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Libro Settimo.


     Ed ancor tu, d’Enea fida nutrice
Caieta, ai nostri liti eterna fama
Désti morendo, ed essi anco a te diero
Sede onorata, se d’onore a’ morti
5È d’aver l’ossa consecrate e ’l nome
Ne la famosa Esperia. Ebbe Caieta
Dal suo pietoso alunno essequie e lutto,
E sepoltura alteramente eretta.
Indi, già fatto il mar tranquillo e queto,
10Spiegâr le vele a’ venti, e i venti al corso
Eran secondi; e ’n sul calar del sole,
La luna che sorgea lucente e piena,
Chiare l’onde facea tremole e crespe.
Uscîr del porto; e pria rasero i liti
15Ove Circe del Sol la ricca figlia
Gode felice, e mai sempre cantando
Soavemente al periglioso varco
De le sue selve i peregrini invita:
E de la reggia, ove tessendo stassi

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20Le ricche tele, con l’arguto suono
Che fan le spole e i pettini e i telari,
E co’ fuochi de’ cedri e de’ ginepri
Porge lunge la notte iudicio e lume.
     Quinci là verso il dì, lontano udissi
25Ruggir lioni, urlar lupi, adirarsi,
E fremire e grugnire orsi e cignali,
Ch’eran uomini in prima: e ’n queste forme
Da lei con erbe e con malie cangiati
Giacean di ferri e di ferrate sbarre
30Ne le sue stalle incatenati e chiusi.
E perchè ciò non avvenisse ai Teucri,
Che buoni erano e pii, da cotal porto
E da spiaggia sì ria Nettuno stesso
Spinse i lor legni, e diè lor vento e fuga,
35Tal che fuor d’ogni rischio li condusse.
     Già rosseggiava d’orïente il balzo,
E nel suo carro d’ostro ornata e d’oro
L’Aurora si traea de l’onde fuori,
Quando subitamente ogn’aura, ogn’alito
40Cessò del vento, e ne fu ’l mare in calma
Sì ch’a forza ne gian de’ remi a pena.
     Qui la terra mirando il padre Enea
Vede un’ampia foresta, e dentro, un fiume
Rapido, vorticoso e queto insieme,

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45Che per l’amena selva, e per la bionda
Sua molta arena si devolve al mare.
Questo era il Tebro, il tanto desiato,
Il tanto cerco suo Tebro fatale:
A le cui ripe, a le cui selve intorno,
50E di sopra volando ivan le schiere
Di più canori suoi palustri augelli.
Allor, Via, dice a suoi, volgete il corso,
Itene a riva. E tutti in un momento
Rivolti e giunti, de l’opaco fiume
55Preser la foce, e lietamente entraro.
     Porgimi, Èrato, aita a dir quai regi,
Quai tempi e quale stato avesse allora
L’antico Lazio, quando prima i Teucri
Con questa armata a’ suoi liti approdaro;
60Ch’io dirò da principio le cagioni
E gli accidenti, onde con essi a l’arme
Si venne in pria: dirò battaglie orrende,
Dirò stragi d’esserciti, e duelli
Di regi stessi, e la Toscana tutta,
65E tutta anco l’Esperia in arme accolta.
Tu d’Elicona Dea, tu ciò mi detta,
Ch’altr’ordine di cose, altro lavoro,
E maggior opra ordisco. Era signore,
Quando ciò fu, di Lazio il re Latino,

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70Un re che vèglio e placido gran tempo
Avea ’l suo regno amministrato in pace.
Questi nacque di Fauno e di Marica
Ninfa di Laürento, e Fauno a Pico
Era figliuolo, e Pico a te, Saturno,
75Del suo regio legnaggio ultimo autore.
Non avea questo re stirpe virile,
Com’era il suo destino; e quella ch’ebbe
Gli fu nel fior de’ suoi verd’anni ancisa.
Sola d’un sangue tal, d’un tanto regno
80Restava una sua figlia unica erede,
Che già d’anni matura, e di bellezza
Più d’ogni altra famosa, era da molti
Eroi del Lazio e de l’Ausonia tutta
Desiata e ricerca. Avanti agli altri
85La chiedea Turno, un giovine, il più bello,
Il più possente e di più chiara stirpe
Che gli altri tutti; e più ch’agli altri, a lui,
Anzi a lui sol la sua regina madre
Con mirabil affetto era inchinata.
90Ma che sua sposa fosse, avverso fato,
Vari portenti e spaventosi augúri
Facean contesa. Era un cortile in mezzo
A le stanze reali ove un gran lauro
Già di gran tempo consecrato e cólto

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95Con molta riverenza era serbato.
Si dicea che Latino esso re stesso
Nel designare i suoi primi edifici,
Là ’ve trovollo, di sua mano a Febo
L’avea dicato; e ch’indi il nome diede
100A’ suoi Laurenti. A questo lauro in cima
Meravigliosamente di lontano
Romoreggiando a la sua vetta intorno
Venne d’api una nugola a posarsi;
E con l’ali e co’ piè l’una con l’altra,
105E tutte insieme aggraticciate e strette
Stier d’uva in guisa a le sue frondi appese.
Ciò l’indovino interpretando, Io veggo,
Disse, venir da lunge un duce esterno,
Ed una gente che d’un loco uscita
110In un loco medesmo si rauna,
Ed altamente ivi s’alloga e regna.
Stando un giorno, oltre a ciò, Lavinia virgo
Sacrificando col suo padre a canto,
Ed a l’altar caste facelle offrendo,
115Parve (nefanda vista!) che dal foco
Fossero i lunghi suoi capelli appresi,
E che stridendo, non pur l’oro ardesse
De le sue trecce, ma il suo regio arnese
E la corona stessa, che di gemme

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120Era fregiata. Indi con rogio vampo,
Con nero fumo e con volumi attorti
S’avventasse d’intorno, e l’alta reggia
Tutta di fiamme empiesse: orrendo mostro,
E di gran meraviglia a chiunque il vide.
125Gli áuguri ne dicean che fama illustre
E gran fortuna a lei si portendea;
Ma ruina a lo stato, e guerra a’ popoli.
     A questi mostri attonito e confuso
Il re tosto a l’oracolo di Fauno
130Suo genitor ne l’alta Albunea selva
Per consiglio ricorse. È questa selva
Immensa, opaca, ove mai sempre suona
Un sacro fonte, onde mai sempre essala
Una tetra vorago. Il Lazio tutto
135E tutta Italia in ogni dubbio caso
Quindi certezza, aita e ’ndrizzo attende.
E l’oracolo è tale. Il sacerdote
Nel profondo silenzio de la notte
Si fa de l’immolate pecorelle
140Sotto un covile, ove s’adagia e dorme.
Nel sonno con mirabili apparenze
Si vede intorno i simolacri e l’ombre
Di ciò ch’ivi si chiede, e varie voci
Ne sente, e con gli Dei parla e con gl’Inferi.

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     145In questa guisa il re Latino stesso
Al vaticinio del suo padre intento
Cento pecore ancide, e i velli e i terghi
Nel suol ne stende, e vi s’involve e corca:
Ed ecco un’alta repentina voce
150Che, de la selva uscendo, intuona e dice:
Invan, figlio, procuri, invan t’imagini
Che tua figlia s’ammogli a sposo ausonio,
Vane e nulle saran le sponsalizie
Ch’or le prepari. Di lontano un genero
155Venir ti veggio, per cui sopra a l’etera
Salirà il nostro nome; e i nostri posteri
Ne vedran sotto i piè quanto l’Oceano
D’ambi i lati circonda e ’l sole illumina.
     Questa risposta e questi avvertimenti,
160Perchè di notte e di secreta parte
Fosser da Fauno usciti, il re non tenne
In sè stesso celati; anzi la fama
Per le terre d’Ausonia gli spargea,
Quando la frigia armata al Tebro aggiunse.
     165Enea col figlio e co’ suoi primi duci
A l’ombre d’un grand’albero in disparte
Degli altri a prender cibo insieme unissi.
Eran su l’erba agiati; e, come avviso
Creder si dee che del gran Giove fosse,

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170Avean poche vivande; e quelle poche
Gran forme di focacce e di farrate
In vece avean di tavole e di quadre,
E la terra medesma e i solchi suoi
Ai pomi agresti eran fiscelle e nappi.
175Altro per avventura allor non v’era
Di che cibarsi. Onde, finiti i cibi,
Volser per fame a quei lor deschi i denti,
E motteggiando allora, O, disse Iulo,
Fino a le mense ancor ne divoriamo?
180E rise e tacque. A questa voce Enea,
Sì come a fin de le fatiche loro,
Avvertì primamente, e stupefatto
Del suo misterio, subito inchinando
Disse: O da’ fati a me promessa terra,
185Io te devoto adoro: e voi ringrazio,
Santi numi di Troia, amiche e fide
Scorte degli error miei. Questa è la patria,
Quest’è l’albergo nostro e questo è ’l segno
Che ’l mio padre lasciommi (or mi ricordo
190De gli occulti miei fati), Allor, dicendo,
Che sarai, figlio, in peregrina terra
Da fame a manducar le mense astretto,
Fia ’l tuo riposo: allor fonda gli alberghi,
Allor le mura. Or questa è quella fame,

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195Ultimo rischio ad ultimar prescritto
Tutti i nostri altri perigliosi affanni.
Or via, dimane a l’apparir del sole
Per diversi sentier lungi dal porto
Tutti gioiosamente investighiamo
200Che paese sia questo, da che gente
Sia cólto, dove sien le terre loro.
Ora a Giove si béa; faccinsi preci
Al padre Anchise; e sian le mense tutte
Di vin piene e di tazze. E, ciò dicendo,
205Di frondi s’inghirlanda: e del paese
Il genio, e de la terra il primo nume
Primieramente inchina, e le sue ninfe,
E ’l fiume ancor non conto. Indi la Notte,
E de la Notte le sorgenti stelle,
210E Giove idèo, e d’Ida la gran madre,
E la madre di lui dal cielo invoca.
E da l’Erebo il padre. E qui di lampi
Cinto, di luce e d’oro, e di sua mano
Folgorando il gran Giove a ciel sereno
215Tonò tre volte. In ciò repente nacque
Tra le squadre troiane un lieto grido,
Ch’era già ’l tempo di fondar venuto
Le desiate mura. A tanto annunzio
Tutti commossi, a rinovar le mense,

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220Ad invitarsi, a coronarsi, a bere
Lietamente si diero. Il dì seguente
Nel sorger de l’aurora uscir diversi
A spiar del paese, che contrade
E che liti eran quelli, e di che genti.
225Trovâr che di Numíco era lo stagno.
E che ’l fiume era il Tebro, e la cittade
Da’ feroci Latini era abitata.
     Allor d’Anchise il generoso figlio
Cento fra tutti i più scelti oratori
230D’oliva incoronati al re destina
Con doni, con avvisi e con richieste
D’amicizia, di commodi e di pace.
     Questi il viaggio lor sollecitando
Se ne van senza indugio. Ed egli intanto,
235Preso nel lito il primo alloggiamento,
Di picciol fosso la muraglia insolca;
E ’n sembianza di campo e di fortezza
D’argini lo circonda e di steccato.
     Seguon gl’imbasciatori, e già da presso
240La città, l’alte torri e i gran palagi
Scoprendo de’ Latini, anzi a le mura
Veggono il fior de’ giovinetti loro
Su’ cavalli e su’ carri essercitarsi,
Lotteggiar, tirar d’arco, avventar pali,

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245E cotali altre oprar contese e prove
Di corso, d’attitudine e di forza.
     Tosto che compariscono, un messaggio
Quindi si spicca in fretta, e precorrendo
Riporta al vecchio re, che nuova gente
250Di gran sembiante e d’abito straniero
Vien dal mare a sua corte. Il re comanda
Che siano ammessi; e ne l’antico seggio
Per ascoltarli in maestà si reca.
     Era la corte un ampio, antico, augusto
255Di più di cento colonnati estrutto
In cima a la città sublime albergo:
Pico di Laürento il vecchio rege
L’avea fondata. Era d’oscure selve,
Era de’ numi de’ primi avi suoi
260Sovra d’ogn’altra veneranda e sacra.
Qui de’ lor scettri, qui de’ primi fasci
S’investivano i regi. In questo tempio
Era la curia, eran le sacre cene,
Eran de’ padri i publici conviti
265De l’occiso arïete. Avea d’antico
Cedro, nel primo entrar, un dietro a l’altro,
De’ suoi grand’avi i simolacri eretti.
Italo v’era, e il buon padre Sabino,
Saturno con la vite e con la falce,

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270Giano con le due teste, e gli altri regi
Tutti di mano in man, che combattendo
Non fur di sangue a la lor patria avari.
Pendean da le pareti e da’ pilastri
Un gran numero d’armi e d’altre spoglie
275Prese in battaglia. Ai portici d’intorno
Carri, trofei, catene, elmi e cimieri
E securi e corazze e scudi e lance
E rostri di navili e ferri e sbarre
Di fracassate porte erano affisse.
     280In abito succinto, e con la verga
Che fu poi di Quirino, e con l’ancile
Ne la sinistra esso re Pico assiso
V’era, pria cavaliero, e poscia augello:
Ch’in augello il cangiò la maga Circe,
285Sdegnosa amante; e gli suoi regi fregi
Gli converse in colori, e ’l manto in ali.
     In questo tempio sovra il seggio agiato
De’ suoi maggiori, a sè Latino i Teucri
Chiamar si fece; e dolcemente in prima
290Così parlò: Dite, Troiani amici,
A che venite? chè venite in luogo
C’ha di Troia e di voi contezza a pieno;
Siatevi, o per errore o per tempesta
O per bisogno a questi liti addotti,

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295Come a gente di mar sovente avviene;
Ch’a buon fiume, a buon porto a buon ospizio
Siete arrivati. Da Saturno scesi
Sono i Latini, ed ospitali e buoni,
Non per forza o per leggi, ma per uso
300E per natura; e del buon vecchio dio
Seguitiam l’orme e de’ suoi tempi d’oro.
Io mi ricordo (ancor che questa fama
Sia per molt’anni omai debile e scura)
Che per vanto soleano i vecchi Aurunci
305Dir che Dárdano vostro in queste parti
Ebbe il suo nascimento; e quinci in Ida
Passò di Frigia, e ne la tracia Samo,
Ch’or Samotracia è detta. Da’ Tirreni,
E da Còrito uscío Dárdano vostro,
310Ch’or fatto è dio, e tra’ celesti in cielo
D’oro ha la sua magion, di stelle il seggio,
E qua giù tra’ mortali altari e voti.
Avea ciò detto, quando a’ detti suoi
Il saggio Ilïoneo così rispose:
     315Alto signor, di Fauno egregio figlio,
Non tempesta di mar, non venti avversi,
Non di stelle, o di liti o di nocchieri
Error qui n’ave, od ignoranza addotti.
Noi di nostro voler, di nostro avviso

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320Ci siam venuti, discacciati e privi
D’un regno de’ maggiori e de’ più chiari,
Ch’unqua vedesse d’orïente il sole.
Da Dárdano e da Giove il suo legnaggio
Ha quella gente, e quel troiano Enea
325Ch’a te ne manda. La tempesta, i fati,
E la ruina che ne’ campi idèi
Venne di Grecia, onde l’Europa e l’Asia
E ’l mondo tutto sottosopra andonne,
Cui non è conta? chi sì lunge è posto
330Da noi, che non l’udisse? o che da l’acque
De l’estremo Oceáno, o che dal foco
De la torrida zona sia diviso
Da la nostra notizia? Il nostro affanno
Tal fece intorno a sè diluvio e moto,
335Che scosse ed allagò la terra tutta.
Da indi in qua dispersi e vagabondi
Per tanti mari, un sol picciol ridotto
Agli Dei nostri, un lito che n’accolga,
Non da nemici, un poco d’acqua e d’aura,
340Lassi! quel ch’ogn’uom ha, cercando andiamo.
Non disutili, credo, e non indegni
Sarem del regno vostro: a voi non lieve
Ne verrà fama; e d’un tal merto tanto
Vi sarem grati, che l’ausonia terra

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345Non mai si pentirà d’aver i figli
De la misera Troia in grembo accolti.
Io ti giuro, signor, per le fatiche,
Per gli fati d’Enea, per la possente
Sua destra, già per fede e per valore
350Famosa al mondo, che da molte genti
Molte fïate (e ciò vil non ti sembri,
Che da noi stessi a te ci proferiamo
E ti preghiamo) siam pregati noi,
E per compagni desiati e cerchi:
355Ma dai fati, signore, e dagli Dei
Siam qui mandati. Dárdano qui nacque,
Qua Febo ne richiama. Febo stesso,
E quel di Delo, è ch’ai Tirreni, al Tebro,
Al fonte di Numíco, a voi c’invia.
360Queste, oltre a ciò, poche reliquie e seguì
De l’andata fortuna e del suo amore
Il re nostro vi manda, che dal foco
Son de la patria ricovrate a pena.
Con questa coppa il suo buon padre Anchise
365Sacrificava. Questo regno in testa,
Quando era in solio, il gran Prïamo avea;
Questo è lo scettro, questa è la tïara,
Sacro suo portamento; e queste vesti
Son de le donne d’Ilio opre e fatiche.

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     370Al dir d’Ilïonèo stava Latino
Fisso col volto a terra immoto e saldo
Come in astratto, e solo avea le luci
Degli occhi intese a rimirar, non tanto
Il dipint’ostro e gli altri regi arnesi,
375Quanto in pensar de la diletta figlia
Il maritaggio, e ’l vaticinio uscito
Dal vecchio Fauno. E ’n sè stesso raccolto,
Questi è certo, dicea, quei che da’ fati
Si denunzia venir di stran paese
380Genero a me, sposo a Lavinia mia,
Del mio regno partecipe e consorte.
Questi è da cui verrà l’egregia stirpe,
Che col valor farassi e con le forze
Soggetto e tributario il mondo tutto.
385Ed alfin lieto, O, disse, eterni Dei,
Secondate voi stessi i vostri augúri
E i pensier miei. Da me, Troiani, arete
Tutto che desiate; e i vostri doni
Gradisco e pregio; e mentre re Latino
390Sarà, sarete voi nel regno suo
Cortesemente accolti; e ’l seggio e i campi
E ciò ch’è d’uopo, come a Troia foste,
In copia arete. Or s’ei tanto desia
L’amistà nostra e ’l nostro ospizio, vegna

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395Egli in persona, e non aborra omai
Il nostro amico aspetto. Arra e certezza
Ne fia di pace il convenir con lui,
E di lui stesso aver la fede in pegno.
Da l’altra parte, a mio nome gli dite
400Quel ch’io dirovvi. Io senza più mi trovo
Una mia figlia. A questa il mio paterno
Oracolo, e del ciel molti prodigi
Vietan ch’io dia marito altro ch’esterno.
D’esterna parte, tal d’Italia è ’l fato,
405Un genero dal ciel mi si promette,
Per la cui stirpe il mio nome e ’l mio sangue
Ergerassi a le stelle. Or se del vero
Punto è ’l mio cor presago, egli è quel desso
Cred’io che ’l fato accenna, e ’l credo e ’l bramo.
     410Ciò detto, de’ trecento, che mai sempre
A’ suoi presepi avea, nitidi e pronti
Destrier di fazïone e di rispetto,
Per gli cento orator cento n’elegge,
Ch’avean le lor coverte e i lor girelli,
415Le pettiere e le briglie in varie guise
D’ostro e di seta ricamati e d’oro,
E d’òr le ghiere e d’òr le borchie e i freni.
Al troian duce assente un carro invia
Con due corsier ch’eran di quei del Sole

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420Generosi bastardi, e vampa e foco
Sbruffavan per le nari. Al Sol suo padre
La razza ne furò la scaltra Circe
Allor ch’a l’incantate sue giumente
Eto e Piròo furtivamente impose.
425Tali in su tai cavalli alteramente
Tornando i Teucri al teucro duce, allegre
Portâr novelle e parentela e pace.
     Ed ecco che di Grecia uscendo e d’Argo,
L’empia moglie di Giove, alto da terra
430Sospesa, infin dal sicolo Pachino
Vide i legni troiani; e vide Enea
Con tutti i suoi, che lieto e fuor del mare
E secur de la terra, incominciava
D’alzar gli alberghi, e di fondar le mura
435Già d’un altr’Ilio. E, punta il cor di doglia,
Squassando il capo, Ah, disse, a me purtroppo
Nimica razza! ah troppo a’ fati miei
Fati de’ Frigi avversi! E forse estinti
Fur ne’ campi sigèi? forse potuti
440Si son prender già presi, ed arder arsi?
Per mezzo de le schiere e de gl’incendi
Han trovata la via. Stanca fia dunque
Questa mia deità, quando ancor sazia
Non è de l’odio? E già s’è resa, quando

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445Ha fin qui nulla oprato? E che mi giova
Che sian del regno e de la patria in bando?
Che mi val ch’io mi sia con tutto il mare
A loro opposta? Ah! che del mar già tutte,
E del ciel contra lor le forze ho logre.
450E che le Sirti, e che Scilla e Cariddi
A me con lor son valse? Ecco han del Tebro
La desïata foce; e non han téma
Del mar più, nè di me. Marte potéo
Disfar la gente de’ Lapìti immane;
455Potè Diana aver da Giove in preda
Del suo disegno i Calidòni antichi,
Quando de’ Calidòni e de’ Lapìti,
Vèr le pene, era il fallo o nullo o leve:
Ed io consorte del gran Giove e suora,
460Misera, incontro a lor che non ho mosso?
Che di me non ho fatto? E pur son vinta.
Enea, Enea mi vince. Ah se con lui
Il mio nume non può, perchè d’ognuno,
Chiunque sia, non ogni aita imploro?
465Se mover contra lui non posso il cielo,
Moverò l’Acheronte. Oh non per questo
Il fato si distorna; ed ei non meno
Di Latino otterrà la figlia e ’l regno.
Che più? Lo tratterrò: gli darò briga:

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470Porrò, s’altro non posso, in tanto affare
Gara, indugio e scompiglio: a strage, a morte,
Ad ogni strazio condurrò le genti
De l’un rege e de l’altro; e questi avanzi
Faran primieramente i lor suggetti
475De la lor amistà. Con questo in prima,
Si sian suocero e genero. Di sangue
De’ Troiani e de’ Rutuli dotata
N’andrai, regia donzella, al tuo marito;
E del tuo maritaggio e del tuo letto
480Auspice fia Bellona in vece mia.
Cotal non partorì di face pregna
Ecuba a Troia incendio, qual Ciprigna
Arà con questo suo novello Pari
Partorito altro foco, altra ruina
485A quest’altr’Ilio. Ciò dicendo, in terra
Discese irata, e da l’inferne grotte
A sè chiamò la nequitosa Aletto.
De le tre dire Furie una è costei,
Cui son l’ire, i dannaggi, i tradimenti,
490Le guerre, le discordie, le ruine,
Ogn’empio officio, ogni mal opra a coro.
E tale un mostro in tanti e così fieri
Sembianti si trasmuta, e de’ serpenti
Sì tetra copia le germoglia intorno,

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495Che Pluto e le tartaree sorelle
Sue stesse in odio ed in fastidio l’hanno.
Giunon le parla, e via più co’ suoi detti
In tal guisa l’accende: O de la Notte
Possente figlia, io per mio proprio affetto,
500Per onor del mio nume, per salvezza
De la mia fama un tuo servigio agogno.
Adoprati per me, che, mal mio grado,
Questo troiano Enea del re Latino
Genero non divenga, e nel suo regno
505Con gran mio pregiudicio non s’annidi.
Tu puoi, volendo, armar l’un contra l’altro
I concordi fratelli: odii e zizzanie
Seminar tra’ congiunti; e per le case
Con mill’arti nocendo, in mille guise
510Infra mortali indur morti e ruine.
Scuoti il fecondo petto, e le sue forze
Tutte a quest’opra accampa. Inferma, annulla
Questa lor pace; infiamma i cori a l’armi,
Arme ognun brami, ognun le gridi e prenda.
     515Di serpi e di gorgònei veneni
Guarnissi Aletto; e per lo Lazio in prima
Scorrendo, e per Laurento, e per la corte,
De la regina Amata entro la soglia
Insidïosamente si nascose.

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     520Era allor la regina, come donna,
E come madre, dal materno affetto,
Da lo scorno de’ Teucri, dal disturbo
De le nozze di Turno in molte guise
Afflitta e conturbata, quando Aletto,
525Per rivolgerla in furia, e co’ suoi mostri
Sossopra rivoltar la reggia tutta,
Da’ suoi cerulei crini un angue in seno
L’avventò sì, che l’entrò poscia al core.
Ei primamente infra la gonna e ’l petto
530Strisciando, e non mordendo, a poco a poco
Col suo vipereo fiato non sentito
Furor le spira. Or le si fa monile
Attorcigliato al collo: or lunga benda
Le pende da le tempie, or quasi un nastro
535L’annoda il crine. Alfin lubrico errando,
Per ogni membro le s’avvolge e serpe.
Ma fin che prima andò languido e molle
Soli i sensi occupando il suo veleno,
Fin che il suo foco penetrando a l’ossa
540Non avea tutto ancor l’animo acceso,
Ella donnescamente lagrimando
Sovra la figlia e sovra le sue nozze
Con tal queto rammarco si dolea:
     Adunque si darà Lavinia mia

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545A Troiani? a banditi? E tu suo padre,
Tu così la collòchi? E non t’incresce
Di lei, di te, di sua madre infelice?
Ch’al primo vento ch’a’ suoi legni spiri,
Di così caro pegno orba rimasa
550(Come dir si potrà), da questo infido
Fuggitivo ladrone abbandonata,
Del mar vedrolla e de’ corsari in preda?
O non così di Sparta anco rapita
Fu la figlia di Leda? E chi rapilla
555Non fu Troiano anch’egli? Ah! dov’è, sire,
Quella tua santa invïolabil fede?
Quella cura de’ tuoi? quella promessa
Che s’è fatta da te già tante volte
Al nostro Turno? Se d’esterna gente
560Genero ne si dee; se fisso e saldo
È ciò nel tuo pensiero; se di Fauno
Tuo padre il vaticinio a ciò si stringe;
Io credo ch’ogni terra, ch’al tuo scettro
Non è soggetta, sia straniera a noi.
565Così ragion mi detta, e così penso
Che l’oracolo intenda. Oltre che Turno
(Se la sua prima origine si mira)
Per suoi progenitori Inaco, Acrisio,
E per patria ha Micene. A questo dire

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570Stava nel suo proposito Latino
Ognor più duro. E la regina intanto
Più dal veleno era del serpe infetta:
E già tutta compresa, e da gran mostri
Agitata, sospinta e forsennata,
575Senza ritegno a correre, a scagliarsi,
A gridar fra le genti e fuor d’ogni uso
A tempestar per la città si diede.
Qual per gli atrii scorrendo e per le sale
Infra la turba de’ fanciulli a volo
580Va sferzato palèo ch’a salti, a scosse,
Ed a suon di guinzagli roteando
E ronzando s’aggira e si travolve,
Quando con meraviglia e con diletto
Gli va lo stuol de’ semplicetti intorno,
585E gli dan co’ flagelli animo e forza;
Tal per mezzo del Lazio e de’ feroci
Suoi popoli vagando, insana andava
La regina infelice. E, quel che poscia
Fu d’ardire e di scandalo maggiore,
590Di Bacco simulando il nume e ’l coro
Per tôr la figlia ai Teucri, e le sue nozze
Distornare o ’ndugiare, a’ monti ascesa
Ne le selve l’ascose: O Bacco, o Libero,
Gridando, Eüöè, questa mia vergine

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595Sola a te si convien, solo a te serbasi.
Ecco per te nel tuo coro s’essercita,
Per te prende i tuoi tirsi, a te s’impampina,
A te la chioma sua nodrisce e dedica.
     Divolgasi di ciò la fama intanto
600Fra le donne di Lazio, e tutte insieme
Da furor tratte, e d’uno ardore accese
Saltan fuor degli alberghi a la foresta.
Ed altre ignude i colli e sciolte i crini,
D’irsute pelli involte, e d’aste armate,
605Di tralci avviticchiate e di corimbi,
Orrende voci e tremuli ululati
Mandano a l’aura. E la regina in mezzo
A tutte l’altre una facella in mano
Prende di pino ardente, e l’imeneo
610De la figlia e di Turno imita e canta,
E con gli occhi di sangue e d’ira infetti
Al cielo ad ora ad or la voce alzando,
Uditemi, dicea, madri di Lazio,
Quante ne siete in ogni loco, uditemi.
615Se può pietade in voi, se può la grazia
De la misera Amata, e la miseria
Di lei, ch’ad ogni madre è d’infortunio,
Disvelatevi tutte e scapigliatevi;
Eüöè; a questo sacrificio

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620Ne venite con me, meco ululatene.
     Così da Bacco e da le furie spinta
Ne gía per selve e per deserti alpestri
La regina infelice, quando Aletto,
Ch’assai già disturbato avea il consiglio
625Di re Latino e la sua reggia tutta,
Ratto su le fosc’ali a l’aura alzossi;
E là ’ve già d’Acrisio il seggio pose
L’avara figlia, ivi dal vento esposta,
A l’orgoglioso Turno si rivolse.
630Ardèa fu quella terra allor nomata,
E d’Ardèa il nome insino ad or le resta,
Ma non già la fortuna. In questo loco
Entro al suo gran palagio a mezza notte
Prendea Turno riposo. Allor ch’Aletto
635Vi giunse, e ’l torvo suo maligno aspetto
Con ciò ch’avea di Furia, in senil forma
Cangiando, raggruppossi, incanutissi,
E di bende e d’olivo il crin velossi:
Calibe in tutto fessi, una vecchiona
640Ch’era sacerdotessa e guardïana
Del tempio di Giunone; e ’n cotal guisa
Si pose a lui davanti, e così disse:
     Turno, adunque avrai tu sofferte indarno
Tante fatiche, e questi Frigi avranno

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645La tua sposa e ’l tuo regno? Il re, la figlia
E la dote, ch’a te per gli tuoi merti,
Per lo sparso tuo sangue era dovuta,
E già da lui promessa, or ti ritoglie;
E de l’una e de l’altro erede e sposo
650Fassi un esterno. O va’ così deluso,
E per ingrati la persona e l’alma
Inutilmente a tanti rischi esponi.
Va’, fa strage de’ Toschi. Va’, difendi
I tuoi Latini e in pace li mantieni.
655Questo mi manda apertamente a dirti
La gran saturnia Giuno. Arma, arma i tuoi;
Preparati a la guerra; esci in campagna;
Assagli i Frigi, e snidagli dal fiume
C’han di già preso, e i lor navili incendi.
660Dal ciel ti si comanda. E se Latino
A le promissïon non corrisponde,
Se Turno non accetta e non gradisce
Nè per suo difensor nè per suo genero,
Provi qual sia ne l’armi, e quel ch’importi
665Averlo per nimico. Al cui parlare
Il giovine con beffe e con rampogne
Così rispose: Io non son, vecchia, ancora,
Come te, fuor de’ sensi; e ben sentita
Ho la nuova de’ Teucri, e me ne cale

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670Più che non credi. Non però ne temo
Quel che tu ne vaneggi; e non m’ha Giuno
(Penso) in tanto dispregio e ’n tale oblio.
Ma tu dagli anni rimbambita e scema
Entri, folle, in pensier d’armi e di stati,
675Ch’a te non tocca. Quel ch’è tuo mestiero,
Governa i templi, attendi ai simulacri,
E di pace pensar lascia e di guerra
A chi di guerreggiar la cura è data.
     Furia a la Furia questo dire accrebbe,
680Sì che d’ira avvampando, ella il suo volto
Riprese e rincagnossi: ed ei negli occhi
Stupido ne rimase, e tremò tutto:
Con tanti serpi s’arruffò l’Erinne,
Con tanti ne fischiò, tale una faccia
685Le si scoverse. Indi le bieche luci
Di foco accesa, la viperea sferza
Gli girò sopra, e sì com’era immoto
Per lo stupore, ed a più dire inteso,
Lo risospinse; e i suoi detti e i suoi scherni
690Così rabbiosamente improverògli:
     Or vedrai ben se rimbambita e scema
Sono entrata in pensier d’armi e di stati,
Ch’a me non tocchi; e se son vecchia e folle:
Guardami, e riconoscimi; ch’a questo

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695Son dal Tartaro uscita, e guerra e morte
Meco ne porto. E, ciò detto, avventògli
Tale una face e con tal fumo un foco,
Che fe’ tenebre agli occhi e fiamme al core.
     Lo spavento del giovine fu tale,
700Che rotto il sonno, di sudor bagnato
Si trovò per angoscia il corpo tutto:
E stordito sorgendo, arme d’intorno
Cercossi, armi gridò, d’ira s’accese,
D’empio disio, di scelerata insania
705Di scompigli e di guerra: in quella guisa
Che con alto bollor risuona e gonfia
Un gran caldar, quand’ha di verghe a’ fianchi
Chi gli ministra ognor foco maggiore,
Quando l’onda più ferve, e gorgogliando
710Più rompe, più si volve e spuma e versa,
E ’l suo negro vapore a l’aura essala:
Così Turno commosso a muover gli altri
Si volge incontinente; e de’ suoi primi,
Altri al re manda con la rotta pace,
715Ad altri l’apparecchio impon de l’arme,
Onde Italia difenda, onde i Troiani
Sian d’Italia cacciati: ed ei si vanta
Contra de’ Teucri e contra de’ Latini
Aver forze a bastanza. E ciò commesso,

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720E ne’ suoi voti i suoi numi invocati,
I Rutuli infra loro a gara armando
S’essortavan l’un l’altro; e tutti insieme
Eran tratti da lui, chi per lui stesso
(Che giovin era amabile e gentile),
725Chi per la nobiltà de’ suoi maggiori,
E chi per la virtude, e per le pruove
Di lui viste altre volte in altre guerre.
     Mentre così de’ suoi Turno dispone
Gli animi e l’armi, in altra parte Aletto
730Sèn vola a’ Teucri, e con nuov’arte apposta
In su la riva un loco, ove in campagna
Correndo e ’nsidïando, il bello Iulo
Seguia le fere fuggitive in caccia.
Qui di súbita rabbia i cani accese
735La virgo di Cocíto, e per la traccia
Gli mise tutti; onde scopriro un cervo
Che fu poi di tumulto, di rottura
Di guerra, e d’ogni mal prima cagione.
     Questo era un cervo mansueto e vago,
740Già grande e di gran corna, che divelto
Da la sua madre, era nel gregge addotto
Di Tirro e de’ suoi figli: ed era Tirro
Il custode maggior de’ regi armenti
E de’ regi poderi; ed egli stesso

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745L’avea nudrito e fatto umile e manso.
Silvia, una giovinetta sua figliuola,
L’avea per suo trastullo; e con gran cura
Di fior l’inghirlandava, il pettinava,
Lo lavava sovente. Era a la mensa
750A lor d’intorno; e da lor tutti amava
Esser pasciuto e vezzeggiato e tocco.
Errava per le selve a suo diletto,
E da sè stesso poi la sera a casa,
Come a proprio covil, se ne tornava.
755Quel dì per avventura di lontano
Lungo il fiume venía tra l’ombre e l’onde,
Da la sete schermendosi e dal caldo,
Quando d’Ascanio l’arrabbiate cagne
Gli s’avventaro, ed esso a farsi inteso
760D’un tale onore e di tal preda acquisto,
Diede a l’arco di piglio, e saettollo.
La Furia stessa gli drizzò la mano,
E spinse il dardo sì ch’a pieno il colse
Ne l’un de’ fianchi, e penetrògli a l’epa.
765Ferito, insanguinato, e con lo strale
Il meschinello ne le coste infisso,
Al consueto albergo entro ai presepi
Mugghiando e lamentando si ritrasse;
Ch’un lamentarsi, un dimandar aita

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770D’uomo in guisa più tosto che di fera,
Erano i mugghi onde la casa empiea.
Silvia lo vide in prima, e col suo pianto,
Col batter de le mani, e con le strida
Mosse i villani a far turbe e tumulto.
775Sta questa peste per le macchie ascosa,
Di topi in guisa, a razzolar la terra
In ogni tempo, sì che d’ogni lato
N’usciron d’improvviso; altri con pali
E con forche e con bronchi aguzzi al foco;
780Altri con mazze nodorose e gravi,
E tutti con quell’armi ch’a ciascuno
Fecer l’ira e la fretta. Era per sorte
Tirro in quel punto ad una quercia intorno,
E per forza di cogni e di bipenne
785L’avea tronca e squarciata: onde affannoso,
Di sudor pieno, fieramente ansando
Con la stessa ch’avea secure in mano
Corse a le grida, e le masnade accolse.
L’infernal Dea, ch’a la veletta stava
790Di tutto che seguia, veduto il tempo
Accomodato al suo pensier malvagio,
Tosto nel maggior colmo se ne salse
De la capanna, e con un corno a bocca
Sonò de l’armi il pastorale accento.

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795La spaventosa voce che n’uscío
Dal Tartaro spiccossi. E pria le selve
Ne tremâr tutte; indi di mano in mano
Di Nemo udilla e di Dïana il lago,
Udilla de la Nera il bianco fiume,
800E di Velino i fonti, e tal l’udiro,
Che ne strinser le madri i figli in seno.
     A quella voce, e verso quella parte
Onde sentissi, i contadini armati,
Comunque ebber tra via d’armi rincontro,
805Subitamente insieme s’adunaro.
Da l’altro lato i giovani Troiani
Al soccorso d’Ascanio in campo usciro,
Spiegâr le schiere, misersi in battaglia,
Vennero a l’armi; sì che non più zuffa
810Sembrava di villani, e non più pali
Avean per armi, ma forbiti ferri
Serrati insieme, che dal sol percossi,
Per le campagne e fin sotto a le nubi
Ne mandavano i lampi; in quella guisa
815Che lieve al primo vento il mar s’increspa,
Poscia biancheggia, ondeggia e gonfia e frange
E cresce in tanto, che da l’imo fondo
Sorge fino a le stelle. Almone, il primo
Figlio di Tirro, primamente cadde

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820In questa pugna. Ebbe di strale un colpo
In su la strozza, che la via col sangue
Gli chiuse e de la voce e de la vita.
Caddero intorno a lui molt’altri corpi
Di buona gente. Cadde tra’ migliori,
825Mentre l’armi detesta, e per la pace
Or con questi or con quelli si travaglia,
Galèso il vecchio, il più giusto e ’l più ricco
De la contrada. Cinque greggi avea
Con cinque armenti; e con ben cento aratri
830Coltivava e pascea l’ausonia terra.
     Mentre così ne’ campi si combatte
Con egual Marte, Aletto già compita
La sua promessa, poi ch’a l’armi, al sangue
Ed a le stragi era la guerra addotta,
835Uscì del Lazio, e baldanzosa a l’aura
Levossi, ed a Giunon superba disse:
Eccoti l’arme e la discordia in campo,
E la guerra già rotta. Or di’ ch’amici,
Di’ che confederati, e che parenti
840Si sieno omai, poichè d’ausonio sangue
Già sono i Teucri aspersi. Io, se più vuoi,
Più farò. Di rumori e di sospetti
Empierò questi popoli vicini;
Condurrògli in aiuto; andrò per tutto

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845Destando amor di guerra; andrò spargendo
Per le campagne orror, furore ed armi.
     Assai, Giuno rispose, hai di terrore
E di frode commesso: ha già la guerra
Le sue cagioni; hanno (comunque in prima
850La sorte le si regga) ambe le parti
Le genti in campo, e l’armi in mano, e l’armi
Son già di sangue tinte, e ’l sangue è fresco.
Or queste sponsalizie e queste nozze
Comincino a godersi il re Latino,
855E questo di Ciprigna egregio figlio.
Tu, perchè non consente il padre eterno
Ch’in questa eterea luce e sopra terra
Così licenzïosa te ne vada,
Torna a’ tuoi chiostri; ed io, s’altro in ciò resta
860Da finir, finirò. Ciò disse a pena
La figlia di Saturno, che d’Aletto
Fischiâr le serpi, e dispiegârsi l’ali
In vèr Cocíto. È de l’Italia in mezzo
E de’ suoi monti una famosa valle,
865Che d’Amsanto si dice. Ha quinci e quindi
Oscure selve, e tra le selve un fiume
Che per gran sassi rumoreggia e cade,
E sì rode le ripe e le scoscende,
Che fa spelonca orribile e vorago,

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870Onde spira Acheronte, e Dite essala.
In questa buca l’odïoso nume
De la crudele e spaventosa Erinne
Gittossi, e dismorbò l’aura di sopra.
     Non però Giuno di condur la guerra
875Rimansi intanto, ed ecco dal conflitto
Venir ne la città la rozza turba
De’ contadini, e riportare i corpi
Del giovinetto Almone e di Galèso,
Così com’eran sanguinosi e sozzi.
880Gli mostrano, ne gridano, n’implorano
Dagli Dei, da Latino e da le genti
Testimonio, pietà, sdegno e vendetta.
Evvi Turno presente, che con essi
Tumultuando esclama, e ’l fatto aggrava,
885E detesta e rimprovera e spaventa,
Questi, questi, dicendo, son chiamati
A regnar ne l’Ausonia: ai Frigi, ai Frigi
Dà Latino il suo sangue, e Turno esclude.
     Sopravvengono intanto i furïosi,
890Che, con le donne attonite scorrendo,
Gìan con Amata per le selve in tresca;
Chè grande era d’Amata in tutto il regno
La stima e ’l nome; e d’ogni parte accolti
Tutti contra gli annunzi, contra i Fati

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895L’armi chiedendo e la non giusta guerra,
Van di Latino a la magione intorno.
     Egli di rupe in guisa immoto stassi,
Di rupe che, nel mar fondata e salda
Nè per venti si crolla, nè per onde
900Che le fremano intorno, e gli suoi scogli
Son di spuma coverti e d’alga invano.
Ma poichè superar non puote il cieco
Lor malvagio consiglio, e che le cose
Givan di Turno e di Giunone a vòto,
905Molto pria con gli Dei, con le van’aure
Si protestò; poscia. Dal fato, disse,
Son vinto, e la tempesta mi trasporta.
Ma voi per questo sacrilegio vostro
Il fio ne pagherete. E tu fra gli altri,
910Turno, tu pria n’avrai supplizio e morte;
E preci e voti a tempo ne farai,
Ch’a tempo non saranno. Io, quanto a me,
Già de’ miei giorni e de la mia quïete
Son quasi in porto: e da voi sol m’è tolto
915Morir felicemente. E qui si tacque,
E ’l governo depose, e ritirossi.
     Era in Lazio un costume, che venuto
È poi di mano in man di Lazio in Alba,
E d’Alba in Roma, ch’or del mondo è capo,

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920Che nel muover de l’armi ai Geti, agl’Indi,
Agli Arabi, agl’Ircani, a qual sia gente
Ch’elle sian mosse, sì com’ora a’ Parti
Per ricovrar le mal perdute insegne,
S’apron le porte de la guerra in prima.
     925Queste son due, che per la riverenza,
Per la religïone e per la téma
Del fiero Marte, orribili e tremende
Sono alle genti; e con ben cento sbarre
Di rovere, di ferro e di metallo
930Stan sempre chiuse: e lor custode è Giano.
Ma quando per consiglio e per decreto
De’ Padri si determina e s’appruova
Che si guerreggi, il consolo egli stesso,
Sì come è l’uso, in abito e con pompa
935C’ha da’ Gabini origine e da’ regi,
Solennemente le disferra e l’apre:
Ed egli stesso, al suon de le catene
E de la ruginosa orrida soglia,
La guerra intuona: guerra, dopo lui
940Grida la gioventù: guerra e battaglia
Suonan le trombe; ed è la guerra inditta.
     In questa guisa era Latino astretto
D’annunzïarla ai Teucri; a lui quest’atto
D’aprir le triste e spaventose porte

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945Si dovea come a rege. Ma ’l buon padre,
Schivo di sì nefando ministero,
S’astenne di toccarle, e gli occhi indietro
Volse per non vederle, e si nascose.
     Ma per tôrre ogni indugio, un’altra volta,
950Ella stessa Regina de’ Celesti
Dal ciel discese, e di sua propria mano
Pinse, disgangherò, ruppe e sconfisse
De le sbarrate porte ogni ritegno,
Sì che l’aperse. Allor l’Ausonia tutta,
955Ch’era dianzi pacifica e quïeta,
S’accese in ogni parte. E qua pedoni,
Là cavalieri; a la campagna ognuno,
Ognuno a l’arme, a maneggiar destrieri,
A fornirsi di scudi, a provar elmi,
960A far, chi con la cote, e chi con l’unto,
Ciascuno i ferri suoi lucidi e tersi.
Altri s’addestra a sventolar l’insegne,
Altri a spiegar le schiere, e con diletto
S’ode annitrir cavalli e sonar tube.
     965Cinque grosse città con mille incudi
A fabricare, a risarcir si danno
D’ogni sorte armi. La possente Atina,
Ardèa l’antica, Tivoli il superbo,
E Crustumerio, e la torrita Antenna.

