissime volte, anzi la piú parte, si prende l’amor della gloria per l’amor della patria. Per esempio, si attribuisce a questo la costanza dei greci alle Termopile, il fatto d’Attilio Regolo (se è vero) ec. ec.; le quali cose furono puri effetti dell’amor della gloria, cioè dell’amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio; e però, come i maomettani si espongono alla morte, anzi la cercano, per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, cosí gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria, cercavano la morte, i patimenti, ec.; ed è evidente che cosí facendo erano spinti da amor di se stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità né utile, come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile, e da quegli spartani accusati dall’opinione pubblica d’aver fuggito la morte alle Termopile, che si uccisero da se, non per la patria, ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l’amor puramente della patria, anche presso gli antichi, era un mobile molto piú raro che non si crede. Piuttosto quello della libertà, l’odio di quelle tali nazioni nemiche ec., affetti che poi si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna ben intendere, perché il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo.
* Il nascere istesso dell’uomo cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova nel nascere. E nota ch’io credo che esaminando si troverà che fra le bestie un molto minor numero proporzionatamente perisce in questo pericolo, colpa probabilmente della natura umana guasta e indebolita dall’incivilimento.
* Quanto è piú dolce l’odio che la indifferenza verso alcuno! Perciò la natura intenta a procurare la nostra felicità individuale nello stato primitivo, ci avea lasciata l’indifferenza verso pochissime cose, come vediamo nei fanciulli sempre proclivi a odiare o ad amare, temere ec.
* L’incivilimento ha posto in uso le fatiche fine ec. che consumano e logorano ed estinguono le facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec., le quali non erano richieste dalla natura; e tolte quelle che le conservano e le accrescono, come quelle dell’agricoltore del cacciatore ec. e della vita primitiva, le quali erano volute dalla natura e rese necessarie alla detta vita.
* Ci sono tre maniere di veder le cose. L’una e la piú beata, di quelli per li quali esse hanno anche piú spirito che corpo; e voglio dire degli uomini di genio e sensibili, ai quali non c’é cosa che non parli all’immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo, e una vita indefinibile e vaga; in somma di quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell’animo loro. L’altra, e la piú comune, di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito; e voglio dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell’immaginazione e del sentimento, e non riguardo a tutto il resto, per esempio alla scienza, alla politica ec. ec.), che senza essere sublimati da nessuna cosa trovano però in tutte una realtà, e le considerano quali elle appariscono e sono stimate comunemente e in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la piú durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran risalto al sentimento dell’esistenza, riempie però la vita di una pienezza non sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per una strada piana e in relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro. La terza, e la sola funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non hanno né spirito né corpo, ma son tutte vane e senza sostanza; e voglio dire dei filosofi e degli uomini per lo piú di sentimento, che dopo l’esperienza e la lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto, e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le illusioni inerenti alla vita, per modo che senza esse non è vita. E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell’uso intero della ragione. Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima pazzia, ma la pazzia la piú ragionevole della terra, anzi la sola cosa ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa, e che possa giovare in questa vita, sia piú vicina alla natura che alla ragione, stando fra ambedue e non mai, come si dice volgarmente, con questa sola, e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia.
* Per le grandi azioni, che la maggior parte non possono provenire se non da illusione, non basta ordinariamente l'inganno della fantasia, come sarebbe quello di un filosofo, e come sono le illusioni de' nostri giorni tanto scarsi di grandi fatti, ma si richiede l'inganno della ragione, come presso gli antichi. E un grande esempio di questo è ciò che accade ora in Germania, dove, se qualcuno si sacrifica per la libertà, come quel Sand uccisore di Kotzebue, non accade, come potrebbe parere, per effetto della semplice antica illusione di libertà, e d'amor patrio e grandezza di azioni, ma per le fanfaluche mistiche di cui quegli
studenti tedeschi hanno piena la testa e ingombra la ragione, come apparisce dalle gazzette di questi giorni, dove anche si recano le loro lettere piene di opinioni stravaganti e ridicole, che fanno dell'amor della libertà una nuova religione, tutta nuovi misteri.
(26 marzo 1820, e vedi le Gazzette di Milano del principio di questo mese).
