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(16-17) | pensieri | 97 |
pria forza, inconsapevoli, producono nel nostro animo quegli effetti, bisogna trasportarli come sono né piú né meno nella poesia; e che cosí bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l’attenzione alle minute parti loro, che nella realtà non si notavano e nella imitazione si notano, è forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto piú parla in persona propria e quanto piú aggiunge di suo tanto meno imita (cosa già notata da Aristotele, al quale, volendo o non volendo, senz’avvedersene si ritorna), e che il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi; onde una similitudine d’Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti e un’ode d’Anacreonte vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone piú che cento mila versi sentimentali, perché quivi parla la natura, e qui parla il poeta; e non si (17) avvedono che appunto questo grand’ideale dei tempi nostri, questo conoscere cosí intimamente il cuor nostro, questo analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i piú minuti affetti, quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell’animo e delle azioni (vedi quel che ho detto in altro pensiero), e che, mentre l’uomo, preso in grande, si allontana da quella puerizia in cui tutto è singolare e maraviglioso, in cui l’immaginazione par che non abbia confini, da quella puerizia che cosí era propria del mondo a tempo degli antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la capacità di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa piú palpitare per una cosa che conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche palpita (perché il cuor nostro non è cangiato, ma la mente