In faccia al destino/Parte Prima

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In faccia al destino Parte Seconda

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IN FACCIA AL DESTINO


PARTE PRIMA.

I.

Ero da pochi giorni a Valdigorgo, e già deluso nel tentativo estremo per cui mi ero trasportato da Molinella, alla casa dell’amico Moser, alle Prealpi.

Non avevo avuto la speranza che l’aria di lassù mi purificasse lo spirito; soltanto avevo pensato che la famigliarità con gente di cuore potrebbe scuotermi il cuore. Tre anni innanzi, quando combattevo i primi fieri assalti del nemico insorto in me, non avevo attinto lassù nuove forze alla resistenza? là non avevo provato il sollievo di lunghe tregue?

Claudio Moser con animo aperto e affetto antico; Eugenia, sua moglie, con la bontà che io non sapevo paragonare se non alla bontà di mia madre; le figliole — Marcella e Ortensia — soavi e liete; il piccolo Mino, instancabile al trotto delle mie ginocchia, quante volte parlandomi nella memoria mi avevano chiamato a loro, come in porto e a rivivere!

Ma invano! Avevo fatto invano il lungo viaggio! [p. 4 modifica]

Fortunatamente, se io ero a tal punto da non sentire più nulla e da rincrescere agli altri oltre che a me stesso, fortunatamente io avevo trovato la famiglia Moser in condizioni diverse: Claudio, sovraccarico di faccende, s’assentava interi giorni; la moglie, non era ancora in piena convalescenza d’una malattia quasi mortale; Marcella, da brava massaia diciannovenne, s’intratteneva a diriger la casa; Ortensia, assisteva la madre; e il fanciullo, prossimo ormai all’età della discrezione, preferiva, al trotto delle mie ginocchia, tamburi, pifferi e schioppi.

— Qua sei il padrone tu — mi aveva detto Moser. — Fa quel che vuoi per annoiarti più o meno, secondo la tua filosofia.

Pur troppo io non volevo nulla: soltanto restar solo. Dal dì dell’arrivo non avevo più varcato il cancello. Mi appartavo nel giardino a giacere e a sonnecchiar ignaro.

Così indifferente ero divenuto, che non mi ero accorto della differenza delle cose intorno; non avevo riconosciuto i vecchi alberi, non osservate le nuove piante e le recenti aiuole, quasi fossero per me luogo e paesaggio nuovi ma senza novità, o vecchi e sempre uguali, e sempre visti uguali.

E non per intimo impulso, ma come per inerzia, salivo ogni dì, alle ore solite, dall’inferma. Ne’ suoi occhi freddamente io scorgevo un velo di rassegnazione se la fede di guarire le venisse meno; e al suo orecchio le mie parole giungevano fredde, perchè non confortavano, ma soltanto confermavano una cosa certa alla mia scienza: la guarigione. Nè a vederla così emaciata mi veniva fatto di ripensarla quale era ancora in salute, [p. 5 modifica]tanto bella e fiorente una volta! Quanti anni innanzi? Non più di quattordici. Allora io, ero appena laureato; essa aveva Marcella di cinque o sei anni e Ortensia piccolina. Che bellezza a vederla con la fanciulletta a lato e quell’angiolo biondo in braccio! Una bellezza materna. E come Eugenia era bella allora, io ero baldanzoso e ambizioso. Rapito nel mio sogno di scienza e di gloria, appena mi accorgevo di quel fiore di donna; e non l’invidiavo all’amico. Restavo chiuso nella mia camera quasi tutto il giorno a studiare; non mi distraeva la delizia del luogo; non mi rimproverava la cortesia della buona signora, a cui tenevo sì povera compagnia.

Talvolta, nella passeggiata avanti desinare per andar incontro a Claudio, Eugenia, come senza volere, ingenuamente, mi aveva detto di essere troppo racchiuso in me stesso, richiamando la mia attenzione alla vita esterna, ai bei tramonti, al bel paesaggio; e che soggezione era in lei se io mi inducevo a discorrere delle mie idee e dei miei studi! Mi ascoltava avvolgendomi del suo sguardo; lo sguardo che abbelliva ora Marcella. Per la via chi ci vedeva sogguardava forse malignamente: Eugenia non aveva ombra di alcuna malizia; e quando incontravamo Moser ed essa sorrideva e s’accendeva di gioia, oh allora io mi compiacevo che neppur l’ombra di un pensiero sinistro offendesse, entro di me, l’amore e la gioia di Claudio! Non avevo avuto mai, non ebbi mai per Eugenia un pensiero di profanazione; sempre ebbi per lei una devozione affettuosa e pura.

Ma ora quasi mi pareva naturale che Eugenia fosse così intristita e smunta, quasi fosse stata [p. 6 modifica]sempre così. A udirla narrare adagio e piano della sua malattia e delle pene de’ suoi, mi pareva d’ascoltare un racconto non più doloroso; mi pareva naturale che nello sguardo di Marcella passasse l’ombra di tante angosce; naturale che Ortensia poggiasse il capo accanto al capo della madre e che le rosee guance e le guance emaciate stessero insieme un poco sul cuscino bianco, e che le labbra vive di sangue ricercassero a quando a quando, come per riscaldarla, la fronte esangue.

Finchè un giorno, mentre Ortensia usciva dalla stanza, dissi senza intenzione di recar piacere, senza intenzione alcuna:

— Sono belle, Eugenia, le vostre figliole.

La madre non negò. Affermò:

— Sono buone.

Io tacqui, parendomi naturale che la madre, non io, che pure le conoscevo, ne avvertisse la bontà e che io tacessi.

Ma quello stesso giorno, avanti desinare, Ortensia mi sorprese laggiù, sotto i tigli.

Disse scherzosa: — Riverisco! — e s’inchinò.

— Chi t’ha svelato il mio rifugio? — domandai a mezza voce. (Ubbidendo a Moser proseguivo a dar del tu alle signorine, tuttavia bambine agli occhi del padre....)

— Lo sapevo — ella rispose. Poi aggiunse franca: — E voglio saper tutto, tutto!

— Che cosa?

— La mamma lo dice da un pezzo: Sivori è mutato. Si può sapere cos’ha?

Quantunque ardita innanzi a me, Ortensia m’interrogava con un sorriso incerto; col dubbio manifesto che non le rivelerei il mio segreto, e col [p. 7 modifica]rammarico che neppur lei, la mia «piccola amica» d’una volta, meriterebbe tal confidenza. Dubitava d’un mistero. E io, che non sapevo che dirle:

— Sono stanco — dissi; e la guardai in modo da toglierle il sospetto del mistero.

— Stanco fin di parlare?

— Sì....; non d’ascoltare, però. Parla tu.

— Santa pazienza! Parlare? Ma di che, con lei?

Frattanto siedè nell’erba e s’abbandonò non scomposta, reclinando il capo a un tronco, e chiese:

— Che debbo dirle? Su! presto!

Ma io non avevo ancora parlato ch’essa si rialzò d’un tratto a seder meglio.

E fermando al petto un grosso mazzo di margherite:

— È stanco anche dei fiori?

Non risposi.

Allora venne a pormi due margherite all’occhiello della giacca, mentre ripeteva: — Sivori non è più lui! non è più lui!

Ed io scossi le spalle, impaziente:

— Parla d’altro!

— Cosa debbo dirle? Andiamo!

— Raccontami della tua vita in città, quest’inverno. Andavi a scuola?

— A scuola io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!

Ne pareva meravigliata essa stessa.

— E ne sai abbastanza?

— Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi — siamo rimaste a Milano tre mesi — tutti i giorni quella seccatura! Io non ne azzeccavo una; le somme non [p. 8 modifica]tornavano, le moltiplicazioni peggio che peggio! Come sarà che da me i numeri non si lasciano moltiplicare? Basta; la maestra, poveretta, scuoteva la testa come una tartaruga e sospirava: «Non ha disposizione alla matematica!» Il guaio è che diceva lo stesso la maestra di francese, madame Duret. La conosce madame Duret? No? non la conosce? — (Rideva di gran gusto) — Immagini un uomo vestito da donna, con una sottana di color malva corta corta, una mantellina nera, un cappello di fil di ferro, il fusto s’intende, ma con il velo e i nastri sossopra che lasciavano vedere il fusto; e un naso, oh che naso! Buona però, tanto buona. Madame Vous-vous!... Sa perchè io la chiamavo così. Madame Vous-vous? Perchè lei diceva: Bonjour, mademoiselle! E io: Bonjour, madame. Comment vous portez? Mi dimenticavo sempre, a posta, il secondo vous. E lei: portez vous! vous! Quelle étourderie!

— Eppoi?

— Eppoi cosa?

Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all’inverno.

Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno. A teatro sì, qualche volta....; a opere o a commedie, di cui finsi ignorare l’argomento per non aver necessità d’interloquire e per lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell’esprimere impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza insolita, e s’arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo entusiasmo. Domandava: — Non è forse un bel dramma? Che bella musica, è vero? [p. 9 modifica]

Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere, io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè in quell’ora i suoi occhi avessero una luce più viva o perchè la tinta rossa del tramonto mi rappresentasse, d’improvviso, un altro simile tramonto; non so perchè e come, io ebbi l’istantaneo presentimento d’un risveglio in me nel rinnovarsi d’un ricordo. La memoria, repentinamente e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace coscienza di vita.

Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza; era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.

E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.


Un giorno d’autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l’occhio nel paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei amici; ragazzi e ragazze. Che facevano [p. 10 modifica]lassù? Quale nobile impresa? Volli sorprenderli. M’inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una macchia.

Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava interrompendosi per sgridare, quale direttore all’opera, e finiva di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il combustibile.

— Là!

— Nella siepe!

— Sotto al noce!

Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.

Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia recava a bracciate.

Guido protestava:

— Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!

— Ecco! A te! prendi!

— Che uomini! Un’ora per fare un po’ di fuoco! — gridava Ortensia.

E Learchi a bofonchiarla: — Meh! meh! meh!

Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:

— Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!

Finchè annunciò: — Pronti! — e appiccò il fuoco. Un clamore d’applausi salutò, le prime volute di fumo.

— Forza! Siete in ordine?

— Sì, ma non le bracie! [p. 11 modifica]

Quand’ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:

— Legna grossa, signori! legna da carbone! — Si traeva dietro una panca.

— Da bruciare?

— Sei matto?!

— Bruciamola! Bruciamola!

— Non si può! Non è nostra! — protestava Marcella.

— È rotta!

— Bene! Va bene, questa!

— Bruciamola!

— No!

— Sì!

— Sì! Bruciamola! Urtoni, strappi, scappellotti, strida.

E io piombai in mezzo alla mischia.

Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:

— Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! — Sta bene? — Ma si accomodi! — Che cosa comanda? — Uh, che faccia!

Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:

— In che possiamo servirla?

Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle spalle.

— Punto primo! — urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) — Qui si è rubato!

— Nossignore! — S’inganna! — Non è vero!

— Lasciatelo dire!

— Si sono sbattuti i castagni!

— È falso! — Calunnia! — Calunnia! — Lasciatelo cantare! Ha invidia! — Si calmi.... [p. 12 modifica]

— Questi ricci sono stati staccati dalle piante! Ho visto! Si vede!

— Uh!... Bugia! Li abbiamo raccolti in terra!

— Tutti? — interrogavo ora chi non mentiva mai: Ortensia.

— In terra! erano in terra!

Ma Ortensia rispose:

— Due soltanto....

— E chi li ha tolti?

— Io!

Sincera fino alla sfacciataggine. Tutti, tranne Pieruccio, il quale cheto cheto proseguiva l’addobbo al mio dorso, risero, e le dissero: — Brava!

Io urlai ancora:

— Punto secondo! È proibito mangiar castagne o cotte o crude prima di desinare.

— Brrr! — Ha ragione! — Non gliene daremo nemmeno una! — Sì! una, perchè ne faccia la voglia! — Nessuna! Nessuna! — Poverino!...

Anna aggiunse: — La finisca! — ; e la timida Marcella, anche lei: — La smetta!

A cui seguì stentorea la minaccia di Guido; la minaccia studentesca, piazzaiuola, anarchica, spaventevole:

— Abbasso i poliziotti!

— Abbasso!

Che fare? Chi mi salverebbe? Solo un incidente imprevedibile. Infatti Pieruccio, compiuta l’opera sua, mi punse d’un riccio a un polpaccio, e io mi gli rivolsi contro....

— Evviva! — Parve si scoprisse un monumento. Tal gioia fu a vedermi tappezzato a quel modo, che le signorine e il monello minore fecero, a mano a mano, catena; mi rinchiusero in un cerchio; mi rigirarono cantando in coro: [p. 13 modifica]


È arrivato l’ambasciatore,
Ulì, ulì, ulera!
È arrivato l’ambasciatore,
Uli, ulì, ulà!

Intanto Guido sopperiva alla bisogna.

Punf! paf! Due castagne scoppiarono: Marcella e Anna mi presero a braccio; Ortensia mi ripuliva; Pieruccio accorse e si scottò le dita.

— Sia buono! — cominciarono a pregarmi i meno ingordi. — Non faccia la spia! Mangi con noi! — E mi convenne sedere al banchetto, complice o manutengolo.

Ma (approssimava il tramonto) dal fondo dell’anima io mi sentiva sorgere a poco a poco un’uggia che oscurava il sollazzo cercato con simpatia puerile; e in me avvertivo come uno sforzo a dimenticare la differenza dell’età fra me e coloro, e provavo come il rimpianto di quell’età, e mi chiedevo se a quindici anni io avessi avuto una giornata di così piena giocondità, di così assoluta spensieratezza. I compagni ridevano, motteggiavano, bofonchiavano, si eccitavano a vicenda, maggiori e minori, per esilarare ed esilararsi sempre più; e il giorno era per morire, nel modo dei giorni d’autunno.

Finchè, sazii, si levarono; avventarono nel fuoco quanto fogliame poterono raccogliere d’intorno, e dopo nuovi applausi ed evviva, a rincorse, strillando giù per il viale, tutti m’abbandonarono: un drappello di passeri che aveva spiccato il volo.

Si confusero le voci; echeggiarono forti; tornarono deboli; cessarono interrotte e furon riprese là in fondo, lontano, da un richiamo più alto; morirono. [p. 14 modifica]

Intanto il sole cadeva in un’onda di vivo sangue e i raggi che ne sprizzavano, colpendo il monte avverso, vibravano tra i faggi, gli abeti e i castagni della densa costa boschiva, sì che pareva, a fusti d’ametista e di zaffiro, una selva incantata, tutta fulgida d’oro, sfavillante. A nord i monti in cerchia dove non avevano luce o non ricevevan riverbero, annerivano; mancavano i profili e i contorni; scemavano e sfumavano le ultime vette; e dalla parte di mezzodì, sulla plaga che scampa alle due catene protese quasi per un impotente abbraccio, su per la pianura immensa aperta all’orizzonte, il cielo digradava dalle tinta di viola e un’opalina bianchezza a un cilestre che diventava azzurro, a un azzurro che incupiva sempre più; finchè terra e cielo insieme terminavano nell’oscurità.

E silenzio. Non più voce alcuna; non una squilla. D’improvviso, come non mai, neppure in una notte serena lontano agli uomini e perduto sotto l’infinito; neppure in mezzo al mare ricordando la patria e cercando indarno un limite terrestre, io mi sentii allora, come non mai, solo. Non un grido, non un suono; oblio. E in quell’oblio d’ogni cosa viva per me, d’ogni mio pensiero, smarrendomi nella percezione dell’attimo, veramente io patii il senso di un superstite che scorgeva dall’una parte la cruenta morte del sole e dall’altra l’estrema illusione della vita, mentre da dietro incalzavano le tenebre, la morte precipitava; e avevo dinanzi l’infinito per rifugio, e tutte le mie forze vi tendevano quasi in un disperato ritorno per una disperata salvezza; e invano, che una forza più valida mi avvinceva lassù: solo. [p. 15 modifica]

Cercai anche con incerti occhi il fumo che rimaneva del falò acceso dai ragazzi; e quel povero segno umano vaporava subito, svaniva; non altro a vederlo che quanto rimaneva d’un rogo con cui pochi mortali, già travolti nelle tenebra, avessero creduto placare il Dio o il fato inesorabile.

Non un suono, non un grido; morte. Ma allo smarrimento di me stesso, che volevo fuggire da me stesso e non potevo, mi seguiva a poco a poco una rassegnazione di schiavo, una prostrazione di vile, un impulso a pregare, una tentazione a piangere, un doloroso desiderio dei miei, che mi avevano preceduto nella morte e nell’ombra.

— Che fa quassù?

Mi voltai. Ortensia accorreva.

— E ora di pranzo — esclamò giuliva.

Ella ansimava per la corsa e per l’erta.

Ma arrestandosi d’un tratto, non attese più a me; rapita d’un tratto, più presto, di me, con maggior impeto verso quella splendida agonia del giorno.

Quindi mutata in viso mormorò:

— Che tristezza, non è vero?

Io la guardai negli occhi. E vidi un’anima.


Non era strano che questo ricordo di tre anni avanti mi tornasse in mente ora, quando la mia mente ripugnava da ogni considerazione che non fosse il mio male presente e immenso?

Poi seguì al ricordo un’idea ugualmente strana: — per riprender la vita non mi gioverebbe tornar fra ragazzi quale un ragazzo? — Guardai Ortensia mentre chiacchierava.... Avevo visto un’anima.... Ma adesso Ortensia era sui [p. 16 modifica]diciassette anni; era una giovinetta; e come per tutte le altre della sua età, belle o brutte che siano null’altro le ferveva negli occhi che la giovinezza.

Ancora deluso, in me svanì l’effetto di quel primo risveglio della memoria; scomparve l’idea che l’aveva seguito fugace al pari di un baleno; ripiombai nel vuoto.

— Ohe! Non risponde? — esclamò Ortensia quando fu stanca e, a una sua dimanda rimasta sospesa, s’accorse che non le badavo più. Aggiunse, malcontenta: — Mio Dio! che uomo!

Mi sembrò allora che la baldanza della giovinetta celasse un segreto timore; pensai ch’ella e forse altri dei Moser dubitassero di vedermi impazzire.