* Come potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi della sua propria nullità? E questo certo e profondo sentimento, massime nelle anime grandi, della vanità e insufficienza di tutte le cose che si misurano coi sensi, sentimento non di solo raziocinio, ma vero, e, per modo di dire, sensibilissimo sentimento e dolorosissimo, come non dovrà essere una prova materiale, che quella sostanza che lo concepisce e lo sperimenta, è di un’altra natura? Perché il sentire la nullità di tutte le cose sensibili e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura diversa e contraria; ora questa facoltà come potrà essere nella materia? E si noti ch’io qui non parlo di cosa che si concepisca colla ragione, perché infatti la ragione è la facoltà piú materiale che sussista in noi, e le sue operazioni materialissime e matematiche si potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia, ma parlo di un sentimento ingenito e proprio dell’animo nostro che ci fa sentire la nullità delle cose indipendentemente dalla ragione; e perciò presumo che questa prova faccia piú forza, manifestando in parte la natura di esso animo. La natura non è materiale come la ragione.
* Gesú Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtú, dell’innocenza, dell’eroismo, della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e delle azioni, della natura insomma, che è quanto dire la società, e cosí mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell'uomo, essendo pur troppo vero che, come l'individuo per natura è buono e felice, cosí la moltitudine e l'individuo in essa, è malvagia e infelice (vedi p. 611, capoverso 1).
* La superiorità della natura sulla ragione si dimostra anche in questo, che non si fa mai cosa con calore che si faccia per ragione e non per passione; e la stessa religion cristiana, che pare ed è alienissima dalla passione, tuttavia perché l'umano si mescola in tutto, non è stata mai seguita e difesa con vero interesse se non quando ci erano portati da spirito di parte, da entusiasmo ec. Ed anche ora i divoti fanno come un corpo e una classe, la quale s'interessa per la religione solamente per ispirito di partito, e quindi le loro malignità verso i non divoti o gl'irreligiosi, e l'astio ec. e le derisioni; tutte cose umane e passionate, e non divine né ragionate né fatte con posatezza e freddezza d'animo (7 giugno 1820).
* Non bisogna credere che un popolo non sia barbaro, perché non somiglia ad altri barbari (come se i maomettani non fossero barbari, perché non sono antropofagi). Vedete quante sorte di barbarie si trovano al mondo, laddove la natura è una sola. Perché questa ha leggi immutabili e fisse, ma la corruttela varia infinitamente secondo le cagioni e le circostanze, vale a dire i costumi, le opinioni, i climi, i caratteri nazionali ec. ec. (9 giugno 1820).
* Una gran differenza tra la legge di natura e le leggi civili è questa, che la legge civile o umana si può dimenticare o per distrazione o per altro e infrangerla senza leder la coscienza, come s’io mangio carne non ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione, laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga non credendo, perch’ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte continuamente e il quale non è soggetto a dimenticanze.
* Per li fatti magnanimi è necessaria una persuasione che abbia la natura di passione, e una passione che abbia l’aspetto di persuasione appresso quello che la prova.
* In proposito di quello ch’io dico nei miei pensieri, p. 112 e nel luogo quivi citato, osservate che ora in uno stile sostenuto sarebbe vergogna il dare all’uditore un epiteto che ricordasse un pregio del corpo. Non cosí presso i greci, sia in ordine alla bellezza, sia alla robustezza ec. Il corpo non era in cosí basso luogo presso gli antichi come presso noi. Par che questo sia un vantaggio nostro, ma pur troppo le cose spirituali non hanno su di noi quella forza che hanno le materiali; ed osservatelo nella poesia, ch’è la imitatrice della natura, e vedete ch’effetto facciano i poeti metafisici, rispetto agli altri poeti.
* La varietà che la natura ha posta nelle cose e negli ingegni è tanta, che fino gli stessi filosofi, quantunque tutti cerchino la stessa verità, nondimeno, a cagione dei diversissimi aspetti, nei quali una stessa proposizione si presenta ai diversi ingegni, sarebbero tutti originali, se non leggessero gli altri filosofi e non osservassero le cose cogli occhi altrui. Ed è facile a scoprire che una grandissima parte delle verità dette ai nostri tempi da quegli scrittori che s’hanno per originali, ancorché queste verità passino per nuove, non hanno altro di nuovo che l’aspetto, e sono già state esposte in altro modo (18 giugno 1820). E vedete come tutti gli scrittori non europei, come gli orientali, Confucio ec., quantunque dicano appresso a poco le stesse cose che i nostri, a ogni modo paiono originali, perché, non avendo letto i nostri filosofi europei, non hanno potuto imitarli o seguirli e conformarcisi non volendo, come accade a tutti noi.
