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(326-327-328) | pensieri | 393 |
* Dicono che la felicità dell’uomo non può consistere fuorché nella verità. Cosí parrebbe, perché qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell’ignoranza del vero. E questo, appunto perché il mondo è diretto alla felicità e perché la natura ha fatto l’uomo felice. Ora essa l’ha fatto anche ignorante, come gli altri animali. Dunque l’avrebbe fatto (327) infelice esso e le altre creature; dunque l’uomo per se stesso sarebbe infelice, eppure le altre creature sono felici per se stesse; dunque sarebbero stati necessari moltissimi secoli perché l’uomo acquistasse il complemento, anzi il principale dell’esistenza, ch’é la felicità, giacché nemmeno ora siam giunti all’intiera cognizione nel vero; dunque gli antichi sarebbero stati necessariamente infelici; dunque tutti i popoli non colti, parimente lo saranno anche oggidí; dunque noi pure necessariamente per quella parte che ci manca della cognizione del vero. Laddove tutti gli esseri (parlo dei generi e non degl’individui) sono usciti perfetti nel loro genere dalle mani della natura.
* E la perfezione consiste nella felicità quanto all’individuo e nella retta corrispondenza all’ordine delle cose quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest’ordine in un modo e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l’ignoranza è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza. E se la natura ha voluto incontrastabilmente la felicità degli esseri, perché, supponendo che l’abbia posta riguardo all’uomo nella cognizione del vero, ha nascosto questo vero cosí gelosamente, che secoli e secoli non bastano a discoprirlo? (328) Non sarebbe questo un vizio organico, fondamentale, radicale e una contraddizione nel suo sistema? Come ha reso cosí difficile il solo mezzo di ottener quello ch’ella voleva soprattutto