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(40-41) pensieri 139

sono felici o quasi felici; quando la previdenza de’ mali, (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d’infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra, che lo porta né si può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti; perché ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura che vi sia un animale, e questo il piú perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità e una specie di contraddizione colla sua esistenza, al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all’essere di quella tale sostanza (che per l’uomo è impossibile di conseguire), e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacché un uomo disperato della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n’annoia, ne patisce (cosa snaturata) e s’uccide come vediamo che fa (impossibile ne’ bruti). L’uccidersi dell’uomo è una gran prova della sua immortalità. Verri, Notte Romana 5, colloquio 5.  (41)


*   La prima donna, del teatro, attempata, non vuol recedere dagli antichi suoi diritti.


*   Quello che ho detto qui sopra della difficoltà d’astenersi dall’imitare è confermato e dall’esempio del Metastasio, che, se è vero quello che dice il Calsabigi nella lettera all’Alfieri, non volle mai leggere tragedie francesi, e da quello che scrive l’Alfieri di se nella sua vita, e, tra l’altro, del Caluso che gli negò una tragedia del Voltaire ch’egli volea leggere