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(140-141) pensieri 247

licitare o a consolare. Parlo delle calamità gravissime e reali che riducono alla disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera di esser creduto esagerando, né di quelle provenienti da grandi illusioni e passioni, dove l’uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto (26 giugno 1820).


*   Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell’anima. Le sventure, o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte o anche far morire, ma quel dolore ha piú della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella (141) medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa piú viva, laddove quest’altra è piú sepolcrale, senz’azione, senza movimento, senza calore e quasi senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza o dal pensiero dell’inferno. Questa condizione dell’anima è l’effetto di somme sventure reali e di una grand’anima piena una volta d’immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita cosí evidentemente nulla e monotona che renda sensibile e palpabile la vanità delle cose, perché senza ciò la gran varietà delle illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno impedisce questa fatale e sensibile evidenza. E perciò non ostante che questa condizione dell’anima sia ragionevolissima, anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo contrarissima, anzi la piú dirittamente contraria alla natura, non si sa se non di pochi che l’abbiano provata, come del Tasso.