A confermarmi nel sospetto quella stessa sera, a desinare, Claudio si ricompose la barba come soleva in caso di pensieri molesti, e un po’ oscurato nella faccia, di solito così serena, mi disse:

— Senti, Carlo: aut aut: o tu mi accompagni giù in pianura, tutti i giorni, a goderti con me trentacinque gradi all’ombra, o mi dai la tua parola....

— Ah! — interruppi — Eugenia ha detto anche a te che Sivori non è più quello?

Fu una dimanda aspra, con un sorriso amaro.

— Non centra Eugenia. Io, io, a ricordarmi che ho un amico a casa mia che s’annoia mortalmente e che per non annoiarsi è costretto a meditare su l’impossibile....

Scossi, annoiato, le spalle.

— .... un amico che non lavora come me, all’antica, più con le gambe che con la testa, ma un uomo moderno che lavora solo di cervello [p. 17 modifica]e che è venuto da me per riposarsi e non può, perchè non ha distrazioni e non ne vuole, io ci patisco, perdio! me ne dispiace molto! Sforzati a cacciare il malumore....

(Sorrisi a udirmi attribuire soltanto del malumore....)

— ....Devi darmi la tua parola che uscirai dal covo, ti muoverai, andrai in paese, alla fabbrica, da qualche parte insomma, purchè quando torno a casa non ti veda con quel muso da Spinoza!

— Sta tranquillo! — feci io— ; non medito; non mi annoio: mi riposo. L’aria di Valdigorgo basterà per guarire un po’ di stanchezza....

— Sicuro che dovrebbe bastare!...; ma intanto il tuo muso da Spinoza offende Valdigorgo, offende questo paradiso terrestre, offende me!

Mino chiese: — Babbo, chi è Spinoza?

Claudio lo conosceva solo di nome; tuttavia rispose pronto e feroce:

— È un bravomo senza giudizio come Sivori! Se diventassi uno Spinoza anche tu, ti strozzerei! E voi, — aggiunse rivolto alle figlie — perchè dimenticate la consegna di non lasciare a Sivori un minuto di quiete? Tormentatelo, talpe!; fategli tutte le birichinate che vi verranno in mente!...

Marcella si scusò dicendo che temevano disturbarmi. Più ardita, Ortensia mi fissò un istante e promise che lei e Mino mi avrebbero scovato da per tutto e me ne avrebbero fatte delle belle. [p. 18 modifica]

II.


La mattina dopo mi incamminavo al di là del cancello per la via montana a cercar un nuovo e più sicuro nascondiglio. Ma troppo tardi! Ortensia mi raggiunse di corsa.

— Andiamo a salutare Giovannin?

Andammo là, presso il muricciolo di fronte alla villa, dove ogni mattina Giovannino il cieco veniva, con lo sgabelletto sotto il braccio, l’organetto in una mano e il bastone nell’altra. Ivi, accanto al muro, sedeva ad aspettare l’elemosina mentre riprendeva dallo sfiatato strumento l’«addio, mia bella, addio!»; e intanto borbottava e sorrideva, nessuno sapeva a chi.

Per gli occhi aperti e immoti non vedevano le spente pupille; non aspetto di cielo e di campagna o di persona tornava alla memoria di quel povero diavolo. Giovannin sorrideva, ma d’un sorriso cieco anch’esso, come per una insistente contrazione delle labbra, o per ebetudine; finchè non sopravvenivano i monellacci. Allora, giù l’organetto e su il bastone! S’alzava in piedi, ad armarsi anche dello sgabelletto, quando i nemici l’assalivano troppo da presso; e alle beffe rispondeva con parole oscene, che anch’egli aveva apprese. Senza dubbio però quell’omicciattolo dalle gambe rachitiche e storte, dalla testa enorme, su cui non bastava il cappello elemosinato, dalla fronte nera di schianze per botte contro i muri, dal dorso informe nel gabbano non proprio, dai [p. 19 modifica]piedi perduti in mostruose scarpe, quel miserabile aveva talvolta consolazioni per le quali sorrideva in altro modo, con un barlume di pensiero e di sentimento.

Ortensia gli chiese:

— Sai chi sono?

Subito egli, tutt’allegro:

— Ortensia di Claudio!

Fin da bambine Ortensia e Marcella gli recavano i dolci e le frutta.

— Mi vuoi bene?

— Come a Dio!

La ragazza ruppe in una risata esclamando: — Troppo! troppo! — Ma quel troppo rispondeva a una elemosina più copiosa del solito.

Scambiate poche altre parole col cieco, Ortensia mi chiese:

— va a spasso?

— Sì.

— Buona passeggiata!

Nient’altro ella disse; non dimostrò intenzione d’accompagnarmi, nè fece alcun accenno alle raccomandazioni paterne della sera innanzi. Fosse nel suo contegno delicatezza spontanea, o suggerita dalla madre, le scorsi in viso il sincero augurio che la passeggiata mi facesse bene. Quasi che camminando io potessi fuggir da me stesso!; quasi che io potessi non riferir la mia miseria a ogni cosa che trattenesse il mio sguardo, a ogni persona che incontrassi! Mi confrontavo a Giovannino. Ero forse men cieco di lui io che vedevo senza lume di ragione l’infinito universo e nell’infinito universo vedevo senza un perchè l’atomo del mio corpo, l’attimo della mia esistenza? Ma Giovannin almeno or s’adirava, [p. 20 modifica]or sorrideva. Io invece non sentivo nulla, più nulla! Oh, non potendo amare, se avessi potuto odiare! Odiare con la voluttà del despota che uccide e distrugge, con lo scherno del misantropo che nega ai credenti e agli illusi la possibilità d’esser felici! Odiare il gregge matto che pasce e si riproduce nei pascoli opimi o fra i triboli, e bela invocazioni alla felicità! Odiare l’umanità che trovò il telegrafo e perde Dio; che rintraccia bacilli mortiferi e patisce il raffreddore; che proclama fratellanza e perfeziona la guerra; che va in chiesa e s’uccide per amore; che scrive poemi e pute!

Ma neanche odiare potevo! Nulla! Per me al mondo non c’era più nulla! Solo quel vuoto enorme entro di me.... — Buona passeggiata! — Voleva forse l’augurio che divagassi lo sguardo per i noti luoghi e ricuperassi altri ricordi?

Ebbene: mentre salivo alla strada dell’antico convento, sulla porta della prima casupola, trovai, di poco mutata, la pallida fanciulletta che un giorno, con gli occhi nel mistero, m’aveva dimandato: — Li fa la gatta i gattini?

Ed ecco da questo ricordo derivarne, non so come, un altro: di una faccia puerile anche più pallida. Era tra le memorie della mia gaia vita di studente l’impressione che provai un giorno, quando su la tavola anatomica vidi un compagno spolpare le gambe d’un bambino. Tranquillamente m’ero esercitato in più d’un cadavere.... Eppure la vista di quel bambino...., che impressione! Or dunque ascoltai se questo ricordo mi rinnovasse il senso penoso di quell’impressione antica. No. Rimase un ricordo del tutto mentale; non sentivo più nulla; e la pallida [p. 21 modifica]ragazzetta, riconoscendomi, stupì che non le dicessi nulla.

— Buona passeggiata! — Poco oltre, a una seconda casupola, intravidi il calzolaio socialista, che, un giorno, alla mia richiesta se pensasse di non dover più tirar lo spago nella sua repubblica sociale, aveva tratto dalle ginocchia una logora ciabatta, e mostrandomela aveva risposto:

— Invece che rappezzare di queste, cuciremo scarpe nuove!

Così il ciabattino concepiva le sorti progressive dell’umanità! Ma a rivederlo, ecco un altro ricordo: nelle sorti progressive dell’umanità io ci avevo creduto più di lui! Una fede più grande io avevo avuta!

Ah i bei tempi quando dallo studiare il male in questo o in quell’uomo ero risalito a studiar la vita di tutti gli uomini; dalla medicina alla storia, dalla storia all’antropologia, alla biologia, alla psicologia, etcetera, e avevo distrutto dei e religioni, filosofi e sistemi, per conquistare positivamente Dio!

Bei giorni anche quando avevo visto morire i miei con sereno dolore, con nobile rassegnazione alla necessità della vita!

Bei giorni quando la morte non mi faceva ancora ombra all’amore e delle donne amate per brev’ora non scorgevo lo scheletro, non mi chiedevo perchè e come era viva la carne che ne rivestiva lo scheletro!

Chi mi avrebbe mai detto in quei tempi di fede: Verrà il dì che proverai in te un male a cui non basteranno le docce, da te consigliate adesso a chi non ha la tua fede! — Altro che nervi esausti! II cuore, il cuore era esaurito; e non di sangue; e a tal punto che... [p. 22 modifica]

Meglio ridere!

Al bivio presi la via del monte. Ci rividi Martino, cenciaiuolo e merciaiuolo, che scendeva con la biroccia e l’asino. Dei due, chi mostrava più segni del tempo trascorso nella mia assenza, non era l’asino, era Martino. Aveva la barba bianca e camminava curvo; non come una volta a lato alla biroccia, ma dietro. L’asino invece, tale e quale: nel pelo, nell’andatura, in tutto. E dei tre, il cenciaiuolo, l’asino ed io, chi più invecchiato? Io! Ma che cosa mai aveva meritato o demeritato dalla sorte in quei due anni l’onesto Martino? Così invecchiato mi appariva, che non potèi non interrogarlo.

— Nessuno al mondo è felice come voi! — io gli dissi per ridere, per divagarmi.

Mi guardò e rise lui per rispetto; chè alle canzonature degli eguali rispondeva in altro modo.

— No? — continuai. — Vostra moglie non sta bene?

— Bene; grazie a Dio.

— Foste ammalato voi?

— Grazie a Dio, nossignore.

— E l’asino sta benone! Dunque è cresciuto il prezzo della mercanzia?

— No, no! II percalle anzi si compra meglio; anche la tela. Ma.... — sospirò.

— Calato il prezzo degli stracci?

Scosse il capo guardandomi tuttavia incerto.

— Ah, capisco! Qualche disgrazia, forse, che non potete confidarmi....

Il poveretto, da uomo uso a longanimità, chinò la testa e tacque a lungo. Quindi si sfogò:

— Le par poco, a lei, lavorar vent’anni, da casa a casa, a stentare il soldo? Consumare le [p. 23 modifica]gambe; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo per....

Io lo prevenni:

— Per aprir bottega!...

— Non è vita da cani questa?

A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava l’ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui invecchiava, gli era un’ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz’aver avuto mai nè donna né asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino, io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloriai la gloria!

Quanto all’asino.... Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l’asino che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:

— Solita vita, caro signore! — Tritar fieno e paglia, nel sacco che gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e scorticare il prato quando aveva erba fresca; d’estate arrostarsi dalle mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l’inverno; grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo alla polvere, con ragli e gamba all’aria; dare il buon giorno, in suo modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per [p. 24 modifica]ragioni sue intime, non meditate e non lamentate, delle asine in cui s’incontrasse: appena a primavera le salutava; ma d’un saluto fraterno, o d’un reciproco ingenuo poetico richiamo alla natura novella.

E poichè l’asino di Martino era anche utile al commercio e all’industria, forme e prove di progresso umano; poichè all’industria e al commercio senza dubbio è più utile un merciaiuolo che un filosofo; poichè, secondo filosofia, di me viveva meglio il cenciaiuolo, ma, secondo natura, del cenciaiuolo viveva meglio l’asino, fra i tre il più sapiente era dunque l’asino e fra i tre il più asino ero dunque io!

Ridere?... Ripensavo:

Interrogai la divinità, non mi rispose. Interrogai gli uomini, non seppero rispondermi. Interrogai le cose, mistero! Interrogai me stesso, e seppi che non posso sapere....

Dall’asino, tutt’al più, posso apprendere che per vivere non importa sapere; e un tempo mi sarebbe bastato opporgli: senza sapere che importa vivere? E adesso io vivo senza sentire!

— Addio Martino! Cerca fortuna, per la bottega....

Per me non c’era più alcuna fortuna, alcuna speranza!

Voglio dirla la cosa orrenda! Voglio dir tutto!

Ero arrivato a tal punto d’insensibilità che i miei morti — mio padre e mia madre!... — tornavano al mio pensiero, c’insistevano, ma io non ne avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei [p. 25 modifica]tornavano a me; e non parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete tutta la mia miseria?

Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a tale estremo, sia pur maledetta la scienza!

— Buona passeggiata! — Proseguivo per l’erta via che congiunge Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando a quando, un confuso murmure di voci e d’opere. Salivano donne fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato; transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva, una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida. Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me, no, non mi ridava l’anima! Tra due massi scaturiva un’acqua sorgiva che rigava d’una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna, lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra con la testa indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido, ingordo, d’un solo fiato. La gola riarsa si dilatava palpitava al passar del liquido e della frescura.

Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi [p. 26 modifica]all’uomo quando si rialzò con un forte: — Ah!... — E riafferrata la frusta mentre si asciugava la bocca col dorso dell’altra mano, egli la fe’ schioccare, e mandò da lungi un grido alle sue bestie.

A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita»

III.

Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze — le spasmodie romantiche han stancato il mondo, — né per dilettantismo letterario — bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! — No, no; il mio intento è non so se più umile o più alto.

Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l’infermità che mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po’ più chiaramente a quel che avevo.

Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei saputo definire in altri il mio caso. In costui — avrei detto — ci sono indizi sicuri di «lipemania», c’è «atonia della sfera psichica», c’è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al manicomio o al suicidio. — Così avrei detto di un altro; ma di me mi ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè [p. 27 modifica]mi mancavano di quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva fruttato mai pazzi o lipemaniaci.

Del mio male senza dubbio c’eran cause all’in fuori dell’ordine fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che credè di poter volare al cielo.... — «il sapere» disse Shakespeare «è l’ala con cui si sale al Cielo» — , e iminaginatelo quest’uomo precipitato dall’alto del suo sogno in un abisso buio e freddo, con addosso l’irrisione di tutto l’universo e di sè stesso. Non comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che una vittima del secolo scientifico. Nell’immenso, stupendo progresso delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti nell’abuso dell’analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di superare i limiti della scienza.... Il meglio della mia; vita era stato sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de’ miei sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla. Nel nulla! Forse fu ingiusta l’imprecazione di un filosofo: «Scienza, perchè arricchisci la mente a scapito del cuore?»; forse ciò non è vero. Ma io, che non ero più uno scienziato o che, avendo violentato il potere della scienza non lo fui mai, io più spaventosamente d’ogni altro dovevo pagare il fio della mia insania: il mio cuore era esaurito; non sentivo più nulla. Ecco perchè non [p. 28 modifica]giudicavo quest’apatia un semplice caso di «atonia della sfera psichica».

Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione della morte e, insieme, l’orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non osavo. Ma in me non c’era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione del nostro organismo in dissoluzione l’anima sopravvive....; e da quel tentativo di confermare con la scienza l’antica fede mi era rimasta l’apprensione dell’al di là. Ecco perchè non mi credevo semplicemente un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a varcare i limiti di ciò che si definì l’inconoscibile.

Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa vedere com’era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d’un’entità vaga e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose estensioni....

Eppoi.... Eppoi, tiriamo innanzi! [p. 29 modifica]

IV.


Tra i pochi che venivano alla villa Moser c’era per me una sola persona nuova; l’ingegnere che Claudio aveva assunto a dirigergli la fabbrica di laterizi. La fornace che era stata principio alla fortuna di Moser e che aveva dato aumento al lavoro degli operai in Valdigorgo, era divenuta una delle più rinomate nell’Italia settentrionale; a vigilarne l’andamento non bastò più la sola attività di Claudio da quand’egli si fu addossato altre imprese.

E soli assidui alla villa, per lo più di sera, erano i Fulgosi, i Learchi e le Melvi: pochi, perchè Moser pretendeva libertà e pace almeno in casa sua, nell’asilo del suo riposo, sebbene anche qui piuttosto che riposare egli svariasse la sua alacrità.

Profittando della distanza dal paese (la villa era a monte e il paese tre chilometri a valle), Eugenia sapeva accontentare il marito conservando buone relazioni con le famiglie paesane più notevoli senza che queste potessero, come forse desideravano, turbar la pace di lassù. Non la turbavano essi, i villeggianti prossimi e vecchi d’amicizia e di consuetudine. Ma nell’infermità dei miei tristissimi giorni come, eran noiosi, insoffribili per me anche quei pochi e vecchi conoscenti!

Primo, il cavaliere Fulgosi. Un uomo invidiabile; uno di coloro a cui il mondo serve di sfondo e cornice por la loro figura, per la loro [p. 30 modifica]apparenza. Pensionato d’uno di quegli uffici che rendon l’uomo uniforme, precìso e sciocco come un regolamento, a sessant’anni poco o nulla differiva da quel che era stato a trenta: sempre elegante, cioè vano; sempre amabile in società, cioè fatuo. A Valdigorgo chi poteva competere con lui? Unico a far toilette due o tre volte al giorno; unico a portar in tasca lo specchietto e il pettinino per considerare ogni mezz’ora se gli scarsi capelli, d’un biondo bianchiccio e d’un biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell’età, e se i baffetti rilevassero l’esili punte su e contro il profilo della barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le armoniche tinte delle calze di seta; ora l’orecchia del fazzoletto, gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle scarno dita. Per parlare egli s’era adornato della fraseologia e dei motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia delle frasi inglesi, ch’eran le preferite, e ripescava, per di più, qualche sentenza scolastica o classica.