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970Qui si vede cavar elmi e celate;
Là torcere e covrir targhe e pavesi;
Per tutto riforbire, aüzzar ferri,
Annestar maglie, rinterzar corazze,
E per fregiar più nobili armature,
975Tirar lame d’acciaio, fila d’argento.
Ogni bosco fa lance, ogni fucina
Disfà vomeri e marre, e spiedi e spade
Si forman dai bidenti e da le falci.
Suonan le trombe, dassi il contrassegno,
980Gridasi a l’armi: e chi cavalli accoppia,
E chi prende elmo, e chi picca, e chi scudo
Questi ha la piastra, e quei la maglia indosso
E la sua fida spada ognuno a canto.
     Or m’aprite Elicona, e di conserto
985Meco il canto movete, alme sorelle,
A dir qual regi e quai genti e qual’armi
Militassero allora, e di che forze,
E di quanto valore era in quei tempi
La milizia d’Italia. A voi conviensi
990Di raccontarlo, a cui conto e ricordo
De le cose e de’ tempi è dato eterno:
A noi per tanti secoli rimasa
N’è di picciola fama un’aura a pena.
     Il primo, che le genti a questa guerra

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995Ponesse in campo, fu Mezenzio, il fiero
Del ciel dispregiatore e degli Dei.
D’Etruria era signore, e di Tirreni
Conducea molte squadre. Avea suo figlio
Lauso con esso, un giovine il più bello,
1000Da Turno in fuori, che l’Ausonia avesse.
Gran cavaliero, egregio cacciatore
Fino allor si mostrava; e mille armati
Avea la schiera sua, che seco uscita
Fuor d’Agillina, ne l’esiglio ancora
1005Indarno lo seguía; degno che fosse
Ne l’imperio del padre. A questi dopo
Segue Aventino, de l’invitto Alcide
Leggiadro figlio. Questi col suo carro
Di palme adorno, e co’ vittorïosi
1010Suoi corridori in campo appresentossi.
Avea nel suo cimiero e nel suo scudo,
In memoria del padre, un’idra cinta
Da cento serpi. D’Ercole e di Rea
Sacerdotessa ascosamente nato
1015Nel bosco d’Aventino era costui;
Chè con la madre il poderoso iddio
Quivi si mescolò quando di Spagna,
Da Gerïone estinto, ai campi venne
Di Laürento, e nel Tirreno fiume

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1020Lavò d’Ibèro il conquistato armento.
Eran di mazzafrusti, di spuntoni,
Di chiavarine, e di savelli spiedi
Armate le sue schiere. Ed egli, a piedi,
D’un cuoio di leon velluto ed irto
1025Vestia gli omeri e ’l dorso, e del suo ceffo,
Che quasi digrignando ignudi e bianchi
Mostrava i denti e l’una e l’altra gota,
Si copria ’l capo. E con tal fiera mostra
D’Ercole in guisa, a corte si condusse.
     1030Vennero appresso i suoi fratelli argivi
Catillo e Cora, e di Tiburte il terzo
Guidâr le genti, che da lui nomate
Fur Tiburtine. Dai lor colli entrambi
Calando avanti a l’ordinate schiere,
1035Due centauri sembravano a vedergli,
Che giù correndo da’ nevosi gioghi
D’Òmole e d’Otri, risonando fansi
Dar la via da’ virgulti e da le selve.
     Cècolo, di Preneste il fondatore,
1040Comparve anch’egli: un re che da bambino
Fu tra l’agresti belve appo d’un foco
Trovato esposto; onde di foco nato
Si credè poscia, e di Volcano figlio.
Avea costui di rustici d’intorno

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1045Una gran compagnia, ch’eran de l’alta
Preneste, de’ sassosi èrnici monti,
De la gabina Giuno e d’Anïene,
E d’Amasèno e de la ricca Anagni
Abitanti e cultori: e come gli altri,
1050Non eran in su’ carri, o d’aste armati
O di scudi coverti. Una gran parte
Eran frombolatori, e spargean ghiande
Di grave piombo, e parte avean due dardi
Ne la sinistra, e cappelletti in testa
1055D’orridi lupi: il manco piè discalzo,
Il destro o d’uosa o di corteccia involto.
     Messápo venne poscia, de’ cavalli
Il domatore e di Nettuno il figlio,
Contro al ferro fatato e contro al foco.
1060Questi subitamente armando spinse
Le genti sue per lunga pace imbelli;
Deviò dalle nozze i Fescennini,
Da le leggi i Falisci: armò Soratte,
Armò Flavinio, e tutti che dintorno
1065Ha di Cimíni e la montagna e ’l lago,
E di Capèna i boschi. Ivan del pari
In ordinanza, e del suo re cantando;
Come soglion talor da la pastura
Tornarsi in vèr le rive al ciel sereno

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1070I bianchi cigni, e le distese gole
Disnodar gorgheggiando, e far di tutti
Tale una melodia, che di Caistro
Ne suona il fiume e d’Asia la palude.
Nè pur un si movea di tanta schiera
1075Da la sua fila, in ciò lo stuol sembrando
De’ rochi augelli allor che di passaggio
Vien d’alto mare, e come intera nube
A terra unitamente se ne cala.
     Ecco di poi venir Clauso il sabino,
1080Di quel vero sabino antico sangue;
Ch’avea gran gente, e la sua gente tutta
Pareggiava sol egli. Il nome suo
Fece Claudia nomare e la famiglia
E la tribù romana allor che Roma
1085Diessi a’ Sabini in parte. Era con lui
La schiera d’Amiterno e de’ Quiriti
Di quegli antichi. Eravi il popol tutto
D’Ereto, di Mutisca, di Nomento
E di Velino, e quei che da l’alpestra
1090Tètrica, da Sevèro, da Caspèria,
Da Fòruli e d’Imella eran venuti:
Quei che bevean del Fábari e del Tebro;
Che da la fredda Norcia eran mandati;
Le squadre degli Ortini, il Lazio tutto,

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1095E tutti alfin che nel calarsi al mare
Bagna d’ambe le sponde Allia infelíce.
Tanti flutti non fa di Libia il golfo
Quando cade Orïon ne l’onde, il verno;
Nè tante spiche hanno dal sole aduste,
1100La state, o d’Ermo o de la Licia i campi,
Quante eran genti. Arme sonare e scudi
S’udian per tutto, e tutta al suon de’ piedi
Trepidar si vedea l’ausonia terra.
     Quindi ne vien l’Agamennonio auriga
1105Alèso, del troian nome nimico;
Che di mille feroci nazïoni,
In aita di Turno, un gran miscuglio
Dietro al suo carro avea di montanari.
Parte de’ pampinosi a Bacco amici
1110Mássici colli, e parte degli Aurunci,
De’ Sidicini liti, di Volturno,
Di Cale, de’ Satícoli e degli Osci.
Questi per arme avean mazze e lanciotti
Irti di molte punte, e di soatto
1115Scudisci al braccio, onde erano i lor colpi
Traendo e ritraendo, in molti modi
Continuati e doppi. E pur con essi
Aveano e per ferire e per coprirsi
Targhe ne la sinistra, e storte al fianco.

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     1120Nè tu senza il tuo nome a questa impresa,
Èbalo, te n’andrai, del gran Telone
E de la bella ninfa di Sebeto
Figlio onorato. Di costui si dice
Che, non contento del paterno regno,
1125Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,
Fe’ d’esterni paesi ampio conquisto,
E fu re de’ Sarrasti e de le genti
Che Sarno irriga. Insignorissi appresso
Di Bátulo, di Rufra, di Celenne
1130E de’ campi fruttiferi d’Avella.
Mezze picche avean questi a la tedesca
Per avventarle, e per celate in capo
Suveri scortecciati, e di metallo
Brocchieri a la sinistra, e stocchi a lato.
     1135Calò di Nursa e de’ suoi monti alpestri
Ufente, un condottier ch’era in quei tempi
Di molta fama e fortunato in arme.
Equícoli avea seco, la più parte,
Orrida gente, per le selve avvezza
1140Cacciar le fere, adoperar la marra,
Arar con l’armi in dosso, e tutti insieme
Viver di cacciagioni e di rapine.
     De la gente marrubia un sacerdote
Venne fra gli altri; sacerdote insieme

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1145E capitan di genti ardito e forte.
Umbrone era il suo nome; Archippo il rege
Che lo mandava. Di felice oliva
Avea il cimiero e l’elmo intorno avvolto.
Era gran ciurmatore, e con gl’incanti
1150E col tatto ogni serpe addormentava:
Degl’idri, de le vipere, e degli aspi
Placava l’ira, raddolciva il tosco,
E risanava i morsi. E non per tanto
Potè, nè con incanti nè con erbe
1155De’ marsi monti, risanare il colpo
De la dardania spada: onde il meschino
Ne fu da le foreste de l’Angizia,
Dal cristallino Fúcino e dagli altri
Laghi d’intorno disïato e pianto.
     1160Mandò la madre Aricia a questa guerra
Virbio, del casto Ippolito un figliuolo,
Gentile e bello: e da le selve il trasse
D’Egèria, ove d’Imèto in su la riva
Più cólta e più placabile è Dïana;
1165Chè, per fama, d’Ippolito si dice,
Poscia che fu per froda o per disdegno
De l’iniqua madrigna al padre in ira,
E che gli spaventati suoi cavalli
Strazio e scempio ne féro, egli di nuovo,

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1170Per virtù d’erbe e per pietà che n’ebbe
La casta Dea, fu rivocato in vita.
Sdegnossi il padre eterno ch’un mortale
Fosse a morte ritolto; e l’inventore
Di cotal arte, che d’Apollo nacque,
1175Fulminando mandò ne’ regni bui.
Ippolito da Trivia in parte occulta,
Scevro da tutti, a cura fu mandato
D’Egèria ninfa, e ne la selva ascoso,
Là ’ve solingo, e col cangiato nome
1180Di Virbio, sconosciuto i giorni mena
D’un’altra vita. E quinci è che dal tempio
E da le selve a Trivia consecrate
I cavalli han divieto: chè, lor colpa,
Fu ’l suo carro e ’l suo corpo al marin mostro,
1185E poscia a morte indegnamente esposto.
Il figlio, che pur Virbio era nomato,
Non men di lui feroce, i suoi destrieri
Essercitava, e ’n su ’l paterno carro
Arditamente a questa guerra uscío.
1190Turno infra’ primi, di persona e d’armi
Riguardevole e fiero, e sopra tutti
Con tutto ’l capo, in campo appresentossi.
Un elmo avea con tre cimieri in testa
E suvvi una Chimera, che con tante

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1195Bocche foco anelava, quante a pena
Non apria Mongibello: e con più fremito
Spargea le fiamme, come più crudele
Era la zuffa, e più di sangue avea.
Lo scudo era d’acciaio, e d’oro intorno
1200Tutto commesso, e d’òr nel mezzo un’Ïo
Era scolpita, che già ’l manto e ’l ceffo,
Le setole e le corna avea di bue;
Memorabil soggetto! Eravi appresso
Argo che la guardava; eravi il padre
1205Ínaco, che chiamandola, versava,
Non men degli occhi che de l’urna, un fiume.
Dopo Turno venía di fanti un nembo,
Un’ordinanza, una campagna piena
Tutta di scudi. Eran le genti sue
1210Argivi, Aurunci, Rutuli, Sicani
E Sacráni e Labíci, che dipinti
Portan gli scudi. Avea del Tiberino,
Avea del sacro lito di Numíco
E de’ rutuli colli e del Circèo,
1215D’Ànsure a Giove sacro, di Feronia
Diletta a Giuno, de la paludosa
Sátura, e del gelato e scemo Ufente
Gran turba di villani e d’aratori.
     L’ultima a la rassegna vien Camilla

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1220Ch’era di volsca gente una donzella,
Non di conocchia o di ricami esperta,
Ma d’armi e di cavalli, e benchè virgo,
Di cavalieri e di caterve armate
Gran condottiera, e ne le guerre avvezza.
1225Era fiera in battaglia, e lieve al corso
Tanto, che, quasi un vento sopra l’erba
Correndo, non avrebbe anco de’ fiori
Tocco nè de l’ariste il sommo a pena;
Non avrebbe per l’onde e per gli flutti
1230Del gonfio mar, non che le piante immerse,
Ma nè pur tinte. Per veder costei
Uscian de’ tetti, empiean le strade e i campi
Le genti tutte; e i giovini e le donne
Stavan con meraviglia e con diletto
1235Mirando e vagheggiando quale andava,
E qual sembrava; come regiamente
D’ostro ornato avea ’l tergo, e ’l capo d’oro;
E con che disprezzata leggiadria
Portava un pastoral nodoso mirto
1240Con picciol ferro in punta; e con che grazia
Se ne gía d’arco e di faretra armata.

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Libro Ottavo.


 
     Poscia che di Laurento in su la ròcca
Fe Turno inalberar di guerra il segno,
E che guerra sonâr le roche trombe,
Spinti i carri e i destrieri, e l’armi scosse
5Di Marte al tempio, incontinente i cuori
Si turbâr tutti, e tutto il Lazio insieme
Con súbito tumulto si ristrinse.
Fremessi, congiurossi, rassettossi
Ognun ne l’arme. I tre gran condottieri
10Messápo, Ufente, e l’empio de’ celesti
Dispregiator Mezenzio, usciro in prima.
Accolsero i sussidi; armâr gli agresti;
Spogliâr d’agricoltor le ville e i campi.
     In Arpi a Dïomede si destina
15Vènulo imbasciatore: e gli s’impone
Che soccorso gli chiegga, e che gli esponga
Quanto ciò de l’Italia e del suo stato
Torni a grand’uopo; con che gente Enea,
Con quale armata v’ha già posto il piede,

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20E fermo il seggio, e rintegrato il culto
A’ suoi vinti Penati; come aspira
A questo regno, e come anco per fato,
E per retaggio del dardanio seme,
Lo si promette. Che perciò da molti
25È già seguito, e ch’ogni giorno avanza
E di forze e di nome. Indi soggiunga:
Quel che ’l duce de’ Teucri in ciò disegni
E che miri e che tenti (se fortuna
Gli va seconda) a te via più ch’a Turno
30Esser può manifesto, e ch’a Latino.
Questi andamenti e queste trame allora
Correan per Lazio, e lo scaltrito eroe
Le sapea tutte, onde in un mare entrato
Di gran pensieri, or la sua mente a questo,
35Or a quel rivolgendo in varie parti,
D’ogni cosa avea tèma e speme e cura.
Così di chiaro umor pieno un gran vaso,
Dal sol percosso, un tremulo splendore
Vibra ondeggiando, e rinfrangendo a volo
40Manda i suoi raggi, e le pareti e i palchi
E l’aura d’ogn’intorno empie di luce.
     Era la notte, e già per ogni parte
Del mondo ogni animal d’aria e di terra
Altamente giacea nel sonno immerso,

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45Allor che ’l padre Enea, così com’era
Dal pensier de la guerra in ripa al Tebro
Già stanco e travagliato, addormentossi.
Ed ecco Tiberino, il dio del loco
Veder gli parve, un che già vecchio al volto
50Sembrava. Avea di pioppe ombra d’intorno;
Di sottil velo e trasparente in dosso
Ceruleo ammanto, e i crini e ’l fronte avvolto
D’ombrosa canna. E de l’ameno fiume
Placido uscendo, a consolar lo prese
55In cotal guisa: Enea, stirpe divina,
Che Troia da’ nemici ne riporti
E la ravvivi e la conservi eterna;
O da me, da’ Laurenti e da’ Latini
Già tanto tempo a tanta speme atteso,
60Questa è la casa tua, questo è secura-
mente, non t’arrestare, il fatal seggio
Che t’è promesso. Le minacce e ’l grido
Non temer de la guerra. Ogn’odio, ogn’ira
Cessa già de’ celesti. E perchè ’l sonno
65Credenza non ti scemi, ecco a la riva
Sei già del fiume, u’ sotto a l’elce accolta
Sta la candida troia con quei trenta
Candidi figli a le sue poppe intorno.
Questo fia dunque il segno e ’l tempo e ’l loco

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70Da fermar la tua sede. E questo è ’l fine
De’ tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio
Dopo trent’anni, il memorabil regno
Fonderà d’Alba, che così nomata
Fia dal candore e dal felice incontro
75Di questa fera. E tutto adempirassi,
Ch’io ti predìco e t’è predetto avanti.
Or brevemente quel ch’oprar convienti,
Per uscir glorïoso e vincitore
Di questa guerra, ascolta. È di qui lunge
80Non molto Evandro, un re che de l’Arcadia
È qua venuto; e sopra a questi monti
Ha degli Arcadi suoi locato il seggio.
Il loco, da Pallante suo bisavo,
È stato Pallantèo da lui nomato;
85Ed essi perchè son nel Lazio esterni,
Son nemici a’ Latini, ed han con loro
Perpetua guerra. A te fa di mestiero
Con lor confederarti, e per compagni
A questa impresa avergli. Io fra le ripe
90Mie stesse incontro a l’acqua a la magione
D’Evandro agevolmente condurrotti.
Déstati de la Dea pregiato figlio;
E come pria vedrai cader le stelle,
Porgi solennemente a la gran Giuno

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95Preghîere e voti; e supplicando vinci
De l’inimica Dea l’ira e l’orgoglio;
Ed a me, poi che vincitor sarai.
Paga il dovuto onore. Io sono il Tebro
Cerco da te, che qual tu vedi, ondoso
100Rado queste mie rive, e fendo i campi
De la fertile Ausonia, al cielo amico
Sovr’ogni fiume. Quel che qui m’è dato,
È ’l mio seggio maggiore; e fia che poscia
Sovr’ogni altra cittade il capo estolla.
     105Così disse, e tuffossi. Enea dal sonno
Si scosse; il giorno aprissi, ed ei col sole
Sorgendo insieme, al suo nascente raggio
Si volse umíle: e con le cave palme
De l’onda si spruzzò del fiume, e disse:
110Ninfe laurenti, ninfe ond’hanno i fiumi
L’umore e ’l corso; e tu con l’onde tue
Padre Tebro sacrato, al vostro Enea
Date ricetto, e da’ perigli omai
Lo liberate. Ed io da qual sia fonte,
115Che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(Poichè tanta di me pietà ti stringe)
Sempre t’onorerò, sempre di doni
Ti sarò largo. O de l’esperid’onde
Superbo regnatore, amico e mite

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120Ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani.
     Così dicendo, de’ suoi legni elegge
I due migliori, e gli correda e gli arma
Di tutto punto. Ed ecco d’improvviso
(Mirabil mostro!) de la selva uscita
125Una candida scrofa, col suo parto
Di candor pari, sopra l’erba verde
Ne la riva accosciata gli si mostra.
Tosto il pietoso eroe col gregge tutto
A l’altar la condusse; e poichè sacra
130L’ebbe al gran nume tuo, massima Giuno,
A te l’uccise. Il Tebro quella notte
Quanto fu lunga, di turbato e gonfio
Ch’egli era, si rendè tranquillo e quieto
Sì, che senza rumore e quasi in dietro
135Tornando, come stagno o come piena
Palude adeguò l’onde, e tolse a’ remi
Ogni contesa. Accelerando adunque
Il camin preso, i ben unti e spalmati
Lor legni se ne vanno incontro al fiume
140Com’a seconda; sì che l’onde stesse
Stavan meravigliose e i boschi intorno,
Non soliti a veder l’armi e gli scudi,
E i dipinti navili, che da lunge
Facean novella e peregrina mostra.

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145Se ne van notte e giorno remigando
Di tutta forza, e i seni e le rivolte
Varcan di mano in mano, or a l’aperto,
Or tra le macchie occulti, e via volando
Segan l’onde e le selve. Era il sol giunto
150A mezzo il giorno, quando incominciaro
Da lunge a discovrir la ròcca e ’l cerchio,
E i rari allor del poverello Evandro
Umili alberghi, ch’ora al cielo adegua
La romana potenza. Immantinente
155Volser le prore a terra ed appressârsi
Là ’ve per avventura il re quel giorno
Solennemente in un sacrato bosco
Avanti a la città stava onorando
Il grande Alcide. Avea Pallante seco
160Suo figlio, e del suo povero senato,
E de’ suoi primi giovini un drappello,
Che d’incensi, di vittime e di fumo
Di caldo sangue empiean l’are e gli altari.
     Tosto che di lontan vider le gregge,
165E per entro de’ boschi occulte e chete
Gir navi esterne, insospettiti in prima
Si levâr da le mense. Ma Pallante
Arditamente, Non movete, disse,
Seguite il sacrificio. E tosto a l’armi

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170Dato di piglio, incontro a lor si spinse.
Giunto, gridò da l’argine: O compagni,
Qual fin v’adduce, o qual v’intrica errore
Per così torta e disusata via?
Ov’andate? chi siete? onde venite?
175Che ne recate voi? la pace, o l’armi?
Enea di su la poppa un ramo alzando
Di pacifera oliva, Amici, disse,
Vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini
Vostri nimici inimicizia avemo.
180Questi superbamente il nostro essiglio
Perseguitando ne fan guerra ed onta.
Ricorremo ad Evandro. A lui porgete
Da nostra parte, che de’ Teucri alcuni
Son qui venuti condottieri eletti
185Per sossidi impetrarne e lega d’arme.
     Stupì primieramente a sì gran nome
Pallante, indi vèr lui rivolto umíle:
Signor, qual che tu sii, scendi e tu stesso
Parla, disse, al mio padre, e nosco alloggia.
190E lo prese per mano ed abbracciollo.
Lasciato il fiume e ne la selva entrati,
Enea dinanzi al re comparve e disse:
     Signor, che di bontà sovr’ogni Greco,
E di fortuna sovr’a me ten vai

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195Tanto che supplichevole, e co’ rami
Di benda avvolti a tua magion ne vengo;
Io, perchè sia Troiano e tu di Troia
Per nazïon nimico e per legnaggio
Agli Atridi congiunto, or non pavento
200Venirti avanti, chè ’l mio puro affetto,
Gli oracoli divini, il sangue antico
De’ maggior nostri, il tuo famoso grido,
E ’l fato e ’l mio voler m’han teco unito.
Dardano de’ Troiani il primo autore,
205Nacque d’Elettra, come i Greci han detto;
E d’Elettra fu padre il grande Atlante,
Che con gli omeri suoi folce le stelle.
Vostro progenitor Mercurio fue,
Che nel gelido monte di Cillene
210De la candida Maia al mondo nacque;
E Maia ancor, se questa fama è vera,
Venne d’Atlante, e da lo stesso Atlante
Che fa con le sue spalle al ciel sostegno.
Così d’un fonte lo tuo sangue e ’l mio
215Traggon principio. E quinci è che securo
Senza opra di messaggi e senza scritti,
Pria ch’io ti tenti, e pria che tu m’affidi,
Posto ho me stesso e la mia vita a rischio,
E supplichevolmente a la tua casa

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220Ne son venuto. I Rutuli ch’infesti
Sono anche a te, se de l’Italia fuori
Cacceran noi, già de l’Italia tutta
L’imperio si promettono, e di quanto
Bagna l’un mare e l’altro. Or la tua fede
225Mi porgi, e la mia prendi; ch’ancor noi
Siamo usi a guerra, e cor ne’ petti avemo.
     Il re, mentre ch’Enea parlando stette,
Il volto e gli occhi e la persona tutta
Gli andò squadrando; e brevemente al fine
230Così rispose: Valoroso eroe,
Come lieto io t’accolgo, e come certo
Raffigurar mi sembra il volto e i gesti
E la favella di quel grande Anchise
Tuo genitore! Io mi ricordo quando
235Priamo per riveder la sua sorella
Esíone e ’l suo regno, in un passaggio
Che perciò fe’ da Troia a Salamina,
Toccò d’Arcadia i gelidi confini.
De le prime lanugini fiorito
240Era il mio mento a pena allor ch’io vidi
Quei gran duci di Troia, e de’ Troiani
Lo stesso re. Con molto mio diletto
Gli mirai, gli ammirai, notai di tutti
Gli abiti e le fattezze, e sopra tutti

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245Leggiadro, riguardevole ed altero
Sembrommi Anchise. Un desiderio ardente
Mi prese allor d’offrirmi, e d’esser conto
A quel signore. Il visitai, gli porsi
La destra, ospite il fei, nel mio Feneo
250Meco l’addussi. Ond’ei poscia partendo,
Un arco, una faretra e molti strali
Di Licia presentommi, e d’oro appresso
Una ricca intessuta sopravesta
Con due freni indorati ch’ancor oggi
255Son di Pallante mio: sì che già ferma
È tra noi quella fede e quella lega
Ch’or ne chiedete. E non fia il sol dimane
Dal balcon d’orïente uscito a pena,
Che le mie genti e i miei sussidi arete.
260Intanto a questa festa, che solenne
Facciamo ogni anno, e tralasciar non lece
(Già che venuti siete amici nostri),
Nosco restate, e come di compagni
Queste mense onorate. Avea ciò detto,
265Allor che nuovi cibi e nuove tazze
Ripor vi fece, e lor tutti nel prato
A seder pose; e sopra tutti Enea,
Di villoso leon disteso un tergo,
Seco al suo desco ed al suo seggio accolse.

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270Per man de’ sacerdoti e de’ ministri
Del sacrificio, d’arrostite carni
De’ tori, di vin puro, di focacce,
Gran piatti, gran canestri e gran tazzoni
N’andaro a torno; e co’ suoi Teucri tutti
275Enea fu de le viscere pasciuto
Del saginato a Dio devoto bue.
     Tolte le mense, e ’l desiderio estinto
De le vivande, a ragionar rivolti,
Evandro incominciò: Troiano amico,
280Questo convito e questo sacrificio
Così solenne, e questo a tanto nume
Sacrato altare, instituiti e posti
Non sono a caso; chè del vero culto
E degli antichi Dei notizia avemo.
285Per memoria, per merito e per voto
D’un gran periglio sua mercè scampato,
Son questi onori a questo dio dovuti.
Mira colà quella scoscesa rupe,
E quei rotti macigni, e di quel colle
290Quell’alpestra ruina, e quel deserto.
Ivi era già remota e dentro al monte
Cavata una spelonca, ov’unqua il sole
Non penetrava. Abitatore un ladro
N’era, Caco chiamato, un mostro orrendo

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295Mezzo fera e mezz’uomo, e d’uman sangue
Avido sì, che ’l suol n’avea mai sempre
Tiepido. Ne grommavan le pareti,
Ne pendevano i teschi intorno affissi,
Di pallor, di squallor luridi e marci.
300Volcano era suo padre; e de’ suoi fochi
Per la bocca spirando atri vapori,
Gìa d’un colosso e d’una torre in guisa.
Contra sì diro mostro, dopo molti
Dannaggi e molte morti, il tempo al fine
305Ne diede e questo dio soccorso e scampo.
Egli di Spagna vincitor ne venne
In queste parti, de le spoglie altero
Di Gerïone, in cui tre volte estinse
In tre corpi una vita, e ne condusse
310Tal qui d’Ibèro un copïoso armento,
Ch’avea pien questo fiume e questa valle.
     Caco ladron feroce e furïoso,
D’ogni misfatto e d’ogni sceleranza
Ardito e frodolente esecutore,
315Quattro tori involonne e quattro vacche,
Ch’eran fior de l’armento. E perchè l’orme
Indicio non ne dessero, a rovescio
Per la coda gli trasse; e ne la grotta
Gli condusse e celògli. Eran l’impronte

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320De’ lor piè volte al campo, e verso l’antro
Segno non si vedea ch’a la spelonca
Il cercator drizzasse. Avea già molti
Giorni d’Anfitrïon tenuto il figlio
Qui le sue mandre, e ben pasciuto e grasso
325Era il suo armento; sì che nel partire
Tutte queste foreste e questi colli
Di querimonia e di muggiti empiero.
Mugghiò da l’altro canto, e ’l vasto speco
Da lunge rintonar fece una vacca
330De le rinchiuse: onde schernita e vana
Restò di Caco la custodia e ’l furto;
Ch’udilla Alcide, e d’ira e di furore
In un subito acceso, a la sua mazza,
Ch’era di quercia nodorosa e grave,
335Diè di piglio, e correndo al monte ascese.
Quel dì da’ nostri primamente Caco
Temer fu visto. Si smarrì negli occhi,
Si mise in fuga e fu la fuga un volo:
Tal gli aggiunse un timor le penne a’ piedi.
     340Tosto che ne la grotta si rinchiuse,
Allentò le catene, e di quel monte
Una gran falda a la sua bocca oppose;
Ch’a la bocca de l’antro un sasso immane
Avea con ferri e con paterni ordigni

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345Di cataratta accomodato in guisa
Con puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco Tirinzio arriva, e come è spinto
Da la sua furia, va per tutto in volta
Fremendo, ora ai vestigi, ora ai muggiti,
350Ora a l’entrata de la grotta intento.
E portato da l’impeto, tre volte
Scorse de l’Aventino ogni pendice:
Tre volte al sasso de la soglia intorno
Si mise indarno; e tre volte affannato
355Ritornò ne la valle a riposarsi.
     Era de la spelonca al dorso in cima
Di selce d’ogn’intorno dirupata
Un cocuzzolo altissimo ed alpestro,
Ch’ai nidi d’avvoltoi e di tali altri
360Augelli di rapina e di carogna
Era opportuno albergo. A questo intorno
Alfin si mise; e siccom’era al fiume
Da sinistra inchinato, egli a rincontro
Lo spinse da la destra, lo divelse,
365Col calce de la mazza a leva il pose,
E gli diè volta. A quel fracasso il cielo
Rintonò tutto, si crollâr le ripe,
E ’l fiume impaurito si ritrasse.
     Allor di Caco fu lo speco aperto:

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370Scoprissi la sua regia, e le sue dentro
Ombrose e formidabili caverne.
Come chi de la terra il globo aprisse
A viva forza, e de l’inferno il centro
Discovrisse in un tempo, e che di sopra
375De l’abisso vedesse quelle oscure
Del cielo abbominate orride bolge:
Vedesse Pluto a l’improvviso lume
Restar del sole attonito e confuso;
Cotal Caco da subito splendore
380Ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso
Digrignar qual mastino Ercole vide;
E non più tosto il vide, che di sopra
Sassi, travi, tronconi, ogn’arme addosso
Fulgurando avventògli. Ei che nè fuga
385Avea nè schermo al suo periglio altronde,
Da le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
Vapori e nubi a vomitar si diede
Di fumo, di caligine e di vampa,
Tal che miste le tenebre col foco
390Togliean la vista agli occhi e ’l lume a l’antro.
Non però si contenne il forte Alcide,
Che d’un salto in quel baratro gittossi
Per lo spiraglio, e là ’v’era del fumo
La nebbia e l’ondeggiar più denso, e ’l foco

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395Più rogio, a lui che ’l vaporava indarno,
S’addusse, e lo ghermì; gli fece un nodo
De le sue braccia, e sì la gola e ’l fianco
Gli strinse, che scoppiar gli fece il petto,
E schizzar gli occhi; e ’l foco e ’l fiato e l’alma
400In un tempo gli estinse. Indi la bocca
Aprì de l’antro, e la frodata preda,
E del suo frodatore il sozzo corpo
Fuor per un piè ne trasse, a cui dintorno
Corser le genti a meraviglia, ingorde
405Di veder gli occhi biechi, il volto atroce,
L’ispido petto e l’ammorzato foco.
     Da indi in qua questo dì santo ogn’anno
Da’ nostri è lietamente celebrato,
E ne sono i Potizii i primi autori,
410E i Pinarii ministri. Allor quest’ara,
Che massima si disse, e che mai sempre
Massima ne sarà, fu consecrata,
In questo bosco. Or via dunque, figliuoli,
Per celebrar tant’onorata festa,
415Coi rami in fronte e con le tazze in mano
Il commun dio chiamate, e lietamente
L’un con l’altro invitatevi, e beete.
     Ciò detto, il divisato erculeo pioppo
Tesséro altri in ghirlande, altri in festoni,

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420Altri i maii ne piantaro. E di già pieno
Di sacrato liquore il gran catino,
Tutti a mensa gioiosi s’adagiaro,
E spargendo e beendo, ai santi numi
Porser preghiere e voti. Espero intanto
425Era a l’occidental lito vicino
Già per tuffarsi, quando i sacerdoti
Un’altra volta, e ’l buon Potizio avanti
Con pelli indosso e con facelle in mano,
Com’è costume, a convivar tornaro,
430E le seconde mense e l’are sante
Di grati doni e di gran piatti empiero.
I Salii intorno ai luminosi altari
Givano in tresca, e di populea fronde
Cingean le tempie. I vecchi da l’un coro
435Le prodezze cantavano e le lodi
Del grande Alcide; i giovini da l’altro
N’atteggiavano i fatti: come prima
Fanciul da la matrigna insidïato
I due serpenti strangolasse in culla;
440Come al suolo adeguasse Ecalia e Troia,
Città famose; come superasse
Mill’altre insuperabili fatiche
Sotto al duro tiranno, e contr’ai fati
De l’empia Dea. Tu sei, dicean cantando,

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445Invitto iddio, che de le nubi i figli
Nilèo e Folo uccidi; tu che ’l mostro
Domi di Creta: tu che vinci il fiero
Nemèo leone; te gl’inferni laghi,
Te l’inferno custode ebbe in orrore
450Ne l’orrendo suo stesso e diro speco,
Là ’ve tra ’l sangue e le corrose membra
Ha de la morta gente il suo covile.
Cosa non è sì spaventosa al mondo,
Che te spaventi, non lo stesso armato
455Incontr’al ciel Tifèo, nè quel di Lerna
Con tanti e tanti capi orribil angue
Senza avviso ti vide o senza ardire.
A te vera di Giove inclita prole,
Umilmente inchinamo, a te del cielo
460Nuovo aggiunto ornamento. E tu benigno
Mira i cor nostri e i sacrifici tuoi.
     Così pregando e celebrando in versi
Cantavan le sue pruove. E sopra tutto
Dicean di Caco e de la sua spelonca
465E de’ suoi fochi: e i boschi e i colli intorno
Rispondean rintonando. Eran finiti
I sacrifici, quando il vecchio Evandro
Mosse vèr la cittade; e seco a pari
Da l’un de’ lati Enea, da l’altro il figlio

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470Avea, cui s’appoggiava; e ragionando
Di varie cose, agevolava il calle.
     Enea, meravigliando, in ogni parte
Volgea le luci, desïoso e lieto
Di veder quel paese, e di saperne
475I siti, i luoghi e le memorie antiche.
Di che spiando, il primo fondatore
De la romana ròcca in cotal guisa
A dir gli cominciò: Questi contorni
Eran pria selve; e gli abitanti loro
480Eran qui nati, ed eran fauni e ninfe,
E genti che di roveri e di tronchi
Nate, nè di costumi, nè di culto,
Nè di tori accoppiar, nè di por viti,
Nè d’altr’arti o d’acquisto o di risparmio
485Avean notizia o cura: e ’l vitto loro
Era di cacciagion, d’erbe e di pomi:
E la lor vita, aspra, innocente e pura.
Saturno il primo fu ch’in queste parti
Venne, dal ciel cacciato, e vi s’ascose.
490E quelle rozze genti, che disperse
Eran per questi monti, insieme accolse,
E diè lor leggi: onde il paese poi
Da le latebre sue Lazio nomossi.
Dicon che sotto il suo placido impero

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495Con giustizia, con pace e con amore
Si visse un secol d’oro, in fin che poscia
L’età, degenerando, a poco a poco
Si fe’ d’altro colore e d’altra lega.
Quinci di guerreggiar venne il furore,
500L’ingordigia d’avere, e le mischianze
De l’altre genti. L’assalîr gli Ausoni;
L’inondâr i Sicani; onde più volte
Questa, che pria Saturnia era nomata,
Ha con la signoria cangiato il nome,
505E co’ signori. E quinci è che da Tebro,
Che ne fu re terribile ed immane,
Tebro fu detto questo fiume ancora,
Ch’Albula si dicea ne’ tempi antichi.
Ed ancor me de la mia patria in bando
510Dopo molti perigli e molti affanni
Del mar sofferti, ha qui l’onnipotente
Fortuna, e l’invincibil mio destino
Portato alfine; e qui posar mi féro
Gli oracoli tremendi e spaventosi
515Di Carmenta mia madre, e Febo stesso
Che mia madre inspirava. E fin qui detto,
Si spinse avanti, e quell’ara mostrògli,
E quella porta, che fu poi di Roma,
Carmental detta, onore e ricordanza

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520De la ninfa indovina, ch’anzi a tutti
Del Pallantèo predisse e de’ Romani
La futura grandezza. Indi seguendo
Un gran bosco gli mostra: ove l’Asilo
Romolo contrafece; e ’l Lupercale,
525Che, quale era in Arcadia a Pan Liceo,
Sotto una fredda rupe era dicato.
Poscia de l’Argileto gli dimostra
La sacra selva; e d’Argo ospite il caso
Gli conta, e se ne purga e se ne scusa.
530A la Tarpeia Rupe, al Campidoglio
Poscia l’addusse; al Campidoglio or d’oro,
Che di spini in quel tempo era coverto,
Un ermo colle dai vicini agresti
Per la religïon del loco stesso
535Insino allor temuto e riverito:
Ch’a veder sol quel sasso e quella selva
Si paventava. E qui soggiunse Evandro:
     In questo bosco, e là ’ve questo monte
È più frondoso, un dio, non si sa quale,
540Ma certo abita un dio. Queste mie genti
D’Arcadia han ferma fede aver veduto
Qui Giove stesso balenar sovente,
E far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi,
Qui su, quelle ruine e quei vestigi

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545Di quei due cerchi antichi. Una di queste
Città fondò Saturno, e l’altra Giano,
Che Saturnia e Gianicolo fur dette.
     In cotal guisa ragionando Evandro,
Se ne gian verso il suo picciolo ostello.
550E ne l’andar, là ’v’or di Roma è il Fòro,
Ov’è quella più florida contrada
De le Carine, ad ogni passo intorno
Udian greggi belar, mugghiare armenti.
Giunti che furo: In questo umíle albergo
555Alloggiò, disse, il vincitore Alcide,
Questa fu la sua reggia. E tu v’alloggia,
E tu ’l gradisci, e le delizie e gli agi
Spregiando, imita in ciò Tirinzio e dio,
E del tugurio mio meco t’appaga.
560Così dicendo, il grand’ospite accolse
Ne l’angusta magione, e collocollo
Là dove era di frondi e d’irta pelle
Di libic’orsa attappezzato un seggio.
     Venne la notte, e le fosc’ali stese
565Avea di già sovra la terra, quando
Venere come madre, e non in vano
Del suo figlio gelosa, il gran tumulto
Veggendo e le minacce de’ Laurenti,
Con Volcan suo marito si ristrinse

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570Con gran dolcezza; e nel suo letto d’oro,
Amor spirando, in tal guisa gli disse:
Caro consorte, infinchè i regi argivi
Furo a’ danni di Troia, e che per fato
Cader dovea, nullo da te soccorso
575Volsi, o da l’arte tua; nè ti richiesi
D’armi allor, nè di macchine, nè d’altro
Per iscampo de’ miseri Troiani.
Le man, l’ingegno tuo, le tue fatiche
Oprar non volli indarno, ancor che molto
580Con Prïamo e co’ figli obligo avessi,
E molto mi premesse il duro affanno
D’Enea mio figlio. Or per imperio espresso
E de’ fati e di Giove egli nel Lazio
E tra’ Rutuli è fermo. A te, mio sposo,
585Ricorro, a te, mio venerando nume:
E, madre, per un figlio arme ti chieggio;
Quel che da te di Nèrëo la figlia,
E di Titon la moglie hanno impetrato.
Mira in quant’uopo io le ti chieggio, e quanti
590E che popoli sono, a mia ruina
E de’ miei, congregati; e qual fan d’armi
A porte chiuse orribile apparecchio.
     Stava a questa richiesta in sè Vulcano
Ritroso anzi che no; quando Ciprigna

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595Con la tiepida neve e col viv’ostro
De le sue braccia al collo gli si avvinse,
E strinselo e baciollo. In un momento
La consueta fiamma gli s’apprese,
E per l’ossa gli corse e le midolle,
600E per le vene al core; in quella guisa
Chi di corusca nube esce repente
Una lucida lista, e lampeggiando
E serpendo, il ciel tutto empie di foco.
     Sentì la scaltra, che sapea la forza
605Di sua beltà, che l’avea preso e vinto:
E de l’inganno si compiacque e rise.
E ’l buon marito, che d’eterno amore
Avea il cor punto, le si volse, e disse:
A che sì lungo esordio? Ov’è, consorte,
610Vèr me la tua fidanza? Io fin d’allora,
Se t’era grado, avrei d’arme provisti
I Teucri tuoi; nè ’l padre onnipotente,
Nè i fati ci vietavano che Troia
Non si tenesse, e Prïamo non fosse
615Restato ancor per diece altr’anni in vita.
Ed or s’a guerra t’apparecchi, e questo
È tuo consiglio, quel che l’arte puote
O di ferro o di liquido metallo,
Quanto i mantici han fiato, e forza il fuoco,

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620Io ti prometto. E tu con questi preghi
Cessa di rivocar la possa in forse
Del tuo volere, e ’l mio desir ch’è sempre
Di far le voglie tue paghe e contente.
Così dicendo, disïoso in braccio
625La si recò; gioinne, e poscia in grembo
Di lei placidamente addormentossi.
     Finito il primo sonno, e de la notte
Già corso il mezzo, come feminella
Che col fuso, con l’ago e con la spuola
630La sua vita sostenta e de’ suoi figli;
Che la notte aggiungendo al suo lavoro,
E dal suo focolar pria che dal sole
Procacciandosi ’l lume, a la conocchia,
A l’aspa, a l’arcolaio essercitando
635Sta le povere ancelle, onde mantenga
Il casto letto e i pargoletti suoi;
Tale in tal tempo, e con tal cura a l’opra
Surse il gran fabro, e la fucina aperse.
     Giace tra la Sicania da l’un canto
640E Lipari da l’altro un’isoletta
Ch’alpestra ed alta esce de l’onde, e fuma.
Ha sotto una spelonca, e grotte intorno,
Che di feri ciclopi antri e fucine
Son, da’ lor fochi affumicati e rosi.

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645Il picchiar de l’incudi e de’ martelli
Ch’entro si sente, lo stridor de’ ferri,
Il fremere e ’l bollir de le sue fiamme
E de le sue fornaci, d’Etna in guisa
Intonar s’ode ed anelar si vede.
650Questa è la casa, ove qua giù s’adopra
Volcano, onde da lui Volcania è detta:
E qui per l’armi fabricar discese
Del grand’Enea. Stavan ne l’antro allora
Stèrope e Bronte e Piracmóne ignudi
655A rinfrescar l’aspre saette a Giove.
Ed una allor n’avean parte polita,
Parte abbozzata, con tre raggi attorti
Di grandinoso nembo, tre di nube
Pregna di pioggia, tre d’acceso foco,
660E tre di vento impetuoso e fiero.
I tuoni v’aggiungevano e i baleni,
E di fiamme e di furia e di spavento
Un cotal misto. Altrove erano intorno
Di Marte al carro, e le veloci ruote
665Accozzavano insieme, ond’egli armato
Le genti e le città scuote e commove.
Lo scudo, la corazza e l’elmo e l’asta
Avean da l’altra parte incominciati
De l’armigera Palla, e di commesso

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670La fregiavano a gara. Erano i fregi
Nel petto de la Dea gruppi di serpi
Che d’oro avean le scaglie, e cento intrichi
Facean guizzando di Medusa intorno
Al fiero teschio, che così com’era
675Disanimato e tronco, le sue luci
Volgea d’intorno minacciose e torve.
     Tosto che giunse, Via, disse a’ ciclopi
Sgombratevi davanti ogni lavoro,
E qui meco guarnir d’arme attendete
680Un gran campione. E s’unqua fu mestiero
D’arte, di sperïenza e di prestezza,
È questa volta. Or v’accingete a l’opra
Senz’altro indugio. E fu ciò detto a pena,
Che divise le veci e i magisteri,
685A fondere, a bollire, a martellare
Chi qua chi là si diede. Il bronzo e l’oro
Corrono a rivi; s’ammassiccia il ferro,
Si raffina l’acciaio; e tempre e leghe
In più guise si fan d’ogni metallo.
690Di sette falde in sette doppi unite,
Ricotte al foco e ribattute e salde.
Si forma un saldo e smisurato scudo,
Da poter solo incontro a l’armi tutte
Star de’ Latini. Il fremito del vento

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695Che spira da’ gran mantici, e le strida
Che, ne’ laghi attuffati e ne l’incudi
Battuti, fanno i ferri, in un sol tuono
Ne l’antro uniti, di tenore in guisa
Corrispondono a’ colpi de’ ciclopi,
700Ch’al moto de le braccia or alte or basse
Con le tenaglie e co’ martelli a tempo
Fan concerto, armonia, numero e metro.
     Mentre in Eolia era a quest’opra intento
Di Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole,
705Surse al cantar de’ mattutini augelli
Il vecchio Evandro; e fuori uscío vestito
Di giubba con le guigge a’ piedi avvolte,
Com’è tirrena usanza. Avea dal destro
Omero a la Tegèa nel manco lato
710Una sua greca scimitarra appesa.
Avea da la sinistra di pantera
Una picchiata pelle, che d’un tergo
Gli si volgea su l’altro; e da la ròcca
Scendendo, gli venian due cani avanti,
715Come custodi i suoi passi osservando.
In questa guisa il generoso eroe,
Come quei che tenea memoria e cura
Di compir quanto avea la sera avanti
Ragionato e promesso, a le secrete

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720Stanze del padre Enea si ricondusse.
Enea da l’altra parte assai per tempo
S’era levato: e solo in compagnia
L’un seco avea Pallante, e l’altro Acate.
Poscia che rincontrati e ’nsieme accolti
725Si salutaro, alfin, tra loro assisi,
A ragionar si diero. E prima Evandro
Così parlò: Signor, cui vivo, in vita
Dir si può che sia Troia, e che del tutto
Non sia caduta e vinta; in questa guerra
730Quel che poss’io per tuo sossidio è poco
A tanto affare. Il mio paese è chiuso
Quinci dal tosco fiume, e quindi ha l’armi
Che gli suonan de’ Rutuli dintorno
Fin sulle porte. Avviso e pensier mio
735È per confederati e per compagni
Darti una gente numerosa e grande
Con molti regni. In tal qui tempo a punto
Sei capitato, e tal felice incontro
Ti porge amica e non pensata sorte.
     740È non lunge di qui, su questi monti
D’Etruria, una famosa e nobil terra
Ch’è sopra un sasso anticamente estrutta.
Agillína si dice, ove lor seggio
Posero (è già gran tempo) i bellicosi

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745E chiari Lidi; e floridi e felici
Vi fur gran tempo ancora. Or sotto il giogo
Son di Mezenzio capitati al fine.
A che di lui contar le sceleranze?
A che la ferità? Dio le riservi
750Per suo castigo e de’ seguaci suoi.
Questo crudele insino a’ corpi morti
Mescolava co’ vivi (odi tormento)
Che giunte mani a mani, e bocca a bocca,
In così miserando abbracciamento
755Gli facea di putredine e di lezzo,
Vivi, di lunga morte alfin morire.
     I cittadini afflitti, disperati,
E fatti per paura alfin securi,
Tesero insidie a lui, fecero strage
760De’ suoi, posero assedio, avventâr foco
A le sue case. Ei de le mani uscito
Degli uccisori, ebbe rifugio a Turno
Ch’or l’accoglie e ’l difende. Onde commossa
E per giusta cagione in furia volta
765L’Etruria tutta in contra al suo tiranno
Grida che muoia, e già con l’armi in mano
A morte lo persegue. A questa gente
Di molte mila condottiero e capo
Aggiungerotti. E già d’armate navi

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770Son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede
Che si spieghin l’insegne. Un vecchio solo
Aruspice e ’ndovino è, che sospesi
Gli tiene infino a qui: Gente meonia,
Dicendo, fior di gente antica e nobile,
775Benchè giusto dolor contra a Mezenzio,
E degn’ira v’incenda, incontro a Lazio
Non movete voi già; ch’a nessun Italo
Domar d’Italia una tal gente è lecito,
S’esterno duce a tant’uopo non prendesi.
780Così parato, e per timor confuso
Del vaticinio stassi il campo etrusco!
E già Tarconte stesso a questa impresa
M’invita, e già mandato a presentarmi
Ha la sedia e lo scettro e l’altre insegne
785Del tosco regno, perch’io re ne sia,
Ed a l’oste ne vada. Ma la tarda
E fredda mia vecchiezza, e le mie forze
Debili, smunte e diseguali al peso
Fan ch’io rifiuti. Esorterei Pallante
790Mio figlio a questo impero, se non fosse
Che nato di Sabella, Italo anch’egli
È per materna razza. Or questo incarco
Dagli anni, da la gente, dal destino,
Dal tuo stesso valore a te si deve.