* A quello che ho detto, p. 128, aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol diventarci qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidí il giovane privato non ha altra strada a conseguirlo, fuorché quella che ho detto, o l’altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Cosí la gloria d’oggidí è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che una volta era posta nei contrarii. E cosí per conseguenza s’infiacchiscono sempre piú le generazioni degli uomini, e questo effetto della mancanza d’illusioni esistenti nel mondo come una volta divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo del poco vigore; secondo quello che ho detto negli altri pensieri, della necessità del vigor del corpo alle grandi illusioni dell’animo. Sono poi troppo noti gli spaventosi effetti della ordinaria vita giovanile d’oggidí, che a poco a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o che altra speranza? E credete che un giovane si possa contentare di una vita inattiva, senza nessuna vista e nessuna aspettativa, fuorché di un’eterna monotonia, e di una noia immutabile? Anticamente la vanità era considerata come propria delle donne, perché anche nelle donne c’è lo stesso desiderio di distinguersi, e ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che quello della bellezza. Quindi il loro cultus sui, il quale diceva Celso che adimi feminis non potest. Ora resta intorno alla vanità la stessa opinione, che sia propria delle donne, ma a torto, perché è propria degli uomini quasi egualmente, essendo anche gli uomini ridotti alla condizione appresso a poco delle femmine, rispetto alla maniera di figurare nel mondo, e l’uomo vecchio per la massima parte, è divenuto inutile e spregevole, e senza vita né piaceri né speranze, come la donna comunemente soleva e suol divenire, che dopo aver fatto molto parlar di se sopravvive alla sua fama invecchiando (22 giugno 1820).
* Bisogna escludere dai sopraddetti i negozianti, gli agricoltori, gli artigiani, e in breve gli operai, perché infatti la strage del mal costume non si manifesta altro che nelle classi disoccupate.
* Con questa distinzione di suono e armonia, l’uno cagione di effetto naturale e indipendente dall’arte e generale nell’uomo (effetto arbitrario della natura, e non già necessario astrattamente), l’altra di effetto naturale in astratto, ma dipendente dall’arte in concreto, comprenderete perché le bestie essendo talvolta influite dalla musica non lo sieno dalle altre arti. Ed è perché la materia della musica è cosí efficace nell’uomo e cosí generalmente e per natura, che non è maraviglia se la sua forza si estende anche ad altri animali, forse piú analoghi degli altri all’uomo per questa parte della loro natura. Ma non cosí la materia delle altre arti; eccetto i colori, i quali come fanno effetto naturale nell’uomo, cosí per legge di analogia (che va ammessa, non perché fosse necessario alla natura di osservarla, ma perché la vediamo osservata) congetturo che possano dar qualche diletto anche alle bestie, e forse se ne avrebbero delle prove. Del resto nelle altre arti le bestie non essendo influite dalla materia, che nella musica ha influsso naturale e indipendente dall’arte, non possono essere influite dall’arte stessa, non avendo la stessa idea della bellezza che abbiamo noi e che è tanto diversa anche tra noi. E quanto all’imitazione del vero che in noi cagiona una maraviglia naturale, potrebb’essere che la producesse anche in loro senza che noi ce ne accorgessimo, e potrebb’essere che non la capissero, ma prendessero gli oggetti imitati per veri, o finalmente (che dev’essere il piú ordinario) si formassero di quegli oggetti d’arte un’idea confusa tra l’oggetto vero e un altro che lo somigli, non potendo sapere quelle cose che sappiamo noi intorno all’artefice e alla maniera e alla difficoltà d’imitare in quel modo ec. ec., cose tutte che producono la maraviglia. E infatti vedrete in molti barbari che le belle imitazioni delle nostre arti, invece di destare maggior maraviglia, appena li commuovono.
Del rimanente, anche intorno alla bellezza e a qualunque altra cosa appartenente alle arti, bisogna sempre ricordarsi della differente maniera di esistere, differente capacità di comprendere, di rapportare, di esser commossi, ec. e cosí regolarsi nell’istituire il paragone tra l’uomo e gli altri animali, e anche tra un uomo e un altr’uomo, non riputando necessario e assoluto, e perciò universale, quello ch’è arbitrario e relativo o nell’uomo o in qualunque animale, e perciò può non trovarsi o trovarsi differentemente negli altri.
