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(17-18) pensieri 99

taglie, i salmi di Davidde, le odi di Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non paresse piú tale, o almeno (non si sa poi perché, quando non si ammettano le due cose precedenti) dai moderni non dovesse piú esser coltivata; come non deve parere una pazzia difficile a credere che sia caduta in testa d’un uomo savio? Dunque Virgilio non è poeta altro che nel quarto libro dell'Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so io? dunque  (18) non ci sarà piú altro che un solo genere di poesia? e in uno stesso componimento non si dovrà piú tenere altro che un tuono solo? (E dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole antiche.) Ma che? abbiamo mutato natura affatto? non c’è piú gioia se non mezzo malinconica, non c’è piú ira, non c’è piú grandezza e altezza di pensieri, senza quel condimento di patetico ec. ec.? (E se la poesia è arte imitativa e il suo fine è il dilettare, né deve imitare una cosa sola, né una sola cosa diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura e del fine della poesia, che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia prodotta dall’imitazione ec.) Ma queste son follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti del Breme, ci si scopre una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale cosí del suo sistema come del romantico. Da principio dice che gli antichi credevano tutto e si persuadevano di mille pazzie, che l’ignoranza, il timore, i pregiudizi e somministravano allora gran materia alla loro poesia, e non possono piú somministrarne ai tempi nostri; insomma evidentemente par che venga a conchiudere, che la poesia nostra bisogna che sia ragionevole e in proporzione coi lumi dell’età nostra, e in fatti dice che ce la debbono somministrare la religione, la filosofia, le leggi di società ec. ec. E cosí dicono i romantici. Ma se cosí è, ecco l’illusione sparita, e se il poeta non può illudere non è piú poeta, e una poesia ragionevole,