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795E tu il prendi, Signor, ch’abile e forte
Sei più d’ogni Troian, d’ogni Latino
A sostenerlo. Ed io Pallante mio,
La mia speranza e ’l mio sommo conforto,
Manderò teco; che ’l mestier de l’arme,
800Che le fatiche del gravoso Marte
Ne la tua scuola a tollerare impari:
E te da’ suoi prim’anni, e i gesti tuoi
Meravigliando ad imitar s’avvezze.
Dugento cavalieri, il nervo e ’l fiore
805De’ miei d’Arcadia, spedirò con lui,
E dugento altri il mio Pallante stesso
In suo nome daratti. Avea ciò detto
Evandro a pena, che d’Anchise il figlio
E ’l fido Acate ster co’ volti a terra
810Chinati. E da pensier gravi e molesti
Fòran oppressi, se dal ciel sereno
La madre Citerea segno non dava,
Sì come diè. Chè tal per l’aria un lume
Vibrossi d’improvviso e con tal suono,
815Che parve di repente il mondo tutto
Come scoppiando e ruinando ardesse;
Ed in un tempo di terrene tube
Squillar ne l’aura alto concento udissi.
Alzaron gli occhi; e la seconda volta,

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820E la terza iterar sentiro il tuono;
E vider là ’ve il cielo era più scarco
E più tranquillo, una dorata nube
E d’armi un nembo che tra lor percosse
Scintillando facean fremiti e lampi.
825Stupiron gli altri. Ma il troiano eroe
Che ’l cenno riconobbe e la promessa
De la diva sua madre, Ospite, disse,
Di saver non ti caglia quel ch’importi
Questo prodigio; basta ch’ammonito
830Son io dal cielo, e questo è ’l segno e ’l tempo,
Che la mia genitrice mi predisse:
Che quandunque di guerra incontro avessi,
Allora ella dal ciel presta sarebbe
Con l’armi di Volcano a darmi aita.
835Oh quanta di voi strage mi prometto,
Infelici Laurenti! e qual castigo,
Turno, da me n’avrai! quant’armi, quanti
Corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio!
Via, patto e guerra mi si rompa omai.
     840Così detto, dal soglio alto levossi;
E con Evandro e co’ suoi Teucri in prima
D’Ercole visitando i santi altari,
Il sopito carbon del giorno avanti
Lieto desta e raccende; i Lari inchina;

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845I pargoletti suoi Penati adora,
E di più scelte agnelle il sangue offrisce.
     Indi torna a le navi, e de’ compagni
Fatte due parti, la più forte elegge
Per seco addurre a preparar la guerra;
850L’altra a seconda per lo fiume invia,
Che pianamente e senz’alcun contrasto
Si rivolga ad Ascanio e dia novelle
De le cose e del padre. A quei che seco
In Etruria adducea tosto provisti
855Furo i cavalli. A lui venne in disparte
Da tutti gli altri un palafreno eletto,
Di pelle di leon tutto coverto
Ch’i velli avea di seta e l’ugna d’oro.
     Per la piccola terra in un momento
860Si sparge il grido ch’ai tirreni liti
Ne va lo stuol de’ cavalieri in fretta.
Le madri paventose ai tempii intorno
Rinovellano i voti: e già per téma
Più vicino il periglio, e più l’aspetto
865Sembra di Marte atroce. Evandro il figlio
Nel dipartir teneramente abbraccia;
Nè divelto da lui nè sazio ancora
Di lagrimar gli dice: O se da Giove
Mi fosse, figlio, di tornar concesso

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870Ora in quegli anni e ’n quelle forze, ond’io
Sotto Preneste il primo incontro fei
Co’ miei nemici, e vincitore i monti
Arsi de’ scudi; allor ch’Èrilo stesso,
Lo stesso re con queste mani ancisi,
875A cui nascendo avea Feronia madre
Date tre vite e tre corpi, e tre volte
(Meraviglia a contarlo!) era mestiero
Combatterlo e domarlo; ed io tre volte
Lo combattei, lo vinsi, e lo spogliai
880D’armi e di vita; se tal, dico, io fossi,
Mai non sarei da te, figlio, diviso;
Mai non fòra Mezenzio oso d’opporsi
A questa barba; nè per tal vicino
Vedova resterebbe or la mia terra
885Di tanti cittadini. O dii superni,
O de’ superni dii nume maggiore,
Pietà d’un re servo e devoto a voi,
E d’un padre che padre è sol d’un figlio
Unicamente amato. E se da’ fati,
890Se da voi m’è Pallante preservato,
E s’io vivo or per rivederlo mai,
Questa mia vita preservate ancora
Con quanti unqua soffrir potessi affanni.
Ma se fortuna ad infortunio il tragge,

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895Ch’io dir non oso, or, or, prego, rompete
Questa misera vita, or ch’è la téma,
Or ch’è la speme del futuro incerta;
E che te, figlio mio, mio sol diletto
E da me desiato in braccio io tengo,
900Anzi ch’altra novella me ne venga
Che ’l cor pria che gli orecchi mi percuota.
Così ’l padre ne l’ultima partita
Disse al suo figlio; e da l’ambascia vinto,
Fu da’ sergenti riportato a braccio.
905A la campagna i cavalieri intanto
Erano usciti. Enea col fido Acate,
E co’ suoi primi era nel primo stuolo.
Pallante in mezzo risplendea ne l’armi
Commesse d’oro, risplendea ne l’ostro
910Che l’arme avean per sopravesta intorno;
Ma via più risplendea ne’ suoi sembianti
Ch’eran di fiero e di leggiadro insieme.
Tale è quando Lucifero, il più caro
Lume di Citerea, da l’Oceáno,
915Quasi da l’onde riforbito, estolle
Il sacro volto, e l’aura fosca inalba.
     Stan le timide madri in su le mura
Pallide attentamente rimirando
Quanto puon lunge il polveroso nembo

[p. 387 modifica]

920De l’armate caterve; e i lustri e i lampi
Che facean l’armi, tra i virgulti e i dumi
Lungo le vie. Va per la schiera il grido
Che si cavalchi; e lo squadron già mosso,
Al calpitar de la ferrata torma,
925Fa ’l campo risonar tremante e trito.
È di Cere vicino, appo il gelato
Suo fiume un sacro bosco antico e grande
D’ombrosi abeti, che da cavi colli
Intorno è cinto, venerabil molto
930E di gran lunge. È fama che i Pelasgi,
Primi del Lazio occupatori esterni,
A Silvan, dio de’ campi e degli armenti,
Consecrâr questa selva, e con solenne
Rito gli dedicâr la festa e ’l giorno.
935Quinci poco lontano era Tarconte
Co’ Tirreni accampato; e qui del campo
Giunti a la vista, là ’ve un alto colle
Lo scopria tutto, Enea, co’ primi suoi
Fermossi, ove i cavalli e i corpi loro
940Già stanchi ebbero alfin posa e ristoro.
     Era Venere in Ciel candida e bella
Sovr’un etereo nembo apparsa intanto
Con l’armi di Volcano; e visto il figlio
Ch’oltre al gelido rio per erma valle

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945Sèn gía dagli altri solitario e scevro,
Apertamente gli s’offerse, e disse:
Eccoti ’l don che da me, figlio, attendi,
Di man del mio consorte. Or francamente
Gli orgogliosi Laurenti e ’l fiero Turno
950Sfida a battaglia, e gli combatti e vinci.
E, ciò detto, l’abbraccia. Indi gli addita
D’armi quasi un trofeo, ch’appo una quercia
Dianzi da lei disposte, incontro agli occhi
Facean barbaglio, e contro al sol, più soli.
     955D’un tanto dono Enea, d’un tale onore
Lieto, e non sazio di vederlo, il mira,
L’ammira e ’l tratta. Or l’elmo in man si prende
E l’orribil cimier contempla e ’l foco
Che d’ogni parte avventa: or vibra il brando
960Fatale; or ponsi la corazza avanti
Di fino acciaio e di gravoso pondo,
Che di sanguigna luce e di colori
Diversamente accesi era splendente,
Qual sembra di lontan cerulea nube
965Arder col sole e varïar col moto.
Brandisce l’asta; gli stinier vagheggia
Nitidi e lievi, che fregiati e fusi
Son di fin oro e di forbito elettro.
Meravigliando alfin sopra lo scudo

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970Si ferma, e l’incredibile artificio
Ond’era intesto, e l’argomento esplora.
     In questo di commesso e di rilievo
Avea fatto de’ fochi il gran maestro
(Come de’ vaticini e del futuro
975Presago anch’egli) con mirabil arte
Le battaglie, i trionfi e i fatti egregi
D’Italia, de’ Romani e de la stirpe
Che poi scese da lui; dal figlio Ascanio
Incominciando, i discendenti tutti
980E le guerre che fer di mano in mano.
V’avea del Tebro in su la verde riva
Finta la marzïal nudrice lupa
In un antro accosciata, e i due gemelli
Che da le poppe di sì fiera madre
985Lascivetti pendean, senza paura
Seco scherzando. Ed ella umíle e blanda
Stava col collo in giro, or l’uno or l’altro
Con la lingua forbendo e con la coda.
V’era poco lontan Roma novella
990Con una pompa, e con un circo avanti
Pien di tumulto, ov’era un’insolente
Rapina di donzelle, un darsi a l’arme
Infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
E poscia infra gli stessi regi armati,

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995Di Giove anzi a l’altare un tener tazze
Invece d’armi in mano, un ferir d’ambe
Le parti un porco, e far connubi e pace.
     Nè di qui lunge, erano a quattro a quattro
Giunti a due carri otto destrier feroci,
1000Che, qual Tullo imponea (stato non fossi
Tu sì mendace e traditore, Albano!).
In due parti traen di Mezio il corpo;
E sì com’era tratto, i brani e ’l sangue
Ne mostravan le siepi, i carri e ’l suolo.
1005V’era, oltre a ciò, Porsenna, il tosco rege,
Ch’imperïosamente da l’essiglio
Rivocava i Tarquini, e ’n duro assedio
Ne tenea Roma, che del giogo schiva
S’avventava nel ferro. Avea nel volto
1010Scolpito questo re sdegno e minacce,
E meraviglia, che sol Cocle osasse
Tener il ponte; e Clelia, una donzella,
Varcar il Tebro e scior la patria e lei.
     In cima dello scudo il Campidoglio
1015Era formato e la Tarpeia rupe,
E Manlio che del tempio e de la ròcca
Stava a difesa; e la romulea reggia
Che ’l comignolo avea di stoppia ancora.
Tra’ portici dorati iva d’argento

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1020L’ali sbattendo e schiamazzando un’oca,
Ch’apria de’ Galli il periglioso agguato:
E i Galli per le macchie e per le balze
De l’erta ripa, da la buia notte
Difesi, quatti quatti erano in cima
1025Già de la ròcca ascesi. Avean le chiome,
Avean le barbe d’oro: aveano i sai
Di lucid’ostri divisati a liste,
E d’òr monili ai bianchi colli avvolti.
Di forti alpini dardi avea ciascuno
1030Da la destra una coppia, e ne’ pavesi
Stavan coi corpi rannicchiati e chiusi.
     Quinci de’ Salii e de’ Luperci ignudi,
E de’ greggi de’ Flámini scolpito
V’avea le tresche e i cantici e i tripudi,
1035Ed essi tutti o coi lor fiocchi in testa,
O con gli ancili e con le tibie in mano:
Cui le sacre carrette ivano appresso
Coi santi simolacri e con gli arredi,
Che traean per le vie le madri in pompa.
1040E più lunge nel fondo era la bocca
De la tartarea tomba, e del gran Dite
La reggia aperta: ov’anco eran le pene
E i castighi degli empi. E quivi appresso
Stavi tu, scelerato Catilina,

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1045Sopra d’un ruinoso acuto scoglio
Agli spaventi de le furie esposto.
E scevri eran da questi i fortunati
Luoghi de’ buoni, a cui ’l buon Cato è duce.
     Gonfiava in mezzo una marina d’oro
1050Con la spuma d’argento, e con delfini
D’argentino color, che con le code
Givan guizzando, e con le schiene in arco
Gli aurati flutti a loco a loco aprendo.
E i liti e ’l mare e ’l promontorio tutto
1055Si vedea di Leucáte a l’Azia pugna
Star preparati; e d’una parte Augusto
Sovra d’un’alta poppa aver d’intorno
Europa, Italia, Roma e i suoi Quiriti,
E ’l senato e i Penati e i grandi iddii.
1060Di tre stelle il suo volto era lucente.
Due ne facea con gli occhi, ed una sempre
Del divo padre ne portava in fronte.
Ne l’altro corno Agrippa era con lui
Del marittimo stuolo invitto duce,
1065Ch’altero, e ’l capo alteramente adorno
De la rostrata sua naval corona,
I venti e i numi avea fausti e secondi.
     Da l’altra parte vincitore Antonio,
Di vèr l’aurora e di vèr l’onde rubre

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1070Barbari aiuti, esterne nazïoni
E diverse armi dal Cataio al Nilo
Tutto avea seco l’Orïente addotto:
E la zingara moglie era con lui,
Milizia infame. Ambe le parti mosse
1075Se ne gian per urtarsi, e d’ambe il mare
Scisso da’ remi e da’ stridenti rostri
Lacero si vedea, spumoso e gonfio.
Prendean de l’alto i legni in tanta altezza,
Che Cicladi con Cicladi divelte
1080Parean nel mar gir a ’ncontrarsi, o ’n terra
Monti con monti: da sì fatte moli
Avventavan le genti e foco e ferro,
Onde il mar tutto era sanguigno e rogio.
     Stava qual Isi la regina in mezzo
1085Col patrio sistro, e co’ suoi cenni il moto
Dava alla pugna; e non vedea (meschina!)
Quai due colúbri le venian da tergo.
L’abbaiatore Anúbi e i mostri tutti,
Ch’eran suoi dii, contra Nettuno e contra
1090Venere e Palla armati eran con lei,
E Marte in mezzo, che nel campo d’oro
Di ferro era scolpito, or questi or quelli
A la zuffa infiammava: e l’empie Furie
Co’ lor serpenti, la Discordia pazza

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1095Col suo squarciato ammanto, con la sferza
Di sangue tinta la crudel Bellona
Sgominavan le genti; e l’azzio Apollo
Saettava di sopra: agli cui strali
L’Egitto e gl’Indi e gli Arabi e i Sibei
1100Davan le spalle. E già chiamare i venti,
Scioglier le funi, inalberar le vele
Si vedea la regina a fuggir volta.
Già del pallor de la futura morte,
Ond’era dal gran fabro il volto aspersa,
1105In abbandono a l’onde, e de la Puglia
Ne giva al vento. Avea d’incontro il Nilo
Un vasto corpo, che, smarrito e mesto,
A’ vinti aperto il seno e steso il manto,
I latebrosi suoi ridotti offriva.
     1110Cesare v’era alfin che trïonfando
Tre volte in Roma entrava; e per trecento
Gran templi a’ nostri dii voti immortali
Si vedean consecrati. Eran le strade
Piene tutte di plauso, di letizia,
1115E di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
Concorso di matrone: ad ogni altare
Vittime, incensi e fiori. Egli di Febo
Anzi al delubro in maestade assiso
Riconoscea de’ popoli i tributi,

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1120E la candida soglia e le superbe
Sue porte ne fregiava. Iva la pompa
De le genti da lui domate intanto
Varie di gonne, d’idïomi e d’armi.
Qui di Nomadi e d’Afri era una schiera
1125In abito discinta; ivi un drappello
Di Lèlegi, di Cari e di Geloni
Con archi e strali. Infin dai liti estremi
I Mòrini condotti erano al giogo,
E gl’indomiti Dai. Con meno orgoglio
1130Giva l’Eufrate: ambe le corna fiacche
Portava il Reno: disdegnoso il ponte
Nel dorso si scotea l’Armenio Arasse.
     A tal, da tanta madre avuto dono,
E d’un tanto maestro, Enea mirando,
1135Benchè il velame del futuro occulte
Gli tenesse le cose, ardire e speme
Prese e gioia a vederle: e de’ nepoti
La gloria e i fati agli omeri s’impose.

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Libro Nono.


     Mentre così de’ suoi scevro e lontano,
Enea fa d’armi e di sossidi acquisto,
Giuno di concitar la furia e l’ira
Di Turno unqua non resta. Erasi Turno
5Col pensier della guerra al sacro bosco
Di Pilunno suo padre allor ridotto,
Che mandata da lei di Taümante
Gli fu la figlia in cotal guisa a dire:
     Ecco, quel che tu mai chiedere a lingua,
10O ’mpetrar dagli Dei, Turno, potessi,
Per sè l’occasïon ti porge e ’l tempo.
Enea, mentre dagli altri implora aita,
Le sue mura, i suoi legni e le sue genti
Lascia ora a te, se tu ’l conosci, in preda.
15Ei coi migliori al palatino Evandro
Se n’è passato, e quindi è ne l’estremo
Penetrato d’Etruria. Ora è nel campo
De’ Toschi, e favvi indugio, ed arma agresti.
E tu qui badi or che di carri e d’armi

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20E di prestezza è d’uopo? E che non prendi
I suoi steccati che son or di tanto
Per l’assenza di lui turbati e scemi?
Poscia che così disse, alto su l’ali
La Dea levossi; e tra l’opache nubi
25Per entro al suo grand’arco ascese e sparve.
     Turno che la conobbe, ambe a le stelle
Alza le palme; e nel fuggir con gli occhi
Seguilla e con la voce, Iri, dicendo,
Lume e fregio del cielo, e chi ti spiega
30Or da le nubi? E chi quaggiù ti manda?
Ond’è l’aër sì chiaro e sì tranquillo
Così repente? Io veggio aprirsi il cielo,
Vagar le stelle. O qual tu de’ celesti
Sii, ch’a l’armi m’inviti, io lieto accetto
35Un tanto augurio, e lo gradisco e ’l seguo.
Così dicendo al fiume si rivolse;
N’attinse; se ne sparse; e preci e voti
Molte fïate al ciel porse e riporse.
     Eran già le sue genti a la campagna,
40E de’ cavalli il condottier Messápo
Di ricca sopravesta ornato e d’oro
Movea d’avanti. I giovini di Tirro
Tenean l’ultime squadre, e Turno in mezzo
Con tutto il capo a tutta la battaglia

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45Sopravanzando, armato cavalcava
Per l’ordinanza. In cotal guisa i campi
Primieramente inonda il Gange o ’l Nilo
Con sette fiumi; indi ristretto e queto
Correndo, entro al suo letto si raccoglie.
     50Qui d’improvviso d’un oscuro nembo
Di polve il ciel ravvilupparsi i Teucri
Scorgon da lunge, e ’ntorbidarsi i campi.
Caíco il primo da l’avversa mole
Gridando, O, disse, cittadini, un gruppo
55Vèr noi di polverio ne l’aura ondeggia.
Ognuno a l’armi; ognun a la muraglia:
Ecco i nemici. Di ciò corre il grido
Per tutta la città; chiuggon le porte:
Empion le mura. Tale avea, partendo,
60Dato il sagace Enea precetto e norma,
Ch’in caso di rottura, a campo aperto
Senza lui non s’ardisse o spiegar schiere
O far conflitto; e solo a la difesa
S’attendesse del cerchio. Ira e vergogna
65Gli animava a la zuffa; editto e téma
Gli ritenea del duce. Ond’entro armati
Ne le torri, in su’ merli e ne’ ripari
Aspettaro i nemici. A lento passo
Procedea l’ordinanza; e Turno a volo

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70Con venti eletti cavalieri avanti
Si spinse e d’improvviso appresentossi.
Cavalcava di Tracia un gran corsiero,
Di bianche macchie il vario tergo asperso,
E ’l suo dorato e luminoso elmetto
75D’alto cimier copria cresta vermiglia.
     Qui fermo: Chi di voi, giovini, disse,
Meco sarà contr’a’ nimici il primo?
E quel ch’era di pugna indizio e segno,
L’asta a l’aura avventando, alteramente
80Trascorse il campo, ed ingaggiò battaglia.
Con alte grida e con orribil voci
Fremendo lo seguiro i suoi compagni,
Non senza meraviglia che sì vili
Fossero i Teucri a non osar del pari
85Uscirgli a fronte, non mostrarsi in campo,
Ferir da lunge, e di muraglia armarsi.
Turno di qua di là turbato e fiero
Si spinge, e scorre il piano, e cerchia il muro,
E d’entrar s’argomenta ov’anche è chiuso.
     90Come rabbioso ed affamato lupo
Al pieno ovile insidïando, freme
La notte, al vento ed a la pioggia esposto;
Quando sotto le madri i puri agnelli
Belan securi, ed ei la fame e l’ira

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95Incontro a lor che gli son lunge, accoglie;
Così gli occhi di foco e ’l cor di sdegno
Il Rutulo infiammato, anelo e fiero
Va de’ nimici agli steccati intorno,
Ogni loco, ogni astuzia, ogni sentiero
100Investigando, onde o co’ suoi vi salga,
O lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano.
     Alfin l’armata assaglie, ch’a’ ripari
Da l’un canto congiunta, entro un canale
D’onde e d’argini cinta, era nascosta.
105Qui foco esclama, e foco di sua mano
Con un ardente pino a’ suoi seguaci
Dispensa, e lor con la presenza accende:
Onde tosto e le faci e i legni appresi,
Fumo, fiamme, faville e vampi e nubi
110E volumi di pece al ciel n’andaro.
     Muse, ditene or voi qual nume allora
Scampò de’ Teucri i legni, e come un tanto
De la novella Troia incendio estinse.
Fama di tempo in tempo e prisca fede
115N’avvera il fatto, e voi conto ne ’l fate.
     Dicon che quando a navigar costretto
Enea primieramente i suoi navili
A formar cominciò nel bosco ideo:
D’Ida di Berecinto e degli Dei

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120La madre, al sommo Giove orando, disse:
Figlio, che sei per me de l’universo
Monarca eterno, a me tua cara madre
Fa quel ch’io chieggio, e tu mi devi, onore.
È nel gárgaro giogo un bosco in cima
125Da me diletto, ed al mio nume additto
Già di gran tempo. Era d’abeti e d’aceri
E di pini e di peci ombroso e denso;
Ma quando de l’armata ebbe uopo in prima
Il giovine Troiano, al magistero
130Volentier de’ suoi legni il concedei.
Quinci uscîr le sue navi; e come figlie
Di quella selva, a me son sacre e care
Sì ch’or ne temo; e del timor che n’aggio
Priego che m’assicuri; e ’l priego mio
135Questo possa appo a te, che tanto puoi,
Che nè da corso mai, nè da fortuna
Sian di venti, o di flutti, o di tempeste
Squassate o vinte: e lor vaglia che nate
Son ne’ miei monti. A cui Giove rispose:
     140Madre, a che stringi i fati? E qual, per cui,
Cerchi tu privilegio? A mortal cosa
Farò dono immortale? E mortal uomo
Non sarà sottoposto a’ rischi umani?
Ed a qual degli Dei tanto è permesso?

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145Più tosto allor che saran giunte al fine,
E che in porto saranno, a quelle tutte
Che, scampate da l’onde, il teucro duce
Avran ne’ campi di Laurento esposto,
Torrò la mortal forma, e Dee farolle
150Che qual di Nèreo e Doto e Galatea
Fendan coi petti e con le braccia il mare.
Così detto, il torrente e la vorago
E la squallida ripa e l’atra pece
D’Acheronte giurando, abbassò ’l ciglio,
155E fe’ tutto tremar col cenno il mondo.
Or questo era quel dì, quest’era il fine
Da le Parche dovuto ai teucri legni:
Onde la madre Idèa contra l’oltraggio
Si fe di Turno, e gli sottrasse al foco.
160Primieramente inusitata luce
Balenando rifulse; indi un gran nembo
Di Coribanti per lo ciel trascorse
Di vèr l’aurora; ed una voce udissi
Ch’empiè di meraviglia e di spavento
165L’un esercito e l’altro: O miei Troiani,
Dicendo, non vi caglia a’ miei navili
Porger soccorso; nè perciò nel campo
Uscite a rischio. Arderà Turno il mare
Pria che le sacre a me dilette navi.

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170E voi, mie navi, itene sciolte: e Dee
Siate del mare. Io genitrice vostra
Lo vi comando. A questa voce, in quanto
Udissi a pena, s’allentâr le funi
De’ lor ritegni; e di delfini in guisa
175Coi rostri si tuffaro. Indi sorgendo
(Mirabil mostro!), quante a riva in prima
Eran le navi, tanti di donzelle
Si vider per lo mar sereni aspetti.
Sgomentaronsi i Rutuli; e Messápo
180Co’ suoi cavalli attonito fermossi.
Il padre Tiberin roco mugghiando
Dal mar fuggissi. Nè perciò di Turno
Cessò l’audacia, anzi via più feroce,
Gli altri essortando e riprendendo, Ah, disse,
185Di che temete? Incontro ai Teucri stessi
Vengon questi prodigi; e loro ha Giove
De le lor forze essausti. Il ferro e ’l fuoco
Non aspettan de’ Rutuli: han del mare
Perduta e de la fuga ogni speranza.
190Essi del mare infino a qui son privi;
E la terra è per noi, tante son genti
D’Italia in arme. Nè tem’io de’ vanti
Che de’ lor vaticini e de’ lor fati
Da lor si danno. Assai de’ fati, assai

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195È l’intento di Venere adempito,
Che son nel Lazio. E ’ncontro ai fati loro
Son anco i miei, che tôr del Lazio io deggia,
Anzi del mondo, questi scelerati
De l’altrui donne usurpatori e drudi:
200Chè non soli gli Atridi, e non sola Argo
N’han duolo e sdegno. Oh! basta ch’una volta
Ne son periti. Sì, se lor bastasse
D’aver in ciò sol una volta errato.
Nuovo error; nuova pena. Or non aranno
205Omai quest’infelici in odio affatto
Le donne tutte, a tal di già condotti,
Che non han de la vita altra fidanza,
Che questo poco e debile steccato
Che da lor ne divide? e tanto a pena
210Son lunge dal morir, quanto s’indugia
A varcar questa fossa. In ciò riposto
Han la speme e l’ardire. O non han visto
Le mura anco di Troia, che costrutte
Fur per man di Nettuno, a terra sparse
215E ’n cenere converse? Ma chi meco
Di voi, guerrieri eletti, è che s’accinga
D’assalir queste mura e queste genti
Già di paura offese? A me lor contra
D’uopo non son nè l’armi di Volcano,

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220Nè mille navi. E vengane pur tutta
L’Etruria insieme. E non furtivamente
E non di notte, come fanno i vili,
Il Palladio involando, e de la ròcca
I custodi occidendo, assalirògli;
225Nè del cavallo ne l’oscuro ventre
M’appiatterò. Di giorno apertamente
D’armi e di fuoco cingerògli in guisa,
Ch’altro lor sembri che garzòni e cerne
Aver di Greci e di Pelasgi intorno,
230Di cui l’assedio infino al decim’anno
Ettor sostenne. Or poscia che del giorno
S’è buona parte insino a qui passata
Felicemente, il resto che n’avanza
Attendete a posarvi, a ristorarvi,
235A disporvi a l’assalto; e ne sperate
Lieto successo. Indi a Messápo incarco
Si dà, che sentinelle e guardie e fochi
Disponga anzi a le porte e ’ntorno al muro.
Ei sette e sette capitani egregi,
240Rutuli tutti a quest’impresa elesse,
Con cento che n’avea ciascuno appresso
Di purpurei cimieri ornati e d’oro.
Questi, le mute varïando e l’ore,
Scorrevano a vicenda; e ’ntorno a’ fochi

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245Desti in su l’erba, infra le tazze e l’urne
Traean la notte in gozzoviglie e ’n giuochi.
     Stavano i Teucri il campo rimirando
Da la muraglia; e per timore, armati
Visitavan le porte, e ’n su’ ripari
250Facean bertesche e sferratoie e ponti.
Era Memmo lor sopra e ’l buon Sergesto,
Che fur dal padre Enea nel suo partire
A guerreggiar, se guerra si rompesse,
Per condottieri e per maestri eletti.
255Già su le mura, ovunque o da periglio
O da la vece eran disposti, ognuno
Tenea il suo luogo. Un de’ più fieri in arme,
Niso d’Ìrtaco il figlio, ad una porta
Era proposto. Da le cacce d’Ida
260Venne costui mandato al troian duce,
Gran feritor di dardo e di saette.
Eurïalo era seco, un giovinetto
Il più bello, il più gaio e ’l più leggiadro,
Che nel campo troiano arme vestisse;
265Ch’a pena avea la rugiadosa guancia
Del primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi due solo un amore
Ed un volere; e nel mestier de l’armi
L’un sempre era con l’altro, ed ambi insieme

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270Stavano allor vegghiando a la difesa
Di quella porta. Disse Niso in prima:
     Eurïalo, io non so se Dio mi sforza
A seguir quel ch’io penso, o se ’l pensiero
Stesso di noi fassi a noi forza e dio.
275Un desiderio ardente il cor m’invoglia
D’uscire a campo, e far contr’a’ nemici
Un qualche degno e memorabil fatto:
Sì di star pigro e neghittoso aborro.
Tu vedi là come securi ed ebri
280E sonnacchiosi i Rutuli si stanno
Con rari fochi e gran silenzio intorno.
L’occasïone è bella, ed io son fermo
Di porla in uso: òr in qual modo ascolta.
     Ascanio, i consiglieri e ’l popol tutto,
285Per richiamare Enea, per avvisarlo,
E per avvisi riportar da lui,
Cercan messaggi. Io, quando a te promesso
Premio ne sia (ch’a me la fama sola
Basta del fatto), di poter m’affido
290Lungo a quel colle investigar sentiero,
Onde a Pallanto a ritrovarlo io vada
Securamente. Eurïalo a tal dire
Stupissi in prima; indi d’amore acceso
Di tanta lode, al suo diletto amico

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295Così rispose: Adunque ne l’imprese
Di momento e d’onore io da te, Niso,
Son così rifiutato? E te posso io
Lassar sì solo a sì gran rischio andare?
A me non diè questa creanza Ofelte
300Mio genitore, il cui valor mostrossi
Negli affanni di Troia, e nel terrore
De l’argolica guerra. Ed io tal saggio
Non t’ho dato di me, teco seguendo
Il duro fato e la fortuna avversa
305Del magnanimo Enea. Questo mio core
È spregiatore, è spregiatore anch’egli
Di questa vita, e degnamente spesa
La tiene allor che gloria se ne merchi
E quel che cerchi, ed a me nieghi, onore.
     310Soggiunse Niso: Altro di te concetto
Non ebbi io mai, nè tal sei tu ch’io deggia
Averlo in altra guisa. Così Giove
Vittorïoso mi ti renda e lieto
Da questa impresa, o qual altro sia nume
315Che propizio e benigno ne si mostri.
Ma se per caso o per destino avverso
(Come sovente in questi rischi avvène)
Io vi perissi, il mio contento in questo
È che tu viva, sì perchè di vita

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320Son più degni i tuoi giorni, e sì perch’io
Aggia chi dopo me, se non con l’arme,
Almen con l’oro il mio corpo ricovre,
E lo ricuopra. E s’ancor ciò m’è tolto,
Alfin sia chi d’essequie e di sepolcro
325Lontan m’onori. Oltre di ciò cagione
Esser non deggio a tua madre infelice
D’un dolor tanto: a tua madre che sola
Di tante donne ha di seguirti osato,
I commodi spregiando e la quïete
330De la città d’Aceste. A ciò di nuovo
Eurïalo rispose: Indarno adduci
Sì vane scuse; ed io già fermo e saldo
Nel proposito mio pensier non muto.
Affrettianci a l’impresa. E, così detto,
335Destò le sentinelle, e le ripose
In vece loro; e l’uno e l’altro insieme
Se ne partiro, e ne la reggia andaro.
     Tutti gli altri animali avean, dormendo,
Sovra la terra oblio, tregua e riposo
340Da le fatiche e dagli affanni loro.
I Teucri condottieri e gli altri eletti,
Che de la guerra avean l’imperio e ’l carco,
S’erano e de la guerra e de la somma
Di tutto ’l regno a consigliar ristretti:

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345E nel mezzo del campo altri agli scudi,
Altri a l’aste appoggiati, avean consulta
Di che far si dovesse, e chi per messo
Ad Enea si mandasse. I due compagni
D’essere ammessi e ’ncontinente uditi
350Fecer gran ressa e di portar sembiante
Cosa di gran momento e di gran danno
Se s’indugiasse. A questa fretta, il primo
Si fece Ascanio avanti, e, vòlto a Niso
Comandò che dicesse. Egli altamente
355Parlando incominciò: Troiani, udite
Discretamente: e quel che si propone
E si dice da noi, non misurate
Dagli anni nostri. I Rutuli sepolti
Se ne stan da la crapula e dal sonno;
360E noi stessi appostato avemo un loco
Da quella porta che riguarda al mare,
Atto a le nostre insidie ove la strada
Più larga in due si parte. Intorno al campo
Sono i fochi interrotti: il fumo oscuro
365Sorge a le stelle. Se da voi n’è dato
D’usar questa fortuna, e quest’onore
Ne si fa di mandarne al nostro duce,
Al Pallantèo n’andremo, e ne vedrete
Assai tosto tornar carchi di spoglie

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370De gli avversari nostri, e tutti aspersi
Del sangue loro. E non fia che la strada
Ne gabbi: chè più volte qui d’intorno
Cacciando, avemo e tutta questa valle
E tutto il fiume attraversato e scorso.
     375Qui d’anni grave e di pensier maturo
Alète al ciel rivolto, O patrii Dii,
Disse esclamando, il cui nome fu sempre
Propizio a Troia, pur del tutto spenta
Non volete che sia mercè di voi,
380Poscia che questo ardire e questi cori
Ne’ petti a’ nostri giovini ponete.
E stringendo le man, gli omeri e ’l collo
Or de l’uno or de l’altro, ambi onorava,
Di dolcezza piangendo. E qual, dicea
385Qual, generosi figli, a voi darassi
Di voi degna mercede? Iddio, ch’è primo
Degli uomini e supremo guiderdone,
E la vostra virtù premio a sè stessa
Sia primamente. Enea poscia useravvi
390Sua largitate, e questo giovinetto
Che d’un tal vostro merto avrà mai sempre
Dolce ricordo. Anzi io, soggiunse Iulo,
Che senza il padre mio la mia salute
Veggio in periglio, per gli dei Penati,

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395Per la casa d’Assáraco, per quanto
Dovete al sacro e venerabil nume
De la gran Vesta, ogni fortuna mia
Ponendo, ogni mio affare in grembo a voi,
Vi prego a rivocare il padre mio.
400Fate ch’io lo riveggia: e nulla poi
Sarà di ch’io più tema. E già vi dono
Due gran vasi d’argento, che scolpiti
Sono a figure; un de’ più ricchi arnesi
Che del sacco d’Arisba in preda avesse
405Il padre mio; due tripodi; due d’oro
Maggior talenti, ed un tazzone antico
De la sidonia Dido. E se n’è dato
Tener d’Italia il desiato regno,
E che preda sortirne unqua mi tocchi,
410Quello stesso destrier, quelle stesse armi
Guarnite d’oro, onde va Turno altero,
E quel suo scudo, e quel cimier sanguigno
Sottrarrò dalla sorte; e di già Niso,
Gli ti consegno; e ti prometto in nome
415Del padre mio, che largiratti ancora
Dodici fra mill’altri eletti corpi
Di bellissime donne e dodici altri
Di giovini prigioni, e l’armi loro
Con essi insieme, e di Latino stesso

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420La regia villa. Or te, mio venerando
Fanciullo, abbraccio, agli cui giorni i miei
Van più vicini. Io te con tutto il core
Accetto per compagno e per fratello
In ogni caso; e nulla o gloria o gioia
425Procurerommi in pace unqua od in guerra,
Che non sii meco d’ogni mio pensiero
E d’ogni ben partecipe e consorte;
E ne le tue parole e ne’ tuoi fatti
Somma speme avrò sempre e somma fede.
     430Eurïalo rispose: O fera o mite
Che fortuna mi sia, non sarà mai
Ch’io discordi da me: mai non uguale
Lo mio cor non vedrassi a questa impresa:
Ma sopra agli altri tuoi promessi doni
435Questo solo bram’io: la madre mia,
Che dal ceppo di Prïamo è discesa,
E che per me seguire ha, la meschina,
Non pur di Troia abbandonato il nido,
Ma ’l ricovro d’Aceste, e la sua vita
440Stessa (a tanti per me l’ha rischi esposta).
Di questo mio periglio, qual che e’ sia,
Nulla ha notizia; ed io da lei mi parto
Senza che la saluti, e che la veggia.
Per questa man, per questa notte io giuro,

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445Signor, che nè vederla, nè la pieta
Soffrir de le sue lagrime non posso.
Tu questa derelitta poverella
Consola, te ne priego, e la sovvieni
In vece mia. Se tu di ciò m’affidi,
450Andrò, con questa speme, ad ogni rischio
Con più baldanza. Si commosser tutti
A tai parole, e lagrimaro i Teucri;
E più di tutti Ascanio, a cui sovvenne
De la pietà ch’ebbe suo padre al padre;
455E disse al giovinetto: Io mi ti lego
Per fede a tutto ciò che la grandezza
Di questa impresa e ’l tuo valor richiede.
E perchè mia sia la tua madre, il nome
Sol di Creusa, e null’altro, le manca.
460Nè di picciolo merto è ch’un tal figlio
N’aggia prodotto, segua che che sia
Di questo fatto. Ed io per lo mio capo
Ti giuro, per lo qual solea pur dianzi
Giurar mio padre, ch’a la madre tua,
465A tutta la tua stirpe si daranno
I doni stessi che serbar mi giova
Pur a te nel felice tuo ritorno.
     Così disse piangendo; e la sua spada,
Che di man di Licáone guarnito

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470Avea d’avorio il fodro, e l’else d’oro,
Distaccossi dal fianco, e lui ne cinse.
Memmo al tergo di Niso un tergo impose
Di villoso leone; e ’l fido Alete
Gli scambiò l’elmo. Così tosto armati
475Se n’uscîr da la reggia; e i primi tutti,
Giovini e vecchi, in vece d’onoranza
Fino a la porta con preconii e voti
Gli accompagnaro. Il giovinetto Iulo
Con viril cura e con pensier maturi
480Innanzi agli anni, ragionando in mezzo
Giva d’entrambi: ed or l’uno ed or l’altro
Molto avvertendo, molte cose a dire
Mandava al padre: le quai tutte al vento
Furon commesse, e dissipate a l’aura.
     485Escono alfine. E già varcato il fosso,
Da le notturne tenebre coverti
Si metton per la via che gli conduce
Al campo de’ nemici, anzi a la morte.
Ma non morranno, che macello e strage
490Faran di molti in prima. Ovunque vanno
Veggion corpi di genti, che sepolti
Son dal sonno e dal vino. In carri vòti
Con ruote e briglie intorno, uomini ed otri
E tazze e scudi in un miscuglio avvolti.

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     495Disse d’Ìrtaco il figlio: Or qui bisogna,
Eurïalo, aver core, oprar le mani,
E conoscere il tempo. Il cammin nostro
È per di qua. Tu qui ti ferma, e l’occhio
Gira per tutto, che non sia da tergo
500Chi n’impedisca; ed io tosto col ferro
Sgombrerò ’l passo, e t’aprirò ’l sentiero.
Ciò cheto disse. Indi Rannète assalse,
Il superbo Rannète, che per sorte
Entro una sua trabacca avanti a lui
505In su’ tappeti a grand’agio dormia,
E russava altamente. Era costui
A re Turno gratissimo, ed anch’egli
Rege e ’ndovino; ma non seppe il folle
Indovinar quel ch’a lui stesso avvenne.
510Tre suoi famigli, che dormendo appresso
Giacean fra l’armi rovesciati a caso,
Tutti in un mucchio uccise, ed un valletto
Ch’era di Remo, e sotto i suoi cavalli
Lo stesso auriga. A costui trasse un colpo
515Che gli mandò giù ciondoloni il collo:
Indi al padron di netto lo recise
Sì, che ’l sangue spicciando d’ogni vena,
La terra, lo stramazzo e ’l desco intrise.
Támiro estinse dopo questi e Lamo,

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520E ’l giovine Serrano. Un bel garzone
Era costui gran giocatore, e ’n gioco
Insino allora avea sempre vegliato.
Felice lui per lo suo vizio stesso
Se giocato e perduto ancora avesse
525Tutta la notte! Era a veder tra loro
Il fiero Niso, qual da fame spinto
Non pasciuto leone, un pieno ovile
Imbelle e per timor già muto assaglie,
Che d’unghie armato, e sanguinoso il dente
     530Traendo e divorando ancide e rugge.
Nè fe’ strage minor dall’altro canto
Eurïalo, ch’acceso e furïoso
Tra molta plebe molti senza nome
E quasi senza vita a morte trasse;
535Sì dal sonno eran vinti; e de’ nomati
Occise Ebèso, Fabo, Àbari e Reto.
Questo Reto era desto: onde veggendo
Con la morte degli altri il suo periglio,
Per la paura appo d’un’urna ascoso
540Quatto e queto si stava. Indi sorgendo
Gli fu ’l giovine sopra, e ’l ferro tutto
Entro al petto gl’immerse, e con gran parte
De la sua vita indietro lo ritrasse;
Sì che tra ’l vino e ’l sangue ond’era involta,

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545Gli uscì l’alma di purpura vestita.
     Con questa occisïon di buia notte
E di furtivo agguato il buon garzone
Fervidamente instava. E già rivolto
S’era contro a la schiera di Messápo
550Là ’ve ’l foco vedea del tutto estinto,
E là ’ve i suoi cavalli a la campagna
Pascean legati; allor che Niso il vide
Che da l’occisïone e da l’ardore
Trasportar si lasciava. E brevemente:
555Non più, gli disse, chè ’l nimico sole
Ne sorge incontra. Assai di sangue ostile
Fin qui s’è sparso: assai di largo avemo.
Molt’armi, molt’argenti e molt’arnesi
Lasciaro indietro. I guarnimenti soli
560Del caval di Rannète e le sue borchie
Eurïalo si prese con un cinto
Bollato d’oro, un prezïoso dono
Che Cèdico, un ricchissimo tiranno,
A Remolo tiburte ospite assente
565Fece in quel tempo. Remolo al nipote
Lo lasciò per retaggio e questi in guerra
Ne fu poscia da’ Rutuli spogliato:
Quinci gli ebbe Rannète, e quinci preda
Fur d’Eurïalo al fine. Egli gravonne

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570I forti omeri indarno. Appresso in campo
S’adattò di Messápo un lucid’elmo
D’alto cimiero adorno: e ’n questa guisa
Se ne partian vittorïosi e salvi.
     Intanto di Laurento eran le schiere
575Uscite a campo, e i lor cavalli avanti
Precorrean l’ordinanza, ed a re Turno
Ne portavano avviso. Eran trecento
Tutti di scudo armati; e capo e guida
N’era Volscente. Già vicini al campo
580Scorgean le mura; quando fuor di strada
Videro da man manca i due compagni
Tener sentiero obliquo. Era un barlume
Là ’v’era l’ombra, e là ’v’era la luna,
Agli avversi suoi raggi la celata
585Del male accorto Eurïalo rifulse.
Di cotal vista insospettì Volscente,
E gridò da la squadra: O là fermate.
Chi viva? A che venite? Ove n’andate?
Chi siete voi? La lor risposta incontro
590Fu sol di porsi in fuga e prevalersi
De la selva e del buio. I cavalieri
Ratto chi qua chi là corsero a’ passi,
Circondarono il bosco; ad ogni uscita
Posero assedio. Era la selva un’ampia

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595Macchia d’elci e di pruni orrida e folta,
Ch’avea rari i sentieri, occulti e stretti.
E gl’intrichi de’ rami e de la preda
Ch’era pur grave, e ’l dubbio de la strada
Tenean sovente Eurïalo impedito.
600Niso disciolto e lieve, e del compagno
Non s’accorgendo ch’era indietro assai,
Oltre si spinse. E già fuor de’ nemici
Era ne’ campi che dal nome d’Alba
Si son poi detti albani. Allor le razze
605E le stalle v’avea de’ suoi cavalli
Il re Latino. E qui poscia ch’un poco
Ebbe il suo caro amico indarno atteso,
Gridando, ah disse, Eurïalo infelice,
U’ sei rimaso? U’ più (lasso) ti trovo
610Per questo labirinto? E tosto indietro
Rivolto, per le vie, per l’orme stesse
Di tornar ricercando, si rimbosca.
Erra pria lungamente, e nulla sente:
Poscia sente di trombe e di cavalli
615E di voci un tumulto: e vede appresso
Eurïalo fra mezzo a quelle genti,
Qual cacciato leone. E già dal loco
E da la notte oppresso si travaglia,
E si difende il poverello invano.