Con aria diplomatica discuteva troppo spesso in politica, poichè un’ambizioncella politica gli si era inacidita nel cuore, nè ancora aveva cessato di ripetere a se stesso: j’attends mon astre. Aveva il suo programma nel motto «ordine nella libertà e libertà nell’ordine» senza che paresse comprenderne egli stesso il pieno, solenne significato che pareva attribuirvi. Infatti questo amatore della libertà nell’ordine, questo amabile gentleman, era stato un tirannico [p. 31 modifica]capo-ufficio ed era adesso un petulante marito pensionato. Angustianti smorfie e tic nervosi gli opponeva la signora Fulgosi; ma apostrofandolo «imbecille» in casa la moglie non mancava mai di chiamarlo «cavaliere» fuori. Ella portava a Valdigorgo la correttezza dei modi e la scorrettezza dei pettegolezzi e degli isterismi aristocratici. Il loro figliuolo, Pieruccio, nato certo in conseguenza di un litigio, manifestava, ora più che sedicenne, com’eran inconciliabili anche in lui la natura materna e paterna. Fastidioso e incoercibile per metà del giorno; compassato e affettato la sera, dopo la toilette; antipatico sempre.

Involontario riscontro ai Fulgosi facevano i Learchi. Egli, Learchi padre, era un risaiolo arricchito. Aveva dunque il diritto d’insegnare agli altri la maniera di viver bene. In tutto si sarebbe dovuto fare come aveva fatto e faceva lui. Ignorante e testardo; gran mangiatore e non minore bevitore e fumatore di pipa. Ligio alle pratiche religiose, vi tranquillava la coscienza; si assicurava con esse a star d i là, anche meglio che di qua, e frattanto sorreggeva il perfetto egoismo cattolico dicendosi clericale «e me ne vanto». Sua moglie, la signora Redegonda, era buona di cuore e sempre ilare; ma di testa piccola. L’universo per lei consisteva nella cucina, dove esercitava molt’arte, e con ingenua rozzezza stupiva a ogni altra cosa che non fossero manicaretti, pasticci, dolci d’ogni sorta. Felici entrambi dell’aver maritata bene, a un ricco, la figliola, aspettavano per di più la consolazione di aver dottore il figliolo. E questi — Guido — poteva piacere o spiacere al pari d’ogni cuor contento. [p. 32 modifica]

Quanto alle Melvi, la madre non riusciva a nascondere a me l’ipocrisia e la malignità della paesana che non potè mai uscir di paese e che in paese vuol sembrar amica di tutti perchè invisa a tutti. Lingua iniqua! Ma quante esclamazioni, espansioni d’affetto! La bontà si sarebbe detto trasudasse da tutti i pori della sua piccola e grassa persona; la virtù in lei sembrava tanta da permetterle di congratularsi a ogni nuovo matrimonio che s’annunciasse o celebrasse a Valdigorgo, quando la rodeva l’invidia, la tormentava il dubbio di non poter accalappiare un marito per la sua Anna; la sua Anna, irresistibile, per lei, di vezzi e più di carne. Ed Anna.... Che dire di Anna Melvi: come esprimere quel che io provo ora, scrivendo queste due parole?

Di rado tutti costoro, nei primi giorni del mio ritorno lassù, si eran trovati insieme alla villa. Di solito l’una e l’altra mamma saliva da Eugenia, e sol talvolta, quando Eugenia riposava le ragazze e i giovani si erano raccolti nell’ampia sala a terreno, o nella terrazza, ai loro giochi di pegni, mentre Moser si divagava aizzando il cavalier Fulgosi contro il Learchi padre. Io per lo più avevo cercato scampo nella mia camera, col pretesto di dormire.

Ma venne la buona novella; il medico curante, pago della mia approvazione non che del buon effetto delle sue cure, annunciò che a giorni permetterebbe alla convalescente d’alzarsi.

Eugenia era in piena convalescenza. Ed io?... La sera della buona novella andavo per la casa cercando invano di raccogliere in me il senso di quella letizia che vedevo fuori di me. Non potevo fingere un piacere che mi sfuggiva; avrei [p. 33 modifica]Rivoluto fuggire accusandomi quale un amico indegno; neppur mi commoveva la gioia di Claudio!

Egli fece portare due bottiglie nel salotto, per gli amici; e mi attendeva con Fulgosi e Learchi. Dovetti entrare.

Lupus in fabula! — esclamò il cavaliere. — E Claudio: — Sentite questa! Quando eravamo all’Università a Bologna, io agli ultimi anni e Sivori ai primi, facevamo qualche scappata a caccia nelle risaie di Molinella. Ci accompagnava un omicciattolo, un falegname soprannominato il Biondo.... Ah! il Biondo! ma par di vederlo! Aveva uno schioppo che pareva un catenaccio; mirava chiudendo gli occhi, e non sbagliava un colpo. È vero?

Accennai di sì col capo; non celando la poca voglia di riudire aneddoti della mia biografia.

Ma Claudio proseguì:

— Dunque mentre io e il Biondo stavamo alla posta delle anitre, e non pensavamo che alle anitre, quel bel matto lì (e accennava a me) era spesso colla testa nelle nuvole e metteva giù lo schioppo per guardare al libro che portava in tasca. Una bella maniera d’andare a caccia! Non si sarebbe accorto d’un rinoceronte quando leggeva. Ma un giorno che ritornavamo in barca — era d’autunno inoltrato — io gli prendo il libro e glielo scaravento in mezzo all’acqua. Cosa fa lui? Spicca un volo e gli va dietro alla pesca.

— Non fu così — interruppi fiaccamente.

— Così! Proprio così! Il Biondo è ancor vivo e sano, e sebbene sia il tuo fittavolo, adesso, è un galantuomo capace di testimoniare la verità.... Bene! noi sudammo a pescar lui, l’amico; lo [p. 34 modifica]tirammo su sporco e fracido come si meritava; e con la tremarella addosso. Io gli davo quanti pugni potevo, più per sfogare la rabbia che m’era venuta che per mantenergli la circolazione del sangue, e Sivori, lo credereste?, si lamentava: — Il mio libro!... Il mio libro... Non bo capito una cosa!... — Non vi dico altro! Quasi quasi si era affogato solo perchè non aveva capito una cosa!

— Non è vero! — brontolai. — Era un’edizione pregevole....

Nessuno mi badò. Ridevano tutti, e più di tutti rise il piccolo Mino, che era venuto in cerca di me. Non desiderando di meglio che sottrarmi alla filosofia del buon senso, chiesi al ragazzo che cosa voleva.

— Se mi comperi i burattini, ti racconto una bella favola.

Ripigliò Moser: — Sublimi poi erano le discussioni col Biondo falegname! Sivori sosteneva che ammazzare una quaglia era uno strappo all’anima universale, come diceva lui; il Biondo invece sosteneva che Domineddio non avrebbe creato le quaglie se non dovessero essere mangiate arrosto. Avevano così diversi punti di vista che Sivori con cinquanta colpi non strappava nulla, e il Biondo — lo confesso, lo ripeto — tirava meglio di me! Ma le quaglie chi le mangiava? chi le gustava di più? Ah quei bocconcini di anima universale! Altro che Spinoza eh, Sivori?

Risero di nuovo. Finchè Mino tirandomi per la giacca mi forzò ad appartarmi con lui in un angolo. Ivi solennemente prese a raccontare:

— «Castelli in aria».... Beppe andava per il bosco..

Intanto udivo Learchi sentenziare, vuotato il bicchiere: [p. 35 modifica]

— La filosofia sta nel seguir la volontà di Dio, ricordandosi però che lui dice: «Aiutati che t’aiuto!»; e quando la coscienza è tranquilla, tutto va bene a questo mondo!

— Il mondo bisogna farselo! — ribatteva Moser.

— Farsi una, famiglia; lavorare per la propria famiglia e non pensare ad altro!

— Io sono fatalista — avvertiva il cavalier Fulgosi. — «Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce....»

Tratto dall’astuccio il piccolo pettine, il cavaliere si pareggiò i baffi, si mirò allo specchietto; poi aggiunse che io ero uno di quelli nati apposta per far camminare il mondo.

— Senza filosofia, caro signor Learchi, il mondo non camminerebbe. È la scienza delle scienze, che innalza l’umanità. Excelsior!

— Il mondo andrebbe benone lo stesso! — urlava Learchi. — Religione, fede per sopportare i guai; e basta!

Mino tornò da capo:

— ....Beppe andava per il bosco, e trovò un pulcino.

Lo portò a casa e lo mise a dormire nella stoppa. Beppe diceva: Quando il pulcino sarà grande, diventerà una gallina; e la gallina farà le ova e comprerò un’agnellina. E l’agnellina diventerà una pecorina, e la pecorina farà le ova....

Le ova della pecorina? Mi sovvenne delle mie opere. Il pulcino morto nella stoppa della scienza? Il mio ingegno!... Questa, questa, o esimio cavalier Fulgosi, questa è la morale della favola!

....Non mi sarei dunque stancato mai d’interporre sempre, da per tutto, la mia accidia? Con stento ero entrato là nel salotto a udir parlar di me; con stento ascoltavo il ragazzo....; ma appunto [p. 36 modifica]peciò avrei dovuto avvertire un risveglio nella mia volontà. In me c’era già stato qualche mutamento notevole. Non seguirebbe questi mutamenti, sebbene lievi, una riscossa dell’anima? Come in un barlume riflettei su le mie impressioni e le mie azioni dei giorni innanzi.

Già Mino era riuscito a farmi guardar il mondo attraverso un vetro color rosa e a farmi dire con lui che così il mondo era più bello; mi aveva costretto a inventare e a narrargli una favola, che ora ricambiava con: «Castelli in aria» e con le ova della pecorina. Già la timida Marcella mi aveva veduto salir più spesso a trovar la madre e a sorprender lei nell’ansietà delle faccende domestiche, la cui importanza ironicamente esageravo. Ortensia poi aveva ripresa con me tutta la confidenza d’un tempo, di quando era la mia «piccola amica». Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò! Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino; volli vedere che facevano gli altri.... Mi affacciai alla porta della sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un waltzer sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d’intorno. Quand’ecco tonò una voce gioconda.

Era l’ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.

— Arrivo! Pazienza! — egli rispose alle voci che lo chiamavano.

Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l’osservavo.

L’ingegner Roveni quando parlava d’affari era [p. 37 modifica]parco nelle parole, immobile, attento. Aveva risposte pronte. L’antipatia che mi separava da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal primo giorno che l’avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po’ all’insù, ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a mosse un po’ dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla regola dell’arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi spiaceva quell’uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.

Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:

— Buona sera, dottor Sivori!

— e andò difilato a prender Anna Melvi per ballare il waltzer.

Io mi riaccostai agli uomini seri.

— Che fibra! — disse Claudio, che ora parlava di Roveni. — Tutto il giorno lavora per me e la notte studia per sè.

Aggiunse che Roveni s’occupava con passione in studi d’elettricità.

Quindi disse:

— Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.

Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: — «Hai un mezzo molto semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».

Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: — dallo al tale — , o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser non s’era ancora accorto che [p. 38 modifica]le figliole pervenivano all’età da marito. Perciò tacqui.

E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d’improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.

Sì: la timida Marcella...., con Guido Learchi....

Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l’uno negli occhi dell’altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d’ironia. — Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all’amore anch’io? — mi chiesi; e fissai Guido ridendo.

Egli venne da me rosso in faccia, con l’indice al naso:

— Zzz.... zitto, per carità!

— Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?

— Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla — rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:

— Debbo dar retta a Guido?

Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.

— Perché? che vuol dire?

— Debbo aiutarvi? [p. 39 modifica]

— Non so..., non capisco.... Mi lasci andare!

Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano: — Gli vuoi molto bene? — ; e la guardavo negli occhi come per impedirle dì sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo fuori di me, e che mi sfuggiva!

— Non è vero!...; non so.... Chi gliel’ha detto? — rispondeva la poverina, cedendo a poco a poco.

— E tua madre lo sa?

Abbassò gli occhi, esitando ancora:

— Sì.... credo di sì; ma il babbo, no! — Mi scongiurava con i begli occhi.

— Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!

— Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! — Pregava apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor timorosa del pericolo. Soave creatura!

Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: — Zzz.... — e ruppe in una bella risata; e i due, colombi. Guido e Marcella, mi scapparono.

Passavano avanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia amorosa? Mi sembrarono estranei l’uno all’altra. L’ingegnere era tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere della danza: in un pieno abbandono d’ogni energia al ritmo; con ogni energia raccolta e diffusa nel piacere che le vibrava nel sangue, [p. 40 modifica]tutta la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le dissi con intenzione maligna:

— Bel giovane, Roveni....

Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando: — Lo dice a me?

— A chi dovrei dirlo, piuttosto?

— Ad Anna.

— E due! — esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna e nell’ingegnere il secondo paio d’innamorati.

Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi, e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a Ortensia: — Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? — Ma Ortensia non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d’un tratto da Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.

Pieruccio rimase intontito là dove l’aveva lasciato Anna; con quegli occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa susurrai, col solito sarcasmo:

— Quell’infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.

— No — ella rispose — soffre per il colletto. — L’alto e rigido colletto l’attanagliava infatti; l’affogava.

In questo mentre la Melvi accresceva l’esitazione di Roveni e l’induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in contrattempi: gli s’abbandonava affaticata e liberava una [p. 41 modifica]mano per risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con l’ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi era degno figlio di suo padre, e con l’aplomb di un uomo di spirito s’avvicinò ad Ortensia:

— Permette?... Posso?

Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un’occhiata che diceva quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.

Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora, che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de’ suoi occhi: era la felicità di un rapimento, l’accondiscendenza di un’anima pura alla felicità dell’anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido. Inconsci di quanto poteva essere di materiale e d’umano nel commotivo sollazzo, trasalivano in rapidi giri con un desiderio di sollevarsi, guardandosi così, lungi agli uomini, fuori del mondo, liberi da quello stesso contatto dei corpi che li inebbriava e li intimidiva a vicenda. E quando Learchi accompagnò Marcella a sedere, egli ristette in piedi presso di lei senza parole; ambedue in un’attitudine quasi dolorosa: quel distacco repentino, quel ritorno al riposo materiale, era uno strappo alle loro anime che, accomunate nel piacere, non avrebbero voluto o potuto dividersi subito così. [p. 42 modifica]

A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato sufficiente ragione neppure l’invidia, se l’invidia fosse stata possibile in me.

— Che fa lei qui? — mi chiese Anna Melvi.

— Studio — risposi, per dir qualche cosa.

Mi fissò per un attimo e disse:

— Ne imparerà delle belle!

Avrei voluto pungerla ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:

— La mamma dorme. . . .

Vedesse! È queta queta.

Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.

— Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?

— Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco e nelle nuvole?

Terrà compagnia alla mamma?

Certo — risposi appena.

Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse: «Lei crede di comprendere tutto il bene ch’io voglio a mia madre. Ma io gliene voglio di più, molto di più!»

Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l’andare del dancing l’ingegnere venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora la mia attenzione quasi sperando da lei sola una [p. 43 modifica]commozione diversa e benefica. Ancora ella procedeva semplice e vaga, pur quando la nuova danza imprimeva una consapevole mollezza e cadenze a riprese leggiadre fino alla leziosaggine; e nei trapassi violenti al ritorno vorticoso, trascorreva leggera e composta, liberandosi con spontanea agilità dal contatto terreno.

Una voce dietro a me susurrò:

— È charmante quella bambina! Aveva parlato il cavalier Fulgosi.

— Che pezzo di carne! — disse invece il signor Learchi padre, alludendo ad Anna, che si rapiva Pieruccio.

— Anna è più coquette — giudicava il cavaliere. — E Learchi:

— Ha più grazia di Dio addosso. A quel che pare, suo figlio in queste partite è della mia opinione.

— Prime armi! — fe’ contento il mondano genitore.

Io continuavo a considerare Ortensia.

Alta, snella, bionda. I copiosi e fini capelli non erano di un biondo aureo, ma acquistavano riflessi d’oro a ogni luce; le linee del volto erano già in armonia così viva che essa poteva forse scemare, non perfezionarsi nella piena fioritura della giovinezza. Gli occhi aveva strani per un colore nè cilestre nè verde, e ombrati da palpebre lunghe; e sotto agli occhi due archi pallidi ma lievi lievi sarebbero stati segni di mestizia a chi l’avesse vista riposata e silenziosa: se non che era un po’ difficile vedere Ortensia riposata e silenziosa!

Le labbra si componevano insieme con un vezzoso moto involontario se prolungava le parole: [p. 44 modifica]meno belle quando parlava, anche per giuoco, con ira; e forse non belle in esclamazioni di dolore e di pianto: erano fatte per sorridere.

Mirabili, signorilmente perfette, le mani.... E a quella freschezza giovanile cresceva lume una nativa gentilezza, manifesta per i modi spontanei, per le acconciature semplici, per le vesti umili e le tinte chiare, e sin per i fiori che si puntava al petto.

Ma a lei, se Roveni perdevasi con Anna, non restava altro adoratore che l’antipatico Pieruccio?

Meglio così per «la mia piccola amica»!; meglio ritardasse a conoscere i perfidi inganni della giovinezza e le stupide illusioni dell’amore!...

E in quella sera di gioia per tutti, a me parve non aver altro pensiero buono che questo.

V.

A tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel tramite dei secoli: a scrutane anime di giovinette e a rintracciare amori di villeggiatura!

Ma io medico, che dovevo curare me stesso d’un male così strano e pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo il barlume di ragione che m’aveva condotto, quella sera, a interpretar l’animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto alla vita e [p. 45 modifica]ricuperare la facoltà di sentire. N’era prova l’amarezza suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.

Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l’esercizio della volontà.

Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.

Sì, anche doveri. L’amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all’amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l’amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.

Gli parlai infatti, appena lo vidi.

Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.

— E Eugenia?

— Interrogò subito Marcella. — Sì che gli voglio bene, a Guido — (il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l’innamorata). — Allora la signora chiamò mei e mi fece una predica....

— Una predica? Eugenia?

— Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d’essere assiduo; che, d’altra parte, finché non fossi laureato, l’ingegnere s’opporrebbe.... Capisce, lei, adesso, perchè [p. 46 modifica]abbiamo tanto giudizio? — conchiudeva Guido ingenuamente — Marcella io non la vedo che la sera....

— Di sera in casa....; di giorno alla finestra.

— Ahi! — Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d’essere stato scoperto.

Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti nè obblighi d’intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini dì sua madre; l’arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!

Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l’assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.

Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall’orco.

Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:

«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.» [p. 47 modifica]

Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana....