* Osservate ancora un finissimo magistero della natura. Gli uccelli ha voluto che fossero per natura loro i cantori della terra, e come ha posto i fiori per diletto dell’odorato, cosí gli uccelli per diletto dell’udito. Ora, perché la loro voce fosse bene intesa, che cosa ha fatto? Gli ha resi volatili, acciocché il loro canto, venendo dall’alto, si spargesse molto in largo. Questa combinazione del volo e del canto non è certamente accidentale. E perciò la voce degli uccelli reca a noi piú diletto che quella degli altri animali, fuorché l’uomo, perché era espressamente ordinata al diletto dell’udito. E credo che ne rechi anche piú agli altri animali, che sono in uno stato naturale, e forse perciò piú capaci di trovarci o tutta o in parte quell’armonia che ci trovano gli stessi uccelli, e che noi non ci troviamo, perché allontanandoci dalla natura abbiamo perduto certe idee primitive intorno alla convenienza, non assolute e necessarie, ma tuttavia dateci forse arbitrariamente dalla natura. Io credo che i selvaggi trovino il canto degli uccelli molto piú dolce; e mi pare che si potrebbe provar lo stesso degli antichi, i quali è noto che sentivano maggior diletto di noi nel canto delle cicale ec., delle quali pure, e simili, si può notare che cantano sopra gli alberi.
* Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e piú materiale che spirituale. L’anima umana (e cosí tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’é ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti: 1°, né per durata; 2°, né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli, 1°, né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2°, né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente, e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione, perch’é sostanziale in noi, non come desiderio di uno o piú piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perché ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere, la cui estensione è indeterminata, e l’anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, trovi un piacere necessariamente circoscritto e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perché la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che quella material cagione, che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti sempre (per esempio, tu hai desiderato la ricchezza, l’hai ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente, ma non piú come cagione neppure di un tal piacere; perché questa è un’altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni a poco a poco svaniscano, e che l’assuefazione, come toglie il dolore, cosí spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere provato una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l’animo sarebbe pago, perché il suo desiderio è anche infinito per estensione; cosí che quel tal piacere, quando uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo uguagliarne l’estensione, il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri sempre nuovi, come accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l’anima. Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec., non hanno questa qualità. Il fatto è, che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere e non un tal piacere; ora nel fatto, trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che, il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.
Veniamo alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti; 1°, in numero; 2°, in durata; 3°, in estensione. Il piacere infinito, che non si può trovare nella realtà, si trova cosí nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia: 1°, che la speranza sia sempre maggior del bene; 2.°, che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran magistero della natura, che da una parte, non potendo spogliar l’uomo e nessun essere vivente dell’amor del piacere, che è una conseguenza immediata e quasi tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali infiniti, ha voluto supplire: 1°, colle illusioni, e di queste è stata loro liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale poteva ben farcene senza: 2°, coll’immensa varietà, acciocché l’uomo stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed anche non potesse cosí facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo tempo di fermarcisi e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo. Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i moderni in ordine alla felicità. -1°, L’immaginazione, come ho detto, è il primo fonte della felicità umana. Quanto piú questa regnerà nell’uomo, tanto piú l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza, almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero, cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E osservate che la facoltà immaginativa, essendo spesse volte piú grande negl’istruiti che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto piú negl’ignoranti, li fa piú felici di quelli che da natura avrebbero sortito una fonte piú copiosa di piaceri. E notate in secondo luogo che la natura ha voluto che l’immaginazione non fosse considerata dall’uomo come tale, cioè non ha voluto che l’uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell’immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dall’immaginario come dal vero, anzi piú, perché l’immaginario ha forze piú naturali e la natura è sempre superiore alla ragione. Ma ora le persone istruite, quando anche sieno fecondissime d’illusioni, le hanno per tali, e le seguono piú per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi, degl’ignoranti de’ fanciulli e dell’ordine della natura. -2°, Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec., essendo tanto grandi quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni va la grandezza e copia de’ piaceri, i quali, sebbene neanche gli antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci, se non di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non volea che sapessimo, e l’uomo primitivo non sa che nessun piacere lo può soddisfare. Quindi e trovando ciascun piacere molto piú grande che noi non facciamo, e dandogli coll’immaginazione