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620Che farà? Con che forze, e con qual’armi
Fia che lo scampi? Avventerassi in mezzo
De’ nimici a morir morte onorata?
Così risolve, e prestamente un dardo
S’adatta in mano; e vòlto in vèr la Luna,
625Ch’allora alto splendea, così la prega:
     Tu, Dea, tu de la notte eterno lume,
Tu, regina de’ boschi, in tanto rischio
Ne porgi aita. E s’Ìrtaco mio padre
Per me de le sue cacce, io de le mie
630Il dritto unqua t’offrimmo; e se t’appesi,
E se t’affissi mai teschio nè spoglia
Di fera belva, or mi concedi ch’io
Questa gente scompigli, e la mia mano
Reggi e i miei colpi. E ciò dicendo, il dardo
635Vibrò di tutta forza. Egli volando
Fendè la notte, e giunse ove a rincontro
Era Sulmone, e l’investì nel tergo
Là ’ve pendea la targa; e ’l ferro e l’asta
Passògli al petto, e gli trafisse il core.
640Cadde freddo il meschino; e con un caldo
Fiume di sangue, che gli uscío davanti,
Finì la vita e col singhiozzo il fiato.
     Guardansi l’uno a l’altro; e tutti insieme
Miran d’intorno di stupor confusi

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645E di timor d’insidie. E Niso intanto
Via più si studia; ed ecco un altro fiero
Colpo, ch’avea di già librato, e dritto
Di sopra gli si spicca da l’orecchio,
E per l’aura ronzando in una tempia
650Si conficca di Tago, e passa a l’altra.
Volscente acceso d’ira, non veggendo
Con chi sfogarla, al giovine rivolto,
Tu me ne pagherai per ambi il fio,
Disse, e strinse la spada, e vèr lui corse.
655Niso a tal vista spaventato, e fuori
Uscito de l’agguato e di sè stesso
(Che soffrir non poteo tanto dolore)
Me, me, gridò, me, Rutuli, occidete.
Io son che ’l feci: io son che questa froda
660Ho prima ordito. In me l’armi volgete:
Chè nulla ha contro a voi questo meschino
Osato, nè potuto. Io lo vi giuro
Per lo ciel che n’è conscio e per le stelle,
Questo tanto di mal solo ha commesso,
665Che troppo amato ha l’infelice amico.
     Mentre così dicea, Volscente il colpo
Già con gran forza spinto, il bianco petto
Del giovine trafisse. E già morendo
Eurïalo cadea, di sangue asperso

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670Le belle membra, e rovesciato il collo,
Qual reciso dal vomero languisce
Purpureo fiore, o di rugiada pregno
Papavero ch’a terra il capo inchina.
     In mezzo de lo stuol Niso si scaglia
675Solo a Volscente, solo contra lui
Pon la sua mira. I cavalier che intorno
Stavano a sua difesa, or quinci or quindi
Lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
Addosso a lui la sua fulminea spada
680Rotava a cerco. E si fe largo in tanto
Ch’al fin lo giunse; e mentre che gridava,
Cacciògli il ferro ne la strozza, e spinse.
Così non morse, che si vide avanti
Morto il nimico. Indi da cento lance
685Trafitto addosso a lui, per cui moriva,
Gittossi; e sopra lui contento giacque.
Fortunati ambidue! Se i versi miei
Tanto han di forza, nè per morte mai
Nè per tempo sarà che ’l valor vostro
690Glorïoso non sia, finchè la stirpe
D’Enea possederà del Campidoglio
L’immobil sasso, e finchè impero e lingua
Avrà l’invitta e fortunata Roma.
     I Rutuli con l’armi e con le spoglie

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695Dei due compagni uccisi il morto corpo
Al campo ne portâr del duce loro:
Lagrimosa vittoria! E non meno anco
Fu nel campo di lagrime e di lutto,
Allor che di Rannète e di Sarrano
700E di Numa la strage si scoverse,
E di tant’altri ch’eran morti in prima.
Corse ognuno a veder; chè parte spenti,
Parte eran mezzi vivi; e caldo e pieno
E spumante di sangue era anco il suolo
705Ove giacean quegl’infelici estinti.
Riconobber tra lor le spoglie e l’elmo
E ’l cimier di Messápo, e i guarnimenti
Che con tanto sudor ricoverati
S’erano a pena. Era vermiglio e rancio
710Fatto già de la notte il nero ammanto,
Lasciando di Titon l’Aurora il letto;
E comparso era il sole, e discoverto
Già ’l mondo tutto, allor che Turno armato
A l’arme, a l’ordinanza, a la battaglia
715Concitò ’l campo; e diede ordine e loco
Ciascuno a’ suoi. Vendetta, ira e disio
D’assalir, di combatter, di far sangue
Vedeansi in tutti. A due grand’aste in cima
Conficcaron le teste (orribil mostra!)

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720D’Eurïalo e di Niso, e con le grida
Ne féro onta e spettacolo a’ nemici.
     I Teucri arditamente in su le mura
Da la sinistra incontra si mostraro;
Chè la destra dal fiume era difesa.
725E chi da le trincee, chi da le torri
Stavan dolenti rimirando i teschi
Ne l’aste affissi polverosi e lordi,
Ch’ancor sangue gocciando eran pur troppo
Così lunge da’ miseri compagni
730Raffigurati a le fattezze conte.
Spiegò la fama le sue penne intanto,
E la trista novella in ogni parte
Sparse per la città, sì ch’agli orecchi
De la madre d’Eurïalo pervenne.
735Corse subitamente un giel per l’ossa
A la meschina: e da le man le usciro
Le sue tele e i suoi fili. Indi, rapita
Dal duolo e da la furia, forsennata
E scapigliata ne la strada uscío;
740E per mezzo de l’armi e de le genti
Correndo, e mugolando, senza téma
Di periglio e di biasmo, andò gridando,
E di questi lamenti il cielo empiendo:
Ahi così concio, Eurïalo, mi torni?

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745Eurïalo sei tu? Tu sei ’l mio figlio,
Ch’eri la mia speranza e ’l mio riposo
Ne l’estreme giornate di mia vita?
Ahi come così sola mi lasciasti,
Crudele? E come a così gran periglio
750N’andasti, anzi a la morte, che tua madre
Non ti parlasse ohimè! l’ultima volta,
Nè che pur ti vedesse? Ah! ch’or ti veggio
In peregrina terra esca di cani,
D’avoltoi e di corvi. Ed io tua madre,
755Io cui l’esequie eran dovute e ’l duolo
D’un cotal figlio, non t’ho chiusi gli occhi,
Nè lavate le piaghe, nè coperte
Con quella veste che con tanto studio
T’ho per trastullo de la mia vecchiezza
760Tessuta io stessa e ricamata invano.
Figlio, dove ti cerco? ove ti trovo
Sì diviso da te? come raccozzo
Le tue così sbranate e sparse membra?
Sol questa parte del tuo corpo rendi
765A la tua madre, che per esser teco
T’ha per terra e per mar tanto seguito,
E seguiratti dopo morte ancora?
In me, Rutuli, in me tutti volgete
I vostri ferri, se pur regna in voi

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770Pietade alcuna. A me la morte date
Pria ch’a null’altro. O tu, padre celeste,
Miserere di me. Tu col tuo tèlo
Mi trabocca nel tartaro e m’ancidi,
Poichè romper non posso in altra guisa
775Questa crudele e disperata vita.
     Da questo pianto una mestizia, un duolo
Nacque ne’ Teucri, e tale anco ne l’armi
Un languore, un timore, una desidia,
Che grami, addolorati e di già vinti
780Sembravan tutti. Onde Àttore ed Idèo,
Con quel di lei togliendo il pianto altrui,
Per consiglio del saggio Ilïonèo
E per compassïon del buono Iulo
Che molto amaramente ne piangea,
785Tosto a braccio prendendola, ambodue
La portaro a l’albergo. Ed ecco intanto
Squillar s’ode da lunge un suon di trombe,
Un dare a l’arme ed un gridar di genti
Tal, che ne tuona e ne rimugghia il cielo.
790E veggonsi in un tempo i Volsci tutti,
Sotto pavesi consertati e stretti
In guisa di testuggine, appressarsi,
Empier le fosse, dirupare il vallo,
E tentar la salita, e por le scale

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795Là dove la muraglia era di sopra
Con minor guardia, e là ’ve raro il cerchio
Tralucea de la gente. Incontro a loro
I Teucri i sassi, i travi ed ogni tèlo
Avventaron dal muro; e con le picche
800Risospingendo, come il lungo assedio
Insegnò lor di Troia, a la difesa
Si fermâr de’ ripari; e le pareti
E i pilastri e le torri addosso a loro
E sopra a la testuggine gittando,
805Gli scudi dissiparono e le genti,
Sì che più di combattere al coverto
Non si curaro. Ma d’ogni arme un nembo
Lanciando a la scoperta, i bastïoni
Offendean de’ Troiani. E d’una parte
810Mezenzio, formidabile a vedere,
Sèn gía con un gran pino acceso in mano
Lo steccato infocando. Iva da l’altro
Il fier Messápo di Nettuno il figlio,
Domator de’ corsieri: e scisso il vallo,
815Scale, scale, gridava, e per lo muro
Rampicando saliva. Or qui m’è d’uopo,
Callïope, il tuo canto a dir le pruove,
A dir l’occisïon che di sua mano
Fece Turno in quel dì; chi, quali e quanti

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820A l’Orco ne mandasse. Ogni successo
Spiega di questa guerra in queste carte.
Tutto a voi, Muse, è conto; e voi la possa
E l’arte avete di contarlo altrui.
     Era una torre di sublime altezza
825Con bertesche e con ponti un sopra l’altro,
Loco opportuno. A questa eran d’intorno
Di fuor gl’Italïani, e dentro i Teucri;
E quei facean per espugnarla ogni opra,
E questi per tenerla. Avanti a tutti
830Si spinse Turno; ed una face ardente
Lanciovvi da l’un fianco, ove s’apprese
Con molta fiamma; così fiero il vento,
Così secchi e disposti erano i legni.
     Ardea la torre da quel canto, e dentro
835La gente per timor cercava indarno
Di ritrarsi dal foco: onde a la parte
Da l’incendio remota in un sol mucchio
Si ristrinsero insieme: e da quel peso
Da quel lato in un subito la torre
840Quasi spinta inchinossi, aprissi e cadde.
Il ciel ne rintonò; la gente infranta,
Storpiata, sfracellata, infra i suoi legni
Da l’armi proprie infissa, e fin ne l’aura
Morta e sepolta a terra se ne venne.

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845Soli due vivi e per ventura intatti
Dal nembo de la polvere, e dal fumo
Uscîr nel campo: Elènore fu l’uno,
Lico fu l’altro. Elènore, un garzone
Di prima barba, di Licinia serva
850E di Meonio re nato di furto,
E sotto Troia a militar mandato
Furtivamente. E’ si trovò com’era
Pria ne la terra lievemente armato
Col brando ignudo e con la targa al collo
855Bianca del tutto, come non dipinta
D’alcun suo fatto glorïoso ancora.
Questi, vistosi in mezzo a tante genti
Di Turno e de’ Latini, come fera
Ch’aggia di cacciatori un cerchio intorno,
860Muove contra agli spiedi, incontr’a l’armi;
Mosse là ’ve più folte eran le schiere,
E certo di morire a morte corse.
     Ma Lico in su le gambe assai più destro
Infra l’armi e i nimici a fuggir vòlto,
865Giunse a le mura ed aggrappossi in guisa
Che stendea già le mani a’ suoi compagni.
Quando Turno e co’ piedi e con la spada
Lo sopraggiunse, e come vincitore
Rampognando gli disse: E che? pensasti,

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870Folle, uscirmi di mano? E le man tosto
Gli pose addosso, e sì come dal muro
Pendea, col muro insieme a terra il trasse.
In quella guisa che gli adunchi ugnoni
Contra una lepre, o contra un bianco cigno
875Stende l’augel di Giove, o ’l marzio lupo
Da le reti rapisce un agnelletto,
Che da la madre sia belato invano.
     Si rinovâr le grida, e tutti insieme
O le faci avventando, o ’l fosso empiendo,
880Rinforzavan l’assalto. Ilïonèo
Con un pezzo di monte, a cui la pinta
Diè giù da’ merli, sopra al ponte infranse
Lutezio ch’a la porta era col foco.
Ligero occise Emazïone; Asíla
885Uccise Corinèo, buon feritori
L’uno di dardo e l’altro di saette.
Ortígio da Cenèo trafitto giacque;
Cenèo da Turno; ammazzò Turno ancora
Iti e Pròmolo e Clònio e Dïosippo,
890E Ságari con Ida: Ida che in alto
Stava d’un torrïone a la difesa.
Capi ancise Priverno. Avea costui
Pria nel fianco una picciola ferita,
Anzi una graffiatura, che passando

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895Fe’ l’asta di Temilla: e il male accorto,
Per su porvi la mano, abbandonato
Avea lo scudo; quando ecco volando
Venne una freccia che la mano e ’l fianco
Insieme gli confisse; e via passando
900Penetrògli al polmone. Il mortal colpo
Sì lo spirar de l’anima gli tolse,
Che non mai più spirò. Stavasi Arcente,
D’Arcente il figlio, in su’ ripari ardito
Egregiamente armato, e sopra l’arme
905D’una purpurea cotta era adobbato
Di ferrigno color, di drappo ibero;
Un giovine leggiadro, che dal padre
Fu nel bosco di Marte a l’armi avvezzo
Lungo al Simèto, u’ l’ara di Palico
910Tinta non come pria di sangue umano,
Più pingue e più placabile si mostra.
Mezenzio il vide: e l’altre armi deposte,
Prese la fromba, e con tre giri intorno
Se l’avvolse a la testa. Indi scoppiando
915Allentò ’l piombo, che dal moto acceso
Squagliossi, e con gran rombo in una tempia
Il garzon percotendo, ne l’arena
Morto, quanto era lungo, lo distese.
     Ascanio che fin qui solo a la caccia

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920Avea l’arco adoprato, or primamente
Oprollo in guerra, e col primiero colpo
Il feroce Numáno a terra stese.
Remolo era costui per soprannome
Chiamato; e poco avanti avea per moglie
925Presa di Turno una minor sorella.
Ei di questo favor, di questo nuovo
Suo regno insuperbito, altero e gonfio
Stava ne l’antiguardia, e con le grida
Si ringrandiva: e di lontano i Teucri
930Schernendo, in cotal guisa alto dicea:
Questo è l’onor che voi, Frigi, vi fate
D’un altro assedio? un’altra volta in gabbia
Vi riponete? e pur col vostro muro,
E coi vostri ripari or da la morte
935Vi riparate? e voi, voi fate guerra
Per usurpare a noi le donne nostre?
Qual dio, qual infortunio, qual follia
V’ha condotti in Italia? e chi pensaste
Di trovar qui? quei profumati Atridi,
940O ’l ben parlante Ulisse? In una gente
Avete dato che da stirpe è dura.
I nostri figli non son nati a pena,
Che si tuffan ne’ fiumi. A l’onde, al gielo
Noi gl’induriamo e gl’incallimo in prima;

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945Poscia per le montagne e per le selve
Fanciulli se ne van la notte e ’l giorno.
Il lor studio è la caccia; e ’l lor diletto
È ’l cavalcare, e ’l trar di fromba e d’arco.
La gioventù ne le fatiche avvezza,
950E contenta del poco, o col bidente
Doma la terra, o con l’aratro i buoi,
O col ferro i nemici. Il ferro sempre
Avemo per le mani. Una sol’asta
Ne fa picca e pungetto. A noi vecchiezza
955Non toglie ardire, e de le forze ancora
Non ci fa, come voi, debili e scemi.
Per canute che sian le nostre teste,
Veston celate, e nuove prede ognora,
Quando da’ boschi e quando da’ nemici,
960Addur ne giova, e viver di rapina.
Voi con l’ostro e co’ fregi e co’ ricami,
Con le cotte a divisa e con le giubbe
Immanicate e coi fiocchetti in testa,
A che valete? A gir così dipinti
965E così neghittosi? A far balletti
Da donnicciuole? O Frigi, o Frigïesse
Più tosto! in questa guisa si guerreggia?
Via ne’ Díndimi monti, ove la piva
Vi chiama e ’l tamburino e ’l zufoletto.

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970E con quei vostri galli, anzi galline
Di Berecinto, ite saltando in tresca;
E l’armi e ’l ferro, che non fan per voi,
Lasciate a quei che son prodi e guerrieri.
     Non potè tanto orgoglio e tanto oltraggio
975Soffrir d’un folle il generoso Iulo,
E teso l’arco con la cocca al nervo,
Rimirò ’l cielo e disse: Onnipotente
Giove, tu l’ardir mio, tu la mia mano
Fomenta e reggi, ed io sacri e solenni
980Ti farò doni: io condurrotti a l’ara
Un candido giovenco che la fronte
Aggia indorata, e de la madre al pari
Erga la testa, e già scherzi e già cozzi
Con le corna, e co’ piè sparga l’arena.
     985Giove, mentre dicea, tonò dal manco
Sereno lato; e col suo tuono insieme
Scoccò l’arco mortifero di Iulo.
Volò l’orribil tèlo, e per le tempie
Di Remolo passando, le trafisse.
990Or va’, t’insuperbisci: or va’, deridi,
Scempio, l’altrui virtù. Queste risposte
Mandano i Frigi che son chiusi in gabbia
Ai Rutuli signor de la campagna.
Questo sol disse Ascanio; ed al suo colpo

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995Le grida i Teucri e gli animi in un tempo
Al cielo alzaro. Era il crinito Apollo,
Quando ciò fu, ne la celeste piaggia
Sovra una nube assiso; e d’alto il campo
Scorgendo de’ Troiani e degli Ausoni,
1000Come vede ogni cosa, visto il colpo
Del vincitore arciero, in vèr lui disse:
Ahi buon fanciullo, in cui vertù s’avanza!
Così vassi a le stelle. Or ben tu mostri
Che dagli dii sei nato, e ch’altri dii
1005Nasceranno da te. Tu sei ben degno
Ch’ogni guerra, che ’l fato ancor minacci
A la casa d’Assáraco, s’acqueti
Per tua grandezza, a cui Troia è minore,
Sì che già non ti cape. E, così detto,
1010Si fendè l’aura avanti e vèr la terra
Calossi, trasmutossi, e come fusse
Il vecchio Bute, al giovine accostossi.
Fu Bute in prima del dardanio Anchise
Valletto d’arme e cameriero e paggio,
1015E poscia per custode e per compagno
L’ebbe Ascanio dal padre. A questo vecchio
Mostrossi Apollo di color, di voce,
D’andar, di canutezza e d’armatura
Simile in tutto; ed a l’ardente Iulo

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1020Fatto vicino, in tal guisa gli disse:
Bástiti aver, d’Enea preclaro figlio,
Senza alcun rischio tuo Numáno ucciso.
Di questa prima lode il grande Apollo
Ti privilegia, e non t’invidia il colpo,
1025Nè ’l paraggio de l’arco. Or da la pugna
Ritraggiti. E, ciò detto, da la vista
De’ circostanti si ritrasse anch’egli,
E sormontando dissipossi e sparve.
Rassembrarono in Bute i Teucri Apollo
1030E riconobber la faretra e l’arco,
Che fuggendo sonar anco s’udiro.
E fer sì, con le preci e col precetto
D’un tanto iddio, ch’Ascanio, ancor che vago
Fosse di pugna, se ne tolse alfine;
1035Ed essi apertamente a ripentaglio
Misero in vece sua le vite loro.
Spargesi un grido per le mura intanto,
Per tutte le difese; e tutti agli archi,
Tutti a tirar, tutti a lanciar si diero
1040D’ogni sorte arme, e d’ogni parte il suolo
N’era coverto; quando altro conflitto
Cominciossi di scudi e di celate;
Una mischia di picche, una battaglia
Che crescea, tuttavolta, rinforzando

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1045Con quella furia che di pioggia un nembo
Vien da l’occaso, allor che d’orïente
Fan sorgendo i Capretti a noi tempesta;
O quando orrido e torbo e d’austri cinto
E ’n grandine converso irato Giove,
1050D’alto precipitando, si devolve
Sopra la terra, e ’l ciel rompendo intuona.
     Pándaro e Bizia d’Alcanòro Ideo,
E d’Iëra salvatica sua moglie
Figli, in Ida acquistati, e d’Ida usciti
1055L’uno a l’altro simíle, ed ambidue
A quegli abeti ed a quei monti uguali
Ond’eran nati, avean dal teucro duce
Una porta in custodia. E confidati
Ne le forze e ne l’armi, a bello studio
1060La lasciarono aperta, ed a’ nemici
Fer da le mura marzïale invito:
Essi armati di ferro, un da la destra,
L’altro da la sinistra, a due pilastri
Sembianti, anzi a due torri che nel mezzo
1065Tengan la porta, con le teste in alto
E co’ raggi degli elmi i campi intorno
Folgorando, squassavano i cimieri
Fin sovr’a’ merli. In cotal guisa nate
Ne le ripe si veggon di Liquezio,

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1070De l’Adice, o del Po due querce altiere
Sorgere al cielo e sventolarsi a l’aura.
     Visto l’adito aperto, incontinente
Vi si spinsero i Rutuli. E Quercente
Ed Equicolo i primi armati e fieri,
1075L’ardito Omâro e ’l bellicoso Emone
Tutti co’ lor compagni impeto féro;
E tutti o fur da’ Teucri in fuga vòlti,
O ne l’entrar di quella porta ancisi.
Giunto agli animi infesti il sangue sparso,
1080S’accrebber l’ire: e de’ Troiani intanto
Tale un numero altronde vi concorse,
Che prender zuffa e tener campo osaro.
     Turno sfogava il suo furore altrove
Contr’a’ nemici; quando un messo avanti
1085Gli comparve dicendo, che di Troia
Erano usciti, e stavan con le porte,
Quanto eran larghe, a far strage e macello,
De le sue genti. Ei tosto da quel canto
Lasciò l’impresa; e contra i due fratelli
1090A la dardania porta irato accorse.
E primamente Antifate, che primo
Gli venne avanti, un giovine bastardo
Di Sarpedonte e di tebana madre,
Con un colpo di dardo a terra stese.

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1095Colpillo ne lo stomaco, e passolli
Oltre al polmone, onde di caldo sangue,
Quasi d’un antro, dilagossi un fonte.
Mèrope, Afidno ed Erimanto appresso
Uccise con la spada, un dopo l’altro
1100Come a caso incontrògli. Atterrò Bizia
Dopo costoro, ma non già col dardo,
E men col brando; ch’altro cólpo er’uopo
A sì gran corpo. A costui, mentre infuria,
Mentre stizza per gli occhi avventa e foco,
1105Infuocato, impiombato e grave un tèlo
Scaricò di falarica, che in guisa
Di fulmine stridendo e percotendo,
Lo giunse sì che nè lo scudo avvolto
Di due bovine terga, nè la fida
1110Lorica di due squame e d’òr contesta
Non lo sostenne. Barcollando cadde
La smisurata mole, e tal diè crollo
Che ’l terren se ne scosse, e ’l gran suo scudo
Gli tonò sopra. In tal guisa di Baia
1115Su l’eüboica riva il grave sasso,
Ch’è sopra l’onde a fermar l’opre eretto,
Da l’alto ordigno, ov’era dianzi appreso,
Si spicca e piomba, e fin ne l’imo fondo
Ruinando si tuffa, e frange il mare,

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1120E disperge l’arena: onde ne trema
Procida ed Ischia, e il gran Tifèo se n’ange,
Cui sì duro covile ha Giove imposto.
     Qui Marte il suo potere e ’l suo favore
Volse verso i Latini. Animi e forze
1125Aggiunse loro, gl’incitò, gli accese;
E di téma e di fuga e di scompiglio
Diè cagione a’ Troiani. E già ch’a pugna
S’era venuto, e de la pugna il nume
Era con loro; accolti d’ogni parte
1130Si ristringono i Rutuli, e fan testa.
Pándaro, poi che ’l suo fratello estinto
Si vide avanti, e la fortuna avversa,
A la porta con gli omeri appuntossi:
E sì com’era poderoso e grande,
1135Con molta forza la rispinse e chiuse,
Molti esclusi de’ suoi, che per la fretta
Rimaser ne le peste, e molti inclusi
Ch’eran nimici: e non s’avvide il folle,
Che de’ nimici in quella calca ancora
1140Era lo stesso re da lui raccolto
A far de’ suoi qual tra le greggi imbelli
Ircana tigre immane. Ei non più tosto
Fu dentro, che raggiò dagli occhi un lume
Spaventevole e fiero; e l’armi sue

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1145Fieramente sonaro. Il suo cimiero
Ne l’aura ondeggiò sangue, e dal suo scudo
Uscîr folgori e lampi. Incontinente
La sua faccia odïata e ’l suo gran fusto
Raffigurando, i Teucri si turbaro.
1150Pándaro allor de la fraterna morte
Fervidamente irato, avanti a tutti
Gli si fe ’ncontro e disse: E’ non è, Turno,
Questa la reggia che t’assegna in dote
La tua regina; e non hai d’Ardea intorno
1155Le patrie mura. Ne le forze entrato
Sei de’ nemici onde scampar non puoi.
Or via, Turno ghignando gli rispose
Placidamente, via, se tanto ardisci,
Meco ti prova; chè ben tostamente
1160A Prïamo dirai ch’in questa Troia,
Come ancor ne la sua, trovossi Achille.
Ciò detto, gli avventò Pándaro un dardo
Di tutta forza nodoroso e grave,
E di ruvida ancor corteccia involto.
1165L’aura lo prese, e la Saturnia Giuno
Deviò ’l colpo sì che da la mira
Si torse e ne la porta si confisse.
     Non sì cadrà questa mia spada in fallo,
Disse allor Turno; tale è chi la vibra,

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1170E tal fa colpo. Ed a ferire alzato
L’investì ne la fronte, e gli divise
Le tempie, le mascelle e ’l mento ignudo
Ancor di barba, infin là ’ve s’appicca
Il collo al petto. Al suon de la percossa,
1175Al fracasso de l’armi, a la ruina,
Che fer cadendo quelle membra immani,
Tremò la terra e ne fu d’atro sangue
E di cervella aspersa. Egli morendo
Giacque rovescio, e dechinò la testa
1180Parte a l’omero destro e parte al manco.
Al cader di costui tal prese i Teucri
Téma e spavento, che dispersi in fuga
Sèn giro. E s’era il vincitore accorto
D’aprir la porta e di por dentro i suoi,
1185Fòra stato quel giorno e de la guerra
E de’ Troiani il fine. Ma la furia
E l’ardor di combattere e l’insana
Ingordigia di sangue ne ’l distolse.
Onde seguendo, in Falari ed in Gige
1190S’abbattè prima. A l’uno il petto aperse;
Sgherrettò l’altro. A quei ch’erano in fuga
Con l’aste di color ch’eran caduti
Fería le terga: e nuova occisïone

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Gli ponea tuttavia nuov’armi in mano;
1195Sì come ancor Giunon nuovo ardimento
Gli dava e nuove forze. Ali tra questi
Mandò per terra, e Fègëa confisse
Con lo suo scudo. Occise in su le mura,
Mentre a’ nemici eran di fuori intenti,
1200Alio ed Alcandro e Prítane e Nomone.
A Líncëo, ch’osò di starli a fronte
E chiamare i compagni, con un colpo,
Che di rovescio con gran forza dielli,
Recise il capo, e l’avventò con l’elmo
1205Lunge dal busto. Dopo questi ancise
Àmico, un cacciator ch’era in campagna
Gran distruttor di fere, e gran maestro
D’armar di tosco le saette e ’l ferro:
E Clizio ancise d’Eölo il buon figlio,
1210E Cretèo de le Muse il caro amico
E ’l diletto compagno, che di versi
E di cetre e di numeri e di corde
Era sol vago, e di cantar mai sempre
O d’armi o di cavalli o di battaglie.
     1215I condottier de’ Teucri udita alfine
De’ suoi la strage, insieme s’adunaro,
Memmo e Seresto. E visti i lor compagni

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Dispersi, e già ’l nemico in salvo addursi,
Gridando, Oh, disse Memmo, ove fuggite?
1220Ove n’andate? e qual ridotto avete
O di mura o di sito altro che questo?
Dunque un sol uomo, e d’ogni parte chiuso
In poter vostro, avrà, miei cittadini,
Senza alcun danno suo fatto di noi
1225Ne la nostra città sì gran macello?
Tanti de’ nostri giovini sotterra
Avrà mandati? E noi, noi non avremo
(Sì codardi saremo) o de la nostra
Infortunata patria, o degli antichi
1230Nostri Penati, o del gran nostro Enea
Nè pietà, nè rispetto, nè vergogna?
     Da questo dire accesi e rincorati
Si ristrinsero insieme. E Turno intanto
Da la pugna allentando in vèr la parte
1235Che dal fiume era cinta, a poco a poco
Appressossi a la riva: onde i Troiani
Con impeto maggior, con maggior grida
Gli furon sopra. E qual fiero leone
Che da la moltitudine e da l’armi
1240Si vede oppresso, tra fierezza e téma
Torvamente mirando si ritira;

[p. 446 modifica]

Chè nè ’l valor, nè l’ira gli consente
Volgere il tergo, nè de’ cacciatori,
Nè di spiedi spuntar puote il rincontro;
1245Così Turno dubbioso o di ritrarsi
O di spingersi avanti, irato e lento,
Guardingo e minaccioso se n’andava:
E due volte avventandosi nel mezzo
Si cacciò de’ nemici; ed altrettante
1250Gli ruppe e salvo indietro si ritrasse.
Alfine in un drappello insieme accolte
Le teucre genti incontro gli si féro,
E di Saturno non osò la figlia
Di più forza prestarli; chè dal cielo
1255Giove a la sua sorella avea mandato
Iri a farne richiamo, e minacciarle,
Se Turno immantinente da le mura
Non uscia de’ Troiani. Or non potendo
Più ’l giovine supplire o con la destra,
1260Ch’era a ferir già stanca, o con lo scudo,
Che di dardi e di frecce era coverto;
L’elmo già spennacchiato, e l’armi tutte
Smagliate e fesse, con un nembo addosso
Di sassi per le tempie e d’aste a’ fianchi
1265Già da Memmo incalzato, alfin cedette.

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E come di sudor colava, ansava,
E quasi rifiatar più non potea,
Con tutte l’armi indosso un salto prese,
E nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro
1270Placido lo raccolse e salvo e lieto,
E dall’occisïon purgato e mondo,
Su l’altra riva a’ suoi lo ricondusse.

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Libro Decimo.


 
     Aprissi la magion celeste intanto,
E del cielo il gran padre in cima ascese
Del suo cerchio stellato. Indi mirando
La terra, e de’ Troiani e de’ Latini
5Visto il conflitto, a sè degli altri Dei
Chiamò ’l consiglio. E com’era da l’orto
E da l’occaso la sua reggia aperta,
Ratto tutti adunati, assisi e cheti,
Disse egli in prima: Cittadini eterni,
10Qual v’ha cagione a distornar rivolti
Quel ch’è già stabilito? A che tra voi
Con tanta iniquità tanto contrasto?
Non s’è da me già proibito e fermo
Che non deggian gli Ausoni incontro a’ Teucri
15Sorgere a l’armi? Che discordia è questa
Contro al divieto mio? Qual ha timore
A la guerra incitati o questi o quelli?
Tempo vi si darà ben degno allora
Di guerreggiar (non l’affrettate or voi)

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20Che la fera Cartago aprirà l’Alpi,
Grave a Roma portando essizio e strage.
Allora agli odii, al sangue, a le rapine
Larga vi si darà licenzia e campo.
Or lietamente la tenzone e l’armi
25Fermate; e sia tra voi concordia e pace.
     Tal fece ragionando il gran monarca
Breve proposta. Ma non brevemente
Venere in questa guisa gli rispose:
     Padre e re de’ celesti, e de’ mortali
30Eterna possa (e qual altra maggiore
S’implora altronde?), ecco tu stesso vedi
L’arroganza de’ Rutuli, e quel fasto
Con che Turno cavalca; e vedi il vampo
E la ruina che si mena avanti,
35Da la sua tracotanza e dal successo
Di questa pugna insuperbito e gonfio.
Vedi i Teucri infelici, ch’ancor chiusi
Non son securi; e ’nfin dentro a le porte
E ’n su’ ripari e ’n su le lor difese
40Son combattuti; e la lor propria fossa
È di lor sangue un lago. Di ciò nulla
Il mio figlio non sa; tanto n’è lunge.
Or non fia ch’una volta esca d’assedio
Questa misera gente? Ecco han le mura

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45De l’altra Troia altri nimici a torno;
Altro essercito in campo; un’altra volta
D’Arpi vien Dïomede a’ danni suoi.
Resta cred’io ch’un’altra volta ancora
Io sia da lui ferita, e che di nuovo
50Sia la tua figlia a mortal ferro esposta.
Signor, se contra la tua voglia i Teucri
Son venuti in Italia, è ben ragione
Che sian puniti, e del tuo aiuto indegni:
Ma se tratti vi sono, e s’è lor dato
55Dagli oracoli tutti e de’ celesti
E degl’inferni, qual può senno o forza
A Giove opporsi, e far nuovo destino?
Ch’io non vo’ dir de le combuste navi
Su la spiaggia ericína, nè de’ venti
60Che ’l re spinse d’Eolia a tempestarlo,
Nè d’Iri che di qui fu già mandata
Per darle al fòco. Infin da l’Acheronte
Tratte ha le furie (questa sol mancava
Parte de l’universo non tentata
65A loro offesa); d’Acheronte, dico,
Ha tratto Aletto a suscitar l’Italia
Incontr’a loro. Or, signor mio, non curo
Più d’altro imperio. Io lo sperava allora
Ch’era più fortunata. Imperi e vinca

[p. 451 modifica]

70Or chi t’aggrada. E s’anco non è loco
Nel mondo, ove a la tua dura consorte
Piaccia che sian quest’infelici accolti,
Per l’incendio, signor, per la ruína,
E per la solitudine ti prego
75De la mia Troia che ritrar mi lasci
Salvo da questa guerra Ascanio almeno.
Lasciami, padre mio, questo nipote
Mantener vivo; e se ne vada Enea
Ramingo ovunque il mare o la fortuna
80Lo si tramandi. Io lo terrò da l’armi
Remoto ne’ miei lochi o d’Amatunta
O d’Idâlio o di Pafo o di Citèra
A menar vita ignobile e privata,
Pur che sicura. E tu, come a te piace,
85Comanda ch’a l’Ausonia il giogo imposto
Sia da Cartago, sì che più non l’osti
In alcun tempo. Or che, padre, ne giova
Che da l’occisïoni e dagl’incendi
De la lor patria e da tant’altri rischi
90Sian già del mare e de la terra usciti?
E che val che da te sia lor promessa,
Da lor tanto ricerca, e già trovata
Questa Troia novella, se di nuovo
Convien che caggia? Assai meglio sarebbe

[p. 452 modifica]

95Che fosser tra le ceneri e nel guasto,
Dove fu l’altra. A Xanto, a Simoenta
Fa’, ti prego, signor, che si radduca
Questa gente infelice, e che ritorni
A passar d’Ilio i guai. Giunone allora
100Infurïata, A che, disse, mi tenti,
Perch’io rompa il silenzio, e mostri il duolo
C’ho portato nel cor gran tempo ascoso?
Qual è mai per tua fè stato uomo o dio
Ch’Enea sforzasse a cercar briga, e farsi
105Nemico il re Latino? Oh ’l fato addotto
L’ha ne l’Italia! Sì, ma da le furie
C’è spinto di Cassandra. E chi gli ha dato
Consiglio? io forse? ch’abbandoni i suoi?
Io, che dia la sua vita in preda a’ venti?
110Io, che la cura e ’l carco de la guerra
Lasci in man d’un fanciullo? e che sollevi
I popoli d’Etruria, e l’altre genti
Che si stavano in pace? E quale dio,
Qual mia durezza de’ lor danni è rea?
115Qui che rileva o di Giuno lo sdegno,
O d’Iri il ministero? Indegna cosa
È certo che dagl’Itali s’infesti
Questa tua nuova Troia; e degno e giusto
Sarà che Turno non si stia sicuro

[p. 453 modifica]

120Ne la sua patria terra? un tal nipote
Di Pilunno ch’è divo, un tanto figlio
Di Venilia ch’è ninfa? E degna cosa
Ti par che muova Enea la guerra a Lazio?
Ch’assalga, che soggioghi, che deprede
125Le terre altrui? che l’altrui donne usurpi?
Ch’in man porti la pace, e che per mare
E per terra armi? Tu potrai tuo figlio
Scampar da’ Greci; tu riporre in vece
Di lui la nebbia e ’l vento; tu la forma
130Cangiar de le sue navi in altrettante
Ninfe di mare: ed io cosa nefanda
Farò, se porgo a’ Rutuli un aiuto,
Per minimo che sia? Non v’è tuo figlio
Presente; non vi sia: non sa; non sappia.
135Sei regina di Pafo, d’Amatunta,
Di Citèra e d’Idálio: e che vai dunque
Provocando con l’armi una contrada
Non tua, pregna di guerre? e stuzzicando
Sì bellicosa gente? Ed io son quella,
140Io, che l’afflitte lor fortune agogno
Di porre al fondo? O perchè non più tosto
Chi de’ Greci a le man gli pose in prima?
Chi prima fu cagion ch’a guerra addusse
L’Europa e l’Asia? chi commise il furto

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145Che fu de la rottura il primo seme?
Io condussi l’adultero pastore
A l’impresa di Sparta? Io fui ch’a l’armi,
Io ch’a l’amor l’accesi? Allora il tempo
Fu d’aver téma e gelosia de’ tuoi,
150Non or che le querele e le rampogne
Che ne fai, sono ingiuste e tarde e vane.
     Così Giuno dicea; quando fremendo
Gli Dei tutti mostrâr, che chi con questa
Consentian, chi con quella. In guisa tale
155S’odono i primi venti entro una selva
Mormorar lunge, e non veduti ancora
Porgere a’ marinari indicio e téma
Di propinqua tempesta. Allor del cielo
Il sommo, eterno, onnipotente padre
160Riprese a dire. Al suo parlar chetossi
La celeste magion; chetârsi i venti,
E l’aria e l’onde; e sola infino al centro
Tremò la terra. Ei disse: Or che gli Ausoni
Confederar co’ Teucri ne si toglie,
165E voi tra voi non v’accordate, udite
Quel ch’io vi dico, e i miei detti avvertite.
     Quella stessa fortuna e quella speme,
Qual ch’ella sia, ch’i Rutuli o i Troiani
Oggi da lor faransi, io vi prometto

[p. 455 modifica]

170Aver per rata, e non punto inchinarmi
Più da quei che da questi: e sia l’assedio
De’ Teucri o per destino, o per errore,
O per false risposte. E ciò dico anco
De’ Rutuli. Il successo e buono e rio
175Fia d’una parte e d’altra qual ciascuna
Per sè lo s’ordirà. Giove con ambi
Si starà parimente, e ’l fato in mezzo.
Così detto, il torrente e la vorago
E la squallida ripa e l’atra pece
180D’Acheronte giurando, abbassò ’l ciglio,
E tremar fe col cenno il mondo tutto.
Finito il ragionar, suso levossi
Del seggio d’oro; e gli fer tutti intorno
Corona e compagnia fino a l’albergo.
     185L’essercito de’ Rutuli stringendo
L’assedio intanto, in su le porte e ’ntorno
Facea de la muraglia incendi e stragi;
E i Teucri assedïati, entro ai ripari
E sopra ai torrïoni a la difesa
190Stavan, miseri! indarno; e senza speme
Di fuga un raro cerchio avean disteso
Su per le mura. Era de’ primi Iaso
D’Imbrásio il figlio, e ’l figlio d’Icetone
Detto Timete, e ’l buon Cástore insieme

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195Col vecchio Timbri, ed ambi dopo questi
Di Sarpedonte i frati: e Chiaro, ed Emo
Onor di Licia, e di Lirnesso Ammone.
Questi con un gran sasso era venuto
Su la muraglia, che ’l maggior catollo
200Era d’un monte; ed egli era non punto
Minor del padre Clizio e di Menesto
Suo famoso fratello. Altri con sassi,
Altri con dardi, e chi con le saette,
E chi col foco a guardia eran del muro.
     205In mezzo de le schiere il vago Iulo,
Gran nipote di Dardano e gran cura
De la bella Ciprigna, il volto e ’l capo
Ignudo, risplendea qual chiara gemma
Che in òr legata altrui raggi dal petto
210O da la fronte; o qual da dotta mano
In ebano commesso, o in terebinto
Candido avorio agli occhi s’appresenta.
Sovra al collo di latte il biondo crine
Avea disteso, e d’oro un lento nastro
215Gli facea sotto e fregio insieme e nodo.
     Ìsmaro, e tu fra sì famosa gente
Con l’arco saettar ferite e tosco
Fosti veduto, generosa pianta
Del meonio paese, ove fecondi

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220Sono i campi di biade, e i fiumi d’oro.
     Memmo v’era ancor egli, a cui la fuga
Dianzi di Turno avea gloria acquistata,
Ond’era fino al ciel sublime e chiaro.
Eravi Capi, onde poi Capua il nome
225E l’origine ha presa. Avean costoro
Tra lor diviso il carico e ’l periglio
Di sì dura battaglia. E ’n questo mentre
Solcava Enea di mezza notte il mare.
     Egli, poi che d’Evandro ebbe lasciato
230L’amico albergo e che nel campo giunse
De’ Toschi, al tosco rege appresentossi.
E con lui ristringendosi, il suo nome,
Il suo legnaggio, la sua patria, in somma
Chi fosse, che chiedesse, che portasse,
235Gli espose; e qual Mezenzio appoggio avesse,
E l’orgoglio di Turno, e l’apparecchio
E l’incostanza de l’umane cose
Gli pose avanti. A le ragioni aggiunse
Esempi e preci sì, ch’immantinente
240Tarconte acconsentì. Strinser la lega,
Unîr le £orze ed apprestâr le genti
In un momento. Di straniero duce
Provvisti i Lidi, e già dal fato sciolti
Salîr sovra l’armata. E pria di tutti

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245Uscío d’Enea la capitana avanti.
     Questa avea sotto al suo rostro dipinti,
Quai sotto al carro de la madre Idea,
Due che ’l legno traean frigi leoni,
E d’Ida gli pendea di sopra il monte,
250Amaro suo disio, dolce ricordo
Del patrio nido. In su la poppa assiso
Stava il duce troiano; e da sinistra
Avea d’Evandro il figlio, che tra via
L’interrogava or del vïaggio stesso
255E de le stelle, ed or degli altri suoi
O per terra o per mar passati affanni.
     Apritemi Elicona, alme sorelle,
E cantate con me che gente e quanta
D’Etruria Enea seguisse, e di che parte,
260E con qual’armi, e come il mar solcasse.
     Mássico il primo in su la Tigre imposto
Avea di mille giovini un drappello,
Che di Chiusi e di Cosa eran venuti
Con l’arco in mano e con saette a’ fianchi.
265Appresso a lui, seguendo, il torvo Abante
Sotto l’insegna del dorato Apollo
Seicento n’imbarcò di Populonia,
Trecento d’Elba, in cui ferrigna vena
Abbonda sì, che n’erano ancor essi

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270Dal capo ai piè tutti di ferro armati.
Asila il terzo, sacerdote e mago
Che di fibre e di fulmini e d’uccelli
E di stelle era interprete e ’ndovino,
Mille ne conducea, ch’un’ordinanza
275Facean tutta di picche; e tutti a Pisa
Eran soggetti, a la novella Pisa,
Che, già figlia d’Alfeo, d’Arno ora è sposa.
Asture, ardito cavaliero e bello,
E con bell’armi di color diverse,
280Vien dopo questi con trecento appresso
Di vari lochi, ma d’un solo amore
Accesi a seguitarlo. Eran mandati
Da Cerète e dai campi di Mígnone,
Dai Pirgi antichi e da l’aperte spiagge
285De la non salutifera Gravisca.
Di te non tacerò, Cigno gentile,
Di Cupávo dicendo, ancor che poche
Fosser le genti sue. Questi di Cigno
Era figliuol, onde ne l’elmo avea
290De le sue penne un candido cimiero
In memoria del padre, e de la nuova
Forma in ch’ei si cangiò, tua colpa, Amore.
Chè de l’amor di Faetonte acceso,
Come si dice, mentre che piangendo

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295Stava la morte sua, mentre ch’a l’ombra
De le pioppe, che pria gli eran sorelle,
Sfogava con la musa il suo dolore:
Fatto cantando già canuto e vèglio,
In augel si converse, e con la voce
300E con l’ali da terra al cielo alzossi.
Il suo figlio co’ suoi portava un legno
A cui sotto la prora e sopra l’onde
Stava un centauro minaccioso e torvo,
Che con le braccia e con un sasso in alto
305Sembrava di ferirle, e via correndo
Col petto le facea spumose e bianche.
Ocno poscia venía, del tosco fiume
E di Manto indovina il chiaro figlio,
Che te, mia patria, eresse e che del nome
310De la gran madre sua Mantua ti disse:
Mantua d’alto legnaggio illustre e ricca,
E non d’un sangue. Tre le genti sono,
E de le tre ciascuna a quattro impera,
Di cui tutte ella è capo, e tutte insieme
315Son con le forze de l’Etruria unite.
     Quinci ne fur contra Mezenzio armati
Cinquecento altri; e Mincio, un figlio altero
Del gran Benáco, fu che gli condusse,
Di verdi canne inghirlandato il fronte.

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320Giva il superbo Aulète con un legno
Di cento travi il mar solcando in guisa
Che spumante il facea, sonoro e crespo.
Premea le spalle d’un Tritone immane
Che con la cava sua cerulea conca
325Tremar si facea l’acqua e i liti intorno.
Dal mezzo in su, la fronte ispido e ’l mento
Sembra d’umana forma; e ’l ventre in pesce
Gli si ristringe, e col ferino petto
Fende il mar sì che rumoreggia e spuma.
     330Da questi eletti eroi, con queste genti
Eran l’onde tirrene allor solcate
In sossidio di Troia. E già dal cielo
Caduto il giorno, era de l’erta in cima
La vaga luna, quando il frigio duce,
335Or al timone or a la vela intento,
Co’ suoi pensier vegliava. Ed ecco avanti
Notando gli si fa di ninfe un coro,
Di lui prima compagne, e quelle stesse
Che, già sue navi, da Cibele in ninfe
340Furon converse, e Dee fatte del mare.
Tante in frotta ne gían per l’onde a noto
Quante eran navi in prima. E di lontano
Riconosciuto il re, danzando in cerchio
Gli si strinsero intorno. Una fra l’altre.

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345La più di tutte accorta parlatrice,
Cimodocèa, la sua nave seguendo,
Con la destra a la poppa, e con la manca
Tacita remigando, il capo e ’l dorso
Solo a galla tenendo, d’improvviso
350Così gli disse: Enea, stirpe divina,
Vegli tu? Veglia: il fune allenta, e ’l seno
Apri a le vele tue. De la tua classe
Noi fummo i legni e de la selva Idea,
E siamo or ninfe. I Rutuli col foco
355N’hanno e col ferro dipartite e spinte
Da’ tuoi nostro mal grado. Or te cercando
Siam qui venute. Per pietà di noi
La berecinzia madre in questa forma
N’ha del mar fatte abitatrici e Dee.
     360Ma ’l tuo fanciullo Iulo in mezzo a l’armi
Si sta cinto di fossa e di muraglia
Da’ feroci Latini assedïato.
I tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etruschi
Unitamente han di già preso il loco
365Comandato da te. Turno disegna
Co’ suoi d’attraversarli, e porsi in mezzo
Tra ’l campo e loro. Or via, naviga, approda;
Sorgi tu pria che ’l sole, e sii tu ’l primo
Ad ordinar le tue genti a battaglia.

