(Genesi, III, 5). In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s’egli avrebbe saputo contenere la sua ragione ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione, in cui pretendono che consista e da cui vogliono che dipenda la felicità umana: fu appunto il vedere s’egli avrebbe saputo conservarsi quella felicità che gli era destinata e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione e del sapere. Questa fu la prova a cui Dio volle assoggettar l’uomo, se bene lo fece in un modo o materiale o misterioso. Di che cosa poi si trattava? È egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere il bene ed il male? (che insomma è quanto dire la cognizione); secondo voi altri apologisti della religione, non è. Ma all’autor della religione parve che fosse, perché l’uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tuttociò che gli conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non (397) piú per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper piú di quello che gli conveniva, cioè entrare colle sue proprie facoltà nei campi dello scibile, e quindi, non dipendendo piú dalle leggi della sua natura nella cognizione, scoprir quello, che alle leggi della sua natura era contrario che si scoprisse. Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri; peccato di superbia nell’aver voluto sapere quello che non dovevano e impiegare alla cognizione un mezzo e un’opera propria, cioè la ragione, in luogo dell’istinto, ch’era un mezzo e un’azione immediata di Dio: peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell’uomo. I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognata questa perfettibilità,