un’estensione quasi illimitata, e passando di desiderio in desiderio, colla speranza di piaceri maggiori e di un’intera soddisfazione, conseguivano vedere il fondo né i contorni. E questa pure è la cagione perché nell’amore ec., come ho detto, p.142. Perché in quel tempo l’anima si spazia in un vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non esiste nel reale, ma solo nella immaginazione; e le illusioni sole ce le possono rappresentare, né la ragione ha verun potere di farlo. Ma la natura nostra n’era fecondissima, e voleva che componessero la nostra vita. –3°, perché l’anima nostra odii tutto quello che confina le sue sensazioni. L’anima, cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta; dove lo trova, abborre i confini per le sopraddette ragioni. Quindi, vedendo la bella natura, ama che l’occhio si spazi quanto è possibile. La qual cosa il Montesquieu (Essai sur le goût, De la curiosité. p. 374, 375) attribuisce alla curiosità. Male. La curiosità non è altro che una determinazione dell’anima a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi. Perciò ella potrà esser la cagione immediata di questo effetto (vale a dire che, se l’anima non provasse piacere nella vista della campagna ec., non desidererebbe l’estensione di questa vista), ma non la primaria; né questo effetto è speciale e proprio solamente delle cose che appartengono alla curiosità, ma di tutte le cose piacevoli; e perciò si può ben dire che la curiosità è cagione immediata del piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun piacere può essere illimitato e perpetuo nell’anima, come il desiderio generale del piacere. Del rimanente, alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da fanciullo, e anche ora, nel vedere il cielo, ec. attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario, la vastità e moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è nata per il grande, ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la moltiplicità delle sensazioni confonde l’anima, gl’impedisce di vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la fa errare d’un piacere in un altro, senza poterne approfondare nessuno, e quindi si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito. Parimente, la vastità, quando anche non sia moltiplice, occupa nell’anima un piú grande spazio, ed è piú difficilmente esauribile. La maraviglia similmente rende l’anima attonita, l’occupa tutta e la rende incapace in quel momento di desiderare. Oltre che la novità, inerente alla maraviglia, è sempre grata all’anima, la cui maggior pena è la stanchezza dei piaceri particolari.
* La ragione che reca Montesquieu (Essai sur le goût. Des plaisirs de la symétrie) perché l’anima, amando la varietà tuttavia dans la plupart des choses elle aime à voir une espéce de symétrie, il che sembra che renferme quelque contradiction, non mi capacita. Une des principales causes des plaisirs de notre âme, lorsqu’elle voit des objets, c’est la facilité qu’elle a à les appercevoir; et la raison qui fait que la symétrie plaît à l’âme, c’est qu’elle lui èpargne de la peine, qu’elle la soulage, et qu’elle coupe, pour ainsi dire, l’ouvrage par la moitié. De-là suit une règle générale: par-tout où la symétrie est utile à l’âme et peut aider ses fonctions, elle lui est agréable; mais, par-tout où elle est inutile, elle est fade, parce qu’elle ôte la variété. Or les choses que nous voyons successivement doivent avoir de la variété; car notre ame n’a aucune difficulté à les voir: celles, au contraire, que nous appercevons d’un coup d’oeil doivent avoir de la symétrie. Ainsi, comme nous appercevons d’un coup d’oeil la façade d’un bâtiment, un parterre, un temple, on y met de la symétrie, qui plaît à l’ame par la facilité qu’elle lui donne d’embrasser d’abord tout l’objet. Ora, io domando perché noi vedendo una campagna, un paesaggio dipinto o reale ec. d’un colpo d’occhio come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa vista essendo i medesimi, noi vogliamo in quella la varietà e in questa la simmetria. e perché ne’ giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia in luogo della simmetria. La ragion vera è questa. I detti piaceri, e gran parte di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli che derivano dalla simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla convenienza. La simmetria non è tutt’uno colla convenienza, ma solamente una parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni gusti ec. che determinano l’idea delle proporzioni, corrispondenze, ec. La convenienza relativa dipende dalle stesse opinioni gusti, ec. Cosí che dove il nostro gusto, indipendentemente da nessuna cagione innata e generale, giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede; dove no non la richiede, e se giudica conveniente la varietà, richiede la varietà. E questo è tanto vero, che, quantunque si dica comunemente che la varietà è il primo pregio di una prospettiva campestre, con tutto ciò, essendo relativo anche questo gusto, si troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una certa simmetria, come i toscani che sono avvezzi a veder nella campagna tanti giardini. E cosí noi per l’assuefazione amiamo la regolarità dei vigneti, filari d’alberi, piantagioni, solchi ec. ec. e ci dorremmo della regolarità di una catena di montagne ec. Che ha che far qui l’utile o l’inutile? perché quando sí, quando no, negli oggetti della stessa natura? perché in queste persone sí, in quelle no? Di piú quegli stessi alberi che ci piacciono collocati regolarmente in una piantagione, ci piaceranno ancora collocati senz’ordine in una selva, boschetto, ec. La simmetria e la varietà, gli effetti dell’arte e quelli della natura, sono due generi di bellezze. Tutti due ci piacciono, ma purché non sieno fuor di luogo. Perciò l’irregolarità in un’opera dell’arte ci choque ordinariamente (eccetto quando sia pura imitazione della natura, come ne’ giardini inglesi), perché quivi si aspetta il contrario; e la regolarità ci dispiace in quelle cose che si vorrebbero naturali, non parendo ch’ella convenga alla natura, quando però non ci siamo assuefatti come i toscani.