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370Prendi l’invitto e luminoso scudo
Da Volcan fabbricato, e d’òr commesso:
Chè diman, se mi credi, alta e famosa
Farai tu strage de’ nemici tuoi.
     Ciò disse, e come esperta, al legno in poppa
375Tal diè pinta al partir, che più veloce
Corse che dardo o stral che ’l vento adegui.
Dietro gli altri affrettâr sì che stupore
N’ebbe d’Anchise il figlio. E rincorato
Da sì felice annunzio, al cielo orando
380Divotamente si rivolse, e disse:
Alma Dea de gli Dei gran genitrice,
Di Dindimo regina, che di torri
Vai coronata e ’n su leoni assisa,
Te per mia duce a questa pugna invoco.
385Tu rendi questo augurio e questo giorno,
Ti priego, ai Frigi tuoi propizio e lieto.
     Questo sol disse: e luminoso intanto
Si fece il mondo. Ei primamente impose
Che ratto al segno suo ciascun ne gisse,
390Ch’ognun s’armasse, ognuno a la battaglia
Si disponesse. E già venuto a vista
De’ Rutuli e de’ Teucri, alto levossi
In su la poppa; s’imbracciò lo scudo,
E lo vibrò sì ch’ambedue raggiando

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395Empiè di luce e di baleni i campi.
Di su le mura la dardania gente
Gioiosa infino al ciel le grida alzaro:
E sopraggiunta la speranza a l’ira
A trar di nuovo e saettar si diero
400Con un rumor, qual sotto l’atre nubi
Nel dar segno di nembi e nel fuggirli
Fan le strimonie gru schiamazzo e rombo.
     Mentre ciò Turno e gli altri ausoni duci
Stavan meravigliando, ecco a la riva
405Si fa pien d’armi e di navili il mare.
Enea di cima al capo e da la cresta
Del fin elmo spargea lampi e scintille
D’ardente fiamma; e gran lustri e gran fochi
Raggiava de lo scudo il colmo e l’oro,
410Come ne la serena umida notte
La lugubre e mortifera cometa
Sembra che sangue avventi; e ’l sirio cane,
Quando nascendo a’ miseri mortali
Ardore e sete e pestilenza apporta,
415E col funesto lume il ciel contrista.
     Non men per questo ha Turno ardire e speme
D’occupar prima il lito, e da la terra
Ributtare i nemici. Egli, animando
E riprendendo la sua gente, avanti

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     420Si spinge a tutti, e grida: Ecco adempito
Vostro maggior disio. Più non vi sono
Le mura in mezzo. In voi, ne le man vostre
La pugna e Marte e la vittoria è posta.
Or qui de la sua donna, de’ suoi figli,
425De la sua casa si rammenti ognuno:
Ognun davanti si proponga i fatti
E le lodi de’ padri. Andiam noi prima
A rincontrargli, infin che l’onde e ’l moto
Ce gli rende del mar non fermi ancora.
430Via, ch’agli arditi è la fortuna amica.
     Detto così, va divisando come
Parte lor contra ne conduca, e parte
A l’assedio ne lasci. Intanto Enea
Per disbarcare i suoi, le scafe e i ponti
435Avea già presti. E di lor molti attenti
Al ritorno de’ flutti con un salto
Si lanciarono in secco; e chi co’ remi,
Chi con le travi ne l’arena usciro.
     Tarconte, poi ch’ebbe la riva tutta
440Ben adocchiata, non là dove il vado
Disperava del tutto, o dove l’onda
Mormorando frangea, ma dove cheta
E senza intoppo avea corso e ricorso,
Voltò le prore; e, Via, disse, compagni,

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445Via, gente eletta, ite con tutti i remi,
Di tutta forza, e sì pingete i legni
Che si faccian da lor canale e stazzo.
Dividete co’ rostri e con le prore
Questa nemica terra; in questa terra
450Mi gittate una volta, e che che sia
Segua poi del navile. A questo pregio
Non curo del suo danno: afferri, e pèra.
     Al detto di Tarconte alto in su’ remi
Levârsi: e sí co’ rostri a’ liti urtaro,
455Ch’empiêr di spuma il mar, di sabbia i campi;
E i legni tutti ne l’asciutto infissi
Fermârsi interi. Ma non già, Tarconte,
Il legno tuo, che d’una ascosa falda
Ebbe di sasso in approdando intoppo;
460Dal cui dorso inchinato, e dal mareggio
Lungamente battuto, alfin del tutto
Aperto e sconquassato, in mezzo a l’onde
Le genti espose; e ’l peso e l’imbarazzo
De l’armi, e gli armamenti infranti e sparsi
465Del rotto legno, e ’l flutto che rediva
Le tennero impedite e risospinte.
     Turno le schiere sue rapidamente
Al mar condusse, e tutte in ordinanza
Su ’l lito incontra a’ Teucri le dispose.

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470Dieron le trombe il segno. Il troian duce
Fu che prima assalì le torme agresti,
E si fe con la strage de’ Latini
E con la morte di Terone in prima
Augurio a la vittoria. Era Terone
475Un di corpo maggior degli altri tutti;
E tanto ebbe d’ardir che da sè stesso
Incontr’Enea si mosse. Enea col brando
Tal un colpo gli trasse, che lo scudo,
Benchè ferrato, e la corazza e ’l fianco
480Forògli insieme. Indi avventossi a Lica
Che da l’aperte viscere fu tratto
De la già morta madre, e pargoletto,
Preservato dal ferro, a te fu sacro,
Febo, padre di luce; ed or morendo
485Vittima cadde a Marte. Occise appresso
Cisso feroce, e Gía di corpo immane,
Ch’ambi di mazze armati ivan le schiere
De’ suoi Teucri atterrando. E lor non valse
Nè d’Ercole aver l’armi nè le braccia
490D’erculea forza, nè che già Melampo
Lor padre in compagnia d’Ercole fosse
Allor che de la terra a soffrir ebbe
I duri affanni. A Faro un dardo trasse,
Mentre gridando e millantando incontra

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495Gli si facea. Colpillo in bocca a punto,
Sì che la chiuse e l’acchetò per sempre.
     E tu, Cidon, per le sue mani estinto
Misero! giaceresti a Clizio appresso
Tuo novo amore, a cui de’ primi fiori
500Eran le guance colorite appena;
Nè più stato saresti esca agli amori
De’ suoi simíli, onde mai sempre ardevi;
Se non che de’ fratelli ebbe una schiera
Subitamente a dosso. Eran costoro
505Sette figli di Forco, e sette dardi
Gli avventaro in un tempo. Altri de’ quali
Da l’elmo e da lo scudo risospinti,
Altri furon da Venere sbattuti
Sì, ch’o vani, o leggieri il corpo a pena
510Leccâr passando. In questa, Enea rivolto,
Dammi, disse ad Acate, degl’intrisi
Nel sangue greco, e sotto Ilio provati;
E non fia colpo in fallo. Una grand’asta
Gli porse Acate in prima, ed ei la trasse
515Sì, che volando ne lo scudo aggiunse
Di Mèone, e la piastra ond’era cinto
E la corazza e ’l petto gli trafisse.
Alcanor suo fratello nel cadere,
Mentre le braccia al tergo gli puntella,

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520L’asta nel trapassare, il suo tenore
Continuando, insanguinata e calda
La destra gli confisse: e da le spalle
Pendè del frate, infin che l’un già morto,
E l’altro moribondo a terra stesi
525Giacquero entrambi. Numitore il terzo
Da questo sconficcandola e da quello,
Lanciolla incontro Enea. Di ferir lui
Non gli successe, ma del grande Acate
Graffiò la coscia lievemente, e scorse.
     530Clauso, il Sabino, ardito e poderoso
Qui si mostrò con una picca in mano,
E Drïope investì nel primo incontro.
Glie n’appuntò nel gorgozzule, e pinse
Tanto, che la parola e ’l fiato e l’alma
535In un gli tolse. Ed ei cadde boccone,
E per bocca gittò di sangue un fiume.
Cacciossi avanti, e tre di Tracia appresso
De la gente di Borea, e tre de’ figli
D’Idante, alunni d’Ismara e di Troia,
540In varïate guise a terra stese.
Venne a rincontro Alèso, e degli Aurunci
Un’ordinanza. Di Nettuno il figlio
Messápo i suoi cavalli avanti spinse,
Ed or questi sforzandosi, ed or quelli

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545Di cacciare i nemici, in su l’entrata
Si combattea d’Italia. E quai tra loro
S’azzuffano a le volte avversi, e pari
Di contesa e di forza in aria i venti,
Che nè lor, nè le nugole, nè ’l mare
550Ceder si vede, e lungamente incerta
Sì la mischia travaglia, ch’ogni cosa
D’ogni parte tumultüa e contrasta:
Tale appunto de’ Rutuli e de’ Teucri
Era la pugna, e sì fiera e sì stretta,
555Che giunte si vedean l’armi con l’armi,
E le man con le mani, e i piè co’ piedi.
     D’altra parte ove rapido e torrente
Avea ’l fiume travolti arbori e sassi,
Da loco malagevole impediti
560Gli Arcadi cavalieri a piè smontaro.
E ne’ pedestri assalti ancor non usi,
Da’ Latini incalzati, avean le terga
Già volte a Lazio, quando (quel che s’usa
In sì duri partiti) a lor rivolto
565Pallante, or con preghiere, or con rampogne,
Ah compagni, ah fratelli, iva gridando,
Dove fuggite? Per onor di voi,
Per la memoria di tant’altri vostri
Egregi fatti, per l’egregia fama,

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570Per le vittorie del gran duce Evandro,
E per la speme che di me concetta
A la paterna lode emula avete,
Non ponete ne’ piè vostra fidanza.
Col ferro aprir la strada ne conviene
575Per mezzo di color che là vedete,
Che più folti n’incalzano e più feri.
Per là comanda l’alta patria nostra
Che voi meco n’andiate. E di lor nullo
È che sia dio: son uomini ancor essi
580Come siam noi: e noi com’essi avemo
Il cor, le mani e l’armi. E dove, dove
Vi salverete? Non vedete il mare
Che v’è davanti, e che la terra manca
Al fuggir vostro? E se per l’onde ancora
585Fuggiste, alfin dove n’andrete? a Troia?
     E, così detto, in mezzo de’ più densi
E de’ più formidabili nemici
Anzi a tutti avventossi. E Lago il primo
Per sua disavventura gli s’oppose.
590Stava costui chinato, e per ferirlo
Divelto avea di terra un gran macigno,
Quando lo sopraggiunse, e nella schiena
Tra costa e costa il suo dardo piantògli;
Sì che tirando e dimenando a pena

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595Ne lo ritrasse. Isbon, di Lago amico,
Mentr’egli in ciò s’occúpa, ebbe speranza
Di vendicarlo, e ’ncontra gli si mosse.
Ma non gli riuscì: chè mentre incauto,
Dal dolor trasportato e da lo sdegno
600Del suo morto compagno, infurïava,
Ne la spada del giovine infilzossi
Da l’un de’ fianchi: onde trafitto e smunto
Ne fu di sangue il cor, d’ira il polmone.
Poscia Stènelo occise; occise appresso
605Anchèmolo. Costui fu de l’antica
Stirpe di Reto, incestuoso amante
Di sua matrigna. E voi, Laride e Timbro,
Figli di Dauco, ambi d’un parto nati,
Per le sue man cadeste. Eran costoro
610Sì l’un del tutto a l’altro somigliante,
Che dal padre indistinti e da la madre
Facean lor grato errore e dolce inganno.
Sol or Pallante (ahi! troppo duramente)
Vi fe diversi: ch’a te ’l capo netto,
615Timbro, recise; a te, Laride, in terra
Mandò la destra. E questa anche guizzando
Te per suo riconobbe, e con le dita
Strinse il tuo ferro, e ’l brancicò più volte.
Gli Arcadi da’ conforti e da le prove

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620Accesi di Pallante, e per dolore
E per vergogna di furor s’armaro
Contr’a’ nimici. Seguitò Pallante:
Ed a Retèo ch’era fuggendo in volta
Sopra una biga, nel passargli a canto,
625Trasse d’un’asta; e tanto Ilo d’indugio
Ebbe a la morte sua, ch’ad Ilo indritto
Era quel colpo in prima. Ma Retèo
Venne di mezzo, e ricevello in vece
D’altri colpi che dietro minacciando
630Gli venian Teutro e Tiro, i due buon frati,
Che gli eran sopra. Traboccò dal carro
Mezzo tra vivo e morto, e calcitrando
De’ Rutuli battè l’amica terra.
     Come il pastor ne’ dolci estivi giorni
635A lo spirar de’ venti il foco accende
In qualche selva: che diversamente
Lo sparge in prima; e con diversi incendi
Subito di Volcan ne va la schiera,
Ciò ch’è di mezzo divorando in guisa
640Ch’un sol diventa: ed ei stassi in disparte
Del fatto altero, e di veder gioioso
La vincitrice fiamma, e l’arso bosco:
Così ’l valor degli Arcadi ristretto
Per soccorrer Pallante insieme unissi.

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645Ma ’l bellicoso Alèso incontro a loro
Si ristrinse ancor ei con l’armi sue,
E Ladóne e Demòdoco e Fereto
Occise in prima. Indi a Strimonio un colpo
Trasse di spada che la destra mano,
650Mentre con un pugnal gli era a la gola,
Gli recise di netto. E sì d’un sasso
Ferì Toante in volto, che gl’infranse
Il teschio tutto, e ne schizzâr col sangue
L’ossa e ’l cervello. Era d’Alèso il padre
655Mago e ’ndovino; e del suo figlio il fato
Avea previsto; onde gran tempo ascoso
In una selva il tenne. E non per questo
Franse il destino; chè già vèglio a pena
Chiusi ebbe gli occhi, che le Parche addosso
660Gli dier di mano: onde a morir devoto
Fu per l’armi d’Evandro. Incontro a lui
Mosse Pallante in cotal guisa orando:
Dà’, padre Tebro, a questo dardo indrizzo,
Fortuna e strada; ond’io nel petto il pianti
665Del duro Alèso; e ’l dardo e le sue spoglie,
A te fian poscia in questa quercia appese.
Udillo il Tebro; e mentre Alèso, aita
Porgendo ad Imaon, lo scudo stende
Per coprir lui, sè stesso discoverse

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670Al colpo di Pallante, e morto cadde.
     Lauso che de la pugna era gran parte,
Visto al cader d’un sì degno campione
Caduta la contesa e l’ardimento
De le schiere latine, egli in sua vece
675Tosto avanti si pinse e rinfrancolle.
E prima di sua mano Abante ancise,
Ch’era di quella zuffa un duro intoppo,
E de’ nemici il più saldo sostegno.
     Or qui strage si fa d’Arcadi insieme,
680E di Toschi e di voi, Troiani, intatti
Ancor da’ Greci. E qui d’ambe le parti
Tutti con tutti ad affrontar si vanno.
Pari le forze e pari i capitani
Son d’ambi i lati; e quinci e quindi ardenti
685Si ristringono in guisa che gli estremi
Fanno ancor calca e ’mpedimento a’ primi.
     Da questa parte sta Pallante, e Lauso
Da quella, i suoi ciascuno inanimando,
Spingendo e combattendo. E l’un diverso
690Non è molto da l’altro nè d’etate
Nè di bellezza; e parimente il fato
A ciascuno ha di lor tolto il ritorno
Ne la sua patria. E non però tra loro
S’affrontâr mai; chè ’l regnator celeste

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695Riserbava la morte d’ambedue
A nemici maggiori. In questo mezzo
La ninfa che di Turno era sorella,
Il suo frate avvertisce, che soccorso
Procuri a Lauso. Ond’ei tosto col carro
700Le schiere attraversando, a’ suoi compagni
Giunto che fu, Via, disse, or non è tempo
Che voi più combattiate. Io sol ne vado
Contra Pallante; a me solo è dovuta
La morte sua; così ’l suo padre stesso
705V’intervenisse, e spettator ne fosse.
     Detto ch’egli ebbe, incontinente i suoi
Siccome imposto avea, dal campo usciro.
Pallante, visti i Rutuli ritrarsi,
E lui sentendo che con tanto orgoglio
710Lor comandava: poscia che ’l conobbe,
Lo squadrò tutto, e stupido fermossi
A veder sì gran corpo. Indi feroce
Gli occhi intorno girando, ai detti suoi
Così rispose: Oggi, o d’opime spoglie
715O di morte onorata il pregio acquisto.
E ’l padre mio (tal è d’animo invitto
Incontr’ogni fortuna, o buona o rea
Che sia la mia) ne porrà ’l core in pace.
Via, che d’altro è mestier che di minacce.

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720E, ciò detto, si mosse e fiero in mezzo
Presentossi del campo. Un giel per l’ossa
E per le vene agli Arcadi ne corse.
E Turno dalla biga con un salto
Lanciossi a terra: ch’assalirlo a piedi
725Prese consiglio. E qual fiero leone
Che, veduto nel pian da lunge un toro
Con le corna a battaglia essercitarsi,
Dal monte si dirupa e rugge e vola,
Tal fu di Turno la sembianza a punto
730Nel girgli incontro. Il giovine che meno
Avea di forze, s’avvisò di tempo
Prender vantaggio, e di provare osando,
S’aver potesse in alcun modo amica
Almen fortuna; e già ch’a tiro d’asta
735S’eran vicini, al ciel rivolto disse:
Ercole, se ti fu del padre mio
L’ospizio accetto, e la sua mensa a grado,
Allor che peregrin seco albergasti,
Dammi, ti priego, a tanta impresa aita,
740Sì che Turno egli stesso in chiuder gli occhi
Veggia e senta, morendo, ch’a me tocca
Vincere e spogliar lui d’armi e di vita.
     Udillo Alcide, e per pietà che n’ebbe
Nel suo cor se ne dolse e lacrimonne,

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745Quantunque indarno. E Giove, per conforto
Del figlio suo, così seco ne disse:
Destinato a ciascuno è ’l giorno suo;
E breve in tutti e lubrica e fugace
E non mai reparabile sèn vola
750L’umana vita. Sol per fama è dato
Agli uomini, che sian vivaci e chiari
Più lungamente. Ma virtute è quella
Che gli fa tali. E non per questo alcuno
È che non muoia. E quanti ne moriro
755Sotto il grand’Ilio, ch’eran nati in terra
Di voi celesti? E Sarpedonte è morto
Ch’era mio figlio, e Turno anco morrà;
E già de la sua vita è giunto al fine.
     Così disse, e da’ rutuli confini
760Torse la vista. Allor Pallante trasse
Con gran forza il suo dardo, e ’l brando strinse
Incontro a Turno. Investì ’l dardo a punto
Là ’ve ’l braccial su l’omero s’affibbia,
E tra ’l suo groppo e l’orlo de lo scudo
765Come strisciando, di sì vasto corpo
Lievemente afferrò la pelle a pena.
     Turno, poi che ’l nodoso e ben ferrato
Suo frassino brandito e bilanciato
Ebbe più volte, Or prova tu, gli disse,

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770Se ’l mio va dritto, e se colpisce e fóra
Più del tuo ferro: e trasse. Andò ronzando
Per l’aura, e con la punta a punto in mezzo
Si piantò de lo scudo. E tante piastre
Di metallo e d’acciaio, e tante cuoia
775Ond’era cinto, e la corazza e ’l petto
Passògli insieme. Il giovine ferito
Tosto fuor si cavò di corpo il tèlo;
Ma non gli valse, chè con esso il sangue
E la vita n’uscío. Cadde boccone
780In su la piaga, e tal diè d’armi un crollo,
Che, ancor morendo, la nimica terra
Trepida ne divenne e sanguinosa.
     Turno sopra il cadavero fermossi
Alteramente, e disse: Arcadi, udite,
785E per me riportate al vostro Evandro,
Che qual di rivedere ha meritato
Il suo Pallante, tal glie ne rimando;
E gli fo grazia, che d’essequie ancora
E di sepolcro e di qual altro fregio
790Che conforto gli sia, l’orni e l’onori;
Ch’assai ben caro infino a qui gli costa
L’amicizia d’Enea. Così dicendo,
Col manco piè calcò l’estinto corpo;
E d’oro un cinto ne rapì di pondo,

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795D’artificio e di pregio, ove per mano
Era del buon Eurizio istorïata
La fiera notte e i sanguinosi letti
Di quell’empie fanciulle, in grembo a cui
Fûr già tanti in un tempo e frati e sposi
800Sotto fè d’Imeneo giovani ancisi.
     Di questa spoglia altero e baldanzoso
Vassene or Turno. O cieche umane menti,
Come siete de’ fati e del futuro
Poco avvedute! E come oltra ogni modo
805Ne’ felici successi insuperbite!
Tempo a Turno verrà ch’ogni gran cosa
Ricompreria di non aver pur tocco
Pallante; e le sue spoglie e ’l dì che l’ebbe
In odio gli cadranno. Il morto corpo
810Nel suo scudo composto, i suoi compagni
Levár dal campo, e con solenne pompa
E con molti lamenti e molto pianto
Lo riportaro al padre. Oh qual Pallante,
Tornasti al padre tuo gloria e dolore!
815Ch’una stessa giornata, ch’a la guerra
Ti diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti
Lasciasti pria di tuoi nemici estinti!
     Corse la fama, anzi il verace avviso
A l’orecchie d’Enea d’un danno tale

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820E d’un tanto periglio, che già vòlto
Era il suo campo in fuga. Incontinente
Si fa col ferro una spianata intorno;
Poscia s’apre una via, di te cercando,
Turno, e ’l tuo rintuzzar cresciuto orgoglio
825Per la vittoria di Pallante occiso.
Pallante, Evandro, e l’accoglienze loro
E le lor mense ove con tanto amore
Forestier fu raccolto, e la contratta
Già tra loro amistà davanti agli occhi
830Si vedea sempre. E per onore a l’ombra
De l’amico, e per vittima al grand’Orco,
Molti giovini avea già destinati
Vivi sacrificar sopra il suo rogo;
E di già ne facea quattro d’Ufente
835Addur legati, e quattro di Sulmona.
     E tra via combattendo, incontr’a Mago
Tirò d’un’asta, a cui sotto chinossi
L’astuto a tempo sì che sopra al capo
Gli trapassò divincolando il colpo;
840E ratto risorgendo, umilemente
Gli abbracciò le ginocchia, e così disse:
Per tuo padre e tuo figlio, Enea, ti prego,
A mio padre, a mio figlio mi conserva.
Di gran legnaggio io sono: gran tesori

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870E rimettendo le lor genti insieme,
Spingonsi avanti. Enea da l’altra parte
Infurïava. Ad Ànsure avventossi,
E ’l manco braccio con la spada in terra
Gittògli e de lo scudo il cerchio intero.
875Gran cose avea costui cianciate in prima
E concepute; e d’adempirle ancora
S’era promesso. Avea forse anco in cielo
Riposti i suoi pensieri, e s’augurava
Lunga vita e felice. E pur qui cadde.
     880Poscia Tárquito ardente, e d’armi cinto
Fulgenti e ricche, incontro gli si fece.
Era costui di Fauno montanaro
E de la ninfa Drïope creato,
Giovine fiero. Enea parossi avanti
885A la sua furia, e spinse l’asta in guisa
Che lo scudo impedigli e la corazza.
Allora indarno il misero a pregarlo
Si diede. E mentre a dir molto s’affanna
Per lo suo scampo, ei con un colpo a terra
890Gittògli il capo; e travolgendo il tronco
Tiepido ancor, sopra gli stette e disse:
Qui con la tua bravura te ne stai,
Tremendo e formidabile guerriero:
Nè di terra tua madre ti ricuopra,

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895Nè di tomba t’onori. Ai lupi, ai corvi
Ti lascio, o che la piena in alcun fosso
Ti tragga, o che nel fiume, o che nel mare
Ai famelici pesci esca ti mandi.
     Indi muove in un tempo incontro a Lica,
900E segue Antèo, che ne le prime schiere
Era di Turno. Assaglie il forte Numa,
Fere il biondo Camerte. Era Camerte
Figlio a Volscente, generoso germe
Del magnanimo padre, e de’ più ricchi
905D’Ausonia tutta: in quel tempo reggea
La taciturna Amicla. In quella guisa
Che si dice Egeon con cento braccia
E cento mani, da cinquanta bocche
Fiamme spirando e da cinquanta petti,
910Esser già stato col gran Giove a fronte,
Quando contra i suoi folgori e i suoi tuoni
Con altrettante spade ed altrettanti
Scudi tonava e folgorava anch’egli;
In quella stessa Enea per tutto ’l campo,
915Poi ch’una volta il suo ferro fu caldo,
Contra tutti vincendo infurïossi.
Ecco Nifèo su quattro corridori
Si vede avanti: e contra gli si spinge
Sì ruïnoso, e tal fa lor fremendo

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920Téma e spavento, che i destrier rivolti
Lui dal carro traboccano, e disciolti
Sen vanno e vòti imperversando al mare.
Lúcago intanto e Lígeri, due frati
Con due giunti cavalli ambi in un tempo
925Gli si fan sopra. Lígeri a le briglie
Sedea per guida, Lúcago rotava
La spada a cerco. Enea, non sofferendo
La tracotanza, a la già mossa biga
Piantossi avanti: e Lígeri gli disse:
930Enea, tu non sei già con Dïomede,
Nè con Achille questa volta a fronte;
Nè son questi i cavalli e ’l carro loro:
Di Lazio è questo e non de’ Frigi il campo:
Qui finir ti convien la guerra e i giorni.
935Queste vane minaccie e questo vento
Soffiava il folle. Enea d’altro risposta
Non gli diè che de l’asta. E mentre avanti
Spinge l’uno i destrieri, e l’altro al colpo
Si sta chinato e col piè manco in atto
940Di ferir lui, la sua lancia a lo scudo
Entrò sotto di Lúcago, e nel manco
Lato ne l’anguinaia il colse a punto,
E giù dal carro moribondo il trasse.
Indi ancor egli motteggiollo e disse:

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945A te nè paventosi nè restii
Son già, Lúcago, stati i tuoi cavalli.
Tu da te stesso un sì bel salto hai preso
Fuor del tuo carro. E, ciò detto, ai destrieri
Diè di piglio. Il suo frate uscito intanto
950Dal carro stesso umíle e disarmato
Stendea le palme in tal guisa pregando:
Deh, per lo tuo valore e per coloro
Che ti fer tale, abbi di me, signore,
Pietà, che supplicando in don ti chieggio
955Questa misera vita. E seguitando
La sua preghiera, a lui rispose Enea:
Tu non hai già così dianzi abbaiato.
Muori; e morendo il tuo frate accompagna.
E con queste parole il ferro spinse,
960E gli aprì ’l petto, e l’alma ne disciolse.
     Mentre così per la campagna Enea
Strage facendo, e di torrente in guisa
E di tempesta infurïando scorre,
Ascanio e la troiana gioventute,
965Indarno entro a le mura assedïata,
Saltano in campo. Ed a Giunone intanto
Così Giove favella: O mia diletta
Sorella e sposa, ecco testè si vede
Com’ha la tua credenza e ’l tuo pensiero

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970Verace incontro, e come Citerea
Sostenta i Teucri suoi. Vedi com’essi
Non son nè valorosi nè guerrieri,
E i cor non hanno ai lor perigli eguali.
A cui Giunon tutta rimessa, Ah, disse,
975Caro consorte, a che mi strazi e pugni,
Quando è pur troppo il mio dolor pungente
E pur troppo tem’io le tue punture?
Ma se qual era e qual esser potrebbe,
Fosse or teco il poter de l’amor mio,
980Teco che tanto puoi, da te negato
Non mi fôra, Signor, ch’oggi il mio Turno
Fosse da la battaglia e da la morte
Per me sottratto e conservato al vecchio
Dauno suo padre. Or pèra, e col suo sangue,
985Che pure è pio, la cupidigia estingua
De’ suoi nemici. E pur anch’egli è nato
Dal nostro sangue; e pur Pilunno è quarto
Padre di lui: da lui pur largamente
Gli altar molte fïate e i tempii tuoi
990Son de’ suoi molti doni ornati e carchi.
     Cui del ciel brevemente il gran motore
Così rispose: Se indugiar la morte,
Ch’è già presente, e prolungare i giorni
Al già caduco giovine t’aggrada

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995Per alcun tempo, e tu con questo inteso
L’accetti, va’ tu stessa, e da la pugna
Sottrallo e dal destino. A tuo contento
Fin qui mi lece. Ma se in ciò presumi
Anco più di sua vita, o de la guerra,
1000Che del tutto si mute o si distorni,
Invan lo speri. A cui Giuno piangendo
Soggiunse: E che saría, se quel ch’in voce
Ti gravi a darmi, almen nel tuo secreto
Mi concedessi? e questa vita a Turno
1005Si stabilisse? già ch’indegna e cruda
Morte gli s’avvicina, o ch’io del vero
Mi gabbo. Tu che puoi, Signor, rivolgi
La mia paura e i tuoi pensieri in meglio.
     Poscia che così disse, incontinente
1010Dal ciel discese, e con un nembo avanti
E nubi intorno, occulta infra i due campi
Sopra terra calossi. Ivi di nebbia,
Di colori e di vento una figura
Formò (cosa mirabile a vedere!)
1015In sembianza d’Enea; d’Enea lo scudo,
La corazza, il cimiero e l’armi tutte
Gli finse intorno, e gli diè ’l suono e ’l moto
Propri di lui, ma vani, e senza forze
E senza mente; in quella stessa guisa

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1020Che si dice di notte ir vagabonde
L’ombre de’ morti, e che i sopiti sensi
Son da’ sogni delusi e da fantasme.
     Questa mentita imago anzi a le schiere
Lieta insultando, a Turno s’appresenta,
1025Lo provoca e lo sfida. E Turno incontra
Le si spinge e l’affronta: e pria da lunge
Il suo dardo le avventa, al cui stridore
Volg’ella il tergo e fugge. Ed ei sospinto
Da la vana credenza e da la folle
1030Sua speme insuperbito, la persegue
Con la spada impugnata, E dove, e dove,
Dicendo, Enea, ten fuggi? ove abbandoni
La tua sposa novella? Io di mia mano
De la terra fatale or or t’investo,
1035Che tanto per lo mar cercando andavi.
E gridando l’incalza, e non s’avvede
Che quel che segue e di ferir agogna,
Non è che nebbia che dal vento è spinta.
     Era per sorte in su la riva un sasso
1040Di molo in guisa; ed un navile a canto
Gli era legato, che la scala e ’l ponte
Avea su ’l lito, onde ne fu pur dianzi
Osinio, il re di Chiusi, in terra esposto.
In questo legno, di fuggir mostrando,

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1045Ricovrossi d’Enea la finta imago,
E vi s’ascose. A cui dietro correndo
Turno senza dimora infurïato
Il ponte ascese. Era a la prora a pena
Che Giunon ruppe il fune, e diede al legno
1050Per lo travolto mare impeto e fuga.
     Intanto Enea, di Turno ricercando,
A battaglia il chiamava. Ed or di questo
Ed or di quello e di molti anco insieme
Facea strage e scompiglio; e la sua larva,
1055Poichè di più celarsi uopo non ebbe,
Fuor de la nave uscendo, alto levossi,
E con l’atra sua nube unissi e sparve.
     Turno, così schernito, e già nel mezzo
Del mar sospinto, indietro rimirando.
1060Come del fatto ignaro, e del suo scampo
Sconoscente e superbo, al ciel gridando
Alzò le palme, e disse: Ah dunque io sono
D’un tanto scorno, onnipotente padre,
Da te degno tenuto? a tanta pena
1065M’hai riservato? ove son io rapito?
Onde mi parto? chi così mi caccia?
Chi mi rimena? e fia ch’un’altra volta
Io ritorni a Laurento? e ch’io riveggia
L’oste più con quest’occhi? e che diranno

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1070I miei seguaci, e quei che m’han per capo
Di questa guerra, che da me son tutti
(Ahi vitupèro) abbandonati a morte?
E già rotti gli veggio, e già gli sento
Gridar cadendo. O me lasso! che faccio?
1075Qual è del mar la più profonda terra
Che mi s’apra e m’ingoi? A voi piuttosto,
Venti, incresca di me. Voi questo legno
Fiaccate in qualche scoglio, in qualche rupe,
Ch’io stesso lo vi chieggio; o ne le Sirti
1080Mi seppellite, ove mai più non giunga
Rutulo che mi veggia, o mi rinfacci
Questa vergogna e quest’infamia, ond’io
Sono a me consapevole e nimico.
     Così dicendo, un tanto disonore
1085In sè sdegnando, e di sè stesso fuori,
Strani, diversi e torbidi pensieri
Si volgea per la mente, o con la spada
Passarsi il petto, o traboccarsi in mezzo,
Sì com’era, del mare, e far, notando,
1090Pruova o di ricondursi ond’era tolto,
O d’affogarsi. E l’una e l’altra via
Tentò tre volte; e tre volte la Dea,
Di lui mossa a pietà, ne lo distolse.
Dal turbine e dal mar cacciato intanto

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1095Si scorse il legno, che del padre Dauno
A l’antica magion per forza il trasse.
     Mezenzio in questo mentre che da l’ira
Era spinto di Giove, ardente e fiero
Entrò ne la battaglia; e i Teucri assalse
1100Che già ’l campo tenean superbi e lieti.
Da l’altro canto le tirrene schiere
Mossero incontro a lui. Contra lui solo
S’unîr tutti de’ Toschi e gli odii e l’armi;
Ed egli, a tutti opposto, alpestro scoglio
1105Sembrava, che nel mar si sporga, e i flutti,
E i venti minacciar si senta intorno,
E non punto si crolli. Ognun ch’avanti
O l’ardir gli mandava o la fortuna,
A’ piè si distendea. Nel primo incontro
1110Ebro di Dolicáo, Látago e Palmo
Tolse di mezzo, Ebro passò fuor fuori
Con un colpo di lancia: il volto e ’l teschio,
Un gran macigno a Látago avventando,
Infranse tutto, ambi i garretti a Palmo
1115Ch’avanti gli fuggia, tronchi di netto,
Lasciò che rampicando a morir lunge
A suo bell’agio andasse; ma de l’armi
Spogliollo in prima, e la corazza in collo
E l’elmo in testa al suo Lauso ne pose.

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1120Occise dopo questi il frigio Evante:
Poscia Mimante ch’era pari a Pari
Di nascimento, e d’amor seco unito.
D’Àmico nacque, e ne la stessa notte
Teána la sua madre in luce il diede,
1125Che diè Paride al mondo Ecuba pregna
Di fatal fiamma. E pur l’un d’essi occiso
Fu ne la patria e l’altro sconosciuto
Qui cadde. Era a veder Mezenzio in campo
Qual orrido, sannuto, irto cignale
1130In mezzo a’ cani allor che da’ pineti
Di Vèsolo, o da’ boschi o da’ pantani
Di Laurento è cacciato, ove molt’anni
Si sia difeso; ch’a le reti aggiunto
Si ferma, arruffa gli omeri e fremisce
1135Co’ denti in guisa che non è chi presso
Osi affrontarlo, ma co’ dardi solo,
E con le grida a man salva d’intorno
Gli fan tempesta. Così contra a lui
Non s’arrischiando le nemiche squadre
1140Stringere i ferri, le minacce e l’armi
Gli avventavan da lunge; ed ei fremendo
Stava intrepido e saldo, e con lo scudo
Sbattea de l’aste il tempestoso nembo.
     Di Còrito venuto a questa guerra

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1145Era un Greco bandito, Acron chiamato,
Novello sposo che, non giunto ancora
Con la sua donna, a le sue nozze il folle
Avea l’armi anteposte. E in quella mischia
D’ostro e d’òr riguardevole e di penne,
1150Sponsali arnesi e doni, ovunque andava,
Per le schiere facea strage e baruffa.
Mezenzio il vide; e qual digiuno e fiero
Leon da fame stimolato, errando
Si sta talor sotto la mandra, e rugge;
1155Se poi fugace damma, o di ramose
Corna gli si discopre un cervo avanti,
S’allegra, apre le canne, arruffa il dorso,
Si scaglia, ancide e sbrana, e ’l ceffo e l’ugne
D’atro sangue s’intride; in tal sembiante
1160Per mezzo de lo stuol Mezenzio altero
S’avventa. Acron per terra al primo incontro
Ne va rovescio; e l’armi e ’l petto infranto,
Sangue versando, e calcitrando, spira.
     Morto Acrone, ecco Oròde, che davanti
1165Gli si tolle. Ei lo segue: e non degnando
Ferirlo in fuga, o che fuggendo occulto
Gli fosse il feritor, lo giunge e ’l passa,
L’incontra, lo provòca, a corpo a corpo
Con lui s’azzuffa, che di forze e d’armi

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1170Più valea che di furto. Alfin l’atterra,
E l’asta e ’l piè sopra gl’imprime e dice:
Ecco, Oròde è caduto: una gran parte
Giace de la battaglia. A questa voce
Lieti alzaro i compagni al ciel le grida:
1175Ed ei mentre spirava, Oh, disse a lui,
Qual che tu sii, non fia senza vendetta
La morte mia: nè lungamente altero
N’andrai: chè dietro a me nel campo stesso
Cader convienti. A cui Mezenzio un riso
1180Tratto con ira, Or sii tu morto intanto,
Rispose, e quel che può Giove disponga
Poscia di me. Così dicendo il tèlo
Gli divelse dal corpo, ed ei le luci
Chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
1185Cèdico occise Alcáto: Socratóre
Occise Idaspe; a due la vita tolse
Rapo, a Partenio ed al gagliardo Orsone;
Messápo anch’egli a due la morte diede:
A Clònio da cavallo, ad Ericate,
1190Ch’era pedone, a piede. Agi di Licia
Movendo incontro a lui, fu da Valero
Valoroso, e de’ suoi degno campione,
A terra steso; Atron da Sálio anciso;
E Sálio da Nealce, che di dardo

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1195Era gran feritore e grande arcíero.
     D’ambe le parti erano Morte e Marte
Del pari; e parimente i vincitori
E i vinti ora cadendo, ora incalzando,
Seguian la zuffa; nè viltà, nè fuga
1200Nè di qua nè di là vedeasi ancora.
L’ira, la pertinacia e le fatiche
Erano e quinci e quindi ardenti e vane.
E di questi e di quelli avean gli Dei,
Che dal ciel gli vedean, pietà e cordoglio.
1205Stava di qua Ciprigna e di là Giuno
A rimirarli; e pallida framezzo
Di molte mila infurïando andava
La nequitosa Erinni. Una grand’asta
Prese Mezenzio un’altra volta in mano
1210E turbato squassandola, del campo
Piantossi in mezzo, ad Orïon simíle
Quando co’ piè calca di Nèreo i flutti,
E sega l’onde, con le spalle sopra
A l’onde tutte; o qual da’ monti a l’aura
1215Si spicca annoso cerro, e ’l capo asconde
Infra le nubi. In tal sembianza armato
Stava Mezenzio. Enea tosto che ’l vede
Ratto incontro gli muove. Ed egli immoto
Di coraggio e di corpo ad aspettarlo

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1220Sta qual pilastro in sè fondato e saldo.
Poscia ch’a tiro d’asta avvicinato
Gli fu d’avanti, O mia destra, o mio dardo,
Disse, che dii mi siete, il vostro nume
A questo colpo imploro: ed a te, Lauso,
1225Già di questo ladron le spoglie e l’armi
Per mio trofeo consacro. E, così detto,
Trasse. Stridendo andò per l’aura il tèlo;
Ma giunto, e da lo scudo in altra parte
Sbattuto, di lontan percosse Antore
1230Fra le costole e ’l fianco, Antor d’Alcide
Onorato compagno. Era venuto
D’Argo ad Evandro: e qui cadde il meschino
D’altrui ferita. Nel cader, le luci
Al ciel rivolse e, d’Argo il dolce nome
1235Sospirando, le chiuse. Enea con l’asta
Ben tosto a lui rispose. E lo suo scudo
Percosse anch’egli, e l’interzate piastre
Di ferro e le tre cuoia e le tre falde
Di tela, ond’era cinto, infino al vivo
1240Gli passò de la coscia. Ivi fermossi,
Chè più forza non ebbe. Ma ben tosto
Ricovrò con la spada, e fiero e lieto,
Visto già del nemico il sangue in terra
E ’l terror ne la fronte, a lui si strinse.

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     1245Lauso, che in tanto rischio il caro padre
Si vide avanti, amor, téma e dolore
Se ne sentì, ne sospirò, ne pianse.
E qui, giovine illustre, il caso indegno
De la tua morte e ’l tuo zelo e ’l tuo fatto
1250Non tacerò; se pur tanta pietate
Fia chi creda de’ posteri, e d’un figlio
D’un empio padre. Il padre a sì gran colpo
Si trasse indietro, che di già ferito,
Benchè non gravemente, e da l’intrico
1255De l’asta imbarazzato, era a la pugna
Fatto inutile e tardo. Or mentre cede,
Mentre che de lo scudo il dardo ostile
Di sferrar s’argomenta, il buon garzone
Succede ne la pugna, e del già mosso
1260Braccio e del brando che stridente e grave
Calava per ferirlo, il mortal colpo
Ricevè con lo scudo e lo sostenne.
E perch’agio a ritrarsi il padre avesse
Riparato dal figlio, i suoi compagni
1265Secondâr con le grida; e con un nembo
D’armi, che gli avventâr tutti in un tempo,
Lo ributtaro. Enea via più feroce
Infurïando sotto al gran pavese
Si tenea ricoverto. E qual, cadendo

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1270Grandine a nembi, il vïator talora,
Ch’in sicuro a l’albergo è già ridotto,
Ogni agricola vede, ogni aratore
Fuggir da la campagna: o qual d’un greppo,
D’una ripa, o d’un antro il zappatore,
1275Piovendo, si fa schermo, e ’l sole aspetta
Per compir l’opra; in quella stessa guisa,
Tempestato da l’armi Enea la nube
Sostenea de la pugna; e Lauso intanto
Minacciando garria: Dove ne vai,
1280Meschinello, a la morte? A che pur osi
Più che non puoi? La tua pietà t’inganna
E sei giovane e soro. Ei non per questo,
Folle, meno insultava: onde più crebbe
L’ira del teucro duce. E già la Parca,
1285Vòta la rócca e non pieno anco il fuso,
Il suo nitido filo avea reciso.
Trasse Enea de la spada, e ne lo scudo,
Che liev’era e non pari a tanta forza,
Lo colpì, lo passò, passògli insieme
1290La veste che di seta e d’òr contesta
Gli avea la stessa madre; e lui per mezzo
Trafisse, e moribondo a terra il trasse.
     Ma poscia che di sangue e di pallore
Lo vide asperso e della morte in preda,

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1295Ne gl’increbbe e ne pianse; e di paterna
Pietà quasi un’imago avanti agli occhi
Veder gli parve, e ’ntenerito il core,
Stese la destra e sollevollo, e disse:
Miserabil fanciullo! e quale aita,
1300Quale il pietoso Enea può farti onore
Degno de le tue lodi e del presagio
Che n’hai dato di te? L’armi che tanto
Ti son piaciute, a te lascio, e ’l tuo corpo
A la cura de’ tuoi, se di ciò cura
1305Ha pur l’empio tuo padre, acciò di tomba
E d’essequie t’onori. E tu, meschino,
Poi che dal grand’Enea morte ricevi,
Di morir ti consola. Indi assecura,
Sollecita, riprende, e de l’indugio
1310Garrisce i suoi compagni; e di sua mano
L’alza, il sostiene, il terge e de la gora
Del suo sangue lo tragge, ove rovescio
Giacea languido il volto e lordo il crine,
Che di rose eran prima e d’ostro e d’oro.
     1315Stava del Tebro in su la riva intanto
Lo sfortunato padre, e la ferita
Già lavata ne l’onde, afflitto e stanco
S’era con la persona appo d’un tronco
Per posarsi appoggiato: e l’elmo a canto

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1320Da’ rami gli pendea. L’armi più gravi
Su ’l verde prato avean posa con lui.
Stavagli intorno de’ più scelti un cerchio
E de’ più fidi. Ed egli anelo ed egro,
Chino il collo al troncone e ’l mento al petto,
1325Molto di Lauso interrogava, e molti
Gli mandava or con preci or con precetti,
Ch’al mesto padre omai si ritraesse.
Ma già vinto, già morto e già disteso
Sopra al suo scudo, a braccia riportato
1330Da’ suoi con molto pianto era il meschino.
     Udì Mezenzio il pianto, e di lontano
(Come del mal sovente è l’uom presago)
Morto il figlio conobbe. Onde di polve
Sparso il canuto crine, ambe le mani
1335Al ciel alzando, al suo corpo accostossi:
Ah mio figlio, dicendo, ah come tanto
Fui di vivere ingordo, che soffrissi
Te, di me nato, andar per me di morte
A sì gran rischio, a tal nemica destra
1340Succedendo in mia vece? Adunque io salvo
Son per le tue ferite? Adunque io vivo
Per la tua morte? Oh miserabil vita,
O sconsolato essiglio! Or questo è ’l colpo
Ch’al cor m’è giunto. Ed io, mio figlio, io sono

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1345C’ho macchiato il tuo nome, c’ho sommerso
La tua fortuna e ’l mio stato felice
Co’ demeriti miei. Dal mio furore
Son dal seggio deposto. Io son che debbo
Ogni grave supplizio ed ogni morte
1350A la mia patria, al grand’odio de’ miei.
E pur son vivo, e gli uomini non fuggo?
E non fuggo la luce? Ah fuggirolla
Pur una volta. E, così detto, alzossi
Su la ferita coscia. E, benchè tardo
1355Per la piaga ne fosse e per l’angoscia,
Non per questo avvilito, un suo cavallo
Ch’era quanto diletto e quanta speme
Avea ne l’armi, e quel che in ogni guerra
Salvo mai sempre e vincitor lo rese,
1360Addur si fece. E poi che addolorato
Sel vide avanti, in tal guisa gli disse:
Rebo, noi siam fin qui vissuti assai,
Se pur assai di vita ha mortal cosa.
Oggi è quel dì che o vincitori il capo
1365Riporterem d’Enea con quelle spoglie
Che son de l’armi1 del mio figlio infette,

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E che tu del mio duolo e de la morte
Di lui vendicator meco sarai;
O che meco, se vano è ’l poter nostro,
1370Finirai parimente i giorni tuoi;
Chè la tua fè, cred’io, la tua fortezza
Sdegnoso ti farà d’esser soggetto
A’ mieî nemici, e di servire altrui.
     Così dicendo, il consueto dorso
1375Per sè medesmo il buon Rebo gli offerse,
Ed ei l’elmo ripreso, il cui cimiero
Era pur di cavallo un’irta coda,
Suvvi, come potè comodamente,
Vi s’adagiò. Poscia d’acuti strali
1380Ambe carche le mani, infra le schiere
Lanciossi. Amor, vergogna, insania e lutto
E dolore e furore e coscïenza
Del suo stesso valore accolti in uno,
Gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
     1385Qui tre volte a gran voce Enea sfidando
Chiamò; che tosto udillo, e baldanzoso,
Così piaccia al gran Padre, gli rispose,
Così t’inspiri Apollo. Or vien pur via,
Soggiunge. E ratto incontro gli si mosse.
1390Ed egli: Ah dispietato! a che minacci,
Già che morto è ’l mio figlio? in ciò potevi

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Darmi tu morte. Or nè la morte io temo,
Nè gli tuoi Dei. Non più spaventi. Io vengo
Di morir desioso; e questi doni
1395Ti porto in prima. E ’l primo dardo trasse:
Poi l’altro e l’altro appresso: e via traendo
Gli discorrea d’intorno. Ai colpi tutti
Resse il dorato scudo. E già tre volte
L’un girato il cavallo, e l’altro il bosco
1400Avea de’ dardi nel suo scudo infissi,
Quando il figlio d’Anchise, impazïente
Di tanto indugio e di sferrar tant’aste.
Visto ’l suo disvantaggio, a molte cose
Andò pensando. Alfin di guardia uscito
1405Addosso gli si spinse, e trasse il tèlo
Sì che del corridore il teschio infisse
In mezzo de la fronte. Inalberossi
A quel colpo il feroce, e calci a l’aura
Traendo, scalpitando, e ’l collo e ’l tèlo
1410Scotendo, s’intricò; cadde con l’asta,
Con l’armi, col campione a capo chino,
Tutti in un mucchio. Andâr le grida al cielo
De’ Latini e de’ Teucri. E tosto Enea
Col brando ignudo gli fu sopra e disse:
1415Or dov’è quel sì fiero e sì tremendo
Mezenzio? Ov’è la sua tanta bravura?

