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388 pensieri (318-319-320)

di quanto le avesse amate, perché non si ripudia quello che non s’é mai amato, né si abbandona quello che non s’é mai seguito. Né si mente senza vantaggio in punto di morte ec. (11 novembre 1820).


*    (319) Sovente ho desiderato con impazienza di possedere e gustare un bene già sicuro, non per avidità di esso bene, ma per solo timore di concepirne troppa speranza e guastarlo coll’aspettativa. E questa tale impazienza ho osservato che non veniva da riflessione, ma naturalmente, nel tempo ch’io andava fantasticando e congetturando sopra quel bene o diletto. E cosí anche naturalmente proccurava di distrarmi da quel pensiero. Se però l’abito generale di riflettere, o vero l’esperienza e la riflessione che mi aveano già precedentemente resa naturale la cognizione della vanità dei piaceri e la diffidenza dell’aspettativa, non operavano allora in me senz’avvedermene e non mi parvero natura (11 novembre 1820).


*   Dice Quintiliano l. 10, c. 1. Quid ego commemorem Xenophontis iucunditatem illam inaffectatam, sed quam nulla possit affectatio consequi? E certo ogni bellezza principale nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non dall’affettazione o ricerca. Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza di esprimere il carattere e lo stile altrui e ripetere il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate quanto sia difficile una buona traduzione in genere di bella letteratura, (320) opera che dev’esser composta di proprietà che paiono discordanti e incompatibili e contraddittorie. E similmente l’anima e lo spirito e l’ingegno del traduttore. Massime quando il principale o uno de’ principali pregi dell’originale consiste appunto nell’inaffettato, naturale e spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può essere spontaneo. Ma d’altra parte quest’affettazione che ho detto è cosí