* Il primo autore delle città vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo riprovato, cioè Caino, e questo dopo la colpa la disperazione e la riprovazione. Ed è bello il credere che la corruttrice della natura umana e la sorgente della massima parte de’ nostri vizi e scelleraggini sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa. E come il primo riprovato fu il primo fondatore della società, cosí il primo che definitamente la combatté e maledisse, fu il redentore della colpa, cioè Gesú Cristo, secondo quello che ho detto, p. 112.
* Il ritrovare e procacciare la felicità destinata dalla natura all’uomo non è piú opera del privato, neanche per se solo. Non in società, perché ognuno vede come ci si vive, e il privato non può migliorare le nostre istituzioni. Non nella vita domestica solitaria e primitiva, perché i piaceri suoi non possono piú cadere in persone disingannate ed esaurite nella immaginazione. Il dare al mondo distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita, il rinnovare le illusioni perdute ec. ec., é opera solo de’ potenti.
* La politica non deve considerar solamente la ragione, ma la natura, dico la natura vera e non artefatta né alterata. Il codice de’ Cristiani in quante cose si scosta dalla fredda ragione per accostarsi alla natura! Esempio poco o nulla imitato dai legislatori moderni.
* Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa li debba portare e li porti effettivamente. L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di stato. Questa materia vivissima e di sommo peso ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Frattanto ella esiste ed opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto (opera, perché quantunque tutte le istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in un vigor primo freschissimo e sommo com’è in quell’età); e laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia cosí naturale e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire né impiegare in bene né impedire che non iscoppi in temporali, in terremoti ec. (1 Agosto 1820).
* Montesquieu (Essai sur le Goût, Du je ne sais quoi) fa consistere la grazia e il non so che principalmente nella sorpresa, nel dar piú di quello che si prometta ec. In questa materia della grazia, cosí astrusa nella teoria delle arti, come quella della grazia divina nella teologia, noterò: 1°, l’effetto della grazia non è di sublimar l’anima o di riempierla, o di renderla attonita come fa la bellezza, ma di scuoterla, come il solletico scuote il corpo, e non già fortemente come la scintilla elettrica. Bensí appoco appoco può produrre nell’anima una commozione e un incendio vastissimo, ma non tutto a un colpo. Questo è piuttosto effetto della bellezza che si motutta a un tratto e non ha successione di parti. E forse anche per questo motivo accade quello che dice Montesquieu, che le grandi passioni di rado sono destate dalle grandi bellezze, ma ordinariamente dalla grazia, perché l’effetto della bellezza si compie tutto in un attimo, e all’anima, dopo che s’é appagata di quella vista, non rimane altro da desiderare né da sperare, se però la bellezza non è accompagnata da spirito, virtú ec. Al contrario, la grazia ha successione di parti, anzi non si dà grazia senza successione. Quindi veduta una parte, resta desiderio e speranza delle altre. 2°, Perciò la grazia ordinariamente consiste nel movimento: e diremo cosí la bellezza è nell’istante, e la grazia nel tempo. Per movimento intendo anche tutto quello che spetta alla parola. 3°, Veramente non è grazia tutto quello ch’é sorpresa. Già si sa quante sorprese non abbiano che far colla grazia, ma, anche in punto di donne e di bello, la sorpresa non è sempre grazia. Ponete una bellissima donna mascherata o col viso coperto e supponete di non conoscerla, e ch’ella improvvisamente vi scopra il viso e che quella bellezza vi giunga affatto inaspettata. Quest’é una bella e piacevole sorpresa, ma non è grazia. E per tener dietro precisamente a quello che dice Montesquieu, che la grazia deriva principalmente da questo che nous sommes touchés de ce qu’une personne nous plaît plus qu’elle ne nous a paru d’abord devoir nous plaire; et nous sommes agréablement surpris de ce qu’elle a su vaincre des défauts, que nos yeux nous montrent et que le coeur ne croit plus, supponete di vedere una donna o un giovane di persona disavvenente e all’improvviso mirandolo in volto, trovarlo bellissimo, questa pure è sorpresa, ma non grazia. 