Oh! ma se tutte le gioie dell’amore, tutte le lusinghe dell’arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realità meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l’illusione, l’inganno, l’oblìo della vita, a che vivere?

.... Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un’anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.

Per Eugenia era imminente il «gran giorno».

La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.

— Venga con me!

— Dove?

— Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.

Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella poltrona, presso l’ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.

Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.

— Alzata? — io dissi entrando. — Non vi affaticherete troppo?

— Mi sento così bene — rispose. — Guardate che sera!...

— Una delizia! un incanto! Par di sognare — esclamò Ortensia, entusiasta. — Io stasera sono felice.

Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come soleva.

— E Marcella? — chiese poscia la madre. [p. 48 modifica]

— Sono tutti nella terrazza.

— Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.

Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:

— Dunque dimani vi avremo in giardino?

Allora la mia voce ruppe l’incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.

— Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere....; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un’espiazione....

Scosse il capo.

— No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare.... Questa notte — proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l’apparenza del sogno — questa notte ho sognato che prendevo dall’armadio la biancheria, per darle aria, e che l’odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.

— Segno che siete guarita — dissi io freddamente —, ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.

L’ammonimento tolse da noi l’impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un’impressione di freddo, di silenzio e d’immobilità a guardare il lume di luna. [p. 49 modifica]Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l’impenetrabile vôlta d’aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.

Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un’anima fluiva per tutto e tutto era un’anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n’ero privo: il mio cuore n’era privo! Pativo in me la condanna di un’esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.

— Il piacere della convalescenza! — dissi a un tratto. — Ecco un piacere che non proverò più!

Eugenia fissò ne’ miei occhi il suo sguardo appena percettibile.

Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l’ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:

— Io ho da chiedervi perdono, Sivori.

— Perchè?

— Dubito che le ragazze e Mino v’importunino.... Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia....; e io commisi l’errore....

L’interruppi.

— Credete forse che io resterei quassù, da, voi, [p. 50 modifica]se qualcuno mi desse pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? — Ma ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza che mi restava nella voce e nell’aspetto.

Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:

— Noi vorremmo vedervi contento Sivori....; ma comprendo che purtroppo questo non sta nè in noi nè in voi.

— In chi sta, dunque? — chiesi con violenza mal repressa. Ella non rispose subito; poi rispose:

— In Dio.

Esclamai:

— Ah Dio mi ha tradito anche lui!... Voi pensate che Dio bisogna, cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?

— Sì.

— Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui (mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d’attenuare in forma dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che la mente mi abbia divorato il cuore.

— Sivori! Sivori! — pregava la buona donna. — Non vi abbandonate alla tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole....

Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono [p. 51 modifica]all’uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».

— Come va, cara signora?

— Sono molto debole....

— Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori.... A la bonne heure!

Ripigliò:

— Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati. La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. Festina lente. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. Medice, cura te ipsum! E per me, di medicine non ne prendo mai.... Un po’ di cremor tartaro, alle volte. S’intende però che nei casi serii, come il suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà! Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute della signora Moser, e mai toast sarà stato più cordiale.

— Grazie — ripeteva Eugenia, — grazie, cavaliere!

— E lei, dottore, benone? Si vede.

— Benone — io feci.

— Già l’ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza. Eh! quando si è sani le [p. 52 modifica]fatiche intellettuali si sopportano come le altre.... Ne so qualche cosa anch’io....

In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s’era sciolto, o almeno sembrava non più del tutto uguale all’altro. Lo ricompose; e rialzando il capo guardò alla luna e l’apostrofò a tu per tu.

Casta diva.... Che sera! eh, dottore? Peccato non aver vent’anni!... Del resto, per tornare a quel che si diceva, mens sana in corpore sano; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del dottor Sivori.... No, no, dottore; mi lasci dire. Non è flatterie, è verità....

— Voi siete ancora molto debole, ed è tardi — io dissi a Eugenia, alzandomi....

V.

Nel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono, sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.

Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della malattia che l’aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano del volto, le occhiaie; infossate le guance; [p. 53 modifica]violento il rilievo agli zigomi e alle mandibole. E le mani..., così bianche! così affilate!...

— Ah Sivori! — ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse: «Come sono contenta».

— Zitta! — impose Moser. — Zitte anche voi! — disse alle ragazze, che non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.

Ma questi, ristato un po’ in attenzione dinanzi ad Eugenia si mostrò del tutto tranquillo per lei e pago di sè.

Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare, ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno. Invece egli disse solo:

— Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e l’ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!

Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.

— Come ti senti? — chiedeva Moser indi a poco.

— Bene, tanto bene!

Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il viale, al margine dell’erba, fermandosi a quando a quando a riguardare. Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, pnesso alla madre e ripigliò il crochet; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra, dall’altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona!; e non potendo tacere, susurrava puerili è dolci espressioni d’affetto: — Mamma buona....; naamma bella.... — Io, in piedi, ero col dorso appogiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura, seguivo in Eugenia [p. 54 modifica]ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei nervi; la vicenda e l’aumento delle sensazioni; e insieme con queste il rampollare delle idee.... Appena oso dirlo. Prevedevo che l’impeto della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente, curiosamente, l’osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!

Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l’ineffabile, sovrumana letizia d’un’anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi di sensazioni infantili.

Poiché i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella, da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti, l’anima universa; e, con l’imaginativa, in ogni vena d’erba, sentì fluire dalla terra l’umor fresco, fecondo e perenne; e vide l’alito che molceva, le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere, fugaci o più vive d’ogni altro suono, recondite armonie di api e d’insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei fiori, volle; mia poco odorosi, poco odorosi.... Poi guardò; volse lo sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un inesplicabile fine, s’incorreva entro una spera di sole; e la distrasse una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d’argento; e vi tremava al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un’agitazione [p. 55 modifica]alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò, interruppe, riprese con arte.

Mentre così cantava la capinera, lontana lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.

E intanto — anche prima? — l’arguto ribattere di un incudine, che nel suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via: eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini....

Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice, pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la strada, e l’incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille voci in una voce sola; un clamoroso accordo d’innumerevoli creature in terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme; un portentoso palpito; un’intensa fatica; una gioia insopportabile; un affanno mortale....

— Mamma! — gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. — Mamma! mamma! — invocò Marcella. E Claudio accorse.

Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.

— Non è nulla — dissi — ; una lieve commozione.... È vero, Eugenia?...

Essa, scorgendo con quale angoscia! avevan dubitato che mancasse, e strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione intensa e da quell’abbandono della sua vita rinnovata, alla vita universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell’anima, salva per l’amore de’ suoi, sorrise; e pianse. [p. 56 modifica]Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io avevo osserviate con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza turbamento alcuno! Anche il grido d’Ortensia e di Marcella, e l’accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto «naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d’un qualsiasi organo, o l’andamento di una qualsiasi macchina! II miglior amico dei Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando agli altri un’apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia....

Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era possibile.... Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi; riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio affetto: niente!... Rammentai la bontà di Eugenia....: niente! Il mio cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!...

— Rientriamo? — ripeteva insisteva Claudio.

Eugenia pregava:

— Ancora un poco....: dite, Sivori?

— Ma sì!; un poco....

. ... Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me stesso, disperatamente!

«Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione, volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la disperazione di chi comprende d’aver tentato invano; e non vorrebbe credere....

Invano avevo ripreso l’esercizio della volontà; invano mi ero raccolto, per dimenticarmi, in [p. 57 modifica]azione e considerazione di piccole cose; invano avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.

Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi.... Peggio! Peggio! Io era un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo appiglio di fuscelli!

«Anche un delitto....» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi trovavo; ricorrere a qualunque mezzo.... Io dovevo procurarmi forse un rimorso per mezzo d’una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia coscienza.

Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.

— Vedete che la mamma ride? Vedete? — disse Ortensia beandosi nelle carezze che faceva a sua madre.

Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!

Quale disgrazia se l’ala della morte toccasse d’improvviso quel fiore! se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance; chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella sala anatomica....

Ecco: c’era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata trattenuta per un filo, mesi e mesi, all’esistenza de’ suoi...., con tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele [p. 58 modifica]di speranze e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva, temuta la notizia.... Moribonda?... morta?

Più d’una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre assopita fosse morta....

Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola, che l’accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla pure a Marcella; e due vite tornavano a compiersi della sua, ch’era stata sospesa e tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Ohe spaventevole commozione proverebbe mai un uomo....; proverei io, se d’improvviso...., in un modo sanguinoso precipitassi a colpire.... io, al cuore...., la più vivace di quelle tre creature?... Che istantaneo strappo;.... che strazio.... se io lì, presente sua madre...., io.... in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora, in tanta luce...., ammazzassi, io.... strangolassi.... Ortensia? Ah gettarmi su di lei! Un attimo....

Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un’arma avrei compiuto quel che pensai in quell’attimo. È vero! è vero! Un coltello...., e l’avrei piantato nel cuore di Ortensia.... Inerme, trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà materiale, ebbi il tempo di avvertire l’enormità del mio pensiero....

Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare, disperato:

— Salvatemi! Salvatemi! [p. 59 modifica]

VII.


Ero salvo.

Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettare d’essere lipemaniaco, la tentazione o l’allucinazione del delitto, che nei lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un orrore profondo. Tosto però ebbi l’impressione che finalmente mi si fosse disgelato il cuore; un’onda, quale di passione a lungo contenuta, irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi soffocava; il rimorso m’aveva ridestata del tutto la coscienza.

Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi avvelenava le parole?

Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi sostenuti.

Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!

Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per moto sincero dell’animo, cercavo ora di mostrarmi diverso.... E cercai anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile. [p. 60 modifica]Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le delizie delle soirèes aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi in disparte, con grandi scossoni di risa, l’ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi mi accostai senza quell’aria di uno che volesse provocarne l’ostilità, sebbene ancora mi urtasse l’intenzione manifesta in lei di sedurre il sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l’occhio quando scomponeva quel manichino di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario delitto!)

Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse davvero per lui, com’egli diceva, una great attraction, cioè egli mi s’attaccasse come una sanguisuga.

Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia o rincasava Claudio.


Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d’anima; d’anime concordi nell’armonia del giorno e della vita. Io la sentivo, quell’armonia; non in me ma intomo a me. Sentivo....: io sentivo! [p. 61 modifica]

Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso, il reattino. Zerr....; ed ecco la più lieta fra le più liete creature del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto, riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità e drizzando la coda; e subito con un nuovo Zerr, giù in terra!; e via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva trovar sempre qualche preda.

Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo, seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s’era cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti, sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.

— Bravo!

— Dov’è?

— Sparito! S’è consumato nel canto.

Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due....»

Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.

E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva fiori insoliti o non facili raccogliere, che servissero a copia [p. 62 modifica]di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, biacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.

— Questo? — domandava Guidò scegliendo, per l’esame di botanica, fra il mazzo.

Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:

Euphrasia officinalis.

E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.

Finchè l’ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:

— Il babbo!

Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.

— Ben arrivato! Babbo, babbo!

Nè prima la carrozza s’arrestava al cancello, che già Moser era a terra d’un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d’un giorno d’assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.

— Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio? (a me) E Mino?

Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.

— Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi all’ombra, laggiù! Perde, [p. 63 modifica]frattanto che snoda la cravatta e respira a pieni polmoni, con piena gioia, cartocci e carte; esprime dal volto onesto il sollievo della fatica; la consolazione come d’un premio meritato; la forza e la bontà. — Ah! ora sto meglio! Andiamo a sedere.

Tutti c’incamminiamo lasciando parlare lui solo; il quale si guarda felice intorno e par che non creda d’essere salvo dall’afa e dalla carcere e dalle faccende cittadine.

— Valdigorgo! Questo è il paradiso! Una delle più belle opere di Domineddio! Che cielo! Che aria! Che fresco!

Poi a vedere le figliole che corrono per il bicchiere di acqua, già prima d’esserne richieste, si ricorda che ha sete e urla:

— Marcella! Ortensia! un bicchier d’acqua! Ho sete!

— La fabbrica? — domanda Eugenia.

— A meraviglia! Siamo al terzo piano; e tra un mese....; insomma, un buon affare. Eugenia; sta sicura!

E arriva l’una o l’altra delle figlie col bicchiere annebbiato.

— Oh che acqua! l’acqua di Valdigorgo! Non vantarla sui giornali, amico (egli mi prega): se no, ce la portan via, o vengono a bercela!...

Segue una pausa, perchè le ragazze e Mino possan chiedere:

— La lana, babbo?

— La trottola?

— La lana?! la trottola?! Oh credete che non abbia per la testa, laggiù, che i vostri capricci? La fabbrica, i capomastri, gli artieri, le seccature; corri in provincia, in comune, allo [p. 64 modifica]studio, dai clienti: chi mi cerca, chi mi sfugge....

Paga questo; licenzia quest’altro.... E voi, come se nulla fosse, la lana? la trottola?

Ma poi egli trae di tasca il cartoccino della lana e lo getta alle ragazze; mentre parla a me:

— E tu hai scoperto finalmente la quadratura del circolo?

Rispondo: — Eureka! — quando già le ragazze strillano:

— Dio! che lana!

— Che colore! Cos’hai fatto, babbo? Ma il campione?

— Il campione! il campione! — brontola il padre. — Dunque non ci ho colto?...

— Un orrore!

— Eh.... se l’avessi avuto, il campione!...

— Te l’ho dato!

— Te l’abbiamo involto in un pezzo di giornale. Lo mettesti nel gilet!

— Sì! E io sono corso dal negoziante, prima di partire. «Mi vuole della lana così....» Se non che il campione non si trova. Fuori tutte le tasche; cerca tra le carte, sul banco, sotto il banco, per la strada: irreperibile! Non importa: «mi dia della lana verde per pantofole.... da regalarmi nel mio onomastico....»

Altro grido delle ragazze: — No! Non è vero! Tuttavia, rifacendo la scena, prosegue egli:

— «Di verdi, signore, ce ne sono molti....»

«Bene, me li mostri....» Che volete? Io mi ricordavo tanto bene il tono della voce di Marcella quando mi disse «un verde così», che ho scelto tra le matasse a colpo sicuro.

— Vergogna!

— Cattivo! [p. 65 modifica]

— Scegliere la lana a orecchio!

— Eh.... per pantofole....

— No: per un berretto da notte!

È questa la vendetta delle ragazze.

— Ah! infami! Un berretto da, notte a me?... a me?!

Infine Claudio si ricorda che è stanco e si rimette a sedere con le mani in tasca. Allora, non senza sua grande meraviglia come a un miracolo, leva la destra con qualche cosa fra le dita....: il campione della lana.

Ma segue Mino, che richiede il giocattolo.

— Non mi amareggiare, figliolo! Non ho potuto comprarlo; non avevo più soldi....

Il ragazzo si vendica puntando, senza piangere, l’indice al viso del padre e accusandolo alla madre.

— Mamma: il babbo ha detto una bugia! Guarda! guarda che bugia!

Talora giunge anche Roveni, per il viale, con quel suo passo da conquistatore.

— Oh! Roveni! Novità?... Andiamo!

E quell’uomo, stanco morto, corre col giovane nello studio; dove rimane fino a che, chiamato una terza volta a desinare, precipita in camera da pranzo, arrabbiandosi contro di me.

— Bravo, Sivori! Che uomo sei, perdio? Neppur buono a dar scodelle! Come fate quando non ci sono io?....Vedi: si fa così!

Ma non è raro il caso che un ritardo ad afferrarla, o un disguido, rovesci, tira le grida e le risa, la scodella sulla tovaglia.


Egli, Moser, fu più lieto dopo che ebbe visto rischiararsi la mia faccia. [p. 66 modifica]

— Finalmente Valdigorgo ti fa bene anche a te — mi diceva. — Bada che sino alla, prima neve non si parte di qua: nessuno!

Negli occhi e nei modi d’Eugenia io notavo invece il dubbio che mi facessi forza a stento.

Talvolta il cuore intende meglio dell’ingegno.

Al consueto luogo, nel giardino, colsi una di quelle occhiate per dirle:

— Claudio ha ragione: sto meglio. Quest’aria fa bene non solo a voi; ed ero forse più esaurito, più debole di voi, io!

Eugenia scosse il capo, e arrossendo lievemente:

— Voi — disse — non siete debole. Ora vi dominate per non affliggerci.

— Perchè pensate così? — domandai io con impeto. — Che cosa pensate, che cosa avete pensato di me? Voglio saperlo! Non temete di svelarmi tutto il vostro pensiero, se davvero credete che io non sia debole.... Vi prometto che non torneremo mai più su quest’argomento.

— Dirvi quel che penso? quel che ho pensato di voi? Ecco: i primi giorni ch’eravate qua dubitavo soffriste per una passione.

— Una passione d’amore? — feci ridendo.

— Sì — rispose senza ridere. — Non ci sarebbe stato da meravigliarsene; nulla di strano.

Ma presto capii che il vostro male era molto più grave.

— Perchè?

— Una passione.... — esitava; indi risoluta: — forse me l’avreste confidata o, almeno, non avreste tentato di nasconderla così, a noi, a me. Il vostro male doveva essere molto più grande, perchè avevate timone che io e Claudio ce ne [p. 67 modifica]accorgessimo....; eppure non potevate nasconderlo. Non eravate più quello d’una volta. Perchè? Da prima ero un po’ curiosa, lo confesso; ma l’altra sera, quando vi costrinsi io a svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.

— Come? Che cosa indovinaste?

— Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?» Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale; comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole ammogliarsi.... Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua fede?...»

— Avete indovinato! — esclamai stringendomi il capo tra le mani e coprendomi la faccia con le palme.

Perplessa, col timore d’avermi fatto troppo male a vedermi in quel modo, essa ristette un poco. Poi riprese:

— Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito. Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito! Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni, forse un’altra fede?

— No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho perduta la fede più bella, la fede di me, del inio ingegno, del mio cuore [p. 68 modifica]In chi credere? in che cosa? L’altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto: «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»

Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d’un uomo roso da un morbo insanabile?

— Una sorella.... — mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. — Perchè Dio non vi ha dato una sorella?

Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.

— Cervellina! — le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. — Cervellina!

La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.

Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:

— Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive. [p. 69 modifica]

La signora annuiva. Ma io mi corressi:

— Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che comunque comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest’affetto può bastare a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo rende superiore forse a ogni altro.

