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[120-144] libro ix. 401

120La madre, al sommo Giove orando, disse:
Figlio, che sei per me de l’universo
Monarca eterno, a me tua cara madre
Fa quel ch’io chieggio, e tu mi devi, onore.
È nel gárgaro giogo un bosco in cima
125Da me diletto, ed al mio nume additto
Già di gran tempo. Era d’abeti e d’aceri
E di pini e di peci ombroso e denso;
Ma quando de l’armata ebbe uopo in prima
Il giovine Troiano, al magistero
130Volentier de’ suoi legni il concedei.
Quinci uscîr le sue navi; e come figlie
Di quella selva, a me son sacre e care
Sì ch’or ne temo; e del timor che n’aggio
Priego che m’assicuri; e ’l priego mio
135Questo possa appo a te, che tanto puoi,
Che nè da corso mai, nè da fortuna
Sian di venti, o di flutti, o di tempeste
Squassate o vinte: e lor vaglia che nate
Son ne’ miei monti. A cui Giove rispose:
     140Madre, a che stringi i fati? E qual, per cui,
Cerchi tu privilegio? A mortal cosa
Farò dono immortale? E mortal uomo
Non sarà sottoposto a’ rischi umani?
Ed a qual degli Dei tanto è permesso?

Caro. — 26. [82-97]