4°, Pare che la grazia consista in certo modo nella naturalezza e non possa star senza questa. Tuttavia primieramente, siccome la natura, secondo che osserva anche Montesquieu, è ora piú difficile a seguire e piú rara assai che l’arte, cosí notate che quelle grazie che consistono in pura naturalezza non si danno ordinariamente senza sorpresa. Se tu senti o vedi un fanciullo che parla o vero opera, le sue parole e le sue azioni e movimenti ti riescono sempre come straordinari, hanno un non so che di nuovo e d’inaspettato, che ti punge e fa una certa maraviglia e tócca la curiosità. Cosí in qualunque altro soggetto di naïveté. In secondo luogo ci sono anche delle cose non naturali che pur sono graziose, o vero naturali ma graziose non per questo che sono naturali. Per esempio, alcuni difettuzzi in un viso, piacciono assai e paiono grazie a molti. Chi s’innamora di un naso rincagnato, come quel Sultano di Marmontel, chi di un occhio un po’ falso ec. Un parlar bleso ec. a molti par grazia. E si vedono tuttogiorno amori nati appunto da stranezze o difetti della persona amata. Cosí nello spirito e nel morale. Il primo amore dell’Alfieri fu per una giovane di una certa protervia che mi faceva, dic’egli, moltissima forza. E di questo genere si potrebbero annoverare infinite cose che paiono graziosissime e destano fiamma in questo o in quello, e ad altri parranno tutto il contrario. Cosí un viso di quel genere che chiamano piccante, vale a dire imperfetto e irregolare, fa ordinariamente piú fortuna di un viso regolare e perfetto. Par cosa riconosciuta che la grazia appartenga piuttosto al piccolo che al grande e che, se al grande conviene la maestà, la bellezza, la forza ec., la grazia e la vivacità non gli possa convenire. Questo in qualsivoglia cosa e astrattamente parlando, uomini, statue, manifatture, poesie ec. ec. ec. Un piccolin si mette Di buona grazia in tutto, dice il Frugoni. Ed è cosa ordinaria di chiamar graziosa una persona piccola e spesso in maniera come se piccolezza fosse sinonimo di grazia. 5°, Da queste cose deducete che in somma la definizione della grazia non si può dare; e Montesquieu non l’ha data, benché paia crederlo, e bisogna sempre ricorrere al non so che. Perché 1°, se la sorpresa è spesso compagna della grazia, è certo che questa è ben diversa dalla sorpresa, cioè, perché una cosa sia graziosa, non basta che sorprenda, bisogna che sia di quel tal genere, e questo genere che cos’é? 2°, Non la sola naturalezza, come abbiamo veduto, non il perfetto, anzi spesso il difettoso, l’irregolare e lo straordinario; non tutto l’imperfetto, l’irregolare e lo straordinario, com’é manifesto: che cosa dunque? 3°, Concedo che spesso il sentimento della grazia contenga sorpresa, ma non è grazioso per questo che sorprende, altrimenti tutto il sorprendente sarebbe grazioso, ma perch’é un certo non so che. 4°, Quel modo in cui Montesquieu spiega questo non so che, nelle parole riportate di sopra non sussiste se non in alcuni casi. Un viso piccante ed irregolare nous plaît veramente d’abord e senz’altro, e qui non c’entra l’aver saputo vincere il difetto ec. Si vede ch’esso stesso contiene propriamente in se una qualità piacevole distinta da tutto il resto. È vero che un viso irregolare piace con una certa sorpresa, ma quel che piace non è solamente né principalmente la sorpresa, altrimenti un viso mostruoso piacerebbe di piú. Applicate queste considerazioni agli altri esempi riportati di sopra, in tutti i quali non ha che far niente il dare piú di quello che si prometta, o non è la cagion principale ed intima di quel tal piacere, ma piuttosto estrinseca e accidentale. 