Eugenia disse:

— Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.

Io proseguii concitato

— Oh l’affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido, continuo, in prove d’abnegazione, nella voluttà del sacrifizio! Disperato, solo, io mi son visto in un’interminabile via, irta di triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per mia mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre? Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio cuore? Ma — conchiusi, triste: — una sorella non si trova!

Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle dita, considerandole, pareva, come bianche.

Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia disperazione fosse una rivelazione per lei....

Ed io le vidi l’anima negli occhi, come un’altra volta le avevo veduta.... [p. 70 modifica]

Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l’impressione d’una rivelazione improvvisa, d’una gioia ineffabile, d’un sollievo insperato e certo al mio lungo soffrire. Due anime, in quell istante, s’intesero. E Ortensia sorrideva d’un sorriso trepido, quale il suo sguardo....

Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l’affettuoso patto era già conchiuso.

VIII.

— Vuoi esser tu la mia sorella?

— Sì.

— Per tutta la vita?

— Sì! — rispose Ortensia con maggior fermezza. Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:

— Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!

A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto, stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il petto e riprender l’erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo non era, no, un’allucinazione, un’aberrazione, una puerilità di mente immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero; non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi [p. 71 modifica]attendevo ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l’anima triste si allieterebbe dell’anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del male passava come ombra che non agita e non intorbida....

Qua, sorellina, che ti riveda! Riluce ne’ tuoi occhi la poesia che un’eterna forza di giovinezza esprime in mille modi, in vite innumerevoli d’intorno a te: i sogni, tuoi sogni, ti accompagnano a volo, t’avvolgono il capo biondo e tolgono ogni nube alla tua fronte. Li scorgi? Guarda: ti si specchiano dinanzi nella realtà.... Qua che ti riveda nella veste più umile: la gonna bleuastra, il corpettino chiaro con la fascia di seta bianca, e i fiori al petto, mentre con mano impaziente rialzi i capelli sulla fronte e sorridi. A vederti, dilegua ogni ricordo di morte. Parla! Le parole sgorgano limpide dalla tua bocca e cadono con soavità lunga....

— Che uomo! Sempre triste! Su, signor dottore! A raccoglier dei fiori; presto! andiamo!

Va; e che le spine non pungano le tue mani divinamente belle!...

Il dolore risparmierebbe quell’anima? Già questo io mi chiedevo. Non era dunque un affetto egoista, il mio, se già mi facevo questa domanda; e un’affezione disinteressata mi pareva tuttavia utile al mondo: per Ortensia non sarebbe inutile avere in mie un bene fraterno, quand’anche la fatalità della sventura le fosse indulgente. [p. 72 modifica]

Ma io che difendevo Ortensia io che la conoscevo meglio di tutti, scorgevo meglio di tutti ì pericoli dell’indole sua. «Cervellina» la diceva la madre; nè la queta e mansueta Marcella, che troppe volte doveva attender da sola alle faccende domestiche, aveva tutti i torti a lamentar frequenti strappi ai diritti della primogenitura e a chiamarla svogliata. E le altre?

La signora Redegonda — la madre di Guido — chiudeva un occhio, ridendo senza volere, allorchè giudicava Ortensia. — Buona sì; ma non le piaceva star in cucina; non una donnina da casa come Marcella.

E la Fulgosi s’eccitava e agitava a vantar l’educazione inglese, che concede molta libertà alle ragazze, e biasimava Ortensia appunto perchè godendo tanta libertà non era seria come le ragazze inglesi.

Peggio poi la vecchia Melvi. Diceva che Ortensia era «una farfalla, leggera leggera». Lei, la madre di Anna, diceva così, in tono di rimprovero! E pensare che sua figlia, anche quando scherzava chiassosa e pareva abbandonata alla più innocente gaiezza, non diceva parola, non faceva atto che non ubbidisse a un’intenzione o a un’abitudine acquistata per intenzione! Ma Anna non era riprovevole perchè era falsa.

Ortensia invece era spontanea in tutto; schietta e franca anche nei difetti: presto o tardi n’avrebbe danno; l’ammettevo io pure. A diciassette anni, era ancor troppo mutevole e impietuosa: non potevo negarlo. Troppo la sua volontà cedeva alle facoltà spirituali, che nè gli ammonimenti materni nè il nativo buon senso bastavano a disciplinare; era irriflessiva spesso; troppo fiduciosa [p. 73 modifica]di sè e degli altri; impaziente.... Concedevo tutto questo. Ma Eugenia notava: — Quando Ortensia ha detto no, è no! Per fortuna — aggiungeva — , a saperla prendere è facile prevenire il no e ottenere il sì.

Dunque Ortensia aveva forza d’animo. Me lo confermavano alcuni ricordi.

Anni innanzi, quando era sui dodici anni, Ortensia s’impauriva ancora ad andar sola, di sera, nell’oscurità. Una sera il padre la derise, per questo, più del solito. Improvvisamente lei s’alzò da tavola; traversò tutta la casa al buio; e tornò pallida, ma vittoriosa.

E da bambina respingeva ogni tentazione di dolci e di frutta che le venivan offerti a patto di rivelare chi delle sue compagne di scuola avesse commesso qualche marachella. Golosa, mangiava quelle buone cose con gli occhi, ma non c’era modo di farla parlare. Ed ora perchè sembrava più ardita e più consapevole di sè, quando, sul serio o per gioco, esclamava d’impeto: — Voglio?

Allorché tan’anima si raccoglierebbe nell’amore o nel dolore, che forza di volontà avrebbe al suo soffrire! Era figlia di Claudio Moser, il quale tutto doveva a una volontà ferrea. Come pure aveva del padre la focosa cordialità, che manifestava spesso puerilmente.

— Tesoro! — quanti erre nell’esclamazione, mentre quasi soffocava il gatto con le carezze. Io le dicevo:

— Una volta o l’altra ti graffia. Sei troppo fidente: credi buoni sino i gatti!

— Ma non vede com’è bello?

E il vitellino alla cascina? Era un lattonzolo [p. 74 modifica]fulvo e ispido, elle ne ascoltava le più affettuose espressioni con i grandi occhi stupiti e immoti e le gambe anteriori tese le aperte a un imminente sbalzo, se non di riconoscenza, di pazza gioia. Espressioni per il vitellino da fare invidia a un innamorato! Quanto a Sansone, il vecchio e bianco cavallo di Moser, lo abbracciava mentre esso le posava il capo su la spalla e tritava lo zucchero; ed erano abbracci così furiosi che per miracolo quello non se ne liberava con una zampata.

Con tali indizi d’indole affettuosa andavan altri che davano a conoscere non men vive le facoltà spirituali.

— Dopo che la mamma è guarita non provo più nessun bisogno di pregare. Come sarà? Certo non va bene!

Questo era effetto della giovinezza ritornata del tutto lieta; mia chiedeva a me:

— E lei non prova mai il bisogno di pregare? Mai?...

Io sorridevo, tacendo.

— E orribile! — Ortensia esclamava allora, dolente in modo da rivelare uno spirito passionale e profondo.

Che sarebbe di quest’anima all’uso della vita? Tenace nella passione, a chi s’affiderebbe quest’anima? Scemando l’esuberanza della giovinezza, così impulsiva, che mutamento avverrebbe in lei? Ogni indagine mi pareva una preparazione a difenderla un giorno e nello stesso tempo accresceva l’intima ragione del mio affetto.

Volli sapere i suoi più grandi desideri.

Alla domanda, dondolandosi a pena a pena nella poltrona ad arco, chinò le palpebre su gli [p. 75 modifica]occhi, quasi a raccogliere e a precisare una visione.

— Viaggiare! Viaggiar molto! viaggiar sempre!

— Perchè?

— Oh bella! Per vedere il mondo; altri monti; pianure; città; il mare. Oh il mare!

— Calmo....; a, lume di luna.... — suggerivo io.

— E in tempesta no? Non l’ho mai visto in tempesta. Dev’essere stupendo!

— Dalla spiaggia....

— ....Le onde bianche, il cielo nero, i lampi.... Brrr! che bellezza!; ma a non esserci, là in mezzo!

— Brava! E poi?

— Un altro desiderio grande grande? Un bel cavallo roano.... Roano o morello? Morello! con una stella bianca nella fronte!; e mi portasse via di galoppo, dove volessi io.... S’intende, più giovane e più focoso di Sansone. Sa che è un bel tipo, Sansone? Cascasse il mondo, lui non si turbai Sola io riesco a farlo inquietare un po’, quando non gli lascio ingoiar lo zucchero.... È buono, Sansone; tanto buono!; ma con lui si va poco lontano!

— E poi? altri desideri?

— Mi lasci pensare....

Invece io la prevenni:

— Gioielli?, toielettes?, feste?, teatri?

— Si sa! Quale è la ragazza che non le desideri, queste cose?

— E poi? — io continuavo. — Diventar moglie d’un gran signore; magari d’un principe?

— Uh!, non mi dispiacerebbe.

— Ma io avrei preferito che tu dio dicessi: moglie d’un grand’uomo; d’un grande artista.... [p. 76 modifica]

Non ci ho mai pensato!

— Ah, dunque pensi a diventar moglie d’un principe?

— O di chi, allora? Di Pieruccio Fulgosi?

Fece una risata così significativa che anche a me parve di veder Pieruccio conficcato nell’alto colletto, smorto, con gli occhi imbambolati e i calzoni rimboccati.

— Sei senza pietà con quel povero ragazzo....

Arrossendo, Ortensia dimandò:

— Troppo sgarbata, è vero?

— Ierisera cosa ti disse quando gli voltasti le spalle?

— Eh! la solita storia!; non sa dir altro.

— Cioè?

— Che sono bella,

— E tu?

— Seccatura! Io non so dirgli altro che seccatura! Se lo merita; bamboccio!

— Però non gli dai torto del tutto quando ti dice che sei bella.

— Per me son tutti belli, fuori che lui! È bello per me anche suo padre!

Un’altra risata; e si levò di scatto per andar a guardarsi a una delle specchiere, che stavano alle pareti opposte della sala quasi per togliersi un dubbio improvviso.

— Pfu! — fece, mentre ripeteva atti soliti: rialzò i capelli sulla fronte, e interponendo la destra al colletto che le stringeva la gola, tentò allargarlo, irosa, alzando gli occhi: bellissimi per il contrasto luminoso delle pupille e dell’iride col bulbo chiaro, che lo sforzo più distingueva.

— Però — riprese — , Gli occhi di Marcella son più belli dei miei. Marcella ha gli occhi della [p. 77 modifica]mamma. Non sarebbe meglio fossi bruna io e bionda mia sorella? Tanto, a Guido gli sarebbe piaciuta lo stesso e io mi piacerei di più a me!

Io dissi, tornando in argomento:

— Via!, consolati; che gli artisti preferiscon le bionde. Ti daremo in moglie a un posta.

— No, un poeta no. Non lo voglio!

— Perchè?

— Perchè?... Perchè?... non lo so nemmen io il perchè. Un pittore, forse...., un maestro di musica, celebre....

— Perchè preferiresti uno di costoro?

— Ma sa che è un bel tipo anche lei? Vuol sapere il perchè di tutto! Perchè? perchè? perchè?...

Mi canzonava. Fu così travolto in riso il resto della mia indagine.

Ortensia rideva di gusto; e se non ne trovava il motivo fuori di sè, lo trovava in sè medesima, quasi per espressione, e sfogo di giovinezza; saltando, magari, e cantando per ridere delle sue mosse e del suo canto; ma non era mai un riso sciocco. E diceva:

— Lasciatemi ridere, ora che la mamma è guarita!

Poi mi piantava lì, dov’ero, per correre a veder la madre.

....Quantunque non protesse star molto in piedi, Eugenia aveva ripreso a dirigere le faccende di casa. Più brevi divennero quindi le nostre conversazioni al rezzo; più lunghi i miei colloqui con Ortensia, la quale adesso ardiva sgridarmi non solo se mi vedesse accigliato e col «sorriso brutto», ma anche se non la ubbidivo e trascuravo certe sue giuste pratese. Per diritto e dovere [p. 78 modifica]fraterni mi sgridava se m’impolveravo gli abiti e non attendevo abbastanza alla toilette; e spazzolandomi e riacconciandomi la cravatta, borbottava:

— Oh che uomo! oh che uomo!

IX.

Ero certo che l’amore non aveva ancor molestato il cuore di Ortensia e che nessun corteggiatore le dava maggior pensiero di Pieruccio Fulgosi.

La breve dimora a Milano, l’inverno, le aveva consentito la molteplice distrazione d’una grande città, ma le abitudini della famiglia l’avevano sottratta alle occasioni di conversazioni e ridotti, che son propizie agli innamoramenti.

A Valdigorgo non vedevo chi potesse innamorarla.

Quando le Moser passavano in paese — e fuor dei giorni festivi era assai di rado — il giovane ufficiale postale e telegrafico esponeva il capo dall’inferriata dell’ufficio; l’assistente del farmacista correva sulla soglia della bottega; i perdigiorni del caffè interrompevan la partita a carte o a bigliardo.

— Le Moser! le Moser!

Ma tutti costoro e gli altri non da meno e non da più di essi, restavano come, a una visione celeste e tiravan di gran sospiri: il cielo è solo per gli eletti!

Dell’ingegner Roveni io non sospettavo affatto, [p. 79 modifica]perchè ero sicuro di questo: nelle poche ore che restava alla villa egli non trattava Ortensia diversamente da Marcella, cioè con confidenza disinvolta e, insieme, un po’ rude.

— Un giovane serio! — ripeteva Ortensia. Infatti, nè con lei nè con Marcella scherzava mai come con Anna Melvi; e con la Melvi, la quale lo provocava, scherzava in modo che pareva dire: «Tu cerchi di farmi cascare, ma non ci riuscirai. Sarà brava quella che ci riuscirà!»

E rideva, con Anna, quasi per togliersi di imbarazzo, quasi per forza; in modo che — ridendo egli poco o punto con tutti gli altri — poteva parere un po’ volgare. Anche ciò mi confermava nell’opinione che fosse un uomo lontano e libero da preoccupazioni sentimentali; libero fors’anche per misura, forse per calcolo. Ma non poteva passarmi per la mente l’idea che dissimulasse; nè, pensandoci, ci avrei potuto trovare ragione alcuna.

Del resto. Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto dell’altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di passione. Chi pensa a sé stesso, perchè ama o è in attesa di aonare, non ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la vita esterna che aveva lei.

In ciò rassomigliava alla madre quand’era giovane; ma mentre in Eugenia l’ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall’affetto raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione prorompeva più spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse perchè all’arte della poesia, che domandaa, [p. 80 modifica]comprenderla e a gustarla studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.

Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po’ fuor di casa, senza udirla ripetere: — Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero? — E mi chiamava spesso a voce alta: — Sivori! venga a vedere! corra!

Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate. Ortensia non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di Marcella o della madre.

Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi d’impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:

— Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! — e allora a rivederci, Marcella; o arrivederci, mamma!

Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In quel giorno di clausura che manteneva con fermezza eroica, io la vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo scuro della camera.

A’ capo un po’ chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi occhi mi parevano più luminosi e profondi.

Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.

Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a Sivori. [p. 81 modifica]

Una mattina ricorsero a me, l’una dopo l’altra, Marcella, la cameriera, Eugenia.

— Sa dove sia Ortensia? — ; dove sia la signorina? — ; dove sia la cervellina?

No, neppur Sivori lo sapeva. L’avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall’antico convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.

Senza di me! Quando tornò a casa la rimproverai con acerbezza; come avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri allegramente.

— Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?... per farle, dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora perchè....: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami nel bosco.... Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco dunque la verità: m’è parso un passatempo non da uomo così.... burbero!

Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i bulbi nell’aiuola, solo sgridandola che s’interrava le mani, e lodando Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.

— Che m’importa delle mani? — ella disse. — Vedrà, vedrà che ciclamini! Io li preferisco a tutti i fiori.... E lei? Qual è il fiore che le piace di più? Dica! Voglio saperlo!

E Mino anche lui: — Di’ dunque, Sivori!

— Indovinate — risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.

Mino esclamò, pronto:

— Le freddoline!

Ma Ortensia:

— I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento [p. 82 modifica]è alto e giallo, i papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?

Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo....

— La rosa! — gridò Mino con l’entusiasmo di una scoperta indubitabile.

Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti, più piacesse a me.

— La rosa thea?

Dissi:

— Anche le thea hanno le spine....

Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano alla mente, Ortensia proseguì:

— La camelia? È stupida! II mughetto? Sì, è grazioso...., ma poi! I tulipani? l’ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l’ortensia, la viola del pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben mettermi un altro nome!

— Il geranio è bello — disse Mino.

— Sta zitto, tu! L’orchidea?... — continuava l’altra. — Ma lo dica, una volta! Il garofano?

Assentii.

Mino gridò: — È brutto!

Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:

— È vero; è molto bello il garofano!

Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei fiori, e il garofano il più bel fiore?

Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre.... Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della [p. 83 modifica]forza e della libertà; fiore dell’idea e fiore del sangue.

— Prendi! — disse Mino portandomene uno, di corsa.

Ecco.... Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo; i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega ma si tronca — frangar non flectar — ; le foglioline del gambo esili ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l’umile verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell’intricato cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.

Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano all’orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata che adorna la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d’amore; tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d’amore.

Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena appena, o in prima fioritura, il garofano non’è bello che nella virilità. Prima, allorchè gl’innumerevoli petali, vivi e freschi, fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua vita fende il calice, prorompe con [p. 84 modifica]vigore esuberante, e i petali, per la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta quell’intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio ardente, dell’amore cupido e della voluttà!

....Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.

X.

— Ho promesso e mantengo! — proclamò l’ingegner Roveni. — Domani si va alle Grotte.

Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono intorno a me per costringermi ad andar con loro.

Anna Melvi urlava:

— Chi fa l’istanza? chi ci è più interessata? — e sospingeva Marcella, timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po’ le ciglia e velava con le palpebre gli occhi soavi.