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E ’l Tosco a lui, poichè l’afflitte luci
Al ciel rivolse, e seco si ristrinse:
Crudele, a che m’insulti? A me di biasmo
1420Non è ch’io muoia: nè per vincer, teco
Venni a battaglia. Il mio Lauso morendo
Fe con te patto che morissi anch’io.
Solo ti prego (se di grazia alcuna
Son degni i vinti) che ’l mio corpo lasci
1425Coprir di terra. Io so gli odii immortali
Che mi portano i miei. Dal furor loro
Ti supplico a sottrarmi, e col mio figlio
Consentir che mi giaccia. E ciò dicendo,
La gola per sè stesso al ferro offerse;
1430E con un fiume che di sangue sparse
Sopra l’armi versò l’anima e ’l fiato.

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Libro Undecimo.


 
     Passò la notte intanto, e già dal mare
Sorgea l’Aurora. Enea, quantunque il tempo,
L’officio e la pietà più lo stringesse
A seppellire i suoi, quantunque offeso
5Da tante morti il cor funesto avesse;
Tosto che ’l sole apparve, il voto sciolse
De la vittoria. E sovra un picciol colle
Tronca de’ rami una gran quercia eresse:
De l’armi la rinvolse, e de le spoglie
10L’adornò di Mezenzio, e per trofeo
A te, gran Marte, dedicolla. In cima
L’elmo vi pose, e ’n su l’elmo il cimiero,
Ancor di polve e d’atro sangue asperso.
L’aste d’intorno attraversate e rotte
15Stavan quai secchi rami: e ’l tronco in mezzo
Sostenea la corazza che smagliata
E da dodici colpi era trafitta.
Dal manco lato gli pendea lo scudo:
Al destr’omero il brando era attaccato,

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20Che ’l fodro avea d’avorio e l’else d’oro.
Indi i suoi duci e le sue genti accolte,
Che liete gli gridâr vittoria intorno,
In cotal guisa a confortar si diede:
     Compagni, il più s’è fatto. A quel che resta
25Nulla temete. Ecco Mezenzio è morto
Per le mie mani, e queste che vedete,
L’opime spoglie e le primizie sono
Del superbo tiranno. Ora a le mura
Ce n’andrem di Latino. Ognuno a l’armi
30S’accinga: ognun s’affidi, e si prometta
Guerra e vittoria. In punto vi mettete,
Chè quando dagli augurii ne s’accenne
Di muover campo, e che mestier ne sia
D’inalberar l’insegne, indugio alcuno
35Non c’impedisca, o ’l dubbio o la paura
Non ci ritardi. In questo mezzo a’ morti
Diam sepoltura, e quel che lor dovuto
È sol dopo la morte, eterno onore.
Itene adunque, e quell’anime chiare
40Che n’han col proprio sangue e con la vita
Questa patria acquistata e questo impero,
D’ultimi doni ornate. E primamente
Al mesto Evandro il figlio si rimandi,
Che, di virtù maturo e d’anni acerbo,

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45Così n’ha morte indegnamente estinto.
     Ciò detto, lagrimando il passo volse
Vèr la magione, u’ di Pallante il corpo
Dal vecchierello Acète era guardato.
Era costui già del parrasio Evandro
50Donzello d’armi; e poscia per compagno
Fu (ma non già con sì lieta fortuna)
Dato al suo caro alunno. Avea con lui
D’Arcadi suoi vassalli e di Troiani
Una gran turba. Scapigliate e meste
55Le donne d’Ilio, sì com’era usanza,
Gli piangevano intorno; e non fu prima
Enea comparso, che le strida e i pianti
Si rinovaro. Il batter de le mani,
Il suon de’ petti, e de l’albergo i mugghi
60N’andâr fino a le stelle. Ei poi che vide
Il suo corpo disteso, e ’l bianco volto,
E l’aperta ferita che nel petto
Di man di Turno avea larga e profonda,
Lagrimando proruppe: O miserando
65Fanciullo, e che mi val s’amica e destra
Mi si mostra fortuna? E che m’ha dato,
Se te m’ha tolto? or che, vincendo, ho fatto?
Che, regnando, farò, se tu non godi
De la vittoria mia, nè del mio regno?

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70Ah! non fec’io queste promesse allora
Al buon Evandro, ch’a l’acquisto venni
Di questo impero. E ben temette il saggio,
E ben ne ricordò che duro intoppo,
E d’aspra gente, avremmo. E forse ancora
75Il meschino or fa voti e preci e doni
Per la nostra salute, e vanamente
Vittoria s’impromette. E noi con vana
Pompa gli riportiam questo infelice
Giovine di già morto, e di già nulla
80Più tenuto a’ celesti. Ahi sconsolato
Padre! vedrai tu dunque una sì cruda
Morte del figlio tuo? Questo ritorno,
Questo trionfo, oimè! d’ambi aspettavi?
E da me questa fede? Oh pur, Evandro,
85Nol vedrai già di vergognose piaghe
Ferito il tergo; e non gli arai tu stesso
(Se con infamia a te vivo tornasse)
A desiar la morte. Ahi quanto manca
Al sossidio d’Italia, e quanto perdi.
90Mio figlio Iulo! E, posto al pianto fine,
Ordine diè che ’l miserabil corpo
Via si togliesse; e del suo campo tutto
Scelse di mille una pregiata schiera
Che scorta gli facesse e pompa intorno,

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95E d’Evandro a le lagrime assistesse,
E le sue gli mostrasse; a tanto lutto
Assai debil conforto, e pur dovuto
Al suo misero padre. Altri al suo corpo,
Altri a la bara intenti avean di quercia,
100D’arbuto e di tali altri agresti rami
Fatto un ferètro di virgulti intesto,
E di frondi coperto, ove altamente
Del giovinetto il delicato busto
Composto si giacea qual di vïola,
105O di giacinto un languidetto fiore
Còlto per man di vergine, e serbato
Tra le sue stesse foglie allor che scemo
Non è del tutto il suo natio colore
Nè la sua forma; e pur da la sua madre
110Punto di cibo o di vigor non ave.
     Enea due prezïose vesti intanto
L’una d’òr fino e l’altra di scarlatto
Addur si fece: ambe ornamenti e doni
De la sidonia Dido, e da lei stessa
115Con dolce studio e con mirabil arte
Ricamate e distinte. E l’una indosso
Gli pose, e l’altra in capo, ultimo onore
Con che dolente la dorata chioma
Allor velògli, ch’era additta al foco.

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120De le prede oltre a ciò di Laürento
Gli fa gran parte. Fagli in ordinanza
Spiegar l’armi, i cavalli e l’altre spoglie
Tolte a’ nimici. Gli fa gir legati
Con le man dietro i destinati a morte
125Per onoranza del funereo rogo.
Portar gli fa davanti a’ duci loro
L’armi ai tronchi sospese, e i nomi scritti
Degli occisi e de’ vinti. Il vecchio Acete
Che, sì com’era afflitto e d’anni grave,
130Gli era appresso condotto, or con le pugna
Si battea ’l petto, ed or con l’ugna il volto
Si lacerava, e tra la polve e ’l fango
Si volgea tutto. Ivano i carri aspersi
Del sangue de’ Latini, iva lugúbre,
135E d’ornamenti ignudo, Eto, il più fido
Suo caval da battaglia, che gemendo
In guisa umana e lagrimando andava.
Seguian le meste squadre i Teucri, i Toschi
E gli Arcadi, con l’armi e con l’insegne
140Rivolte a terra. Or poi ch’oltrepassata
Con quest’ordine fu la pompa tutta,
Enea fermossi, e verso il morto amico
Ad alta voce sospirando disse:
     Noi quinci ad altre lagrime chiamati

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145Dal medesimo fato, altre battaglie
Imprenderemo. E tu, magno Pallante,
Vattene in pace, e con eterna gloria
Godi eterno riposo. Indi partendo
Vèr l’alte mura, al campo si ritrasse.
     150Eran nel campo già co’ rami avanti
Di pacifera oliva ambasciadori
De la città latina a lui venuti,
Che tregua a’ vivi e sepoltura a’ morti,
Pregando, gli mostrâr che più co’ vinti
155Nè co’ morti è contrasto, e che Latino
Gli era d’ospizio amico, e che chiamato
L’avea genero in prima. Il buon Troiano
A le giuste preghiere, ai lor quesiti,
Che di grazia eran degni, incontinente
160Grazïoso mostrossi; e da vantaggio
Così lor disse: E qual indegna sorte
Contra me, miei Latini, in tanta guerra
Così v’intrica? Chè pur vostro amico
Son qui venuto; nè venuto ancora
165Vi sarei, se da’ fati e dagli Dei
Mandato io non vi fossi. E non pur pace,
Siccome voi chiedete, io vi concedo
Per color che son morti, ma co’ vivi
Ve l’offro, e la vi chieggo. E la mia guerra

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170Non è con voi: ma ’l vostro re s’è tolto
Da l’amicizia mia; s’è confidato
Più ne l’armi di Turno, e Turno ancora
Meglio e più giustamente in ciò farebbe,
S’a questa guerra sol con suo periglio
175Ponesse fine. E poichè si dispose
Di cacciarmi d’Italia, il suo dovere
Fòra stato che meco, e con quest’armi
Diffinita l’avesse. E saria visso
Cui la sua propria destra e Dio concesso
180Più vita avesse: e i vostri cittadini
Non sarian morti. Or poichè morti sono,
Io me ne dolgo, e voi gli seppellite.
     Restaro al dir d’Enea stupidi e cheti
I latini oratori, e l’un con l’altro
185Si guardarono in volto. Indi il più vecchio,
Drance nomato, a cui Turno fu sempre
Per sua natura e per sua colpa in ira,
Rotto il silenzio, in tal guisa rispose:
O di fama e più d’arme eccelso e grande
190Troiano eroe, qual mai fia nostra lode
Che ’l tuo gran merto agguagli? e di che prima
Ti loderemo? ch’io non veggio quale
In te maggior si mostri, o la giustizia,
O la gloria de l’armi. A questa tanta

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195Grazia, che tu ne fai, grati saremo:
Rapporto ne faremo; e s’al consiglio
Nostro è fortuna amica, amico ancora
Ti fia Latino. E cerchisi d’altronde
Turno altra lega. A noi co’ sassi in collo
200Gioverà di trovarne a fondar vosco
Questa vostra fatal novella Troia.
     Poi che Drance ebbe detto, ai detti suoi
Tutti gli altri fremendo acconsentiro,
E per dodici dì commerzio e pace
205Fur tra l’un oste e l’altro. E senza offesa
Entrambi si mischiaro, e per gli monti
E per le selve a lor diletto andaro.
Allor sonare accétte e strider carri
Per tutto udissi. In ogni parte a terra
210Ne giro i cerri e gli orni e gli alti pini
E gli odorati cedri al funebre uso
Svelti, squarciati e tronchi. E già la fama,
Che di Pallante a Pallantèo volata
Dicea pria le sue prove, e vincitore
215L’avea gridato, or d’ogni parte grida
Che morto si riporta. In ciò commossa
La città tutta, in vedovile aspetto
Di funeste facelle, e d’atri panni
Si vide piena: e vèr le porte ognuno

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220Gli usciro incontro. Si vedea di lumi
E di genti una fila che le strade
E i campi in lunga pompa attraversava.
I Frigi e gli altri col suo corpo intanto
Piangendo ne venian da l’altra parte,
225E con pianto incontrârsi. Indi rivolti
Tutti vèr la città, non pria fur giunti,
Che di pianti di donne e d’ululati
Risonar d’ogn’intorno il cielo udissi.
     Nè forza, nè consiglio, nè decoro
230Fu ch’Evandro tenesse. Uscì nel mezzo
Di tutta gente; e la funerea bara
Fermando, addosso al figlio in abbandono
Si gittò, l’abbracciò, stretto lo tenne
Lunga fïata, e da l’angoscia oppresso
235Pria lagrimando, e sospirando, tacque.
Poscia la strada al gran dolore aperta
Così proruppe: O mio Pallante, e queste
Fur le promesse tue, quando partendo
Il tuo padre lasciasti? In questa guisa
240D’esser guardingo e cauto mi dicesti
Ne’ perigli di Marte? Ah! ben sapeva,
Ben sapev’io quanto ne l’armi prime
Fosse, in cor generoso, ardente e dolce
Il desio de la gloria e de l’onore.

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245Primizie infauste, infausti fondamenti
De la tua gioventù! Vane preghiere,
Voi miei non accetti e non intesi
Da nïun dio! Santissima consorte,
Che morendo fuggisti un dolor tale,
250Quanto sei tu di tua morte felice!
Quanto infelice e misero son io,
Che vecchio e padre al mio diletto figlio
Sopravvivendo, i miei fati e i miei giorni
Prolungo a mio tormento! Ah! foss’io stesso
255Uscito co’ Troiani a questa guerra!
Ch’io sarei morto; e questa pompa avrebbe
Me così riportato, e non Pallante.
Nè per questo di voi, nè de la lega,
Nè de l’ospizio vostro io mi rammarco,
260Troiani amici. Era a la mia vecchiezza
Questa sorte dovuta. E se dovea
Cader mio figlio, perchè tanta strage
Io vedessi de’ Volsci, e perchè Lazio
Fosse a’ Teucri soggetto, in pace io soffro
265Che sia caduto. E più compito onore
Non aresti da me, Pallante mio,
Di questo che ’l pietoso e magno Enea
E i suoi magni Troiani e i Toschi duci
E tutte insieme le toscane genti

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270T’han procurato. Con sì gran trofei
Del tuo valor sì chiara mostra han fatto,
E de’ vinti da te. Nè fòra meno
Tra questi il tuo gran tronco, s’a te fosse,
Turno, stato d’età pari il mio figlio,
275E par de la persona e de le forze
Che ne dan gli anni. Ma che più trattengo
Quest’armi a’ Teucri? Andate, e da mia parte
Riferite ad Enea, che quel ch’io vivo
Dopo Pallante, è sol perchè l’invitta
280Sua destra, come vede, al figlio mio
Ed a me deve Turno. E questo solo
Gli manca per colmar la sua fortuna
E ’l suo gran merto; chè per mio contento
Nol curo; e contentezza altra non deggio
285Sperare io più, che di portare io stesso
Questa novella di Pallante a l’ombra.
     Avea l’Aurora col suo lume intanto
Il giorno e l’opre e le fatiche insieme
Ricondotte a’ mortali. Il padre Enea
290E ’l buon Tarconte, ambi, in su ’l curvo lito
I cadaveri addotti, a’ suoi ciascuno,
Com’era l’uso, un’alta pira eresse,
La compose e l’incese. E mentre il foco
Di fumo e di caligine coverto

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295Tenea l’aëre intorno, in ordinanza
Tre volte, armati, a piè la circondaro,
E tre volte a cavallo, in mesta guisa
Ululando, piangendo, e l’armi e ’l suolo
Di lagrime spargendo. Infino al cielo
300Penetrâr de le genti e de le tube
I dolorosi accenti. Altri gridando
Le pire intorno, elmi, corazze e dardi
E ben guarnite spade e freni e ruote
Avventaron nel foco, e de’ nemici
305Armi d’ogni maniera, arnesi e spoglie;
Altri i lor propri doni, e degli occisi
Medesmi vi gittâr l’aste infelici,
E gl’infelici scudi, ond’essi invano
S’eran difesi. A le cataste intorno
310Molti gran buoi, molti setosi porci,
Molte fur pecorelle occise ed arse.
A sì mesto spettacolo in sul lito
Stavan altri piangendo, altri osservando
Ciascuno i suoi più cari, infin che ’l foco
315Gli consumasse. E questi l’ossa, e quelli
Le ceneri accogliendo, il giorno tutto
In sì pietoso officio trapassaro:
Nè se ne tolser finchè, spenti i fochi,
Non s’acceser le stelle. In altra parte

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320I miseri Latini ai corpi loro
Fer cataste infinite. Altri sotterra
Ne seppelliro; altri a le ville intorno,
Ed altri a la città ne trasportaro.
E quei che senza numero confusi
325Giacean nel campo, senza onore a mucchi
Furon combusti: onde i villaggi insieme
E le campagne di funesti incendi
Lucean per tutto. E tre luci e tre notti
Durâr gli afflitti amici e i dolorosi
330Parenti a ricercar le tiepid’ossa,
E ne l’urne riporle e ne’ sepolcri.
     Ma la confusïone e ’l pianto e ’l duolo
Era ne la città per la più parte,
E ne la reggia al re Latino avanti.
335Qui le madri, le nuore, le sorelle
E i miseri pupilli, che de’ padri,
De’ figli, de’ mariti e de’ fratelli
Erano in questa guerra orbi rimasi,
La guerra abbominavano e le nozze
340Detestavan di Turno. Ei da sè stesso,
Dicendo, ei che d’Italia al regno aspira,
E le grandezze e i primi onori agogna,
Con l’armi e col suo sangue le s’acquisti,
E non col nostro. In ciò Drance aggravando

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345Vie più le cose, come a Turno infesto,
Attestando dicea che sol con Turno
Volea briga il Troiano, e che sol esso
Era a pugna con lui cerco e chiamato.
Altri d’altro parere, altre ragioni
350Dicean per Turno: e ’l gran nome d’Amata
E ’l suo favore e di lui stesso il merto
Con la fama de’ suoi tanti trofei
Sostenean la sua causa. Ed ecco, intanto
Che così si tumultua e si travaglia,
355Mesti sopravvenir gl’imbasciadori
Ch’in Arpi a Dïomede avean mandati;
E riportar, che le fatiche e i passi
Avean perduti: che nè dono alcuno,
Nè promesse, nè preci, nè ragioni
360Furon bastanti ad impetrar soccorso
Nè da lui nè da’ suoi. Ch’era d’altronde
Di mestiero a’ Latini avere altr’armi,
O trattar co’ nemici accordo e pace.
     Gran cordoglio sentinne, e gran rammarco
365Ne fece il re Latino. E ben conobbe
Che manifestamente Enea da’ fati
Era portato; e via più manifesta
Si vedea degli Dei l’ira davanti
In tanta che de’ suoi negli occhi avea

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370Strage recente. Il gran consiglio adunque,
E de’ suoi primi, ne la regia corte
Chiamar si fece. In un momento piene
Ne fur le strade; e di già tutti accolti
Ne la gran sala, il re, di grado e d’anni
375Il primo, a tutti in mezzo, in non sereno
Sembiante comandò che primamente
I Legati che d’Arpi eran tornati,
Fossero uditi; ed a lor vòlto disse:
Esponete per ordine il seguíto
380De la vostra ambasciata, e la risposta
Che ritratta n’avete. A tal precetto
Tacquero tutti; e Vènolo sorgendo,
Così pria cominciò: Noi dopo molti
Superati pericoli e fatiche,
385Egregi cittadini, al campo argivo
Ne la Puglia arrivammo; e Dïomede
Vedemmo alfine; e quell’invitta destra
Toccammo, ond’è ’l grand’Ilio arso e distrutto.
In Iapigia il trovammo a le radici
390Del gran monte Gargáno, ove fondava,
Già vincitore, Argíripa, una terra
Che dal patrio Argirippo ha nominata.
Intromessi che fummo, il presentammo;
Gli esponemmo la patria, il nome e ’l fatto

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395De la nostra imbasciata, e la cagione
Onde a lui venivamo. Il tutto udito,
Così benignamente ne rispose:
     O fortunate genti, o di Saturno
Felice regno, o degli antichi Ausoni
400Famosa terra! E quale iniqua sorte
Da la vostra quïete or vi sottragge?
Qual consiglio, qual forza vi costringe
Di nemicarvi e guerreggiar con gente
Che non v’è nota? Noi quanti già fummo
405Col ferro a vïolar di Troia i campi
(Non parlo degli strazi e de le stragi
Di quei che vi rimasero, chè pieni
Ne sono i fossi e i fiumi; ma quanti anco
N’uscimmo con la vita), in ogni parte
410Siam poi giti del mondo tapinando,
Con nefandi supplicii, e con atroci
Morti pagando il fio, come d’un grave
E scelerato eccesso. E non ch’altrui,
Prïamo stesso a pietà mosso avrebbe
415Il fiero, che di noi s’è fatto, scempio.
Di Palla il sa la sfortunata stella;
Sallo il vendicator Cafáreo monte
E gli Euboïci scogli: il san di Pròteo
Le longinque colonne, insino a dove,

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420Dopo quella milizia, andò ramingo
L’un de’ figli d’Atreo. D’Etna i ciclopi
Ne vide Ulisse. Il suo regno a’ suoi servi
Ne lasciò Pirro. Idomenèo cacciato
Ne fu dal patrio seggio. Esso re stesso,
425Condottier degli Argivi, il piede a pena
Nel suo regno ripose, che del regno,
Del letto e de la vita anco privato
Fu da la scelerata sua consorte.
Nè gli giovò che doma l’Asia e spento
430L’uno adultero avesse; chè de l’altro
Scherno e preda rimase. A me l’invidia
Ha degli Dei di più veder disdetto
La mia bella città di Calidóna,
E la mia cara e desiata donna.
435Nè di ciò sazi, orribili spaventi
Mi dànno ancora. E pur dianzi in augelli
Conversi i miei compagni (o miseranda
Lor pena!) van per l’aura e per gli scogli
Di lacrimosi accenti il cielo empiendo.
440Questi sono i profitti e le speranze
Ch’io fin qui ne ritraggo, da che, folle!
Stringer contro a’ celesti il ferro osai,
E che di Citerèa la destra offesi.
Or ch’io di nuovo una tal pugna imprenda

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445Testè con voi? no, no, ch’io co’ Troiani,
Dopo Troia espugnata, altra cagione
Non ho di guerra; e de’ passati mali
Volentier mi dimentico, e dolore
Ancor ne sento. E, quanto a’ doni, andate,
450Riportateli vosco, e ’l magno Enea
Ne presentate. E solo a me credete
Del valor suo, che fui con esso a fronte
Con l’armi in mano; e so di scudo e d’asta
Qual mi rese buon conto, e quanto vaglia.
455Se due tali altri avea la terra Idèa,
D’Ida fòra piuttosto ita la gente
Ai danni de la Grecia; e ’l troian fato
Piangerebb’ella. Enea sol con Ettorre
Fu la cagion che tanto s’indugiasse
460La ruina di Troia, e che diece anni
Durammo a conquistarla. Ambedue questi
Eran di cor, di forze e d’arme uguali,
Ma ben fu di pietate Enea maggiore.
Io vi consiglio che, comunque sia,
465Lega seco, amicizia e pace aggiate,
E l’incontro fuggiate e l’armi sue.
Questa è la sua risposta; e quinci avete,
Ottimo re, qual sia di questa guerra
Il suo parere e ’l nostro. A pena uditi

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470Furo i Legati, che bisbiglio e fremito
Infra i turbati Ausoni udissi, in guisa
Che di rapido fiume un chiuso gorgo
Mormora allor che fra gli opposti sassi
S’apre la strada, e gorgogliando cade,
475E frange e rugghia, e le vicine ripe
Ne risuonan d’intorno. Or poichè un poco
Restò ’l tumulto, e gli animi acquetârsi,
Gli Dei prima invocando, un’altra volta
Il re da l’alto seggio a dir riprese:
     480Latini miei, lo mio parere e ’l meglio
Sarebbe stato, che d’un tanto affare
Si fosse prima consultato, e fermo
Il nostro avviso; e non chiamar consiglio,
Quando il nimico in su le porte avemo.
485Una importuna e perigliosa guerra
S’è, cittadini, impresa, e per nimica
Tolta una gente, che dal ciel discesa,
Da’ celesti e da’ fati è qui mandata;
Feroce, insuperabile, indefessa,
490Ne l’armi invitta, che nè vinta ancora
Cessa dal ferro. Se speranza alcuna
Negli esterni soccorsi e ne l’aita
Aveste degli Etòli, ora del tutto
La deponete: e sia speme a sè stesso

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495Ciascun per sè. Ma noi per noi, che speme
E che possanza avemo? Ecco davanti
Agli occhi vostri, e fra le vostre mani
Vedete la strettezza e la ruina
In che noi siamo. Nè però ne ’ncolpo
500Alcun di voi. Tutto ’l valor s’è mostro
Che mostrar si potea: con tutto ’l corpo,
E con quanto ha di forza il nostro regno
S’è combattuto. Or quale in tanto dubbio
Sia la mia mente, udite. È nel mio stato
505Vicino al Tebro un territorio antico,
Che in vèr l’occaso per lunghezza attinge
Fin dove de’ Sicani era il confine.
Dagli Rutuli è cólto e dagli Aurunci,
Che i duri colli e i più deserti paschi
510Ne tengon da l’un canto: a questo aggiungo
Quella piaggia di pini e quella costa
De la montagna; e tutto è mio disegno
Che si ceda a’ Troiani e ch’amicizia,
Accordo e patti e lega e leggi eguali
515Abbiam con essi: e qui, s’a qui fermarsi
Sono o da’ fati o dal desire indotti,
Ferminsi; e i loro alberghi e le lor mura
Fondino a lor diletto. E s’altra parte
Cercano ed altre genti (se pur ponno

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520Tôrsi da noi) quando di venti navi,
O di più sovvenir ne gli bisogni,
Su la stessa marina apparecchiata
È la materia. Essi de’ legni il modo
E ’l numero diranno: e noi le selve,
525La maestranza, i ferramenti e tutto
Che fia lor di mestiero appresteremo.
Con questa offerta io manderei de’ primi
De la nostra città cento oratori
Co’ rami de la pace, col mandato
530Di contrattarla, co’ presenti appresso
D’avorio e d’oro e col seggio e col manto
Del nostro regno. Consultate or voi,
Ed a l’afflitte e mal condotte cose
D’aita provvedete e di soccorso.
     535Surse allor Drance, quei che già s’è detto
Avversario di Turno. Era costui
Del regno de’ Latini un de’ più ricchi
E de’ più reputati cittadini:
Di fazïon, di séguito e di lingua
540Possente assai; ne le consulte avuto
Di qualche stima; nel mestier de l’armi
Codardo, anzi che no. La sua chiarezza
E ’l suo fasto venía da la sua madre
Ch’era d’alto legnaggio. Il padre a pena

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545Era noto a le genti. Or questo infesto
A la gloria di Turno, asperso il core
D’amarezza e d’invidia, in questa guisa
Il suo fatto aggravando, e l’ire altrui
Irritando, parlò: Chiaro, evidente
550E necessario, ottimo re, n’è tanto
Quel che tu ne consigli, che bisogno
D’altro non ha che di commune assenso.
Ognun vede, ognun sa quel che conviene
In sì dura fortuna; e nullo ardisce
555Pur d’aprir bocca. Libertate almeno
Di parlar ne si dia. Scemi una volta
Tanta sua tracotanza e tanto orgoglio
Chi co’ suoi male avventurosi auspíci,
Co’ sinistri suoi modi (io pur dirollo,
560Benchè d’armi e di morte mi minacci)
N’ha qui condotti, e per cui tanti duci,
Tanta gente è perita, e tutta in pianto
Questa cittade e questo regno è vòlto;
Mentre ne la sua furia, o ne la fuga
565Confidando piuttosto, il troian campo
Ha d’assalire osato, e fin nel Cielo
Posto ha con l’armi sue téma e scompiglio.
Solo un dono, signor, fra tanti doni
Che si mandano a’ Teucri, un sol n’aggiungi;

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570Nè consentir che vïolenza altrui
Tel proibisca. Da’, buon padre, ancora
Questa tua figlia a genero sì degno,
E con sì degno maritaggio eterna
Fa’ questa pace. E se ’l terrore è tanto
575Che s’ha di lui, da lui stesso impetriamo
Grazia e licenza che la patria sua,
Che ’l suo re prevaler si possa almeno
Del suo sangue a suo modo. E tu cagione,
Tu di tanta ruina autore e capo,
580A che pur tante volte a tanti strazi,
A tanti rischi, a manifesta morte
Questi tuoi meschinelli cittadini
Esponi indarno? e qual è ne la guerra
Più salute e speranza? A te noi tutti
585Pace, Turno, chiedemo, e de la pace
Quel ch’è sol fermo e ’nvïolabil pegno.
Ed io prima di tutti, io cui tu fingi
Che nimico ti sia (nè tal mi curo
Che tu mi tenga) a supplicar ti vegno
590Umilemente. Abbi pietà de’ tuoi;
Pon giù la stizza; e poi che sei cacciato,
Vattene. Assai di strage, assai di morti
S’è visto: assai ne son le genti afflitte
Vedovi i tetti e desolati i campi;

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595Ma se l’onor ti muove, e se concepi
Di te tanto in te stesso, e tanto agogni
O la donna o la dote, a che non osi
Contro a chi te ne priva? A Turno adunque
Regno col nostro sangue e regia moglie
600Procureremo: e noi vili alme, e turba
Non sepolta e non pianta, a’ cani in preda
Giaceremo in su’ campi? Or tu, tu stesso,
Se tanto hai d’ardimento e di valore
Dal paterno legnaggio, a lui rispondi,
605A lui ti volgi, che ti sfida e chiama.
     Turno ch’impetuoso e vïolento
Era da sè, questo parlare udito,
Alto un gemito trasse, e d’ira acceso
Così proruppe: Usanza tua fu sempre,
610Drance, allor che di mani è più bisogno,
Oprar la lingua; essere in corte il primo,
L’ultimo in campo. Ma non più parole
In questo loco, che già pieno troppo
Ne l’hai; pur troppo grandi e troppo gonfie
615L’avventi, e senza rischio or ch’i nemici
Son lunge, e buone fosse e buone mura
Ci son di mezzo, e non c’inonda il sangue.
Apri qui bocca al solito, e rintuona
Con la facondia tua. Tu, che sei Drance,

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620Me, che son Turno, imbelle e vile appella;
Tu la cui dianzi sanguinosa destra
Pieni i campi di morti, e pieni i colli
Ha di trofei. Ma che non pruovi ancora
Questa tua gran virtù? Forse ch’avemo
625A cercar de’ nemici? Ecco d’intorno
Ci sono, e ’n su le porte. Andrem lor contra?
Che badi? ov’è la tua tanta prodezza?
Sempre è nel vento, sempre è ne la fuga
De la lingua e de’ piè? tu mi rinfacci
630Ch’io sia cacciato? tu, vituperoso,
Di dirlo osasti? e chi meritamente
Sarà che ’l dica? Oh! non s’è visto il Tebro
Fatto gonfio da me del frigio sangue?
Non s’è vista la casa e ’l seme tutto
635Spento d’Evandro, e gli Arcadi spogliati
D’armi e di vita? Io non fui già da Pandaro
Cacciato, nè da Bizia, nè da mille
Che in un dì vincitore a morte io diedi,
Circondato da loro e cinto e chiuso
640Da le lor mura. Nulla è ne la guerra
Più salute o speranza: al teucro duce,
A te, folle, al tuo capo, a le tue cose
Fa’ questo annunzio. E non tutto in soqquadro
Por con tanta paura, e tanta stima

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645Che fai de la prodezza e de le forze
D’una gente che già due volte è vinta;
E non tanto avvilir da l’altro canto
L’armi del re Latino. Ai Mirmidóni
Son ora, al gran Dïomede, al grande Achille
650I Teucri formidabili e tremendi;
E dal mar se ne torna per paura
L’Àufido indietro. E forse che non finge
Temer di me, perchè il mio fallo aggravi?
Malvagia astuzia! Ma non più per nulla
655Vo’ che ne tema. Un’anima sì vile
Non ti torrà la mia destra già mai.
Stiesi pur teco, e nel tuo petto alloggi,
Di lei ben degno albergo. Or a te vegno,
Gran padre, e ’l tuo parer discorro, e dico:
     660Se tu più non t’affidi, e più non credi
Ne l’armi tue; s’abbandonati affatto
Siam d’ogni parte; se una volta rotti,
Siam per sempre perduti; e se fortuna,
Varïando le veci, unqua non cangia,
665Signor, pace imploriamo; e l’armi in terra
Gittando, a giunte mani accordo e venia
Impetriam dai nemici. Ancorchè, quando
Oh! del nostro valor punto in noi fosse,
Sopra tutti felice, riposato,

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670E glorïoso spirito sarebbe
Chi, per ciò non veder, morto si fosse.
Ma se le nostre forze ancor son verdi,
La nostra gioventù florida, intatta,
Disposta e pronta a l’armi; e per sossidio
675I popoli d’Italia e le cittadi
Son con noi tutte; e s’a’ nemici ancora
Sanguinosa, dannosa e poco lieta
È questa gloria; ed han de’ morti anch’essi
La parte loro; e la tempesta è pari
680D’ambe le parti; a che nel primo intoppo
Con tanto scorno, a noi stessi mancando,
Gittarne a terra? a che tremare avanti
Che la tromba si senta? A la giornata
Il tempo stesso, il varïar de’ casi,
685L’industria, le vicende, il moto e ’l giuoco
Potria de la fortuna in molte guise,
Come suol l’altre cose, ancor le nostre,
Cangiando, risarcire, e porre in saldo.
Non avrem Dïomede in nostro aiuto;
690Avrem Messápo; avremo il fortunato
Tolunnio; avrem tant’altri incliti duci
Di tant’altre città. Nè di men gloria,
Nè di minor vertù saranno i nostri
Di Laurento e di Lazio. Avrem Camilla,

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695La gran volsca virago, che n’addusse
Di cavalieri e di caterve armato
Sì bella gente. E se me solo appella
Il nemico a battaglia, e se v’aggrada
Che sol io gli risponda ed io sol osto
700Al ben comune, io solamente assumo
Sopra me questa impresa. E già non credo
Che le mie man sì la vittoria abborra,
Che per tanta, ch’io n’aggia, e speme e gioia
Accettar non la deggia. Andrògli incontro
705Con l’animo, se fosse anco maggiore
Del magno Achille, e come Achille, anch’egli
L’armi di Mongibello indosso avesse.
Io Turno, io che non punto a qual si fosse
Mai degli antichi di valor non cedo,
710Questa mia vita stessa a voi, Latini,
Ed a Latin mio suocero consacro
Solennemente. Enea me solo invita.
L’accetto, il bramo e ’l prego, anzi che Drance,
S’ira è questa di Dio, con la sua morte
715La purghi, o che la gloria me ne tolga,
S’è pur gloria o vertute. In cotal guisa
Consultando i Latini avean tra loro
Dispareri e tenzoni. Usciti a campo
Erano i Teucri intanto. Ed ecco un messo

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720Venir volando, che la reggia tutta
E tutta la città pose in tumulto,
Annunzïando che dal tosco fiume
Già mosso de’ Troiani e de’ Tirreni
Se ne venía l’essercito in battaglia
725In vèr Laurento; e che di génti e d’armi
Si vedean piene le campagne e i colli.
     Gli animi incontinente si turbaro;
Sgomentossene il volgo: ai valorosi
S’acceser l’ire. Trepidando ognuno
730Discorrea per le strade; arme fremea
La gioventù; dolenti e lagrimosi
I padri discordando, e chi per Turno
Sentendo e chi per Drance, avean tra loro
Vari bisbigli. E tutto il corpo insieme
735Facea de la città tale un trambusto,
E tal ne l’aura unitamente un suono,
Qual è se spaventata esce d’un bosco
Torma di rochi augelli, o qual talora
Da le pescose rive di Padusa
740Van per gli stagni schiamazzando a schiere
Turbati i cigni. In tale occasïone
Gridava Turno: Or questo è, Padri, il tempo
Di sedere a consiglio: or consigliate
Agiatamente: aggiate sopra tutto

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745Cura a la pace or ch’i nemici armati
Ne son già sopra. E, così detto a pena,
Saltò fuor de la reggia; e vòlto a torno,
Arma, disse, tu, Vòluso, i tuoi Volsci,
E tu, Messápo, i rutuli cavalli.
750Tu, Catillo, e tu Cora, uscite a campo:
Va tu con la tua gente a la muraglia
Incontinente; e tu dispensa i tuoi
Fra le porte e le torri. Ite voi meco,
Che rimanete; e ciascuno armi i suoi.
     755Per tutta la città si va scorrendo
A le mura. A l’insegne, ai capitani
Ognun s’adduce. I padri irresoluti
Se n’escon dal consiglio. Il re turbato
Si ritira, e si pente che non aggia
760Per sè, senza consulta, il frigio duce
Per amico e per genero accettato.
Dansi tutti a munire, a cavar fosse,
Tutti a somministrar chi sassi e travi,
E chi dardi e chi strali. E già la roca
765Tromba ne va per la città squillando
De la battaglia il sanguinoso accento.
Le matrone, i fanciulli, i vecchi, ognuno
D’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni grado
A l’ultimo periglio, al gran bisogno

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770Corrono a la muraglia. E d’altra parte
Da gran corteo di donne accompagnata
Con doni e preci di Minerva al tempio
Va la regina, ed ha Lavinia seco,
La vergine sua figlia, onde venuta
775Era tanta ruina; e di ciò mesta,
Porta i begli occhi lagrimosi e chini.
Seguon le madri e d’odorati incensi
Vaporando il delubro, in flebil voce
Pregano in su la soglia: Armipotente
780Tritonia, tu che puoi, la possa e l’armi
Frangi al frigio ladrone, e di tua mano
Anciso in su la porta me lo stendi.
     Esso re Turno da la furia spinto
Ricorre a l’armi; e di squamoso acciaro
785E d’òr già tutto orribile e splendente,
Cinto di brando, e sol del capo ignudo
Lieto mostrossi, e di speranza altiero
Di vedere il nemico. E ’n quella guisa
Da la ròcca scendea che da’ presepi
790Sciolto destriero esce ruzzando in campo,
O ch’amor di giumente, o che vaghezza
Di verde prato, o pur desio lo tragga
Del noto fiume; che sbuffando freme,
E ringhia e drizza il collo e squassa il crine.

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     795A l’uscir de la porta ecco davanti
Gli si fa co’ suoi volsci cavalieri
La vergine Camilla; e sì com’era
Non men gentil che valorosa e bella,
Tosto che l’incontrò con tutti i suoi
800Dismontò da cavallo, e vèr lui disse:
Turno, se degnamente uom forte ardisce,
Io mi rincoro, e ti prometto io sola
Di gire ai cavalier toscani incontro.
Lascia me col mio stuolo assalir prima
805La troiana oste, e che primiera io tragga
Di questa pugna e de’ suoi rischi un saggio.
E tu qui co’ pedoni a piè rimanti
A guardia de la terra. A tal proposta
Turno ne la terribile virago
810Gli occhi fissando: O de l’Italia, disse,
Ornamento e sostegno, e di che lode,
E di che premio al tuo gran merto uguale
Ristorar ti poss’io? Ma (poichè cosa
Non è che la pareggi) abbi, famosa
815Guerriera, in grado ch’io con te comparta
Questa fatica. Enea, come dal grido
Avemo e da le spie fin qui ritratto,
Spinte ha le schiere de’ cavalli avanti
Per batter la campagna: ed egli altronde

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820Presa la via del monte, per alpestro
Sentiero a la città di sopra al giogo
Vien con l’altre sue genti. Il mio disegno
È fargli agguato, e collocarmi appresso
Là ’ve sopra la foce il doppio bosco
825Del curvo monte ambe le strade accoglie.
Tu, raünati i tuoi con gli altri tutti
Nostri cavalli, i suoi nel piano assagli
A spiegate bandiere. Il fier Messápo
Sarà con te: saranvi de’ Latini,
830Vi saran di Coràce e di Catillo
Le squadre tutte; e tu con essi il carco
Prendi di comandarle. Indi essortando
Parimente Messápo e gli altri duci
A la lor fazïone, egli a la sua
835Tostamente si volse. È tra due branche
Del monte una vallea che d’ambi i lati
Ha folte selve, e luoghi occulti e chiusi,
A l’insidie de l’armi accomodati.
Ha ne l’imo una semita per mezzo
840Angusta, malagevole e scontorta
Che d’ogn’intorno è da le ripe offesa.
In cima in su l’uscita è tra le selve
Ascosa una pianura, con ridotti
Acconci a ritirarsi, ed opportuni

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845A spingersi o dal destro o dal sinistro
Lato, che si rincontri o che s’aspetti
Nemica gente, o pur che di gran sassi
Si tempesti di sopra. A questo loco,
Di cui ben era pratico, in agguato
850Turno si pose, e i suoi nimici attese.
     Dïana intanto timorosa, e mesta
Favellando con Opi, una del coro
De le sue Ninfe, in tal guisa le disse:
Vedi a che perigliosa e mortal guerra
855A morir se ne va la mia Camilla,
Ne le nostr’armi ammaestrata invano.
E pur m’è cara, e sovr’ogni altra io l’amo.
Nè questo è nuovo o repentino amore.
Fin da le fasce è mia. Mètabo, il padre
860Di lei, fu per invidia e per soverchia
Potenza da Priverno, antica terra,
Da’ suoi stessi cacciato; e da l’insulto,
Che gli fece il suo popolo, fuggendo,
Nel suo misero essiglio ebbe in compagna
865Questa sola bambina, che mutato
Di Casmilla sua madre il nome in parte,
Fu Camilla nomata. Andava il padre
Con essa in braccio per gli monti errando
E per le selve, e de’ nemici Volsci

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870Sempre d’intorno avea l’insidie e l’armi.
Ecco un giorno assalito con la caccia
Dietro, fuggendo, a l’Amasèno arriva.
Per pioggia questo fiume era cresciuto,
E rapido spumando, infino al sommo
875Se ne gía delle ripe ondoso e gonfio;
Tal che, per téma de l’amato peso,
Non s’arrischiando di passarlo a nuoto,
Fermossi: e poichè a tutto ebbe pensato,
Con un súbito avviso entro una scorza
880Di salvatico suvero rinchiuse
La pargoletta figlia. E poscia in mezzo
D’un suo nodoso, inarsicciato e sodo
Tèlo, ch’avea per avventura in mano,
Legolla acconciamente; e l’asta e lei
885Con la sua destra poderosa in alto
Librando, a l’aura si rivolse, e disse:
     Alma Latonia virgo, abitatrice
De le selve e de’ monti, io padre stesso
Questa mia sfortunata figlioletta
890Per ministra ti dedico e per serva
Ecco ch’a te devota, a l’armi tue
Accomandata, dal nimico in prima
Sol per te la sottraggo. In te sperando
A l’aura la commetto; e tu per tua

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895Prendila, te ne prego, e tua sia sempre.
     Ciò detto, il braccio in dietro ritraendo,
Oltre il fiume lanciolla: e ’l fiume e ’l vento
E ’l dardo ne fer suono e fischio e rombo.
Mètabo, da la turba sopraggiunto
900De’ suoi nemici, a nuoto alfin gettossi,
E salvo a l’altra riva si condusse.
Ivi d’un verde cespo, ove piantato
Avea Trivia il suo dono, il dardo e lei
Divelse, e via fuggissi; e più mai poscia
905Non fu da tetti o da cittadi accolto;
Chè per natia fierezza a legge altrui
Non si fòra unqua additto. Il tempo tutto
De la sua vita di pastore in guisa,
Menò per monti solitari ed ermi;
910E per grotte e per dumi e per orrende
Selve e tane di fere ebbe ricetto
Con la fanciulla, a cui fu cibo un tempo
Ferino latte, e balia una d’armento
Ancor non doma e pavida giumenta.
915Ne le tenere labbra il padre stesso
De la fera premea l’orride mamme,
Nè pria tenne de’ piè salde le piante,
Che d’arco, di faretra e di nodosi
Dardi le mani e gli omeri gravolle.

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920Non d’òr le chiome, o di monile il collo,
Nè men di lunga o di fregiata gonna
La ricoverse; ma di tigre un cuoio
Le facea veste intorno, e cuffia in capo.
Il fanciullesco suo primo diletto
925E ’l primo studio fu lanciar di palo,
E trar d’arco e di fromba: e ’n fin d’allora
Facea strage di gru, d’oche e di cigni.
Molte la desiâr tirrene madri
Per nuora indarno. Ed ella di me sola
930Contenta, intemerata e pura e casta
La sua verginità, l’amor de l’armi
Sol ebbe in cale. Or mio fòra disio
Che di questa milizia e de la pugna,
Che presa ha co’ Troiani e co’ Tirreni,
935Fosse digiuna; per sì cara io l’aggio,
E tale or mi saria grata compagna.
Ma poi che acerbo fato la persegue,
Scendi, ninfa, dal cielo, e nel paese
Va’ de’ Latini. Ivi al conflitto assisti,
940Che per Lazio e per lei mal s’apparecchia.
Prendi quest’arco e prendi questa mia
Stessa faretra, e di qui traggi il tèlo
Per vendicarmi di qualunque ardito
Sarà di vïolar quest’a me sacra

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945E devota virago; Italo, o Teucro
Che sia. Poscia io verrò di nube involta
A provveder che ’l miserabil corpo
Non sia d’armi spogliato, e che raccolto
Sia ne la patria, e seppellito e pianto.
     950Così dicendo, entro un sonoro nembo,
Da’ mortali occhi non veduta, a terra
Lievemente calossi. I teucri intanto
E i toschi duci le lor genti avanti
Spingendo, a la città s’avvicinaro.
955Piena d’armi, d’insegne, di cavalli
E di schierati fanti e di squadroni
Si vedea la campagna. Eran per tutto
Gualdane, giramenti, scorribande
Di cavalieri: in secche selve i colli
960Parean conversi: ardea la terra e ’l cielo
Di ferrigni splendori, e d’ogni parte
S’udian fremer cavalli e squillar trombe.
     Incontro a lor da l’altra parte usciro
Il fier Messápo, i cavalier latini,
965Corace col suo frate, e di Camilla
La bellicosa banda. Era il concorso
Tuttavia de le genti, e de’ cavalli
Il fremito maggiore. E già la massa
Ristretta, e già vicine ambe le parti

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970A tiro d’asta, a fronte si fermaro
L’una de l’altra; e con le lance in resta,
Con saette e con dardi incominciaro
Primamente da lunge a salutarsi.
Poi di subite grida udito un tuono
975Al ciel levossi; e due contrari nembi
Da la terra sorgendo, armi fioccaro
Di neve in guisa, e coprîr d’ombra il sole.
Alfin da ciascun lato i destrier punti
Andâr tutti con tutti a rincontrarsi.
     980Era Tirreno al fiero Aconte opposto
Ne la battaglia; e questi primamente
S’urtaro, e per la furia e per la forza
De l’urto ambe le lance, ambi i cavalli,
Ed ambi i corpi infranti, stramazzati,
985L’un da l’altro disgiunti, quai percossi
Da fulmine o da macchine avventati,
Caddero a terra. E pria ne l’aura Aconte
Lasciò la vita. Conturbate e sparse
Le schiere de’ Latini, incontinente
990Con le targhe rivolte a tutta briglia
Vèr le mura spronando in fuga andaro.
Gli seguiro i Troiani; e prima Asila
Gli assalse e gli cacciò fin su le porte.
Qui fermi e rincorati alzan le grida,

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995Volgon le teste, e si rifan lor sopra,
Ch’eran lor contra. Così quando questi,
E quando quelli or cacciano, or cacciati
Tornano; in quella guisa ch’a vicenda
Il mare or d’alto a riva i flutti increspa,
1000E ne l’ultima arena ondeggia e spuma;
Or da la riva indietro se ne torna,
E le stess’onde, e la commossa ghiara
Sorbendo e voltolando, si ritragge.
Due volte i Toschi i Rutuli incalzaro
1005Fino a le mura; e i Rutuli due volte
Risospinsero i Toschi. Al terzo assalto
Mischiârsi ambe le schiere, e l’un con l’altro
Vennero a zuffa. Allor le grida e i mugghi
Si sentir de’ cadenti: allor si vide
1010Il pian tutto di sangue, e tutto d’armi
E d’uomini coverto e di cavalli
Feriti e morti. Orsíloco a rincontro
Di Rèmolo trovossi; e non osando
Di star seco a le mani, al suo cavallo
1015Trasse del dardo, e ’n su l’orecchio il colse.
Del colpo impazïente e per sè fiero
Si scosse, s’avventò, col petto in alto
E con le zampe il corridor levossi,
E ’n su l’arena il cavalier distese.