5°, Il grazioso è relativo come il bello, cioè ad uno sí, a un altro no ec. L’esperienza lo mostra, che come non c’é tipo della bellezza, cosí neanche della grazia. E quantunque paia che l’idea della naturalezza debba essere universale, tuttavia non è, e presso noi passano per naturali infinite cose che sono tutt’altro, e ai villani parranno naturali e graziose cento maniere che a noi parranno grossolane ec. Cosí secondo le diverse nazioni, costumi, abitudini, opinioni ec. Non che la natura non abbia le sue maniere proprie, certe e determinate, ma succede qui come nel bello. Un cavallo scodato, un cane colle orecchie tagliate, è contro natura; una donna coi pendenti infilzati nelle orecchie, un uomo colla barba tagliata ec.; eppur piacciono. Molto piú discordano i gusti intorno alla grazia indipendente dalla naturalezza. 6°, Quantunque questo non so che non si possa definire, se ne possono notare alcune qualità: 1°, spessissimo la semplicità è fonte o proprietà della grazia. 2°, Quantunque la grazia ordinarissimamente consista nell’azione, tuttavia può stare qualche volta anche senza questa, come appunto molte grazie derivanti dalla semplicità; per esempio nelle opere di belle arti, nell’abito di una pastorella, citato anche da Montesquieu come grazioso, insieme colle pitture di Rafaello e Correggio. Anche un viso piccante ma non bello si può dire che contenga questo non so che e punga senza bisogno di azione, come per esempio veduto in un ritratto, quantunque d’ordinario prenda risalto dal movimento. 3°, La naturalezza non è la sola fonte della grazia, e pure non c’é grazia dove c’é affettazione. Il fatto è che, quantunque una cosa non sia graziosa per questo ch’é naturale, tuttavia non può esser graziosa se non è o non par naturale, e il minimo segno di stento o di volontà ec. ec. basta per ispegnere ogni grazia. Dico, se non pare, perché le grazie della poesia, del discorso, delle arti ec. per lo piú paiono naturali e non sono. 4°, La piccolezza abbiamo veduto come abbia che far colla grazia. 5°, Lo svelto, il leggero parimente ha che far colla grazia. E notate che i movimenti molli e leggeri di una persona di taglio svelto sono graziosi senza sorpresa, giacché non è strano che i moti di una tal persona sieno facili e leggeri. Bensí muovono una certa maraviglia o ammirazione diversa dalla sorpresa, la quale nasce dall’inaspettato o dall’aspettazione del contrario. Cosí la maraviglia prodotta dalle belle arti, con tutto che appartenga al bello, non ha che far colla grazia. 6°, L’effetto della grazia ordinariamente è quello che ho detto, di scuotere e solleticare e pungere, puntura che spesso arriva dirittamente al cuore; come se tu vedi due occhi furbi di una donna rivolti sopra di te, nel qual caso la scossa si può paragonare anche all’elettrica. Ma in quella grazia che spetta, per esempio, alla semplicità pare che, se l’effetto è di solleticare, non sia di pungere; e forse si può fare su questa considerazione una distinzione di due grazie, l’una piccante, l’altra molle, insinuante, glissante dolcemente nell’anima. E forse la prima si chiama piú propriamente il non so che. 7°, La vivacità ha che far colla prima specie di grazia. Ma con tutto ciò la vivacità non è grazia. 8°, Nei cibi parimente si dà una certa grazia, ora della prima, ora anche della seconda specie. Quelli che chiamano ragoûts appartengono alla prima. E qui pure discordano i gusti infinitamente.
Insomma non saprei che dire. Si potrebbe conchiudere che la grazia consiste in un certo irritamento nelle cose che appartengono al bello e al piacere. Cosí si verrebbe ad escludere un viso mostruoso ec., e dall’altra parte il piacere troppo spiccato e sfacciato, come quello della bellezza, dei godimenti corporali, del desiderio soddisfatto; potendo la grazia chiamarsi piuttosto uno stuzzica-appetito, che una soddisfazione di esso (4-9 agosto 1820).
* La grazia propriamente non ha luogo se non nei piaceri che appartengono al bello. Una novità, un racconto curioso, una nuova piccante, tutto quello che punge o muove o solletica la curiosità, sono irritamenti piacevoli, ma non hanno che far colla grazia. E quelli che appartengono ai cibi, o a qualunque altro piacere, parimente somigliano alla grazia e possono esserne esempi, ma non confondersi con lei. Perciò la grazia va definita semplicemente un irritamento nelle cose che appartengono al bello, tanto sensibile quanto intellettuale, come il bello poetico ec.