Inanimita, Marcella pregò:

— Andiamo, Sivori!: sia buono! Se non verrà anche lei, la mamma non ci lascerà andare.

E la Melvi: [p. 85 modifica]

— Dovremmo rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo ancora lei!

Io tacevo con un sorriso incerto.

— Non capite che Sivori non ne ha voglia? — esclamò Ortensia dopo avermi fissato a lungo, in silenzio.

— Si annoierà più a restare in casa — ribattevan le altre.

— No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!

Pronunciando in cadenza l’ultima affermazione Ortensia manifestava malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia svogliatezza.

Io le dissi:

— A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non mi vuoi?

Rispose forte e soltanto:

— Sì!

— E io ci verrò!

Il dì dopo andammo dunque noi sette — io, i tre giovani e le tre ragazze — a far colazione alle Grotte.

Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro l’animo d’alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po’ meno a me stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?

Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco o solo [p. 86 modifica]ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all’aspra montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e bistorti.

L’ingegnere s’accompiagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con Pieruccio, la vittima, schiamazziando. Dietro andavano Guido e Marcella nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il mondo è mio», disse:

— Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io stanotte.

Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente noi due soli, e colsi l’occasione per dirgli:

— Moser prevede che lei, che gli è così utile, lo abbandonerà.

Senza guardarmi l’ingegnere mormorò:

— Vedremo.

— ....Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.

— Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?

Era grato anche a me, che l’accertavo di no.

Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno di più....» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero. «Una moglie a costui sarebbe d’impaccio. Per andar lontano, vuol essere libero. Costui è un uomo!»

Egli proseguiva: [p. 87 modifica]

— Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell’asino. Avrei potuto andarmene già l’anno scorso. È vero che.... Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.

Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi.... Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato....

Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che....», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?

Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto — più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo — anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell’uomo. Notai, sì, ch’egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l’abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l’ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.

Proseguiva:

— Ho lottato sempre e non dispero di vincere. — Aggiunse: — Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?,

— Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra — risposi.

— La forza di volontà non basta! — ripigliò [p. 88 modifica]il giovane. — Bisogna ben determinare il campo d’azione; saper limitarlo secondo le proprie forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre, correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore, appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile. Io riuscirò dove voglio?

Interrogava l’avvenire.

— Lei riuscirà — dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe dovuto raccogliere la mia attenzione. — Lei sa misurare gli ostacoli e li abbatterà.

— Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per colpire poi a spada tratta....

Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.

E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.

— Oggi non rideremo come l’anno scorso, quando andammo a Monfalco — disse Ortensia.

Presero a raccontarmi della gita dell’anno innanzi, ch’era stata interrotta da un nebbione formidabile.

— Dovemmo pernottane in una capanna.

— Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire — disse Marcella a Ortensia.

Pieruccio affermò [p. 89 modifica]

— Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!

— Non è vero! — gridò Guido. — Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.

— Ci arrivammo!

— Storie!

Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.

— Oh che notte, là dentro! Che notte! — ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:

— Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!... Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po’ di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l’acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!

Ma Anna sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:

— Nemmeno l’ingegnere chiuse occhio in tutta notte.

L’ingegner Roveni sorrise appena e disse: — Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.

Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell’anima il crollo di una grande speranza. Ora, come [p. 90 modifica]l’anno prima nell’altra gita, Ortensia era lontana dia, me, lieta senza di me.

Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava: — Noiosi! — , e s’accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.

Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e qua qua. Gli disse Pieruccio:

— Fa l’asino, che ci riesci così bene!

Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s’avventò contro: ne nacque una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch’era Guido, e dalle grida delle ragazze.

Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di un’illusione necessaria.

Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per persuadermi che l’affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.

Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che io avevo creduto sul [p. 91 modifica]serio di sopperirli n un affetto naturale con un affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell’amicizia.

Non mi riderebbero in viso gl’innamorati (Guido e Marcella); i desiderosi d’amore (Pieruccio e Anna); la gente positiva (Roveni), se io chiamassi Ortensia, per uso, col nome di sorella? Dunque la mia speranza era insana! Ortensia stessa doveva comprendere d’aver ceduto a un’ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l’uscir fuori dei soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da me.

Intanto Anna indispettita perchè l’ingegnere rimaneva al mio fianco, sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia. Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?

Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in quella passeggiata!

Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l’arnese dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.

— Signor dottore: vuole? — mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e Anna accorrevano.

Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:

— Voglio veder io! voglio vedere!

Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d’esser rincorsa anche da Roveni. E risate e grida. [p. 92 modifica]

Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.

— Oh l’infelicità del primo amore! — dissi con l’ingegnere. — Che fatiche! che sacrifizi! L’adolescente innamorato patisce un appetito formidabile e rifiuta, il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare; con tutto il pensiero cerca l’immagine adorata, che dovrebbe specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le facce più estranee e più antipiatichè. E questo è nulla! Vagheggiare qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella per meritarne l’amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a trovar un gesto che non sia goffo.

Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia; mi fissò e disse:

— Brutto giorno, oggi! — e via!

A un punto la perdei di vita; finchè, ella ricomparve con Anna, su di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i nostri nomi.

Disse Roveni: — Che bella voce ha Anna! — E forte: — Canti, signorina Melvi!

Allora la monellaccia, con voce squillante:

                              L’amore è una catena!
                              L’amore è una catena
                              che non si spezza....

[p. 93 modifica]

....Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più che due terzi del cammino, era già tardi, e noi assetati e affamati. Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano e appianavano i massi — e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da lungi le mine — le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne il prezzo.

Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io invidiai la gioia di vivere!

Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d’oro secondavano il taglio avido dei denti?

E mi volsi a cominciar solo la salita dell’ardua costa montana.

Da un lato s’ergeva la costa a perpendioolo, tutta di massi grigli e neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall’altro lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole batteva irradiato dalla scarsa corrente.

Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e morto. Morire così!

Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più incresciosa. Anche ora risento di quell’uggia; e non riferirei più oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che ebbe. [p. 94 modifica]

....Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia, Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni, senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.

Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l’ultimo riverbero e s’arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l’occhio all’oscurità, o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo. Acute strida seguivano a fremiti veri o imimaginari di pipistrelli. E veramente ogni volta che si rinnovava l’oscurità, perchè o aria o ala di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l’attesa della nuova luce pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.

Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar l’adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell’atto di soffiare alla fiammella.

Finalmente usciti di là e superata l’ultima costa, tornammo nel prato, a far la colazione che un servo aveva predisposta.

Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde, or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce, casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette. [p. 95 modifica]

D’improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l’Angelus vibrò nell’aria.

Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall’immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva, veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all’immagine dell’operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva! e fresca.... Infelici i poveri!

Ma forse la felicità era in quelle ville di contro a noi?

— Qual è la villa De Mol? — chiesi. Me l’accennarono.

— Perchè? — mi domandò Ortensia, quasi indovinasse il mio pensiero.

Non risposi. Sapevo che là era morta anni addietro una giovinetta.... Come dovè esser bello a vederlo, di là dove eravamo, il corteo funebre!

Morì etica. Bella, dicevano, anche morta. Ricchissima, la portarono giù di giorno, in una carrozza nera; e una fila lunga lunga di bambine e ragazze vestite di bianco l’accompagnava; e gli alberi del viale, per cui ella aveva corso fanciulletta, tagliavano a tratti la vista del corteo. O la felicità era d’intorno a me?

Che cosa dicevano i miei compagni? perchè ridevano? [p. 96 modifica]

Ascoltai.... Anna e Ortensia alla fabbrica Moser, erano entrate furtivamente nella dimora, nella camera di Roveni.

— Quando? — chiesi.

— L’altro ieri.

— A far che?

— Non ha sentito? — Ortensia proseguiva. — Tutto sossopra! Abiti, biancheria, cravatte.... Ma Anna non ha fatto in tempo, come me, a scappar via, e Roveni s’è vendicato!

— In che modo?

— A pizzicotti.

Io guardavo, stupito, l’ingegnere. Egli, indifferente, corresse:

— Non è stata; vendetta, ma legittima difesa....

Ecco la vita! Quei due avevan già forse contaminata l’anima d’Ortensia!

Dissi aspramente: — Ogni malesempio vien da Anna.

Ma senza temere e ridente Anna mi chiese:

— Cosa può dire, lei, di me?

Risposi: — Niente, io....

Ella si alzò, mi si avvicinò minacciosa tendendo le mani:

— Se lei pensa male di me le cavo gli occhi!

— Troppo! — le susurrai — : basta spegnere la candela.

— Ah infame! — Dica subito cosa ha pensato.... Subito!

All’orecchio le dissi (ecco la vita!):

— Ho pensato che si può spegnere una candela per infiammare un uomo.

La ragazzaccia protestò:

— Maligno! Perfido! Non è vero!... — ; poi, a vedermi un sincero disprezzo negli occhi, mi [p. 97 modifica]volse le spalle mentrie diceva forte: — Me ne infischio!


.... E il ritorno fu triste. Roveni, silenzioso e come dolente del tempo perduto, andava innanzi tagliando a colpi di giunco le vette che sopravvanzavano alla siepe; Marcella e Guido, a braccetto, procedevano poco loquaci come marito e moglie; Anna conversava sul serio con Pieruccio, forse perchè discorreva di me; e Ortensia mi faceva indugiare a nominarle piante e fiori, per affrettarmi dopo. Ma anche lei era molto diversa del mattino; era stanca, si vedeva, di sè stessa. Mormorò:

— Povero Sivori! S’è annoiato, eh?

Invece di rispondere le domandai:

— Dov’ero io, l’altro ieri, quando siete andate da Roveni?

Non si confuse.

— Dov’era? E chi lo sa? Lo cercammo da per tutto; in casa; nel giardino.... Anna diceva che si era nascosto per non accompagnarci. Ma dopo me ne dispiacque, davvero! E quando tornammo a casa non le dissi della scappata: se no, guai! Non voglio rimproveri, io, da lei!

— Oh — feci scotendo le spalle — : per me, che tu vada a raccoglier ciclami con Mino o accompagni Anna a prender pizzicotti, dovrebbe essere lo stesso: non deve importarmene; nè forse importerà a te che io abbia molta stima dell’ingegner Roveni e nessuna stima di Anna Melvi. Tu non sai ancora che un uomo non ci perde se una donna leggera si contiene con lui come fa Anna....

Non badò nemmeno a quest’ultime parole. [p. 98 modifica]

— Non ci andrò più con Anna; — disse d’impeto, per togliermi subito il rammarico. — Glielo prometto!

Poi, riflettendo alle ragioni della promessa, ripetè:

— Ha ragione. Non ci andrò più!

La Melvi, ci avesse o no uditi, venne a noi e pregò Ortensia di lasciarla sola meco.

— Debbo parlare al dottor Sivori.

Fu allora, per quel solo tratto, che Ortensia si accompagnò a Roveni; e nel mentre discorrevamo io e la Melvi, li guardavo; e respingevo ancora l’idea che l’ingegnere e Ortensia fossero adatti ad amarsi, sebbene a vederli sparisse ogni ripugnanza di persona e di età.

Anna diceva:

— Lei, signor dottore, mi giudica troppo male; lei dà troppo peso a cose innocenti.

— Eorse.

— Non me ne rincresce per me: mie ne rincresce per lei.

— Per me?

— Un uomo come lei preoccuparsi delle nostre ragazzate! Eppoi, io e lei dovremmo essere amici; e non so perchè siamo nemici.

— Perchè dovremmo essere amici?

La mia domanda fu così pacata, mi dimostrò così indifferente, che vidi Anna abbandonare la risposta che le correva alle labbra. Ebbene: se adesso non mi meraviglio che al mattino io non avvertissi in Roveni la sagacia di sospendere e nascondere un pensiero improvviso, mi meraviglio che avvertendo una dissimulazione in Anna, non cercassi di scoprirla. Non solo! Io non attesi affatto alle parole che ella sostituì al primo pensiero. [p. 99 modifica]

Io ascoltai come fossero dette candidamente queste parole:

— Dovremmo essere amici — disse Anna — , se non per altro, perchè ci conosciamo dia, tanto tempo!

Tacque un istante, per riprendere con disinvoltura:

— Che pelle buggerona ero io a sei o sette anni! Ricorda? Io mi ricordo quando lei venne la prima volta quassù. E mi par di vedere Ortensia piccola piccola in braccio a sua madre. Che bellezza era allora la signora Eugenia! Una Madonna! Bambina com’ero, la paragonavo a una Madonna. Mi ricordo anche che quando lei e la signora Eugenia andavano incontro a Moser, io e Marcella correvamo innanzi; e se qualcuno ci domandava chi era lei, non sapevamo cosa rispondere: rispondevamo: — Un signore tanto bravo.... — quando ci dava dei dolci!

Avrebbe forse detto di più se il solito Pieruccio non fosse sopravvenuto col solito cannocchiale. Guardassi di là alla fabbrica Moser: si scorgevano gli operai. Io scorsi invece l’espressione di malcontento con cui Roveni, restituendo a sua volta il cannocchiale, scosse il capo.

Quasi a un presentimento istantaneo di un lontano soffrire, mi tornò a mente il giudizio che la mattina l’ingegnere mi aveva dato di Moser; e non badai più affatto alla Melvi. Mi distolsi da Anna per interrogar Roveni senza essere udito.

— Ingegnere — gli chiesi — , lei è malcontento della fabbrica? Eorse Moser per attendere a troppe cose non se ne cura abbastanza? [p. 100 modifica]— Tutt’altro! Se ne cura troppo. Oramai gli converrebbe diminuire la produzione.

— Come? Ma non è stata la fabbrica la fortuna di Claudio? Non gli rende molto?

— In altri tempi. Oggi la bontà del materiale non basta più a vincere la concorrenza; e aumenta ogni giorno il prezzo della mano d’opera. Moser dovrebbe almeno licenziare degli operai; ma è troppo buono, e ostinato.

Dunque la fortuna di Claudio non era quella che io mi credevo?


....Dopo Rivalta, Ortensia, sempre più quieta, si riaccompagnò a me. Disse:

— Sarebbe state meglio che noi due ce ne fossimo restati a casa. Adesso non la, vedrei così. Non voglio vederla così!

Anche per Ortensia il ritorno era, triste. Sola Anna Melvi rideva forte, perchè, finalmente, poteva parlare a Roveni, sottovoce.

XI.

Ortensia non osava più, adesso, varcare il limite del cancello senza avvertirmene.

Risento il piacere di quando, o dalla sala a terreno o dalla terrazza, l’udivo chiedere alla madre o ad altri: — Dov’è Sivori? — . Impaziente gridava forte: — Sivori! — , come chiamando Mino; come si chiama un fratello. E se non mi trovava a terreno saliva di corsa alla mia camera.

Toc toc. [p. 101 modifica]

— Che c’è?

— Mi accompagna alla bottega? — Era una botteguccia sulla via maestra, in cui vendevano un po’ di tutto. — Andiamo a comperar aghi e cotone....

Oppure: — Vado all’orto per la frutta. Chi mi accompagna, lei o Mino?

— Tutt’e due!

Con maggiore attraenza andavamo alla cascina, non solo perchè c’era il lattonzolo da riverire, le faraone e le anitre in attesa, di becchime e la massaia ridanciana; ma perchè la viottola che vi conduce va, al di là dell’antico convento, era deliziosa per querce e per radure che svelavano a tratti cielo e terra.

Quando poi aveva da cucire. Ortensia non restava più chiusa nella sua stanza; cercava, ne ammirassi ora la voglia di lavorare, la pazienza fin a proseguire il ricamo di Marcella. Spesso diceva:

— Sono buona?

Buona, compiacevasi di udirselo ripetere, appunto perchè consapevole della energia di volontà che, come le faceva parer bella talvolta la ribellione, ora la conteneva in tanta sommissione con me.

Ripeteva: — Non mi sgriderà più: è vero? Mai più!

Per poco io non rimproveravo me stesso dell’aver dato soverchia importanza a scappatelle; e pur temendo il malesempio di Anna, ripensavo di Ortensia: «Il male è giunto al suo orecchio e alla sua mente, ma senza contaminarla».

E pareva che questo pensiero mi facesse bene.

Anche con Mino, che avevo indegnamente [p. 102 modifica]tradito andando alle Grotte senza di lui, avevo fatto la pace; ed egli interveniva ai miei colloqui con la sorella, e pretendeva lo aiutassi a incollare o ingommare. Saldo su le gambe, sicuro nel grembialone come in una corazza, col pennello in resta, guai a non ubbidirgli!

Ma pur troppo io ero solo con me la mattina presto, allorchè mi pareva più difficile riprendere la vita.

— Poltrone! — dicevo a Mino. — Ed egli:

— Più poltrona Ortensia! Diglielo a lei, che si alzi prima; lei è più grande.

Non glielo dissi a Ortensia; ma essa ci udì, e diventò mattiniera.

Ai primi albori, dalla finestra spalancata della mia camera, io vedevo ogni giorno un chiarore tenue, come di neve lontana nella notte profonda. E più sollecita di ogni altro alato, una capinera mandava il primo richiamo da lungi. Di dove mai? Nessuno rispondeva: essa ripeteva più forte. Nessuno; e ripeteva più forte, approssimando. D’improvviso, dal tetto o da un abete, sorgeva nitida, vigorosa, breve, la risposta.

Si ritrovavano così le piccole creature, e sol due, risvegliate nel mondo immenso quando ancora tutti dormivano e tutto dormiva, e forse rabbrividendo alla frescura sogguardavano con gli occhietti pavidi al cielo, fuorchè da una parte, ancora notturno. Nelle loro voci era un’ansietà di letizia non consentita a pieno, una trepidazione, uno smarrimento quasi di paura. Piccole, innocenti creature, sol due nel mondo immenso! Il giorno volevamo; la luce, il sole! Quanto tardava!

Ma ecco il suono delle campane mattutine.... [p. 103 modifica]Nell’aria quieta e densa i rintocchi suscitavan copiose onde vibranti, sì che tutta l’aria sembrava agitata da un tremito metallico.... Poi il sole sormontando suscitava innumerevoli specchi dalle foglie del platano e del cedro aperte a rifletterlo, e crivellava di punti vividi i sempreverdi, e indorava le ragnatele tra gli aghi degli abeti. Un brivido scorreva per tutte le fronde, e tutte le piante parevano adergersi in una nuova intensione di vita verso il cielo e verso il sole.