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1020Catillo Iola e ’l grande Erminio uccise;
Erminio, che di corpo e d’armi e d’animo
Era de’ più robusti, de’ più chiari
E de’ più riguardevoli guerrieri
De’ Toschi tutti. Avea la chioma stessa
1025Per sua celata; avea gli omeri ignudi
Di ferro al ferro esposti, e di ferite
Ampio bersaglio. In su l’aperte spalle
Catillo il colse; e tremolando il tèlo
Passògli il petto, e raddoppiògli il duolo.
1030Per tutto si fa sangue; in ogni parte
Si tragge, si ferisce, si stramazza:
E chi cede e chi segue. In varie guise
Ne van tutti a morir morte onorata.
     In mezzo a tanta occisïone, ignuda
1035Da l’un de’ lati infurïando essulta
La vergine Camilla; ed or di dardo
Fulminando, or di lancia, or di secure
Non mai stanca percuote. E qual Dïana
Di sonora faretra e d’arco aurato
1040Gli omeri onusta, ancor che si ritragga,
Saettando, ferite e morti avventa.
D’intorno ha per compagne e per guerriere
D’archi, di mazze e di bipenni armate,
Tulla, Tarpèa, Larina ed altre illustri

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1045Italiche donzelle, a suo decoro
Scelte da lei per sue degne ministre
Ne la pace e ne l’armi. In tal sembianza
Termodoonte il bellicoso stuolo
De l’Amazzoni sue vide in battaglia
1050Attorneggiare Ippolita, o col carro
Gir di Pentesilèa le schiere aprendo
Con feminei ululati. Or chi fu prima,
Chi poi, cruda virago, e quali e quanti
Quei ch’abbattesti, e che di vita spenti
1055Mandasti a l’Orco? Eumenio primamente
Di Clizio il figlio, da costei trafitto
Fu d’un colpo di lancia in mezzo al petto.
Cadde il meschino, e fe di sangue un rivo,
Sopra cui voltolandosi, e mordendo
1060Il sanguigno terren, di vita uscío.
Indi va sopra a Liri e sopra a Pègaso
Quasi in un tempo, a l’un mentre, inciampando
Il suo destriero, il fren raccoglie; a l’altro
Mentre a lui, che trabocca, il braccio stende
1065Per sostenerlo: onde in un gruppo entrambi
Precipitaro. A cui d’Ippòta il figlio
Amastro aggiunse, e via seguendo, Arpálico
E Tèreo e Cromi e Demofonte occise.
Quanti dardi lanciò, tanti Troiani

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1070Gittò per terra. Orníto, un cacciatore,
Gli gía davanti, e stranamente armato
Cavalcava di Puglia un gran destriero:
Per sua corazza avea d’ispido toro
Un duro tergo; per celata un teschio
1075Di lupo che dal capo insino al mento
Sbarrava le mascelle, e digrignando
Mostrava i denti. In man portava, ad uso
Di contadini, un nodoroso palo
Di grave ronca armato. Egli nel mezzo
1080Degli altri suoi con le due teste andava
Sovrano a tutti, e le ferine orecchie
Ergea di cresta e di pennacchi in vece.
Camilla il giunse, lo fermò, l’occise
Senza contrasto: già che volta in fuga
1085Era la schiera sua. Sovra al suo corpo
Disse rimproverando: E che pensasti,
Tosco insolente? di venire a caccia
In qualche selva, e seguir damme imbelli?
Venuto sei là ’ve una dama armata
1090Col ferro amaramente vi rintuzza
La superbia e la lingua. Oh pur non poco
Ti fia di vanto, referendo a l’ombre
De’ tuoi: per man fui di Camilla occiso.
     Indi Orsíloco assalse, e Bute appresso,

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1095Due corpi de’ maggiori e de’ più forti
Del troian oste. A Bute un colpo trasse
Che ’l giunse ove tra l’elmo e la corazza
Si scopre il collo, onde lo scudo appeso
Sta da sinistra. Orsìloco, fuggendo
1100E gridando, gabbò; ch’al giro interno
S’attenne e strinse; e là ’ve era seguita,
Seguitò lui. Gli fu sopra in un tempo
A colpi di secure, e l’armi e l’ossa
Gli pestò sì che per suo scampo a’ prieghi
1105Si volse. Alfine un tal sopra la testa
Ne gli piantò, che le cervella infrante
Gli schizzâr da la fronte e da le tempie.
     D’Aüno montanar de l’Appennino
Il bellicoso figlio a l’improvviso
1110Fu da lei colto: un Ligure scaltrito,
Che per ordire inganni (in fin che ’l fato
Gliel concedè) non degli estremi avuto
Era tra’ suoi. Costui nel primo incontro
Sbigottito fermossi. E poichè vide
1115Non poter con la fuga a lei sottrarsi,
Che gli era sopra, a la malizia usata
Ricorrendo, Oh! gran prova, a dir comincia,
Sarà la tua, se ben femina sei,
Di sfidar me, quando un caval t’affidi

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1120Sì fugace e sì forte. Or al vantaggio
Rinunzia de la fuga e meco a piede
Prendi zuffa del pari; e poi vedrassi
A cui questa ventosa tua bravura
Onore acquisti. A cotal dir Camilla
1125Di furia, di dolor, di sdegno ardendo
Ratto dismonta; e ’l corridor deposto
In man de la compagna, a piè si pianta;
Stringe la spada, imbracciasi lo scudo
E con pari armi intrepida l’attende.
1130Il giovine, che vinto si credette
Aver con quello avviso, incontinente
La groppa le mostrò del suo cavallo,
E via spronando a tutta briglia il pinse.
Ligure vano, vano orgoglio in prima
1135Ti mosse; or vana astuzia e vana fuga
Sarà la tua; chè l’arte del fallace
Tuo padre, e di tua patria, a far non basta
Che vivo da le man mi ti ritolga.
Disse la virgo, e qual da cocca strale
1140Dietro gli si spiccò: ratto l’aggiunse,
Passollo, attraversollo, al fren di piglio
Diedegli; lo ferì, l’ancise alfine.
Così d’un alto sasso agevolmente
Sparvier grifagno al timido colombo

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1145S’avventa, e lo ghermisce; onde in un tempo
Sangue e piuma dal ciel neviga e piove.
     In questa, de’ mortali e de’ celesti
L’eterno regnator, che pur talvolta
Alcun de’ raggi suoi vèr noi rivolge,
1150Non con lieve disdegno o picciol’ira
Mosse Tarconte a sovvenir le schiere
De’ suoi ch’erano in volta. Egli per mezzo
Va de l’occisioni e de le mischie,
Or il destrier contra i nemici urtando,
1155Or le sue squadre inanimando, insieme
Le ristringe, le instiga, le garrisce,
E per nome ciascun chiamando, Ah, disse,
Tirreni, e che timore, e che spavento
È ’l vostro? che viltà, che codardia
1160V’ha presi? e quando mai fia che vi punga
O dolore, o vergogna? Adunque in fuga
Gite per una femina? una femina
Vi disperde e v’ancide? A che di ferro
Invan così le destre e i petti armate?
1165De le donne temete? E pur di loro
Sì timidi di notte, nè sì fiacchi
Negli assalti di Venere non siete,
Nè quando a suon di pifferi intimati
Vi sono i baccanali. Or via, campioni

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1170Da letti e da bottiglie, a nozze, a pasti,
A sacrifici, allor che ne le sacre
Foreste è da l’aruspice intonato
Che la vittima è grassa, itene tutti
Seco a goder del saginato bue
1175A piena pancia; chè null’altro amore,
Null’altro studio è ’l vostro. E, ciò dicendo,
Ne va come devoto a morte anch’egli.
Con Vènolo s’affronta; e sì com’era
Turbato, l’aggavigna, e fuor lo tragge
1180Del suo cavallo. Alto levossi un grido
Tal, che tutti a veder le ciglia alzaro
I Latini e i Tirreni. Iva Tarconte
Per la campagna con la preda in grembo
Del nimico e de l’armi; e ’n mezzo al corso
1185Svelge da l’asta sua medesma il ferro,
E cerca ov’è di piastra il corpo ignudo
Per darli morte. E mentre ne la gola
Tenta ferirlo, ei con le braccia in alto
Si scherma, regge il colpo, e da la forza
1190Quanto può con la forza si districa.
     Come ne l’aria insieme avviticchiati
Si son visti talor l’aquila e ’l serpe
Pugnar volando, e l’una aver con l’ugne
E col becco ghermito e morso l’altro;

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1195E l’altro co’ suoi giri e co’ suoi nodi
Farle vincigli a’ piè, volumi a l’ali;
E questo con la testa alto fischiando,
E quella schiamazzando, e dibattendo,
Ambedue voltolarsi, ambedue stretti
1200Far di squame e di piume un sol viluppo;
Così Tarconte per lo campo a volo,
Vincitor de le schiere di Tiburte,
Vènolo sèn portava. E questo essempio
Del suo duce seguendo, e del successo
1205Assecurata, la meonia torma
Tutta contr’a Latini impeto fece.
Tra questi Arunte, un che di già dovuto
Era al suo fato, con un dardo in mano
Camilla astutamente insidiando,
1210Si diede a seguitarla, a circuirla;
A cercar destra e commoda fortuna
Di darle morte. Ovunque ella o per mezzo
Fendea le schiere, o vincitrice indietro
Si ritraea, l’era vicino Arunte;
1215E tutti i moti suoi, tutte le vie
Osservando, attendea che netto il colpo
Gli riuscisse, e da fellone intanto
Avea l’asta a ferir librata e pronta.
     Giva per avventura a lei davanti

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1220Cloro un giovine ideo, che sacerdote
Era già di Cibele. I Frigi tutti
Non avean chi di lui fosse ne l’armi
Più riccamente adorno. Un suo corsiero
Per lo campo spingea, di spuma asperso,
1225Cinto di barde e d’acciarine lame
Come di scaglie e di leggiadre piume
Leggiadramente inteste. Un arco d’oro
Gli pendea da le spalle, una faretra
A la cretese. In testa, in gambe, in dosso,
1230D’armi e d’arnesi in barbara sembianza,
Di peregrina purpura e di seta,
Di bisso, di teletta e d’ostro e d’oro
Tutto coverto, tutto ricamato,
Tutto trinciato; e saettando andava.
     1235Costui veduto, ogni altra impresa indietro
Lasciando, a lui si volse o per vaghezza
Di consecrar le sue bell’armi al tempio,
O pur che di sì vago ostile arnese
Di gir pomposa cacciatrice amasse.
1240Basta che per le schiere incauta, ardente,
E, come donna, vogliolosa e folle
De l’amor de la preda e de le spoglie,
Contro a lui se ne giva; allor ch’Arunte,
Dopo molto appostarla, alfin le trasse,

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1245In tal guisa pregando: O di Soratte
Sommo custode Apollo, a cui devoti
Noi fummo in prima, a cui di sacri pini
Nutriamo il foco, e per cui nudi e scalzi
Tra le fiamme saltando e per le brage
1250Securamente e senza offesa andiamo.
Dammi, chè tutto puoi, padre benigno,
Che questa infamia per mia man si tolga
Da l’armi nostre. Io di costei non bramo
Armi, spoglie o trofeo. Gli altri miei fatti
1255Mi sian di lode, e pur che questo mostro
Caggia spento da me, ne la mia patria
Senza più gloria andrò, di questa guerra
Pago e contento. Udì Febo del voto
Parte, e parte per l’aura ne disperse.
1260Udì che morta da quel colpo fosse
La vergine Camilla; e non udío
Di lui, ch’ei vivo in patria ne tornasse;
Chè ciò per l’aura ne portaro i venti.
     Tosto che da le man l’asta ronzando
1265Gli uscío, fur gli occhi e gli animi e le grida
De’ Volsci tutti a la regina intenti.
Ed ella nè del tèlo, nè de l’aura
Moto o fischio sentì; nè vide il colpo,
Mentre giù discendea, finchè non giunse.

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1270Giunsele appunto ove divelta e nuda
Era la poppa; e del virgineo sangue,
Non già di latte, sitibonda scese
Sì che ’l petto l’aprì. Le sue compagne
Le fur trepide intorno: e già che morta
1275Cadea, la sostentaro. Arunte in fuga
Ratto si volge, di paura insieme
Turbato e di letizia; chè ne l’asta
Più non confida, e più di star non osa
Incontro a lei. Qual affamato lupo
1280Ch’occiso de l’armento un gran giovenco,
O lo stesso pastore, in sè confuso
Di tanta audacia, anzi che da’ villaggi
Gli si levin le grida, infra le gambe
Si rimette la coda, e ratto a’ monti
1285Fuggendo si rinselva: in cotal guisa
Arunte, dopo ’l tratto, impaurito,
Solo a salvarsi inteso, in mezzo a l’armi
Si mischiò tra le schiere. Ella morendo
Di sua man fuor del petto il crudo ferro
1290Tentò svelgersi indarno; chè la punta
S’era altamente ne le coste infissa:
Onde languendo abbandonossi, e fredda
Giacque supina; e gli occhi, che pur dianzi
Scintillavano ardor, grazia e fierezza,

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1295Si fer torbidi e gravi. Il volto, in prima
Di rose e d’ostro, di pallor di morte
Tutto si tinse. In tal guisa spirando
Acca a sè chiama, una tra l’altre sue
La più fida di tutte e la più cara;
1300E dice: Acca, sorella, i giorni miei
Son qui finiti: questa acerba piaga
M’adduce a morte, e già nero mi sembra
Tutto che veggio. Or vola, e da mia parte
Di’ per ultimo a Turno, che succeda
1305A questa pugna e la città soccorra:
E tu rimanti in pace. A pena detto
Ebbe così, che abbandonando il freno
E l’arme e sè medesma, a capo chino
Traboccò da cavallo. Allora il freddo
1310L’occupò de la morte a poco a poco
Le membra tutte. E, dechinato il collo
Sopra un verde cespuglio, alfin di vita
Sdegnosamente sospirando uscío.
     Camilla estinta, per lo campo un grido
1315Levossi che n’andò fino a le stelle,
E surse al cader suo zuffa maggiore:
Chè i Teucri e i Toschi gli Arcadi in un tempo
Pinsero avanti. Opi, ministra intanto
Di Trivia, che nel monte era discesa

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1320Vicino a la battaglia, indi il conflitto
Stava mirando intrepida e sicura,
E visto di lontan tra molte genti
Nascer nuovo tumulto e nuove grida,
Poscia in mezzo di lor caduta e morta
1325La vergine Camilla, Ah, sospirando
Disse, virgo infelice! troppo, troppo
Crudel supplizio hai de l’ardir sofferto,
Se d’irritar l’armi troiane osasti.
E di che pro t’è stato a viver nosco
1330Solinga vita, armar de l’armi nostre,
Gradire i boschi e venerar Dïana?
Ma te non lascerà la tua regina
Giacer disonorata in questa fine
De la tua vita: e la tua morte oscura
1335Non sarà tra le genti; e non dirassi
Che non è chi di te vendetta faccia;
Chè chïunque di ferro avrà ferito
Il corpo tuo, sarà meritamente
Di ferro anciso. Era a Dercenno, antico
1340Re de’ Laurenti, un gran sepolcro eretto,
Cui sopra era di terra un monte imposto
E d’elci annosi e folti un bosco opaco.
Qui la veloce Dea dal ciel calossi
Al primo volo; e di qui visto Arunte

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1345Splender ne l’armi, e gir di sua follia
Superbo e gonfio, Ove ne vai? diss’ella,
Qui convien che ti fermi, e qui morendo
De la morta Camilla il premio avrai
Degno di te, se di perir sei degno
1350De l’armi di Dïana. E, ciò dicendo,
La buona arciera del turcasso aurato
Trasse un acuto strale, e l’arco tese,
E tirò sì ch’ambe le corna estreme
Vennero al mezzo, ed ambe parimente
1355Le mani, una tirata e l’altra spinta.
Quella toccò la poppa e questa il ferro.
L’arco, l’aura, lo stral sonare udío,
E ferir e morir sentissi Arunte
Tutto in un tempo. I suoi quasi in oblio
1360Così come spirava, in mezzo al campo
Lo lasciâr fra la polve in abbandono:
Ed Opi al ciel tornando a volo alzossi.
     Caduta lei, la schiera di Camilla
Primieramente in fuga si rivolse:
1365Indi turbârsi i Rutuli, e diêr volta.
Diè volta il fiero Atína; e i duci tutti,
E tutte fur le insegne abbandonate.
Cerca ognun di salvarsi, e vèr le mura
Ne vanno a tutta briglia, e più nel campo

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1370Alcun non è che di far testa ardisca
Contra la strage e contra la ruina
Che fanno i Teucri. Se ne van con gli archi
Scarichi in su le terga e spenzoloni;
E più che di galoppo in vèr Laurento
1375Battono il campo, e fan nubi di polve.
Le madri da’ balconi e da’ torrazzi
Percossi i petti, alzano al ciel le grida
Con femineo ululato. E quei che primi
Giunti trovâr le porte ancor non chiuse,
1380Mischiati co’ nemici, ove più salvi
Si credean ne l’entrata e fra le mura
De la stessa lor patria, anzi agli alberghi
Lor propri e da’ nemici e da la morte
Fur sopraggiunti. In cotal guisa in prima
1385Stette la porta agli avversari aperta.
Poi chiusa escluse i suoi, che fuori in preda
Restando de’ nemici, ai lor più cari,
Che morir gli vedean, perchè s’aprisse
Supplicavano indarno. E qui tra quelli
1390Che n’erano a difesa, e quei ch’a forza,
Anzi a furia, a ruina incontro a loro
S’avventavan ne l’armi, orrenda strage
Si fece e miseranda. E degli esclusi
Altri in cospetto degli stessi padri,

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1395E de le madri che dogliose grida
Ne facean da le torri e da le mura,
Da l’impeto cacciati o da la calca
Precipitâr ne’ fossi, e giù da’ ponti
Cadder sospinti; ed altri ne la fuga
1400Da’ sfrenati cavalli e da la cieca
Lor furia trasportati, a dar di cozzo
Gîr ne le chiuse porte. In su’ ripari
Ancor le donne (che le donne ancora
Il vero della patria amore infiamma),
1405Come giunte a l’estremo, allor che morta
Vider Camilla, il feminil timore
Volgono in sicurezza, e sassi e dardi
Lanciando, e con aguzzi inarsicciati
Pali il ferro imitando, osano anch’elle
1410Per la difesa delle patrie mura
Gír le prime a morir morte onorata.
     A Turno intanto ne le selve arriva
Acca, la già spedita messeggiera,
Con l’amara novella; un gran tumulto
1415Portando, che l’essercito è sconfitto,
Morta Camilla, annichilati i Volsci,
E i Teucri d’ogni cosa impadroniti
Stanno in campagna col favor che porta
Seco de la vittoria il corso e ’l nome;

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1420Spingonsi avanti; e già pianto e paura
Assalgon la città. D’ira, di sdegno
E di furore il giovine infiammato
(Chè tale era il voler empio di Giove)
Da l’insidie si toglie, esce de’ boschi
1425Ov’era ascoso, e giù scende da’ colli.
Smarrito non gli avea di vista a pena,
A pena era nel piano, allor ch’Enea
Prese del monte; e là ’v’era l’agguato,
Trovando aperto, senz’offesa anch’egli
1430Superò ’l giogo, e de la selva uscío.
Così con passi frettolosi entrambi
Con tutte le lor genti, e l’un da l’altro
Poco lontani a la città sèn vanno.
E ’nsiememente da l’un canto Enea
1435Vide di polverío fumare i campi,
E di Laurento sventolar l’insegne;
Turno da l’altro Enea scoperse, udendo
L’annitrir de’ cavalli e ’l calpestio
Crescer di mano in mano. Eran vicini
1440Sì, che venuto a zuffa ed a battaglia
Si fòra anco quel dì, se non che Febo,
Fatto vermiglio, i suoi stanchi destrieri
Stava già per tuffar ne l’onde ibere.
Onde avanti a le mura ambi accampati
1445Di trincee si muniro e di ripari.

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Libro Duodecimo.


     Turno, poscia che vede afflitti e domi
Già due volte i Latini, e non pur scemi
Di forze, ma di speme e di baldanza,
Da lui farsi rubelli, e che a lui solo
5Ognun rivolto in tanto affare attende
Le pruove, le promesse e i vanti suoi,
Furïoso, implacabile, inquïeto
Arde, s’inanimisce, e si rinfranca
Prima in sè stesso. Qual massíla fera
10Ch’allor d’insanguinar gli artigli e ’l ceffo
Disponsi, allor s’adira, allor si scaglia
Contra chi ’l caccia, che da lui si sente
Gravemente ferito; e già godendo
De la vendetta, sanguinoso e fiero
15Con le iube s’arruffa, e con le rampe
Frange l’infisso tèlo e graffia e rugge;
Così la vïolenza era di Turno
Accesa, impetuosa e furibonda;
E così conturbato appresentossi

[p. 565 modifica]

20Al re davanti, e disse: Indugio, o scusa
Più non fa Turno; e più non ponno i Teucri
Da quel ch’è patteggiato e stabilito,
Se non se per viltà, ritrarsi omai.
Eccomi in campo: ecco parato e pronto
25Sono al duello. Or fa’, padre, che ’l patto
Sia fermo e rato e sacro; e i sacrifici
E ’l giuramento appresta. Oggi, signore,
Sii certo ch’io con le mie mani a morte
Questo de l’Asia fuggitivo adduco,
30E ’l difetto di tutti io solo ammendo
(Stiansi pure a vedere i tuoi Latini);
O ch’ei vincendo fia padrone a voi,
E marito a Lavinia. A cui Latino
Col cor sedato in tal guisa rispose:
     35Giovine valoroso, al tuo valore,
A la ferocia tua che tanto eccede
Ne l’armi, io diferisco. E tu dovrai
Appagarti di me, s’io, d’ogni cosa
Temendo, con ragione e con maturo
40Consiglio in tutti i casi inveglio e curo
Che ’l mio stato si salvi e la tua vita.
A te, del vecchio Dauno erede e figlio,
Seggio e regno non manca, oltre a le terre
Di cui tu fatto hai da te stesso acquisto

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45Per forza d’armi. Oro, favori e gradi
Da Latino avrai sempre; e maritaggi
E donne d’alto affar son per lo Lazio,
E per le terre di Laurento assai.
Ma soffri ch’io ti parli, e senti, e nota
50Poscia quel ch’io dirò: che dirò vero,
Ben che noia ti sia. Fatal divieto
Mi proibiva, e gli uomini e gli Dei
M’avean vaticinando in molte guise
Denunzïato, che mia figlia a nullo
55Io maritassi di color che chiesta
Me l’avean prima. E pur dall’amor vinto
Che ti port’io, dal parentado astretto
C’ho con la casa tua, mosso dal pianto
E da le preci de la donna mia,
60Dandola a te mi sono al fato opposto:
Ho rotto fede al genero; ho con lui
Presa non giusta e non sicura guerra.
     Da indi in qua tu stesso, tu che primo
Soffri tante fatiche e tanti affanni,
65Hai veduto in che rischi, in che travagli
Siam noi caduti; chè due volte rotti
In due sì gran battaglie, in questo cerchio
Ne siam rinchiusi a sostentare a pena
La speranza d’Italia. Il Tebro è caldo

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70Del nostro sangue. I campi son già bianchi
De le nostr’ossa. Ed io, folle, a che torno
Tante fïate al precipizio mio?
Chi così da me stesso mi sottragge?
Se, Turno estinto, io nel mio regno deggio
75I Troiani accettar, chè non gli accetto
Or ch’egli è vivo e salvo? e chè non pongo
Fine a la guerra, a la ruina espressa
Del mio regno e de’ miei? Che ne diranno
I Rutuli parenti? che diranne
80Italia tutta, quando a morte io lasci
(Voglia Dio che non sia) gir un che tanto
Ama la parentela e ’l sangue mio?
Rimira de la guerra come vana
Sia la fortuna. Abbi pietà del vecchio
85Dauno tuo padre, che da te lontano
In Ardèa se ne sta mesto e dolente.
Turno a questo parlar nulla si mosse
De la ferocia sua: crebbe più tosto
Il suo furore; e lo rimedio stesso
90Gli aggravò ’l male. Ei, come pria poteo
Formar parola, in tal guisa rispose:
Nulla per conto mio di me ti caglia,
Signor benigno: anzi, ti prego, in grado
Prendi ch’io per la lode e per l’onore

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95Patteggi con la morte. Ed anch’io, padre,
Ho le mie mani: ed anche il ferro mio
Ha taglio e punta, e fa ferita e sangue.
Non sempre avrà, cred’io, la madre a canto
Che di nube lo cuopra e lo trafugga
100Come vil feminella, e di van’ombre
Seco s’involva. E, ciò detto, si tacque.
     Ma la regina, de l’audace impresa
Del genero dolente e spaventata,
Piangendo, e per angoscia a morte giunta,
105Lo tenea, lo pregava, e gli dicea:
Turno, per queste lagrime, per quanto
T’è, se pur t’è, de l’infelice Amata
L’onor, l’amore e la salute in pregio
(Già che tu sola speme, e sol riposo
110Sei de la mia vecchiezza, a te s’appoggia,
In te si fonda di Latino il regno,
E la sua dignitade, e la sua casa
Che ruina minaccia), in don ti chieggio,
Astienti di venir co’ Teucri a l’arme;
115Chè qualunque ne segua avverso caso
Sopra me cade: ch’io teco di vita
Uscirò pria che mai suocera o serva
Io mi veggia d’Enea. Queste parole
De la madre sentì Lavinia virgo,

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120Di rugiadose lagrime e d’un foco
Di vergineo rossor le guance asperse,
Qual fòra se di purpura macchiato
Fosse un candido avorio, o che di rose
Si spargessero i gigli. In lei mirando
125Il giovine, d’amor non men che d’ira
Acceso, a la regina brevemente
Così rispose: Ah, madre mia, ti prego,
In così perigliosa e dura impresa
Non mi far col tuo pianto e col tuo duolo
130Sinistro annunzio. Chè s’a Turno è dato
Che muoia, in suo poter più non è posto
Che di morire indugi. Indi a l’araldo
Rivolto, Va’, gli disse, e da mia parte
Quest’ingrata e spiacevole imbasciata
135Porta al frigio tiranno, che dimane
Tosto che fia la rubiconda Aurora
A l’orïente apparsa, i Teucri suoi
Contr’a Rutuli addur più non s’affanni.
Stiensi l’armi de’ Rutuli e de’ Teucri
140Per mio conto in riposo. Chè tra noi
Col nostro sangue a diffinir la guerra,
E di Lavinia le bramate nozze
In su quel campo a procurar ci avemo.
     Detto così, vèr la magion s’invia

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145Rapidamente; addur si fece avanti
I suoi cavalli, e le fattezze e ’l fremito
Notando, se ne gode, e ne concepe
Speme e vittoria; chè di razza usciti
Eran già d’Orizía, da cui Pilunno
150Ebbe giumente e corridori in dono,
Che di candor la neve, e di prestezza
Superavano il vento. Avean d’intorno
I valletti e gli aurigi che palpando,
Forbendo e vezzeggiando, in varie guise,
155Gli facean lieti, baldanzosi e fieri.
Fatte poscia venir l’armi, si veste
La sua corazza d’oricalco e d’oro
E dentro vi s’adatta e vi si vibra
Con la persona. Imbracciasi lo scudo,
160Pruovasi l’elmo; e la vermiglia cresta
Squassando, il brando impugna, il fido brando
Da lo stesso Volcano al padre Dauno
Temprato in Mongibello a tutte pruove.
Alfine un’asta poderosa e grave,
165Ch’appo un’alta colonna era appoggiata
In mezzo de la casa, in man si pianta,
Spoglio d’Àttore aùrunco. E poichè l’ebbe
Brandita e scossa, Asta, gridando disse,
Ch’a le mie fazïoni unqua non fosti

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170Chiamata indarno, ora al maggior bisogno
Da te soccorso imploro. Il grande Attòre
Armasti in prima, or sei di Turno in mano.
Dammi che ’l corpo atterri, e la corazza
Dischiodi, e ’l petto laceri e trapassi
175Di questo frigio effeminato eunuco;
Dammi che ’l profumato, inanellato,
Col ferro attorcigliato zazzerino
Gli scompigli una volta, e ne la polve
Lo travolga e nel sangue. In cotal guisa
180Dicendo, infurïava, ardea nel volto,
Scintillava negli occhi, orribilmente
Fremea, qual mugghia il toro allor che irato
Si prepara a battaglia, e l’ira in cima
Si reca de le corna, indi l’arruota
185A qualche tronco, e ’l tronco e l’aura in prima
Ferendo, alto co’ piè sparge l’arena,
E del futuro assalto i colpi impara.
     Da l’altro canto Enea, non men feroce
Ne l’armi di sua madre, al fiero Marte
190S’inanima e s’accinge, e del partito
Che gli era per compor la guerra offerto,
Si rallegra, l’accetta: e i suoi compagni
E ’l suo figlio assicura, or di sè stesso
La franchezza mostrando, or le venture

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195De’ fati rammentando e le promesse.
     Indi con la risposta al re Latino
Manda chi la disfida e ’l patto accetti,
E del patto i capitoli e le leggi
Stabilisca e confermi. Era de’ monti
200In su la cima a pena il sole apparso
De l’altro giorno, allor ch’i suoi destrieri
Sorgon da l’onde, e con le nari in alto
Fiamme anelando, il mondo empion di luce;
Quando nel campo i Rutuli discesi
205E i Teucri insieme, sotto l’alte mura,
Fabricâr lo steccato, a cui nel mezzo
I fochi e l’are di gramigna asperse
Furo agli Dei d’ambe le parti eretti
Comunemente; e d’ambi i sacerdoti
210Di bianco lino involti, e di verbena
Cinti le tempie, andaro altri con l’acqua,
Altri con le facelle intorno accese.
Poscia ecco degli Ausoni da l’un canto
A piene porte l’ordinate schiere
215Uscir da la città di picche armate;
Da l’altro de’ Troiani e de’ Tirreni
Gir l’esercito tutto in varie guise
D’abiti e d’armi: e questi incontro a quelli
Non altramente ch’a battaglia instrutti.

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220Fra mezzo a tante mila i condottieri
Ciascun da la sua parte si vedea
Gir d’oro e d’ostro alteramente adorni.
E ’l gran Memmo con questi e ’l forte Asíla,
E Messápo con quelli, de’ cavalli
225Il domatore e di Nettuno il figlio.
     Poscia che, dato il segno, ebbe ciascuno
Chi di qua chi di là preso il suo loco,
Piantâr le lance, dechinâr gli scudi.
Le donne, i vecchi, i putti e ’l volgo inerme
230Di veder desîosi, altri in su’ tetti,
Altri in su’ rivellini e ’n su le torri
Stavan mirando. E non dal campo lunge
Sedea Giuno in un colle, Albano or detto,
Ch’allor nè d’Alba il nome avea, nè ’l pregio,
235Nè i sacrifici. In questo monte assisa
Vedea de’ Laürenti e de’ Troiani
L’accolte genti, e di Latino il seggio.
Ivi la Dea di Turno a la sirocchia,
Che Dea de’ laghi era e de’ fiumi anch’ella
240(Privilegio che Giove allor le diede
Che de la pudicizia il fior le tolse),
Disse così: Ninfa, de’ fiumi onore,
Sovr’ogni ninfa a me gioconda e cara,
Tu sai come te sola ho preferita,

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245A tutte l’altre che di Giove, in Lazio,
L’ingrato letto han di salire osato:
E come volontier del cielo a parte
Meco t’ho posta. Ascolta i tuoi dolori,
Perchè di me dolerti unqua non possa.
250Finchè di Lazio la fortuna e ’l fato
Me l’han concesso, io prontamente e Turno
E la tua terra e i tuoi sempre ho difeso.
Or veggio questo giovine a duello
Con disegual destino esser chiamato:
255Veggio il dì della Parca e la nemica
Forza che gli è vicina. Io questo accordo,
Questa pugna veder con gli occhi miei
Per me non posso. Tu, se cosa ardisci
In pro del tuo germano, ora è mestiero
260Che tu l’adopri; e puoi farlo, e convienti.
Fállo: e chi sa che ’l misero non cangi
Ancor fortuna? A pena avea ciò detto,
Che Iuturna gemendo e lagrimando
Tre volte e quattro il petto si percosse.
265A cui Giuno soggiunse: E’ non è tempo
Da stare in pianti. Affretta; e da la morte
Scampa, se scampar puossi, il tuo fratello,
O turbando l’accordo, o suscitando
Nuova cagion di mischia e di tumulto.

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270Io son che te l’impongo, e te n’affido.
Con questo la lasciò sospesa e mesta,
E d’amara puntura il cor trafitta.
     Ecco vengono al campo i regi intanto;
Latino il primo, alto in un carro assiso,
275Che da quattro suoi nitidi corsieri,
Di gran macchina in guisa, era tirato,
E, di dodici raggi il fronte adorno,
Del Sole, avo di lui, sembianza avea.
Turno traean due candidi destrieri,
280Con due suoi dardi in mano agili e forti.
Enea, de la romana stirpe autore,
Con l’armi sue celesti e con lo scudo
Che dianzi da le stelle era venuto,
Uscío da l’altro canto, e seco a pari
285Ascanio, il figlio suo, de la gran Roma
La seconda speranza. A mano a mano
Il sacerdote in pura veste involto
Anzi agli accesi altari il nuovo parto
D’una setosa porca, ed una agnella
290Ancor non tosa al sacrificio addusse;
E vòlti a l’orïente, in atto umíle
S’inchinâr tutti e vino e farro e sale
Sparser d’ambe le parti; ambe col ferro,
Sì com’era uso, a le devote belve

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295Segnâr le tempie. Allor il padre Enea
Strinse la spada, e, gli occhi al ciel rivolti,
Così disse pregando: Io questo sole
Per testimone invoco e questa terra,
Per cui tanti ho fin qui sofferti affanni;
300Invoco te, celeste, onnipotente,
Eterno padre, e te, saturnia Giuno,
Già vèr me più benigna, e ben ti prego
Che mi sii tale, e te gran Marte invoco,
Ch’a l’armi imperi; e voi fonti, e voi fiumi,
305E voi tutti del mar, tutti del cielo
Numi possenti; e vi prometto e giuro
Che se Turno per sorte è vincitore
Di questa pugna, il successor del vinto
Gli cederà; ch’a la città d’Evandro
310Si ritrarrà; che mai poscia ribelle
Non gli sarà: che guerra o lite o sturbo
Alcun altro più mai non gli farà.
Ma se più tosto, come io prego, e come
Spero che mi succeda, al nostro Marte
315La dovuta vittoria non si froda;
Io non vo’ già che gl’Itali soggetti
Siano a’ miei Teucri, nè d’Italia io solo
Tener l’impero; io vo’ ch’ambi del pari
Questi popoli invitti aggian tra loro

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320Governo e leggi eguali, e pace eterna.
A me basta ch’io dia ricetto e culto
A’ miei numi, a’ miei Teucri, e sia Latino
Suocero mio, del suo regno e de l’armi
Signor, rettore e donno. Io poscia altrove
325Altre mura ergerommi, e de’ miei stessi
Fien le fatiche, e di Lavinia il nome.
     Così pria disse Enea: così Latino
Seguitò poi con gli occhi e con la destra
Al ciel rivolto, Ed io giuro, dicendo,
330Le stesse deità, la terra, il mare,
Le stelle, di Latona ambo i gemelli,
Di Giano ambe le fronti, il chiuso centro,
E la gran possa degl’inferni dii.
Odami di là su l’eterno padre,
335Che fulminando stabilisce e ferma
Le promesse e gli accordi. I numi tutti
Chiamo per testimoni: e tocco l’ara,
E tocco il foco, e questa pace approvo
Dal canto mio. Nè mai, che che si sia
340Di questa pugna, nè per forza alcuna,
Nè per tempo sarà ch’ella si rompa
Di voler mio, non se la terra in acqua
Si dileguasse, non se ’l ciel cadesse
Ne l’imo abisso: così come ancora

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345Questo mio scettro (chè lo scettro in mano
Avea per sorte) più nè fronda mai
Nè virgulto farà, poichè reciso
Dal vivo tronco, o da radice svelto
Mancò di madre, e già d’arbore ch’era,
350Sfrondato, diramato e secco legno
Di già venuto, e d’oricalco adorno
E per man de l’artefice ridotto
In questa forma, e per quest’uso in mano
Dei re latini è posto. In cotal guisa
355Fermati i patti e l’ostie in mezzo addotte
Tra i più famosi, anzi a l’accese fiamme
Le svenâr, le smembrâr, le svisceraro.
E sì com’eran palpitanti e vive,
Le fibre ne spiâr, le diero al foco,
360N’empiêr le squadre e ne colmâr gli altari.
     Di già disvantaggioso e diseguale
Questo duello a’ Rutuli sembrava:
E già vari bisbigli e vari moti
N’eran tra loro; e com’ più sanamente
365Si rimirava, più di forze impári
Si vedea Turno; ed egli stesso indizio
Ne diè, che lento e tacito e sospeso
Entrò nel campo. E come ancor di pelo
Avea le guance lievemente asperse,

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370Orando anzi a l’altar pallido il volto
Mostrossi, e chino il fronte, e grave il ciglio.
     Tale una languidezza rimirando,
E tal del volgo un susurrare udendo
Giuturna, sua sorella, infra le schiere
375Gittossi, e di Camerte il volto prese.
D’alto legnaggio, di valor paterno,
E di propria virtute era Camerte
Famoso infra la gente. E tal sembrando,
Già degli animi accorta, iva Giuturna
380Rumor diversi e tai voci spargendo:
Ahi! che vergogna, che follia, che fallo,
Rutuli, è ’l nostro, che per tanti e tali
Sola un’alma s’arrischi? Or siam noi forse
Di numero a’ nemici inferïori,
385O d’ardire o di forze? Ecco qui tutti
Accolti i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi
Che sono anco per fato a Turno infensi.
A due di noi contra un di loro a mischia
Che si venisse, di soverchio ancora
390Fòrano i nostri. Ei che per noi combatte,
Ne sarà fra gli Dei, cui s’è devoto,
In ciel riposto; e qui tra noi famoso
Viverà sempre. Ma di noi che fia,
Ch’or ce ne stiam sì neghittosi a bada?

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395La patria perderemo, e da stranieri
E da superbi in servitude addotti,
Preda e scherno d’altrui sempre saremo.
     Da questo dir la gioventù commossa
Via più s’accende, e ’l mormorio serpendo
400Più cresce per le squadre. Onde i Latini
E gli stessi Laurenti, che pur dianzi
Di pace eran sì vaghi e di quïete,
Pensier cangiando e voglie, or l’arme tutti
Gridano, tutti pregan che l’accordo
405Sia per non fatto; e tutti han de l’iniqua
Sorte di Turno ira, pietate e sdegno.
     In questa, ecco apparir ne l’aria un mostro
Per opra di Giuturna, onde turbati
E dal primo proposito distolti
410Fur da vantaggio de’ Latini i cuori.
Videsi per lo lito, e per lo cielo
Di roggio asperso, un di palustri augelli
Impaurito e strepitoso stuolo.
Dietro un’aquila avea, ch’a mano a mano
415Giuntolo de lo stagno in su la riva,
Un cigno ne ghermì ch’era di tutti
Il maggiore e ’l più bello. A cotal vista
Gli occhi e gli animi alzâr l’itale squadre;
E gli augei, che pur dianzi erano in fuga

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420(Mirabile a vedere!), in un momento
Stridendo si rivolsero, e ristretti
In densa nube, ond’era il ciel velato,
La nimica assaliro. E sì d’intorno
La cinser, l’aggirâr, l’attraversaro,
425Ch’a cielo aperto, u’ dianzi erano in fuga,
Le fer gabbia, ritegno e forza, al fine
Che, gravata dal peso e stretta e vinta,
De la lena mancasse e de la preda.
Il cigno dibattendosi, da l’ugne
430Sovra l’onde gli cadde: ed ella scarca,
Da la turba fuggendo al cielo alzossi.
     I Rutuli a tal vista con le grida
Salutâr pria l’augurio: indi a la pugna
Si prepararo. E fu Tolunnio il primo,
435Ch’augure, incontro al patto anzi le schiere
Si spinse armato, e disse: Or questo è, questo
Ch’io desiava; e questo è quel ch’io cerco
Ho ne’ miei voti. Accetto e riconosco
Il favor degli Dei. Me, me seguite,
440Rutuli miei. Con me l’armi prendete
Contro al malvagio che di strana parte
Venuto con la guerra a spaventarci,
Ha voi per vili augelli, e i vostri lidi
Così scorre e depreda. Ma ritolto

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445Questo cigno gli fia; di nuovo al mare
In fuga se n’andrà. Voi combattendo
In guisa de la pria fugace torma,
Ristringetevi insieme, e riponete
Il vostro re, che v’è rapito, in salvo.
     450Detto così, spinse il destriero, e trasse
Contr’a’ nimici. Andò stridendo e dritto
L’aura secando il fulminato dardo;
E ’nsieme udissi col suo rombo un grido
Che insino al ciel, de’ Rutuli, sentissi.
455Insieme scompigliossi il campo tutto,
Turbârsi i petti, ed infiammârsi i cuori.
L’asta volando giunse ove a rincontro
Nove fratelli eran per sorte accolti,
Che tutti d’una sola etrusca moglie
460Da l’arcadio Gilippo eran creati.
Un di lor ne colpì là ’ve nel mezzo
Il cinto s’attraversa, e con la fibbia
S’afferra al fianco. Ivi tra costa e costa,
Penetrando altamente, lo trafisse,
465E morto in su l’arena lo distese.
Questi, il più riguardevole ne l’armi
Era degli altri, e ’l più bello e ’l più forte,
E gli altri come tutti eran feroci,
Dal dolore infiammati incontinente

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470Chi la spada impugnò, chi prese il dardo;
E contra il feritor tutti in un tempo,
Come ciechi, avventârsi. Incontro a loro
Si mosser de’ Laurenti e de’ Latini
Le genti a schiere, e d’altro lato a schiere
475Spinsero i Teucri e gli Arcadi e gli Etruschi.
Così d’arme e di sangue uguale ardore
Surse d’ambe le parti; e l’are e ’l foco
Ch’eran di mezzo e l’ostie e le patene
N’andar sossopra; e tal di ferri e d’aste
480Denso levossi e procelloso un nembo,
Che ’l sol se n’oscurò, sangue ne piovve.
Grida e fugge Latino, e i numi offesi
Se ne riporta, e detestando abborre
Il vïolato accordo. Armasi intanto
485Il campo tutto; e chi frena i destrieri,
Chi ’l carro appresta; e già con l’aste basse
E con le spade ad investir si vanno.
     Messápo desïoso che l’accordo
Si disturbasse, incontro al tosco Auleste
490Che, come re, di regal fregi adorno
E d’ostro, al sacrificio era assistente,
Spinse il cavallo e spaventollo in guisa,
Che mentre si ritragge infra gli altari
Ch’avea da tergo, urtando, si travolse.

