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360 pensieri (274-275)

poco, e finalmente io passava per uno del loro grado. È vero però che talvolta può succedere il contrario, e per un’opinione simile, in tempi o luoghi ignoranti, un uomo o un pregio piccolo conseguire una somma stima.


*   Alla p. 252, capoverso 1. Vedi in questo proposito la p. 114, pensiero ultimo, e considera la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso i Romani; i quali sono un vivissimo esempio di quello ch’io dico, cioè dell’esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favorevolissimi alla tirannia. Vedi anche Montesquieu Grandeur ec., ch. 10, principio. Certo la profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ec. non impedí la tirannía, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando n’ebbero in buon numero e cosí profondi come questi e come non ne avevano avuti mai, furono schiavi. E come giovano tali studi alla tirannia, sebbene paiano suoi nemici, cosí scambievolmente la (275) tirannia giova loro: 1°, perché il tiranno ama e procura che il popolo si diverta, o pensi, quando non si possa impedire, invece che operi; 2°, perché l’inoperosità del suddito lo conduce naturalmente alla vita del pensiero, mancando quella dell’azione; 3°, perché l’uomo snervato e ammollito è piú capace e piú voglioso o di pensare o di spassarsi coll’amenità ec. degli studi eleganti che di operare; 4°, perché il peso, la infelicità, la monotonia, il sombre della tirannia fomenta e introduce la riflessione, la profondità del pensare, la sensibilità, lo scriver malinconico, l’eloquenza non piú viva ed energica, ma lugubre, profonda, filosofica ec.; 5°, perché la mancanza delle vive e grandi illusioni, spegnendo l’immaginazione lieta, aerea, brillante e insomma naturale come l’antica, introduce la considerazione del