Infine, i rumori della strada....

Io risentivo fuori di me, per tal modo, l’armonia del giorno; ma tuttavia mi chiedevo che cosa me ne avesse escluso, m’impedisse ancora di parteciparvi con tutta l’anima. Quale colpa? qual destino?

A lungo attendevo, così. Quindi mi richiamava la bella voce: — Buon giorno, Sivori!

Appena alzata Ortensia veniva sotto la mia finestra a salutarmi con un lieve inchino, sorridente, il sole nei capelli.

«Dimenticare me stesso!» E scendevo.

....Nè tacerò di un altro conforto che ebbi in quei giorni.

Pieruccio Fulgosi, dopo la gita alle Grotte, spasimò a dirittura e visibilmente per Ortensia. Alle canzonature di Anna, alle contraffazioni di Guido, ai miei Sorrisi pietosi, agl’incitamenti di Roveni, che battendogli una mano sulla spalla gli diceva:

— Coraggio, giovinetto! — , e sopra tutto all’incuranza di Ortensia, egli la sera, durante i ballonzoli e ï giochi, opponeva una faccia patibolare, un silenzio patetico, un colletto sempre più angusto.

Quando, un pomeriggio, la signora Fulgosi, [p. 104 modifica]adducendo con Eugenia non so che pretesto, venne da me per parlarimi in segreto. Aveva gli ocelli fuor del capo, come spesso; il viso pallido come sempre, e più del solito il tic delle palpebre e le raggricciature del naso. Sobbalzando con le parole dietro le idee precipitose, quelle sue smorfie rappresentavano gli sforzi per trattenere il filo delle idee e la furia delle parole, mentre accrescevano l’espressione dell’aspetto tragico.

— Ah dottore, dottore! — cominciò affannosa e tremando — . Mi aiuti lei! mi consigli!

Dubitai che in un accesso isterico avesse sofferto di qualche nuovo malanno, e stavo per ricordarle che non esercitavo la medicina. Ma ella esclamò: — Pieruccio! — ; e recò le mani alla fronte, contro i capelli, disperatamtente.

— Che passione! Il mio Pieruccio..., questa notte.... — proseguiva piano per aumtentar l’enormità del fatto — , questa notte è uscito di casa! Fuori di casa, la notte! Me ne sono accortai io!... Mi son gettato uno scialle indosso e l’ho seguito. Immagini una povera madre, di notte, per la strada, a quel modo, rasentando la siepe per non esser vista....

Si è fermato qua, di fronte alla villa, proprio dove sta Giovannin il cieco, e pareva aspettasse.... Immagini, dottore, immagini la mia angustia! Pensavo che la finestra s’aprisse; che Ortensia gettasse le chiavi del cancello.... Che scandalo! Sarebbe stata una sciagura per tutti!...

— Ma la finestra è rimasta chiusa, — feci io sorridendo, certo.

— Sì.... Avrò avuto torto di pensar male della ragazza.... Ma troppa libertà! troppa libertà, dottore! Le ragazze in Inghilterra godono di molta libertà, ma si educano in altro modo.... E intanto [p. 105 modifica]Ortensia mi ha innamorato Pieruccio.... Capisce? Per esserle più vicino col pensiero viene qua di notte! Poverino! È una passione terribile! A diciassette anni.... Che passione!

Io contenevo a stento un commento sarcastico. Ella proseguiva:

— A vederlo immobile là, sotto la finestra di Ortensia, non mi è rimasta una goccia di sangue nelle vene. Meditava il suicidio?... Gli ho detto, accostandomi a poco a poco: «Torna a casa con la tua mamma»; e lui, poverino, mi ha seguita come un agnello.

Colsi la pausa, che la commozione imponeva per suggerire:

— Lo allontani.... Guarirà presto.

Ma la signora m’investì quasi a un affronto:

— Guarirà presto?! Presto?! Ah lei non sa che cosa ha fatto appena a casa!... Una frenesia! un orrore! È nervoso come me.... Improperii, bestemmie, maledizioni: anche a lei, dottore!...

(....Poco male!)

— ....Maledizioni a tutti: Anna, Roveni, Guido, Moser. Non riuscivo a quetarlo! Ha fracassato le seggiole, ha rovesciato il tavolino, ed è andato in terra, in frantumi, il portafiori!: un portafiori di Boemia stupendo, magnifico!, dono di mia zia, la De Mol.... Ha minacciato fin suo padre, che è accorso...; e anche la cameriera!

(....Come non ridere?)

— Allontanarlo, lei dice? È la mia idea. Subito! Domani! Lo manderò da suo zio, mio fratello, il colonnello De Mol, a Varezze.... Bel sito, Varezze! Ci son molti villeggianti e ci si divertono. Ma mandarlo con chi, Pieruccio? Con suo padre? [p. 106 modifica]— Con suo padre.

Non l’avessi mai detto! La signora gridò:

— Il cavaliere...., mio marito, a Varezze, in mezzo alla società, alle donne? Non tornerebbe più a casa! — E spalancò le braccia come se il cavaliere le fosse fuggito allora di seno. — .... Ah dottore!, i misteri delle famiglie! Mio marito ha colpa di tutto! È lui la pietra dello scandalo! Fulgosi è un uomo.... che non invecchia, un seduttore, un gentleman traviato e che non esiterebbe, se potesse, se io non tenessi sopra tutto al mio decoro...., non esiterebbe a disonorarmi, a tradirmi fin con donne vili! Ma io sono una gentildonna, una De Mol, parente dei De Mol che han la villa a Rivalta! Maria la povera Maria, che morì etica — un angiolo! — era mia seconda cugina....

— L’accompagni lei, Pieruccio....

— Peggio! Lasciarlo a casa con la cameriera, mio marito?... Non mi fido! Capisce?

— Capisco.... — (Il cavaliere cominciava a diventarmi simpatico). — Dunque, lo lasci andar solo, Pieruccio....

— Solo, no. Temo, dottore.... L’avesse visto ierisera! Oggi dorme: gli ho data tanta camomilla! Ma la passione.... Se si getta sotto il treno?

A queste parole la povera donna contrasse, la faccia in modo da far rabbrividire. Se non che io ero sordo e cieco alla pietà, anche perchè avevo compreso ch’essa voleva, l’accompagnassi io, il suo Pieruccio a quel paese.

Spietato a dirittura mormorai: — Se l’accompagnasse la cameriera?

— Oooh! — La signora, non dubitò che io scherzassi, ma si meravigliò non tenessi suo figlio per più che un ragazzo. La passione lo ingigantiva [p. 107 modifica]agli occhi materni; la passione.... e la lettura dei giornali.

— Sempre suicidi d’amore! Per me, io non voglio armi in casa. Pieruccio desiderava lo schioppo per andar a caccia con Guido Learchi. Niente! Gli ho regalato invece il binocolo....

Ah! il binocolo fu la mia salvezza.

— Stupendo binocolo! — esclamai; e assunta tutta la gravità possibile parlai a lungo, da sapiente consigliero. — Nei giovani, signora, l’ambizione di primeggiare supera ogni altra passione; vince, se soddisfatta, ogni altro desiderio, ogni male. Il binocolo che lei ha regalato al suo figliolo è davvero invidiabile in un luogo come Varezze per scrutar il mare, la riviera, l’orizzonte, le signore e le signorine. I giovinetti invidieranno Pieruccio. Le signore e le signorine se lo contenderanno.... — (il binocolo se non Pieruccio)

— Ed è questo il mio consiglio: che lei lasci travedere al suo figliolo il piacere che troverà laggiù; l’invidia che vi susciterà. Conosco i giovani: son certo ch’egli partirà volentieri....

Io avevo corso il rischio d’infuriare la gentildonna e d’esser assalito come capitava al cavaliere. Ma per fortuna anche stavolta la mia serietà non la lasciò nel dubbio di una canzonatura; e la mia esperienza nella medicina delle passioni dovè convincerla.

Infatti il giorno dopo Pieruccio partiva, accompagnato dal binocolo invece che da me o dalla cameriera.

Anna Melvi ne fu dolente, che perdeva chi le serviva da contraccolpo alle chiassose lusinghe con cui tentava Roveni. Quanto a Ortensia, ella trasse un sospiro di soddisfazione; disse: — buon viaggio! — e non ne parlò più. [p. 108 modifica]Ma chi lo crederebbe? La mia soddisfazione fu assai più grande!

Già più volte io avevo chiesto a me stesso: «Se il mio affetto non è assurdo e insano, che farò quando, presto o tardi, saprò Ortensia fidanzata? quando andrà sposa?» E avevo risposto con animo tranquillo: «Farò come un fratello. Ne godrò».

Ebbene, il godimento che provavo per l’allontanamento di Pieruccio non era forse quello di una gelosia cessata? Non avrei osato confessarlo ma mi aveva tenuto inquieto a lungo quello scimunito, che ri cercava invano lo sguardo di Ortensia; mi aveva turbato quel meschino ragazzo che si era ridotto a vagheggiare il suo amore di notte, attraverso la finestra chiusa e dal sito ove Giovannin il cieco stirava dall’organetto «addio mia bella, addio.»! Senza mai confessarlo a me stesso, io avevo temuto che vagheggiata da Pieruccio Fulgosi, Ortensia riflettesse come ella poteva già essere amata, più virilmente, da altri; oscuramente io avevo temuto che questo solo pensiero in Ortensia mi carpisse parte del suo affetto per me!

....Fu dopo la partenza di Pieruccio che Eugenia, a vedermi la fronte sempre più schiarita, si compiacque del mio miglioramento.

— Merito vostro, di voi tutti — io le dissi. — Sento il bene che mi volete e non me ne sento più indegno. Come ricambiarvi?

— Restate qua con noi sino all’inverno.

— Impossibile!

Pur troppo il tempo volava e presto dovrei abbandonare Valdigorgo per cercar lavoro, sebbene [p. 109 modifica]non sapessi nè dove nè come. Io non ero tal possidente da vivere di sola, rendita; nè speravo più rendite dagli studi, a cui avevo rinunciato per sempre.

Eugenia riprese:

— Non parliamo di partenza adesso; ve ne prego anche per Claudio. Per Claudio? — aggiunse sorridendo. — E Mino? E Ortensia?

Allora io le dissi: — Sapete che mi par d’avere una sorella in Ortensia?

— Fosse davvero! Anzi; trattatela proprio da sorella; correggetela de’ suoi difetti.

— Sono così bei difetti!

— No, Sivori. Ortensia mi dà molto pensiero per il suo carattere. È eccessiva in tutto. A vederla, sembra sicura, sicurissima di esser felice per tutta la vita e si direbbe che non si preoccupi di nulla, ma poi, di tratto in tratto, senza che se ne sappia il perchè’, ha certe malinconie...; i famosi capricci. Ve ne sarete accorto anche voi, benchè da poi che siete qui voi questo sia accaduto più di rado. Ma vi ricorderete delle bizze che faceva da bambina a contrariarla. Adesso per lei è una contrarietà intollerabile ogni volta che s’accorge che la vita non possiam farcela noi a nostro modo. E a questo mondo bisogna invece sopportare, soffrire. Ci son tanti doveri da compiere!; e la nostra volontà non val nulla in quello che non dipende da noi. Vorrei vederla persuasa di queste cose, per risparmiarle dolori più grandi in avvenire. Ho torto?

— No — risposi.

— Per darvi un’idea del suo carattere: quando ero malata diceva con ira al medico: «Voglio che la mamma guarisca». Voglio! Il medico e la [p. 110 modifica]malattia dovevano ubbidire a lei. Io peggiorai; e allora fu per parecchi giorni una disperazione muta, continua. Non mangiava, non dormiva più, sempre al mo letto, e guai se il medico o Claudio o Marcella tentavano di confortarla. Ma se io morivo?

II discorso fu interrotto dal sopravvenire di Ortensia....

XII.

Però quelle parole di Eugenia m’impensierirono. Per la prima volta, dopo, esaminati la mia condotta meditai sugli obblighi che m’imponeva l’amicizia, dubitai che uno squallido e sordido egoismo mi trascinasse a colpa di cui un giorno la coscienza mi rimorderebbe. Egoista, io cercavo dall’affetto di Ortensia un benefizio assecondando in lei quelle tendenze che a giudicarle con senno e con lume d’esperienza erano dannose. Volendo dimenticar me stesso cercavo di veder lei spensierata, e volendo reprimere dentro di me un pessimismo mortale cercavo quella sua serenità a cui tutto appariva bello e buono.

Infelice, io traevo rimedio da lei consentendo a una felicità fuori della vita reale. Ma se io volevo bene davvero a Ortensia dovevo esentarla dai pericoli di una infelicità futura; dovevo predisporla agli urti della realtà, armarla contro le violenze del destino.

Eugenia aveva ragione. Il compito che la madre mi affidava, di contenere nella figliola le facoltà e le illusioni pericolose, diveniva per me [p. 111 modifica]un imperioso dovere per lo stesso affetto che mi ricambiava Ortensia.

Come chi si rassegna a cosa inevitabile, deliberai dunque di ubbidire alla mia coscienza che ora mi pareva del tutto ridesta.... Oh la coscienza! Perchè non mi avvertì dell’errore in cui cadevo? Che precettore della vita potevo essere io che non avevo una fede? Senza il conforto di una fede, a qual concetto e a qual sentimento della vita potevo ammonire che non esprimesse il veleno di un pessimismo mortale?

A compier tale dovere temetti da prima di nuocere a me medesimo, ora che mi sentivo ravvivare; poi (lo confesso come si confessa un delitto), provai la soddisfazione appunto dell’adempiere un dovere grave, e avrei detto che anche in ciò si rinforzassero in me le energie dell’animo.

Se non che la fatica della mia volontà era poca.

È così facile intorbidare un’acqua limpida! M’era così facile, appena succedevano in me rivolgimenti di malumore, ripetere a voce alta note voci di pessimismo e di duolo, che ricorrevano per abitudine alla mia memoria!

                         Oh come orribil sei - mondo gentil!

Oppure:

                         Ascolta, Azzarellina:
                         La scienza è dolore,
                         La speranza è ruina,
                         La gloria è roseo nugolo,
                         La bellezza è divina - ombra d’un fiore.

O peggio:

                                                  .... Amaro e noia
                         La vita: altro mai nulla, e fango è il mondo!

[p. 112 modifica]

Ortensia protestava:

— Vede se ho ragione io di non volerne sapere dei poeti? Noiosi! Han sempre da lamentarsi!

— Essi però han più ragione di te: essi han vissuto e guardato nella vita.

— No! no! han torto! Non posso credere! Noiosi!...

Protestava batteva i piedi, ma come chi s’impazienta a udire ciò che potrebbe esser vero.

E le ripetevo:

— Tu vedi tutto bello e tutto buono. Presto imparerai che al mondo c’è più cattiveria che bontà e che il brutto supera il bello.

— Dio! Dio! che uomo! — esclamava; e rimaneva sopra pensiero un istante, guardandomi quasi mi ricercasse nel cuore quanto dolore e quanta sciagura m’avessero condotto a creder così. Le restava come un timor panico negli occhi.

Anche le dicevo:

— Tu sei facile alle impressioni, ma rifletti poco. Comincia dunque dal riflettere su le impressioni degli altri: leggi.

— Leggeremo! purchè non sgridi, non rimproveri....

Ma di leggere non avrebbe trovata opportunità se non si fosse mutato il tempo.

Al principio di settembre piovve alcuni giorni di seguito, con autunnale ostinazione; e poichè non bastava cucire o ricamare a sbalzi per passar la giornata. Ortensia dovè prendere un libro. Avevo vinto. E qual migliore consigliere di un buon libro? Io ne sceglievo di quelli che rappresentassero la vita qual è. Potevo così interrompere il triste ufficio di ammonitore e quietarmi nella consuetudine che il maltempo rendeva [p. 113 modifica]più raccolta e più cara, costringendoci a restar quasi sempre in casa.

Però anche lei, la sorellina, aveva vinto oramai. Era così ubbidiente, paziente, affettuosa! Io per lei sentivo rifluirmi nelle vene il sangue della salute, nè mi bisognava più uno sforzo di volontà a bandire dalla mente i pensieri maligni.

Mentre la pioggia or bruiva a pena a pena or squassava a dirotto, dalla poltrona ov’ero adagiato io sogguardavo, con le palpebre un po’ chine, alla cupa linea boschiva, in fondo, tutta velata sotto il cielo piovoso, e dinanzi, giù nel giardino, agli abeti densi, dall’innumeri braccia ad arco e dalle esili vette immote a ricever l’acqua, come Dio la mandava.

Ortensia leggeva. Non leggeva male; rilevava anzi agevolmente il senso e variava senza leziosaggine la bella voce, e di tratto in tratto s’arrestava, colpita.

— To’! Questo è vero! Questo è bello!

Ma talvolta non coglieva giusta la pronuncia di parole, o non poneva giusto l’accento tonico.

Correggerla era tempo perduto.

— Si dice così — avvertiva io. — E lei;

— Si dice così, ma io dico a mio modo; mi piace di più! E avanti impavida.

Sopravveniva Eugenia.

— Cerca Ortensia; cerca Ortensia.... Dov’è? con Sivori! Sempre con Sivori! Ma non vi stanca?

— Voi vedete.... Mi mette di buon umore.

— Non ditelo a lei, che è capace di vantarsene, la cervellina!

— Sì, mamma, che me ne vanto!

Quando non avevo voglia d’ascoltare, [p. 114 modifica]abbassavo del tutto le palpebre. Sognavo? No. Avevo in quest’affetto un legame alla vita; non era più un’illusione: per quest’affetto muterei in una operosità determinata e proficua l’attività del pensiero che male avevo usata in difficoltà insuperabili, rodenti ed estenuanti. La vita non sarebbe più per me una condanna; la morte non mi darebbe più un’apprensione continua; l’avvenire non m’era più pauroso, perchè non avevo più da sopportare danni e sventure senza che una voce mi dicesse: «sopporta se non per te, per me!» E mi sembrava che nel mio avvenire sorgesse, con novella aurora, il sole.