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495Messápo con la lancia incontinente
Gli si fe sopra, e sì com’era in atto
Di supplicarlo, il petto gli trafisse,
Così ben va, dicendo: or a’ gran numi
Porco più grato e miglior ostia cadi.
500Cadde il meschino, e fu, spirante e caldo,
Sovraggiunto dagl’Itali e spogliato.
     Diè Corinèo per un gran tizzo a l’ara
Di piglio; e sì com’era ardente e grave,
Ad Èbuso ch’incontro gli venía,
505Nel volto il fulminò. Schizzonne insieme
Il foco e ’l sangue; e di baleno in guisa
Un lampo ne la barba gli rifulse
Che diè d’arsiccio odore, indi gli corse
Sopra senza ritegno; e qual trovollo
510Da la percossa abbarbagliato e fermo,
L’afferrò per la chioma, a terra il trasse,
Col ginocchio lo strinse, e col trafiere
Gli passò ’l fianco. Podalirio ad Also
Pastor, che fra le schiere infurïava,
515S’affilò dietro; e già col brando ignudo
Gli soprastava, allor ch’Also rivolto
La gravosa bipenne ond’era armato
Gli piantò nella fronte e ’nsino al mento
Il teschio gli spartì, l’armi gli sparse

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520Tutte di sangue: ond’ei cadde, e le luci
Chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
     Enea senz’elmo in testa, infra le genti
La disarmata destra alto levando,
E discorrendo, e richiamando i suoi,
525Dove, dove ne gite? che tumulto,
Dicea, che furia, che discordia è questa
Così repente? Oh rattenete l’ire;
Oh non rompete. Il patto è stabilito;
L’accordo è fatto. Solo a me concesso
530È ch’io combatta. A me sol ne lasciate
La cura e ’l carco. Io, non temete, io solo
Il patto vi ratifico e vi fermo
Con questa sola destra; e Turno a morte
Di già mi si promette, e mi si deve
535Da questi sacrifici. In questa guisa
Gridava il teucro duce; ed ecco intanto
Venir d’alto stridendo una saetta;
Non si sa da qual mano, o da qual arco
Si dipartisse. O caso, o dio che fosse
540Che tanta lode a’ Rutuli prestasse,
L’onor se ne celò, nè mai s’intese
Chi del ferito Enea vanto si desse.
     Turno, poichè dal campo Enea fu tratto,
E turbar vide i suoi, di nuova speme

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545S’accese, e gridò l’armi, e sopra al carro
D’un salto si slanciò, spinse i cavalli
Infra’ nemici, e molti a morte dienne.
Molti ne sgominò, molti n’infranse,
E con l’aste, fuggendo, ne percosse.
550Qual è de l’Ebro in su la fredda riva
Il sanguinoso Marte, allor ch’entrando
Ne la battaglia, o con lo scudo intuona,
O fulmina con l’asta, e i suoi cavalli
Da la furia e da lui cacciati e spinti
555Ne van co’ venti a gara, urtando i vivi,
E calpestando i morti; e fan col suono
De’ piè fino agli estremi suoi confini
Tremar la Tracia tutta, e van con essi
Lo spavento, il timor, l’insidie e l’ire,
560Del bellicoso Iddio seguaci eterni;
In così fiera e spaventosa vista
Se ne gía Turno, la campagna aprendo,
Uccidendo, insultando, e di nemici
Miserabil ruina e strage e strazio
565Or con l’armi facendo, or co’ destrieri
Che sudanti, fumanti e polverosi,
Spargean di sangue e di sanguigna arena
Con le zampe e con l’ugne un nembo intorno.
Stènelo, ne l’entrar, Támiro e Polo

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570Condusse a morte; i due primi da presso,
L’ultimo da lontano. E da lunge anco
Glauco percosse e Lado: i due famosi
Figli d’Imbráso, ne la Lícia nati,
Da lui stesso nutriti, e parimente
575A cavalcare e guerreggiare instrutti.
     Da l’altra parte Eumède, il chiaro germe
De l’antico Dolóne. Il nome avea
Costui de l’avo, e l’ardimento e i fatti
Seguia del padre, che de’ Greci il campo
580Spiare osando, osò d’Achille ancora
In premio de l’ardir chiedere il carro.
Ma d’altro che di carro premïollo
Il figlio di Tidèo; nè però degno
D’un tanto guiderdone unqua si tenne.
585Turno, poscia che ’l vide (che da lunge
Lo scòrse) con un dardo il giunse in prima:
Indi a terra gittossi: e qual trovollo
Di già caduto e moribundo, il piede
Sopr’al collo gl’impresse, e ne la strozza
590Lo suo stesso pugnal cacciògli, e disse:
Troiano, ecco l’Italia, ecco i suoi campi,
Che tanto desïasti: or gli misura
Costì giacendo. E questo si guadagna
Chi contra a Turno ardisce; e ’n questa guisa

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595Si fondan le città. Dietro a costui
Bute, e di mano in man Darete e Cloro
E Síbari e Tersíloco e Timete
Lanciando, uccise. Ma Timete in terra
Ferì, che per sinistro o per difetto
600D’un suo restio cavallo era caduto.
     Qualsopra al grande Egèo sonando scorre
Il tracio Bora, che le nubi e i flutti
Si sgombra avanti; e questi ai lidi, e quelle
A l’orizzonte in fuga se ne vanno:
605Tal per lo campo, ovunque si rivolge,
Fa Turno sgominar l’armi e le schiere;
E tal seco ne va furia e spavento,
Che financo al cimier morte minaccia.
     Fegèo, tanta fierezza e tanto orgoglio
610Non sofferendo, al concitato carro
Parossi avanti; e lievemente un salto
Spiccando, con la destra al fren s’appese
Del sinistro corsiero. E sì com’era
Da la fuga rapito e da la forza
615Di tutti insieme, insiememente a tutti
(Dal sentier divertendoli e dal corso)
Facea storpio e disturbo. Ed ecco al fianco
Che da la destra parte era scoperto,
Cotal sentissi de la lancia un colpo

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620Che la corazza, ancor che doppia e forte,
Stracciògli, e ’n fino al vivo lo trafisse,
Ma di lieve puntura. Ond’ei rivolto,
E ’mbracciato lo scudo e stretto il brando,
Contra gli s’affilava, e per soccorso
625Gridava intanto. Ma le ruote e l’asse
Ch’erano in moto, urtandolo, a rovescio
Gittârlo: e Turno immantinente addosso
Sagliendogli, infra l’elmo e la gorziera
Il collo gli recise, e dal suo busto
630Tronco il capo lasciògli in su l’arena.
     Mentre così vincendo e d’ogni parte
Con tanta strage il campo trascorrendo
Se ne va Turno; Enea dal fido Acate,
Da Memmo e dal suo figlio accompagnato
635(Come da la saetta era ferito),
Sovr’un’asta appoggiato, a lento passo
Verso gli alloggiamenti si ritragge.
Ivi contra a lo stral, contra a sè stesso
S’inaspra e frange il tèlo, di sua mano
640Ripesca il ferro. e poi che indarno il tenta,
Comanda che la piaga gli s’allarghi
Con altro ferro, e d’ogn’intorno s’apra,
Sì che tosto dal corpo gli si svelga,
E tosto alla battaglia se ne torni.

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645Comparso intanto era a la cura Iäpi
D’Iäso il figlio, sovr’ogn’altro amato
Da Febo. E Febo stesso, allor ch’acceso
Era da l’amor suo, la cetra e l’arco
E ’l vaticinio, e qual de l’arti sue
650Più l’aggradasse, a sua scelta gli offerse.
Ei che del vecchio infermo e già caduco
Suo padre la salute e gli anni amava,
Saper de l’erbe la possanza, e l’uso
Di medicare elesse, e senza lingua
655E senza lode e del futuro ignaro
Mostrarsi in pria, che non ritorre a morte
Chi li diè vita. A la sua lancia Enea
Stava appoggiato, e fieramente acceso
Fremendo, avea di giovani un gran cerchio
660Col figlio intorno, al cui tenero pianto
Punto non si movea. Sbracciato intanto
E con la veste e la cintura avvolta,
Qual de’ medici è l’uso, il vecchio Iäpi
Gli era d’intorno; e con diverse pruove
665Di man, di ferri, di liquori e d’erbe
Invan s’affaticava, invano ogn’opra,
Ogn’arte, ogni rimedio, e i preghi e i voti
Al suo maestro Apollo eran tentati.
     De la battaglia rinforzava intanto

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670Lo scompiglio e l’orrore; e già ’l periglio
S’avvicinava; già di polve il cielo,
Di cavalieri il campo era coverto;
Chè fin dentro a’ ripari e fra le tende
Ne cadevano i dardi; e già da presso
675S’udian de’ combattenti e de’ caduti
I lamenti e le grida. Il caso indegno
D’Enea suo figlio, e ’l suo stesso dolore
In sè Ciprigna e nel suo cor sentendo,
Ratto v’accorse, e fin di Creta addusse
680Di dittamo un cespuglio, che recente
Di sua man còlto, era di verde il gambo,
Di tenero le foglie, e d’ostro i fiori
Tutto consperso e rugiadoso ancora.
Quest’erba per natura ai capri è nota,
685E da lor cerca allor che ’l tergo o ’l fianco
Ne van di dardo o di saetta infissi.
Con questa Citerea per entro un nembo
Ne venne ascosa, e col salubre sugo
D’ambrosia e d’odorata panacea
690Mischiolla, e poscia i tiepidi liquori
Ch’eran già presti in tal guisa ne sparse,
Che nïun se n’avvide. E n’ebbe a pena
La piaga infusa, che l’angoscia e ’l duolo
Cessò repente: il sangue d’ogni parte

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695De la ferita in fondo si raccolse,
E seguendo la mano, il ferro stesso
Come da sè n’uscío. Spedito e forte,
E nel pristino suo vigor ridotto,
Enea dritto levossi. Iäpi il primo,
700A che, disse, badate? e perchè l’arme
Tosto non gli adducete? Indi a lui vòlto,
Contro a’ nemici in tal guisa infiammollo:
Enea, non è, non è per possa umana
O per umano avviso o per mia cura
705Questo avvenuto. Un dio, certo un gran dio
A gran cose ti serba. In questo mezzo
Ei, già di pugna desioso, entrambi
S’avea gli stinchi di dorata piastra,
Il dorso di lorica, e la sinistra
710Di scudo armata. E già l’asta squassando,
D’indugio impazïente, in su la soglia
Tanto sol de la tenda si ritenne,
Che, sì com’era di tutt’armi involto,
Il caro Iulo caramente accolse,
715E con le labbia a pena entro l’elmetto
Baciollo, e disse: Figlio mio, da me
La sofferenza e la virtute impara;
La fortuna dagli altri. Io, quel che posso
Or con questa mia destra ti difendo:

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720Onor, grandezza e signoria t’acquisto
Col sangue mio. Tu poi, quando maturi
Fian gli anni tuoi, fa che d’Enea tuo padre
E d’Ettore tuo zio sì ti rammenti,
Che ti sian le fatiche e i gesti loro
725A gloria ed a vertute essempi e sproni.
     Detto così, fuor de le porte uscendo
Brandì la lancia, e tutti in un drappello
Ristrinse i suoi. Memmo ed Antèo con esso,
E quanti altri del vallo erano in prima
730Lasciati a guardia, il vallo abbandonando,
Dietro gli s’inviaro. Allor di polve
Levossi un nembo, e d’ogn’intorno scossa
Al calpitar de’ piè tremò la terra.
     Turno di sopra un argine mirando,
735Questa gente venir si vide incontro.
Viderla, e ne temero e ne tremaro
Gli Ausoni tutti. Udinne il suon da lunge
Iuturna in prima, e per timore indietro
Se ne ritrasse. Enea volando, al campo
740Spinse lo stuol, che polveroso e scuro
Tal se n’andò qual d’alto mare a terra
Squarciato nembo, quando, ohimè! che segno
E che spavento, e che ruina apporta
Ai miseri coloni! e quanta strage

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745Agli alberi, a le biade, a la vendemmia
Se ne prepara! e qual se n’ode intanto
Sonar procella, e venir vento a riva!
Cotal contro a’ nemici il teucro duce
Co’ suoi, come in un gruppo insieme uniti,
750Entrò ne la battaglia. Al primo incontro
Osìri, Archezio, Ufente ed Epulone
Ne gír per terra. Acate e Memmo e Gia
E Timbrèo gli affrontaro: e ciascun d’essi
Atterrò ’l suo. Cadde Tolunnio appresso,
755L’augure che primiero il dardo trasse
Nel turbar de l’accordo. Al suo cadere
Tutto in un tempo empiessi il ciel di grida,
La campagna di polve; e vòlti in fuga
Se ne giro i Latini. Enea sdegnando
760E di seguire e d’incontrar qual fosse
Pedone o cavalier, che o lunge o presso
Di provocarlo e di ferirlo osasse,
Sol di Turno cercando iva per entro
Quella densa caligine, e ’l suo nome
765Solamente gridando, a la battaglia
Lo disfidava. Impaürita e mesta
Di ciò Iuturna, la virago ardita,
Tosto di Turno al carro appropinquossi,
E giù Metisco il suo fedele auriga

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770Subito trabocconne. Ed ella in vece
E ’n sembianza di lui, lui stesso al corpo,
A l’armi, a la favella, ad ogni moto
Rassomigliando, in seggio vi si pose,
E ne prese le redini, e lo resse.
     775Qual ne va negra rondine alïando
Per le case de’ ricchi, allor che piume
E fuscelletti al cominciato nido
Quinci e quindi rauna, o picciol’esca
A’ suoi loquaci pargoletti adduce;
780Che sotto ai porticali e sopra l’acque,
E per gli atri volando e per le sale
Or alto or basso si travolve e gira:
Cotal Iuturna il campo attraversando
Per ogni parte si spingea col carro
785E co’ destrieri infra i nemici a volo,
Sovente a loco a loco il suo fratello
Vincitor dimostrando, e non soffrendo
Che punto dimorasse, o ch’a rincontro,
O pur vicino al gran Teucro ne gisse.
790Enea da l’altro canto incontro a lui
Volgendo, e rivolgendo, e fra le schiere
Così com’eran dissipate e sparse,
Indarno ricercandolo, il chiamava
Ad alta voce. E mai gli occhi non torse

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795Ov’ei si fusse, e dietro non gli mosse,
Ch’ella co’ suoi corsieri in più diversa
E più lontana parte non fuggisse.
Or che farà, ch’ogni pensiero, ogni opra,
Ogni disegno gli rïesce invano?
800E i pensier son diversi? Ecco Messápo,
Che per lo campo discorrendo intanto
D’improvviso l’incontra. E sì com’era
D’una coppia di dardi a la leggiera
Ne la sinistra armato, un ne gli trasse
805Dritto sì che fería; se non ch’Enea
Gli fece schermo, e rannicchiato e stretto
Chinossi alquanto. E pur ne l’elmo il colse
E ’l cimier ne divelse. Irato surse;
E poichè da’ nemici attorneggiato
810Si vide, e che i cavalli eran di Turno
Di già spariti, a Giove, ai sacri altari
Del vïolato accordo e de l’insidie
Molto si protestò: poscia tra loro
Gittossi impetuoso, e strazio e strage
815Prosperamente, ovunque si rivolse,
Ne fece a tutto corso; e senza freno
Si diede a l’ira ed a la furia in preda.
     Or qual nume sarà ch’a dir m’aiti
Le tante occisïoni e sì diverse

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820Che di duci e di schiere e di falangi
Fecer quel giorno, Enea da l’una parte,
Turno da l’altra? Ah, Giove! sì crudele,
Sì sanguinosa guerra infra due genti
Che saran poscia eternamente in pace?
     825Enea Sucrone, un de’ più forti Ausoni,
Occise in prima, e primamente i Teucri
Fermò, ch’eran da lui rivolti in fuga.
L’incontrò, lo ferì, senza dimora
Morto a terra il gittò; ch’in un de’ fianchi
830Con la spada lo colse, e ne le coste
E ne la vita stessa ne gl’immerse.
     Turno a piè dismontato, Àmico in terra,
Che da cavallo era caduto, infisse;
E seco il frate suo Dïòro estinse.
835L’un di lancia ferì, l’altro di brando;
E d’ambi i capi dai lor tronchi avulsi,
Sì com’eran di polvere e di sangue
Stillanti e lordi, per le chiome appesi
Anzi al carro si pose. E via seguendo
840Quegli Talone e Tánaï e Cetègo
Tre feroci Latini ad un assalto
Si stese avanti, e ’l mesto Oníte appresso
Figlio di Peritía, gloria di Tebe.
E tre dal canto suo questi n’ancise

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845Ch’eran fratelli de la Licia usciti
E de’ campi d’Apollo; a cui per quarto
Menète aggiunse. Ah come il fato indarno
Si fugge! Infin d’Arcadia fu costui
Qui condotto a morire. E ’n su la riva
850Era nato di Lerna, ove pescando,
Da l’armi, da le corti e da’ palagi
Si tenea lunge; e solo il suo tugurio
Avea per reggia, e per signore il padre,
Povero agricoltor de’ campi altrui.
     855Come due fochi in due diverse parti
D’un secco bosco accesi ardon sonando
Le querce e i lauri; o due rapidi e gonfi
Torrenti che nel mar dagli alti monti
Precipitando, se ne va ciascuno
860Il suo cammino aprendo, e ciò che truova
Si caccia avanti e rumoreggia e spuma;
Così per la campagna, ambi fremendo,
Le schiere sgominando, e questi e quelli
Atterrando ne gían, da l’una parte
865Enea, Turno da l’altra. Or sì che d’ira,
Or sì che di furor si bolle e scoppia,
E con tutte le forze a ferir vassi:
Chè l’esser vinto, e non la morte è morte.
E qui Murráno (un che superbo e gonfio,

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870Del nome e de l’origine vantando
Se ne gía degli antichi avi e bisavi
Latini regi) fu d’un balzo a terra
Da la furia d’Enea spinto e travolto;
Sì che di lui, del carro e de le ruote
875Fatto un viluppo, i suoi stessi cavalli,
Il signore oblïando, incrudelîrsi,
E sotto al giogo e sotto ai calci accolto
L’infranser, lo pîgiâr, lo strascinaro
E l’ancisero alfine. Ilo, che fiero
880E minaccioso avanti gli si fece,
Seguì Turno a ferir di dardo, in guisa
Che de l’elmetto la dorata piastra
E le tempie e ’l cerebro gli trafisse.
Nè tu, Crèteo, di man di Turno uscisti,
885Perchè de’ più robusti e de’ più forti
Fosti de’ Greci. Nè di man d’Enea
Scampâr Cupento i suoi numi invocati:
Chè nel petto ferillo, e non gli valse
Lo scudo che di bronzo era coverto.
890E tu che contra a tante argive schiere
E contra al domator di Troia Achille,
Eölo, non cadesti, in questi campi
Fosti, qual gran colosso, a terra steso.
Ma che? Quest’era il fin de’ giorni tuoi:

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895Qui cader t’era dato. Appo Lirnesso
Altamente nascesti: appo Laurento
Umil sepolcro avesti. Eran già tutti
Quinci i Latini e quindi i Teucri a fronte,
E tra lor mescolati Asíla e Memmo,
900E Seresto e Messápo, e le falangi
Degli Arcadi e de’ Toschi, ognun per sè,
E tutti insieme con estrema possa,
Con estremo valor senza riposo
Facean mortale e sanguinosa mischia.
     905Qui nel pensiero al travagliato figlio
Pose Ciprigna di voltar le schiere
Subitamente a le nimiche mura,
E con quel nuovo, inopinato avviso
Assalir, disturbare, e l’oste insieme
910E la città por de’ Latini in forse.
E sì come, di Turno investigando,
Volgea le luci in questa parte e ’n quella,
Vide Laurento che non tocco ancora
Stava da tanta guerra immune e scevro.
915E da l’occasïon subitamente
Preso consiglio, a sè Memmo, Seresto
E Sergesto chiamando, indi vicino
Sovr’un colle si trasse, ove de’ Teucri
919A mano a man si raunâr le schiere.

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920E sì come raccolti, armati e stretti
S’eran già fermi, in mezzo alto levossi
E cosí disse: Udite, e senza indugio
Fate quel ch’io dirò. Giove è con noi.
E perché sì repente io mi risolva
925A questa impresa, non però di voi
Alcun sia che men pronto vi si mostri.
Oggi o che re Latino al nostro impero
Converrà ch’obbedisca e freno accetti;
O che questa città, seme e cagione
930Di questa guerra, e questo regno tutto
A foco, a ferro ed a ruina andranne.
E che deggio aspettar? Che non più Turno
Fugga, sì come fa, la pugna mia?
E che vinto una volta, si contenti
935Di combattere un’altra? Il capo e ’l fine,
Cittadin miei, di questa guerra è questo.
Via, col foco a le mura e con le fiamme
Ne vendichiam del vïolato accordo.
     Avea ciò detto, quando ognuno a gara
940E tutti insieme inanimati e stretti
Di conio in guisa, qual intera massa,
Appressâr la città. Vi furon preste
Le scale e ’l foco. Altri assalîr le porte,
944E questi e quelli occisero e cacciaro,

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945Come pria s’abbattero. Altri lanciando
Oppugnâr la muraglia; onde levossi
Di terra un nembo che fece ombra al sole.
     Enea sotto le mura attorneggiato
Da’ primi suoi, la destra alto e la voce
950Levando, or con Latino or con gli Dei
Si protestava, che due volte a l’armi
Era forzato e che due volte il patto
Gli si turbava. I cittadini intanto
Facean tumulto. E chi volea che dentro
955Si chiamassero i Teucri e che le porte
Fossero aperte, il re fin sulle mura
A ciò traendo; e chi l’armi gridando
S’apprestava a difesa. Era a vederli
Qual è di pecchie entro una cava rupe
960Accolto sciamo allor che dal pastore
D’amaro fumo è la caverna offesa;
Che trepide, confuse e d’ira accese,
Per l’incerate fabriche travolte,
Discorrendo e ronzando se ne vanno:
965Al cui stridor l’affumigata grotta
Mormora, e tetro odore a l’aura esala.
     In questo tempo un infortunio orrendo
Timor, confusïone e duolo accrebbe
969Agli afflitti Latini, e pose in pianto

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970Il popol tutto: e fu che la reina,
Visto da lunge incontro a la cittade
Venire i Teucri, e già le faci e l’armi
Volar per entro, e più nulla sentendo
O vedendo de’ Rutuli o di Turno.
975Onde aita o speranza le venisse,
Si credè la meschina che già l’oste
Fosse sconfitto, e ’l genero caduto,
Ogni cosa in ruina. E presa e vinta
Da súbito dolore, alto gridando:
980Ah! ch’io la colpa, disse, io la cagione,
Io l’origine son di tanto male.
E dopo molto affliggersi e dolersi,
Già furïosa e di morir disposta
Il petto aprissi, e la purpurea vesta
985Si squarciò, si percosse, e de l’infame
Nodo il collo s’avvinse, e strangolossi.
     Udito il caso, la diletta figlia
I biondi crini e le rosate guance
Prima si lacerò, poscia la turba
990V’accorse de le donne, e di tumulto,
Di pianti, di stridori e d’ululati
La reggia tutta e la cittade empiessi.
Ognun si sgomentò. Latino, afflitto
994De la morte d’Amata e del periglio

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995Del regno tutto, lanïossi il manto,
Bruttossi il bianco e venerabil crine
D’immonda polve: amaramente pianse
Che per suocero dianzi e per amico
Non si confederò col frigio duce.
     1000Turno, che in questo mezzo combattendo
Rimaso era del campo in su l’estremo
Incontro a pochi, e quelli anco dispersi,
Già scemo di vigore, e trasportato
Da’ suoi cavalli, che ritrosi e stanchi
1005Ognor piú se n’andavano e lontani,
In sè confuso e dubio se ne stava.
Quando ecco di Laurento ode le grida
Con un terror che, non compreso ancora,
Gli avea da quella parte il vento addotto.
1010Porse l’orecchie, e ’l mormorio sentendo
De la città, che tuttavia più chiaro
Di tumulto sembrava e di travaglio,
Oh, disse, che sent’io? che novitate
E che rumore e che trambusto è questo
1015Che di dentro mi fere? E, quasi uscito
Di sè, mirando ed ascoltando stette.
Cui la sorella (come già conversa
Era in Metisco, e come i suoi cavalli
1019Stava reggendo) si rivolse, e disse:

[p. 605 modifica]

1020Di qua, Turno, di qua. Quinci la strada
Ne s’apre a la vittoria. Altri a difesa
Saran de la città. Se d’altra parte
Enea de’ tuoi fa strage, e tu da questa
Distruggi i suoi; chè non men gloria aremo,
1025E più sangue faremo. E Turno a lei:
O mia sorella! (chè mia suora certo
Sei tu) ben ti conobbi infin da l’ora
Che turbasti l’accordo, e che poi meco
Ne la battaglia entrasti. Or, benchè Dea,
1030Indarno mi t’ascondi. E chi dal cielo
Così qua giù ti manda a soffrir meco
Tante fatiche? A veder forse a morte
Gir tuo fratello? E che, misero! deggio
Far altro mai? qual mi si mostra altronde
1035O salute o speranza? Io stesso ho visto
Con gli occhi miei, lo mio nome chiamando,
Cadere il gran Murráno. E chi mi resta
Di lui più fido e piú caro compagno?
E ’l magnanimo Ufente anco è perito,
1040Credo, per non veder le mie vergogne:
E ’l corpo e le armi sue, lasso! in potere
Son de’ nemici. E soffrirò (chè questo
Sol ci mancava) di vedermi avanti
1044Aprir le mura, e ruinare i tetti

[p. 606 modifica]

1045De la nostra città? Nè fia che Drance
Menta de la mia fuga? E fia che Turno
Volga le spalle, e quella terra il vegga?
Sì gran male è morire? Inferni dii,
Accoglietemi voi, poichè i superni
1050Mi sono infesti. A voi di questa colpa
Scenderò spirto intemerato e santo,
E non sarò de’ miei grand’avi indegno.
     Ciò disse a pena; ed ecco a tutta briglia
Venir per mezzo a le nemiche schiere
1055Un cavalier che Sage era nomato.
Di spuma e di sudore il suo cavallo,
E di sangue era sparso. In volto infissa
Portava una saetta, e con gran furia
Turno chiamando e ricercando andava.
     1060Poscia che ’l vide, In te, disse, è riposta
Ogni speranza; abbi pietà de’ tuoi.
Enea va come un folgore atterrando
Tutto ciò che davanti gli si para;
E le mura e le torri e ’l regno tutto
1065Di ruinar minaccia; e già le faci
Volano ai tetti. A te gli occhi rivolti
Son de’ Latini. E già Latino stesso
Vacilla, e fra due stassi a qual di voi
1069S’attenga, e di cui suocero s’appelli.

[p. 607 modifica]

1070La regina che solo era sostegno
De la tua parte, di sua propria mano,
Per timore e per odio de la vita,
S’è strangolata. Solamente Atína
E Messápo a difesa de le porte
1075Fan testa; ma gli vanno i Teucri a schiere
Con tant’aste a rincontro e tante spade
Serrati insieme, quante a pena in campo
Non son le biade. E tu per questa vòta
E deserta campagna il carro indarno
1080Spingendo e volteggiando te ne stai?
     Turno da tante orribili novelle
Sopraggiunto in un tempo e spaventato,
Si smagò, s’ammutì, col viso a terra
Chinossi. Amor, vergogna, insania e lutto
1085E dolore e furore e coscïenza
Del suo stesso valore accolti in uno,
Gli arsero il core e gli avvamparo il volto.
     Ma poscia che gli fu la nebbia e l’ombra
De la mente sparita, e che la luce
1090Gli si scoprì della ragione in parte:
Così com’era ancor turbato e fero,
Di sopra al carro a la città rivolse
L’ardente vista. Ed ecco in su le mura
1094Vede che una gran fiamma al cielo ondeggia,

[p. 608 modifica]

1095Gli assiti, i ponti e le bertesche ardendo
D’una torre ch’a guardia era da lui
De la muraglia in su le ruote eretta.
E disse: Già, sorella, già son vinto
Dal mio destino. A che più m’attraversi?
1100Via dove la fortuna e Dio ne chiama!
Fermo son di venir col Teucro a l’armi,
E soffrir de la pugna e de la morte
Ogni acerbezza, anzi che tu mi vegga
De la gloria de’ miei, sorella, indegno.
1105Or al fato mi lascia: e sostien ch’io
Disfoghi infurïando il mio furore.
     Così dicendo, fuor del carro a terra
Gittossi incontinente, e la sirocchia
Lasciando afflitta, via per mezzo a l’armi
1110E per mezzo a’ nemici a correr diessi.
     Qual di cima d’un monte in precipizio
Rotolando si svolge un sasso alpestro,
Che dal vento o dagli anni o da la pioggia
Divelto, per le piagge a scosse, a balzi
1115Vada senza ritegno, e de le selve
E degli armenti e de’ pastori insieme
Meni guasto, ruina e strage avanti;
Tal per l’opposte e sbaragliate schiere
1119Se ne gía Turno. E giunto ove in cospetto

[p. 609 modifica]

1120De la città di molto sangue il campo
Era già sparso e pien di dardi il cielo;
Alzò la mano, e con gran voce disse:
     State, Rutuli, a dietro; e voi, Latini,
Toglietevi da l’armi. Ogni fortuna,
1125Qual ch’ella sia di questa pugna, è mia.
A me la colpa, a me si dee la pena
Del vïolato accordo: a me per tutti
Pugnar debitamente si conviene.
     A questo dir di mezzo ognun si tolse,
1130Ognun si ritirò. Di Turno il nome
Enea sentendo, il cominciato assalto
Dismise e da le mura e da le torri
E da tutte l’imprese si ritrasse.
Per letizia esultò, terribilmente
1135Fremè, si rassettò, si vibrò tutto
Ne l’armi, e ’n sè medesmo si raccolse;
Quanto il grand’Ato, o ’l grand’Èrice a l’aura
Non sorge a pena, o ’l gran padre Appennino.
Allor che d’elci la fronzuta chioma
1140Per vento gli si crolla, e che di neve
Gioioso alteramente s’incappella.
I Rutuli, i Latini, i Teucri, e tutti
O ch’a la guardia o ch’a l’offesa in prima
1144Fosser de la muraglia, ognuno a gara

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1145L’armi deposte, a rimirar si diero.
Latino esso re stesso spettatore
Ne fu con meraviglia ch’anzi a lui
Altri due re sì grandi, e di due parti
Del mondo sì diverse e sì remote,
1150Fosser de l’armi al paragon venuti.
     Eglino, poichè largo e sgombro il campo
Ebber davanti, non si fur da lunge
Veduti a pena, che correndo entrambi
Mosser l’un contra l’altro. I dardi in prima
1155S’avventâr di lontano, indi s’urtaro;
E ’l tonar degli scudi e ’l suon degli elmi
Fe la terra tremare, e l’aura ai colpi
Fischiò de’ brandi. La fortuna insieme
Si mischiò col valore. In cotal guisa
1160Sopra al gran Sila o del Taburno in cima,
D’amore accesi, con le fronti avverse
Van due tori animosi a riscontrarsi;
Che pavidi in disparte se ne stanno
I lor maestri, s’ammutisce e guarda
1165La torma tutta, e le giovenche intanto
Stan dubie a cui di lor marito e donno
Sia de l’armento a divenir concesso;
Ed essi urtando, con le corna intanto
1169Si dan ferute, che le spalle e i fianchi

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1170Ne grondan sangue, e ne rimugghia il bosco.
Tal del troiano e de l’ausonio duce
Era la pugna e tal de le percosse
E degli scudi il suono. A questo assalto
Il gran Giove nel ciel librate e pari
1175Tenne le sue bilance, e d’ambi il fato
Contrapesando, attese a qual di loro
Desse la sua fatica e ’l suo valore
De la vittoria o de la morte il crollo.
     Qui Turno a tempo, che sicuro e destro
1180Gli parve, alto levossi, e con la spada
Di tutta forza a l’avversario trasse,
E ne l’elmo il ferì. Gridaro i Teucri,
Trepidaro i Latini, e sgomentârsi
Tutte d’ambe gli esserciti le schiere.
1185Ma la perfida spada in mezzo al colpo
Si ruppe, e ’n sul fervore abbandonollo,
Sí che la fuga in sua vece gli valse:
Ch’a fuggir diessi, tosto che la destra
Disarmata si vide, e che da l’else
1190L’arme conobbe che la sua non era.
     È fama che da l’impeto accecato,
Allor che prima a la battaglia uscendo
Giunse Turno i cavalli e ’l carro ascese,
1194Per la confusïone e per la fretta

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1195Lasciato il patrio brando, a quel di piglio
Diè per disavventura, che davanti
Gli s’abbattè del suo Metisco in prima.
E questo, fin che dissipati e rotti
N’andaro i Teucri, assai fedele e saldo
1200Lungamente gli resse. Ma venuto
Con l’armi di Vulcano a paragone
(Come quel che di mano era costrutto
Di mortal fabro) mal temprato e frale,
Qual di ghiaccio, si franse e ne la sabbia
1205Ne rifulsero i pezzi. E così Turno
Fuggendo, or quinci or quindi per lo campo
Qual forsennato, indarno s’aggirava,
D’ogni parte rinchiuso; che da l’una
Lo serravano i Frigi e la palude,
1210E ’l fosso e la muraglia era da l’altra.
E non men ch’ei fuggisse, il teucro duce
(Come che da la piaga ancor tardato
Fosse de la saetta, e le ginocchia
Si sentisse ancor fiacche) il seguitava.
1215L’ardente voglia, e la speranza eguale
A la téma di lui, sì lo spingea,
Che già già gli era sopra, e già ’l feria.
Così cervo fugace o da le ripe
1219Chiuso d’un alto fiume, o circondato

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1220Da le vermiglie abbominate penne,
Se da veltro è cacciato o da molosso
Che correndo e latrando lo persegua,
Di qua di lui, di là del precipizio
Temendo e degli strali e degli agguati,
1225Fugge, rifugge, si travolge e torna
Per mille vie; nè dal feroce alano
È però meno atteso e men seguíto,
Che mai non l’abbandona: e già gli è presso
A bocca aperta, e già par che l’aggiunga,
1230E ’l prenda, e ’l tenga, e come se ’l tenesse,
Schiattisce, e ’l vento morde, e i denti inciocca.
     Allor le grida alzârsi, a cui le rupi
De’ monti e i laghi intorno rispondendo,
L’aria e ’l ciel tutto di tumulto empiero.
1235Mentre così fuggia Turno gridando
E rampognando i suoi, del proprio nome
Ciascun chiamava, e ’l suo brando chiedea.
     Enea da l’altra parte, minacciando
A tutti unitamente ed a qualunque
1240Di sovvenirlo e d’appressarlo osasse,
Che faria delle genti occisïone
Senza pietà, ch’a sacco, a ferro, a foco
Metteria la cittade e ’l regno tutto,
Sì com’era ferito, il seguitava.

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     1245Cinque volte girando il campo tutto,
E cinque rigirando, e molte e molte
Di qua di là correndo, imperversaro;
Chè non per gioco, non per lieve acquisto
D’onor, ma per l’imperio, per lo sangue,
1250Per la vita di Turno era il contrasto.
Per sorte in questo loco anticamente
Era a Fauno sacrato un oleastro
D’amare foglie, venerabil legno
A’ naviganti che dal mare usciti
1255A salvamento, al tronco, ai rami suoi
Lasciavano i lor voti e le lor vesti
A questo dio de’ Laürenti appese:
Non ebbero i Troiani a questo sacro
Più ch’agli altri profani arbori o sterpi
1260Alcun riguardo; onde con gli altri tutti
Lo distirpâr, perchè netto e spedito
Restasse il campo al marzïale incontro.
     De l’oleastro in loco era caduta
L’asta d’Enea: qui l’impeto la trasse;
1265Qui si tenea tra le sue barbe infissa.
E qui per ricovrarla il teucro duce
Chinossi, e per far pruova se con essa
Lanciando lo fermasse almen da lunge,
Poi ch’appressar correndo nol potea.

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     1270Allor per téma in sè Turno confuso,
Abbi, Fauno, di me cura e pietate,
Disse, pregando, e tu, benigna terra,
Sii del suo ferro a mio scampo tenace,
Se i vostri sacrifici e i vostri onori
1275Io mai sempre curai, che pur da’ Frigi
Son così vilipesi e profanati.
     Ciò disse, e non fu ’l detto e ’l voto in vano:
Ch’Enea molta fatica e molto indugio
Mise intorno al suo tèlo, nè con forza
1280Nè con industria alcuna ebbe possanza
Mai di sferrarlo. Or mentre vi s’affanna
E vi studia e vi suda, ecco Iuturna
Un’altra volta ne lo stesso auriga
Mutata gli si mostra, e la sua spada
1285Al fratello appresenta. E d’altra parte
Venere, disdegnando che la ninfa
Cotanto osasse, incontanente anch’ella
Accorse al figlio, e l’asta gli divelse.
Così d’arme, di speme e d’ardimento
1290Ambidue rinforzati, e l’un del brando,
L’altro de l’asta altero, un’altra volta
A vittoria anelando s’azzuffaro.
Stava Giuno a mirar questa battaglia
Sovr’un nembo dorato, allor che Giove

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1295Così le disse: E che faremo alfine,
Donna? E che far ci resta? Io so che sai,
E tu l’affermi, che da’ fati Enea
Si deve al cielo, e che tra noi s’aspetta.
Ch’agogni più? Che macchini, e che speri?
1300A che tra queste nubi or ti ravvolgi?
Convenevol ti sembra e degna cosa
Che mortal ferro a vïolar presuma
Un che fia divo? E ti par degno e giusto
Ch’a Turno in man la spada si riponga
1305Quando egli stesso la si tolse e ruppe?
E l’avria senza te Iuturna osato,
Non che potuto? A crescer forza ai vinti!
Togliti giù da questa impresa omai,
Togliti; e me, che te ne prego, ascolta:
1310Nè soffrir che ’l dolor, ch’entro ti rode,
Cangiando il dolce tuo sereno aspetto,
Sì ti conturbi, e sì spesso cagione
Mi sia d’amaritudine e di noia.
Quest’è l’ultima fine. Assai per mare,
1315Assai per terra hai tu fin qui potuto
A vessare i Troiani, a muover guerra
Così nefanda, a scompigliar la casa
Del re Latino, e ’ntorbidar le nozze,
Sì come hai fatto. Or più tentar non lece;

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1320Ed io tel vieto. E qui Giove si tacque.
     Abbassò ’l volto, ed umilmente a lui
Così Giuno rispose: Io, perchè noto
M’è, signor mio, questo tuo gran volere,
Ancor contra mia voglia abbandonata
1325Ho l’aita di Turno, e qui da terra
Mi son levata. Che se ciò non fosse,
Me così solitaria non vedresti,
Com’or mi vedi, in queste nubi ascosa,
E disposta a soffrir tutto ch’io soffro
1330Degno e non degno; ma di fiamme cinta
Mi rimescolerei per la battaglia
A danno de’ Troiani. Io, solo in questo,
Tel confesso, a Iuturna ho persuaso
Ch’al suo misero frate in sì grand’uopo
1335Non manchi di soccorso, e ch’ogni cosa
Tenti per la salute e per lo scampo
De la sua vita. E non però le dissi
Giammai che l’arco e le saette oprasse
Incontr’Enea. Tel giuro per la fonte
1340Di Stige, quel ch’a noi celesti numi
Solo è nume implacabile e tremendo.
Ora per obbedirti e perchè stanca
Di questa guerra e fastidita io sono,
Cedo e più non contendo. E sol di questo

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1345Desio che mi compiaccia (e questo al fato
Non è soggetto), che per mio contento,
Per onor de’ Latini, per grandezza
E maestà de’ tuoi, quando la pace,
L’accordo e ’l maritaggio fia conchiuso
1350(Che sia felicemente), il nome antico
Di Lazio e de le sue native genti,
L’abito e la favella non si mute:
Nè mai Teucri si chiamino o Troiani.
Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani
1355Sian d’Alba i regi, e la romana stirpe
D’italica virtù possente e chiara.
Poichè Troia perì, lascia che pèra
Anco il suo nome. A ciò Giove sorrise,
E così le rispose: Ah! sei pur nata
1360Ancor tu di Saturno, e mia sorella.
E consenti che l’ira e l’acerbezza
Così ti vinca? Or, come follemente
Le concepeste, il cor te ne disgombra
Omai del tutto. E tutto io ti concedo
1365Che tu domandi, e vinto mi ti rendo.
La favella, il costume e ’l nome loro
Ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi
Abbian con essi i Teucri uniti e misti.
D’ambedue questi popoli i costumi,

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1370I riti, i sacrifici in uno accolti,
Una gente farò ch’ad una voce
Latini si diranno. E quei che d’ambi
Nasceran poi, sovr’a l’umana gente,
Si vedran di possanza e di pietade
1375Girne a’ celesti eguali; e non mai tanto
Sarai tu cólta e riverita altrove.
     Di ciò Giuno appagossi, e lieta e mite,
Già verso i Teucri, al ciel fece ritorno.
Giove poscia Iuturna da l’aita
1380Distor pensò di suo fratello, e ’l fece
In questa guisa. Due le pèsti sono,
Che son Dire chiamate, al mondo uscite
Con Megera ad un parto, a lei sorelle,
Figlie a la Notte, e di Cocíto alunne,
1385Che d’aspi han parimente irte le chiome,
E di ventose bucce i dorsi alati.
Queste di Giove al tribunale intorno,
E de la sua gran reggia anzi la soglia
Si presentano allor che pena e pèsti
1390E morti a noi mortali, e guerre a’ luoghi
Che ne son meritevoli apparecchia.
Una di loro a terra immantinente
Spinse il padre celeste, onde Iuturna
De la fraterna morte augurio avesse.

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     1395Mosse la Dira, e di tempesta in guisa
Ch’impetuosamente trascorresse,
Volò come saetta che da Parto,
O da Cidone avvelenata uscisse,
E non vista, ronzando e l’ombre aprendo,
1400Ferita immedicabile portasse.
Giunta là ’ve di Turno e de’ Troiani
Vide le schiere, in forma si ristrinse
Subitamente di minore augello,
Ed in quel si cangiò che da’ sepolcri
1405E dagli antichi e solitari alberghi
Funesto canta, e sol di notte vola.
     Tal divenuta, a Turno s’appresenta,
Gli ulula, gli svolazza, gli s’aggira
Molte volte d’intorno; e fin con l’ali
1410Lo scudo gli percuote, e gli fa vento.
     Stupì, si raggricciò, muto divenne
Turno per la paura. E la sorella
Tosto che lo stridor sentinne e l’ali,
Le chiome si stracciò, graffiossi il volto,
1415E con le pugna il petto si percosse.
Or che, dicendo, omai, Turno, più puote
Per te la tua germana? e che più resta
A far per lo tuo scampo, o per l’indugio
De la tua morte? e come a cotal mostro

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1420Oppor mi posso io più? Già già mi tolgo
Di qui lontano. A che più spaventarmi?
Assai di téma, sventurato augello,
Nel tuo venir mi désti. E ben conosco
Ai segni del tuo canto e del tuo volo
1425Quel che m’apporti. E non punto m’inganna
Il severo precetto e ’l voler empio
Del superbo tonante. E questo è ’l pregio
De la verginità che mi ha rapita?
E perchè vita mi concesse eterna?
1430Perchè ’l morir mi tolse? Acciò morendo
Non finisse il mio duolo? acciò compagna
Gir non potessi al misero fratello?
Immortal io? Che valmi? E che mi puote
Ne l’immortalità parer soave
1435Senza il mio Turno? Or qual mi s’apre terra
Che seco mi riceva e mi rinchiugga
Tra l’ombre inferne: e non più ninfa e Dea
Ma sia mortale e morta? E così detto,
Grama e dolente, di ceruleo ammanto
1440Il capo si coverse. Indi correndo
Nel suo fiume gittossi, ove s’immerse
Infino al fondo, e ne mandò gemendo
In vece di sospir gorgogli a l’aura.
     Intanto il suo gran tèlo Enea vibrando

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1445Col nemico s’azzuffa, e fieramente
Lo rampogna e gli dice: Or qual più, Turno,
Farai tu mora, o sotterfugio, o schermo?
Con l’armi, con le man, Turno, e da presso,
Non co’ piè si combatte e di lontano.
1450Ma fuggi pur, diléguati, trasmútati,
Unisci le tue forze e ’l tuo valore,
Vola per l’aria, appiáttati sotterra,
Quanto puoi t’argomenta, e quanto sai,
Che pur giunto vi sei. Turno squassando
1455Il capo, Ah, gli rispose, che per fiero
Che mi ti mostri, io de la tua fierezza,
Orgoglioso campion, punto non temo,
Nè di te: degli Dei temo e di Giove,
Che nimici mi sono e meco irati.
     1460Nulla più disse; ma rivolto, appresso
Si vide un sasso, un sasso antico e grande
Ch’ivi a sorte per limite era posto
A spartir campi e tôr lite a’ vicini.
Era sì smisurato e di tal peso,
1465Che dodici di quei ch’oggi produce
Il secol nostro, e de’ più forti ancora,
Non l’avrebber di terra alzato a pena.
Turno diègli di piglio, e con esso alto
Correndo se ne gía verso il nimico,

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1470Senza veder nè come indi il togliesse,
Nè come lo levasse, nè se gisse,
Nè se corresse. Disnervate e fiacche
Gli vacillâr le gambe, e freddo e stretto
Gli si fe’ ’l sangue. Il sasso andò per l’aura
1475Sì che ’l colpo non giunse, e non percosse.
     Come di notte, allor che ’l sonno chiude
I languid’occhi a l’affannata gente,
Ne sembra alcuna volta essere al corso
Ardenti in prima, e poi freddi in su ’l mezzo,
1480Manchiam di lena sì ch’i piè, la lingua,
La voce, ogni potenza ne si toglie
Quasi in un tempo; così Turno invano
Tutte del suo valor le forze oprava
Da la Dira impedito. Allora in dubbio
1485Fu di sè stesso, e molti per la mente
Gli andaro e vari e torbidi pensieri.
Torse gli occhi a’ suoi Rutuli, e le mura
Mirò de la città: poscia sospeso
Fermossi, e pauroso; sopra il tèlo
1490Vistosi del gran Teucro, orror ne prese,
Non più sapendo o dove per suo scampo
Si ricovrasse, o quel che per suo schermo,
O per l’offesa del nimico oprasse.

[p. 624 modifica]

     Mentre così confuso e forsennato
1495Si sta, la fatal asta Enea vibrando,
Apposta ove colpisca, e con la forza
Del corpo tutto gli l’avventa e fere.
Machina con tant’impeto non pinse
Mai sasso e mai non fu squarciata nube
1500Che sì tonasse. Andò di turbo in guisa
Stridendo, e con la morte in su la punta
Furïosa passò di sette doppi
Lo rinforzato scudo; e la corazza
Aprendo, ne la coscia gli s’infisse.
1505Diè del ginocchio a questo colpo in terra
Turno ferito. I Rutuli gridaro;
E tal surse fra lor tumulto e pianto,
Che ’l monte tutto e le foreste intorno
Ne rintonaro. Allor gli occhi e la destra
1510Alzando in atto umilmente rimesso,
E supplicante: Io, disse, ho meritato
Questa fortuna; e tu segui la tua:
Chè nè vita, nè venia ti dimando.
Ma se pietà de’ padri il cor ti tange
1515(Chè ancor tu padre avesti, e padre sei),
Del mio vecchio parente or ti sovvenga.
E se morto mi vuoi, morto ch’io sia,

[p. 625 modifica]

Rendi il mio corpo a’ miei. Tu vincitore,
Ed io son vinto. E già gli Ausoni tutti
1520Mi ti veggiono a’ piè, che supplicando
Mercè ti chieggio: e già Lavinia è tua:
A che più contro un morto odio e tenzone?
          Enea ferocemente altero e torvo
Stette ne l’arme, e vòlti gli occhi a torno,
1525Frenò la destra; e con l’indugio ognora
Più mite, al suo pregar si raddolciva:
Quando di cima all’omero il fermaglio
Del cinto infortunato di Pallante
Negli occhi gli rifulse. E ben conobbe
1530A le note sue bolle esser quel desso,
Di che Turno quel dì l’avea spogliato.
Che gli diè morte; e che per vanto poscia
Come nemica e glorïosa spoglia
Lo portò sempre al petto attraversato.
1535Tosto che ’l vide, amara rimembranza
Gli fu di quel ch’ei n’ebbe affanno e doglia;
E d’ira e di furore il petto acceso,
E terribile il volto, Ah, disse, adunque
Tu de le spoglie d’un mio tanto amico
1540Adorno, oggi di man presumi uscírmi,
Sì che non muoia? Muori: e questo colpo

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Ti dà Pallante, e da Pallante il prendi,
A lui, per mia vendetta e per sua vittima,
Te, la tua pena, e ’l tuo sangue consacro.
1545E, ciò dicendo, il petto gli trafisse.
Allor da mortal gielo il corpo appreso
Abbandonossi; e l’anima di vita
Sdegnosamente sospirando uscío.

  1. Tutte l’edizioni hanno armi, ma stando al testo sicuramente apparisce che dovrebbe dire sangue. Il lettore giudichi di questa osservazione.

    Ediz. Passigli.