Intanto pioveva. Quando però la pioggia scemava, quasi snebbiasse, Ortensia correva a prendere l’immane preistorico ombrello di tela cerata verde, che sudavo a portare, e via, qua e là, quasi sempre non dove la strada era buona ma per strade fangose.

Immaginarsi la fatica! Le scarpe caricandosi di fango, diventavano grandi e pesanti come case; nondimeno bisognava ubbidire alla signorina.

Al terzo o quarto giorno di quel bel tempo, l’acqua cessò quasi per uno stacco improvviso; cadde un fascio di raggi tra il nuvolo. Ortensia gridò felice:

— Non piove più! Andiamo al Ponte del Crocefisso, a vedere la piena?

Io astrologavo.

— Tra poco ricomincia.

— No. Lei non se ne intende! Non vede che Monfalco è scoperto? «Monfalco senza cappello, fa bello, fa bello»!

— Ma l’ombrello non farà male.

— Le dico che non piove più! Sono pratica io! [p. 115 modifica]

Via dunque senza, ombrello, alla volta del Ponte.

Ella provava la stessa gioia che traeva i passeri di sotto il tetto a litigare, a garrire e a bagnarsi, o forse delle piante e delle erbe che si asciugavano ricreate. Cadeva una luce pallida, che si sarebbe detta umida anch’essa a vederla sull’erboso velluto del clivo; finchè a levante trasparve, si colorì, si delineò, s’avvivò a un tratto, andò attenuandosi e scompare, l’arcobaleno.

— L’iride! — aveva esclamato Ortensia. — Glielo dicevo? Non pioverà più!

— È già sparito. Noi torneremo a casa molli fracidi.

Infatti da mezzodì avanzava una schiera d’altri nuvoloni, più neri, che avrebbero persuaso un eroe romano a tornare indietro e che invece attraevano alla meta la mia compagna. Ci arrivammo, come Dio volle, a osservar l’acqua torbida che passava gemebonda sotto il ponte, superava enormi massi alle rive, piegava i giunchi e le canne da cui l’oscura vôlta era invasa. Da lato, più gaia, chiara e spumeggiante, precipitava nel torrente l’acqua che un canaletto formato d’asse riceveva da un serbatoio in alto. La chiesuola a capo del ponte e a ridosso del monte, usciva candida dal verde folto e cupo, e dinanzi alla porta, più bassa, aveva un piccolo portico.

— È uno spettacolo stupendo! un paesaggio stupendo! — Ortensia ripeteva.

Io guardavo il cielo livido, plumbeo.

— Ortensia, ci siamo!

— Uhm! Comincio a crederlo anch’io! M’è caduto un gocciolone sul naso!

Ci rifugiammo, di corsa, là sotto il piccolo portico. [p. 116 modifica]

Ora quasi mani invisibili con infantile divino sollazzo rovesciavano dal cielo secchie a furia; fitta fitta grossa grossa, scrosciava la pioggia: precipitava; piegava ramoscelli e rami; penetrava tutto, si raccoglieva in rigagnoli, correva, allagava; e sotto quel chiasso il rombo sinistro del fiume e il fragor della cascata.

La breve zona asciutta, ove eravamo, assumeva in tale diluvio, in tale violenza, un’apparenza di protezione miracolosa; e a guardar per la grata nell’oratorio, veniva da quel silenzio di là dentro, da quel senso di chiuso, da quella penombra in cui giaceva il Cristo di rozza pietà, una promessa di pace contro tanto fracasso.

Ortensia guardò là dentro anche lei; poi sorrise a riveder l’intemperie.

— Come si sta bene qui! — Ascoltava.

A me una voce diceva: «Per due anime concordi c’è sempre un asilo».


E il giorno dopo:

— Che piova un poco, pazienza! Ma così! — Ortensia batteva i piedi per l’ira. Soggiunse:

— E ora di finirla! Non ha desiderio d’un po’ di sole anche lei?

Ebbene, sì, anch’io desideravo il sole! Con un piacere, con una letizia lo desideravo, quale non avevo provata forse mai in mia vita.

Oh il sole! il sole!

Comprendevo la gioia che del sole avrebbe Ortensia; e dal medesimo nostro desiderio apprendevo che la nostra consuetudine era divenuta l’affinità spirituale da me voluta; io sentivo che finalmente godrei del sole come Ortensia, con Ortensia. [p. 117 modifica]

XIII.


Il sole! Il sole!

....Ortensia, là in mezzo al prato, con la gonna bleuastra e il corpetto chiaro, sorgeva evidente dal verde e contro il verde; e l’aria là in mezzo sembrava più luminosa, ed essa una forma di vita più viva d’ogni altra e più bella.

— Ortensia! — Io la chiamai a voce alta compiacendomi del mio grido.

— Che cerchi, Ortensia?

Non rispondeva; faceva pochi passi, l’occhio intento a terra. Ma avvicinandomi, compresi.

— Cerchi la buona fortuna, per me?

Rispose sorridendo: — Sì.

— Non la troverai!

— Io? — esclamò col tono d’impazienza e d’ira che per giuoco assumeva spesso. — Io non la troverò?

— Nè tu, ne altri. Del resto, non so che farmene della fortuna!

Scherzavo; ero lieto. Ella ne fu certa e sorrise, esclamando:

— Dunque il trifoglietto per l’amore!

— Che sai tu dell’amore e de’ miei amori?

— So che lei un dì o l’altro prenderà moglie e che....

— Oh se per questo — interruppi — , non lo troverai il trifoglietto dalle quattro foglie!

— Io lo troverò anche se lei non prenderà moglie! Lo voglio, e basta! [p. 118 modifica]

Ma là non ce n’era di pronto al suo sguardo; e sapeva dove la fortuna ne nascondieva.

— Venga con me!

Per un viale tortuoso, fra le macchie, si giungeva a un prato estraneo al giardino, in cui alcune donne risciacquavano il bucato in una cisterna. A questa recava l’acqua un piccolo fosso, queto queto, alle sponde del quale cresceva l’erba e abbondava il trifoglio.

Le donne ci osservarono tra le file dei lenzuoli stesi su corde da palo a palo; poscia ripresero il cicaleccio e lo squasso.

— Sarà meglio la cerchi io per te, la fortuna! — dissi io.

— Avanti! a chi la trova!

E andavamo adagio adagio, lungo il piccolo fosso.

— Una sposina per Sivori: bella...., buona....

Quindi passando rapida, come soleva, dal pensiero presente a un pensiero o a un ricordo che apparentemente non aveva con quello uno stretto legame, Ortensia aggiunse:

— Anna.... Ohi io la disprezzo, Anna!

— Adesso....

— No, sempre; anche prima che lei venisse quassù!

— E l’accompagnavi a trovar Roveni?

— Insisteva tanto! Poi, non facevo niente di male, io!

— Ne sono convinto, di te. Ma Anna che faceva?

Mi provai ad attenuare nel tono della domanda, non la curiosità, bensì il timore che m’induceva a interrogarla. Quasi non osavo guardarla in faccia. [p. 119 modifica]

— Non so...., non posso dir nulla....

— Non vuoi dirlo!

— Non posso dire quello che non ho visto.

— E allora perchè accusi?

— Perchè...., perchè quel giorno dei pizzicotti, io scappai a veder lavorare in fabbrica. Quando tornai è fui sotto la finestra dello studio, sentii che Roveni sgridava ad Anna....

— Cioè?

— Diceva piano: «C’è Ortensia....» Capisce? Era lui, Roveni, che doveva sgridare ad Anna! Dunque, mi pare....

Io, senza più titubanza avevo fissato lo sguardo negli occhi di lei per scoprirne tutto il pensiero; nè riuscendoci, perchè volevo più del suo pensiero, sentii il bisogno di rimproverarla ancora.

— Tu ascoltavi, sotto la finestra!

— No! glielo giuro!

In questo mentre una delle donne con la gerla piena di biancheria veniva verso di noi.

Salutò, si fermò e chiese con faccia franca:

— Cosa cerca, signorina?

— Cerchiamo fortuna. Teresa!

— Eh non ne han bisogno loro! — disse la donna sorridendo un po’ maliziosa. Ma Ortensia, ingenua:

— Non ci credi, tu, nel trifoglietto dalle quattro foglie?

E l’altra guardando a me;

— La povera gente non ci crede in queste cose!

— Male! Se tu ci avessi creduto quand’eri ragazza, adesso non faresti più la lavandaia; saresti contessa o duchessa.

— Oh ne trovavo tanto anch’io, quand’era [p. 120 modifica]giovane! — confessò la donna intanto che riprendeva il sentiero. — Ma sì! Ci vuol altro!

Per dire qualche cosa io dissi:

— Hai sentito? Andiamo, che è tempo perduto.

— Nossignore! — esclamò Ortensia. — Io ci credo!

Così proseguimmo; lei dimentica del discorso di prima, e io tornandoci in segreto, quasi per forza, e con un sentimento di profanazione.

Aveva appena diciassette anni: che le avevano appreso i sogni? le letture? le compagne? l’esempio di Anna? Quanto sapeva, insomma...., dei piaceri e delle brutture dei sensi?

Possibile che dell’amore non presentisse quei diletti che il mistero ingrandisce alla fantasia nelle prime commozioni del sangue? Possibile non avesse pensato che certe «brutte cose» diventano lecite e desidera-bili solo per la benedizione del prete e per il vincolo della legge?

Che turbamento avevano lasciato nell’animo suo le audacie della Melvi con Roveni? Che cosa, a quelle parole, terribili per me e sollecitatrici per lei: «C’è Ortensia....», aveva immaginato? un bacio?... soltanto? Ciò che poteva aver immaginato essa cercavo d’immaginar io; e ora mi pareva eccessivo il mio pensiero, e ora limitato troppo; e avrei voluto chiarirmi con inchieste che non sapevo nè dovevo fare: il senso di profanazione s’accresceva entro di me a un ribrezzo quale per una indagine vergognosa.

La guardavo. Sì, sì, era affatto dimentica del discorso di prima: il sole le splendeva nei capelli; cercava, bambina, il trifoglietto dalle quattro foglie.

Io, uomo e corrotto, non sapevo neppure perchè [p. 121 modifica]temevo tanto; edotto dalla scienza, non sapevo perchè ora vedessi un male in una necessità fisiologica, se qualche imperioso moto del sangue e dei sensi richiamasse in Ortensia immagini sensuali. Temevo; soffrivo; e mi consolavo a guardarla.... Mi ripetevo che voci di colpa erano giunte al suo orecchio, ma non all’anima sua; e io avevo ben visto in lei il contrasto fra la voglia puerile di mostrarsi perspicace e il pudore istintivo che le faceva parere enorme quel che ricordava; il lume degli occhi, mentre parlava, e il lieve colore passato nelle sue guance, subito avrebbero dovuto accertarmi che a lei ripugnava rimeditare ogni impurità, proprio per un pudore d’istinto; per uno oscuro sgomento dello spirito; per una nativa repulsione da ciò che l’intelligenza le aveva appreso senza volere. E la stessa sua attività fisica....

— Ebbene? Non dice più nulla? — mi chiese tutta contenta di costringermi a pazientare con lei nella ricerca. — A che pensa? Ohe! signor dottore!...

Ma repentinamente io avevo osservato.... Gridai — Là! — Ne avevo compiuto il monosillabo che Ortensia, con più alto grido di gioia, raccoglieva il quadrifoglietto, al margine del fosso.

— L’ho visto prima io! — feci rallegrato, più che dal caso, da quella allegrezza di lei, che bastava a dissipare dalla mia mente e dal mio animo l’ultima ombra.

— No, prima io! Mi chinavo a raccoglierlo proprio quando lei ha detto: — La!

— Non è vero!

— È vero! — S’inquietava. Finchè, rabbonita, mi disse: [p. 122 modifica]

— A lei: glielo offro.

— Non lo voglio! Sono io che l’offro a voi, signorina, per ricordo, per augurio, per gratitudine, per omaggio.

— Auff! — Diventando ninacciosa, gridò: — Lo butto nell’acqua!

— Guai! la fortuna si vendicherebbe di tutti e due: anche di me che non l’ho cercata per me.

— Dio! Dio! Che pazienza!

Ma infine ebbe una buona idea.

— Leveremo a sorte chi debba conservarlo; benchèé sia di tutti e due.

La sorte favorì Ortensia; e io godetti anche di questo!


Ero dunque riuscito nell’intento di attenuare la mia esistenza, così e così ricuperavo la vita con piena letizia, e dissipavo ogni fosco pensiero e obliavo? O dovevo al sole la novella gioia? Che deliziose ore riebbi nel giardino di Moser! Rivedendomi nei giorni del mio rinnovamento, con che cuore rivedo il bel luogo!

Verso nord acacie e robinie e alberi in ischiera disegnavano l’erta, con la strada del vecchio convento; e più oltre, riprese di boschi.

Alla parte occidentale, era un confine di siepi, tigli e platani: a mezzodì la catena di monti in linea uguale, netta, tagliava il cielo; simile a un limite remoto ma preciso. E da questo limite, d’un cupo verde, alle ore meridiane sormontavano nel cielo cristallino nuvoli di bambagia lucente al sole, che cadevano all’ombra delle montagne occidue con pallore improvviso. Più spesso, sorgevano vapori bianchi, quasi segnali d’una terra ignota e invisibile. Sopra, nello [p. 123 modifica]spazio di cielo, passeri traversavano, pari a frecce, e le rondini esercitavano obliqui voli e volteggiamenti.

Là dentro, nel giardino, ricevevo adesso impressioni di cui non credevo più capace il mio spirito; mi beavo nell’amore della campagna. Vedevo che riflessi metallici il sole traeva dalle foglie lisce delle magnolie e dei lauri; come penetrava radioso tra il folto degli abeti; cohe toni gialli suscitava dalle acacie e dai tigli; che denso e lieto verde gli opponevano le tuje; di che sovrano fulgore investiva i fiori e allagava il prato. Poi, di quelle piante conoscevo tutte le attitudini e le movenze: dai molli abbandoni nell’aria mite, alle agitazioni penose nella furia del vento. Anche avvertivo effluvi di profumi semplici e commisti, alcuni dei quali da me non avvertiti mai. Certo, in quella famiglia di piante ed erbe conoscevo pur dei rami che intisichivano, e steli che pativano, e fiori che perdevano petali; ma tali indizi di infermità e di morte sparivano dal mio sguardo confusi in un vasto e complesso aspetto di giovinezza, di vita intensa, feconda, continua, gioiosa: fiori e verde, luce e calore, giovinezza e amore!

Il sole! il sole! Finalmente nell’eterno splendore che avvolgeva tutte le cose io rivedevo l’energia della vita universale e nella vita universa tornavo a sentire me vivo. Al cielo, che bianco intorno al divino lume diventava con insensibile gradazione del più puro cobalto e del più puro indaco, tendeva da tutta la terra un’anima sola, letificata: e in quella letizia comunicavano con voci udibili e con voci inaudite le anime di quanti corpi volavano per l’aria; le anime di quanti [p. 124 modifica]corpi correvano e indugiavano su la terra, o serpevano tra l’erba, o si ricercavano sotto terra; le anime di tutti i fiori e le anime d’ogni natura vegetativa; le anime delle acque fluenti, dei fuochi e dei vapori latenti; le anime in tutte le forme ancora ignote ad occhio umano, e l’anima mia. E per l’addietro io avevo infranto in me il vincolo di tale comunione! Per essere felice, m’ero staccato dalla universale vitalità; al lume del sole avevo creduto poter opporre il lume del mio pensiero, e vivere! Pazzo!

Ora io mi gettavo su l’erba col gaudio di un bambino che ritorni tra le braccia della madre. Navigavo con lo sguardo per il cielo fin dove lo sguardo poteva resistere, e ascoltavo ogni più debole suono, e addentrandomi con lo spirito nelle sensazioni molteplici, smarrivo felice la continuità del mio pensiero. Oh non pensare! non pensare mai più! e vivere!

Nè pensavo ai filosofi che predicarono il benefizio del tornare all’amore della terra e della campagna: sentivo in me una virtù superiore alle loro concezioni.

E non pensavo al piacere di chi va per i campi in traccia della sua scienza di cause e di effetti, nè alla consolazione del poeta solitario il quale chiama cielo e terra a testimone del suo amore.

Perchè io sapevo di una vita più viva, di una consolazione più pura di una gioia più umana e naturale insieme: quella della fanciulla che viveva meco là fuori, nel giardino, con finezza sensitiva, con anima ignara, con intelligenza serena. Per Ortensia tutto viveva; a lei tutto parlava, senza sua riflessione, spontaneamente. Strapparla via di là, a un tratto e per sempre, sarebbe stato come recidere un fiore. [p. 125 modifica]

Ella ne recideva dei fiori, per adornarsene; ma alcune volte l’udii dire: — peccato! — ; e altre volte notai che dalla pianta non staccava il fiore più bello.

XIV.

Chi mi richiamava a cose più gravi?

Moser a vedermi «così chiaro», come egli diceva, diventava più chiaro anche lui.

La sera di ritorno a casa, m’abbracciava, esclamando:

— Te lo dicevo io? L’aria di Valdigorgo fa miracoli! Non ti resta che abbandonare per sempre Spinoza e compagnia, e sarai l’uomo più felice del mondo!

Quanto a lui, Moser, continuava la sua vita di lavoratore indefesso e fiducioso. E gli argomenti che egli adduceva a sostegno della sua fiducia, mi persuasero a poco a poco che la disparità di criteri fra lui e Roveni indicasse in Roveni un po’ di gelosia per la superiorità di Moser. Il direttore avrebbe voluto primeggiare in tutto e su tutto, nell’azienda; dominare anche il principale, perchè tal era la sua natura; di qui il suo malcontento.

Così mi tranquillai, e tranquillato non pensai più agli affari di Moser. Solo, ad accorgermi che negli occhi di Roveni persisteva un’ombra ne riferii il motivo al dissidio, lieve del resto che egli aveva con Claudio. Del resto, all’infuori dì quell’ombra, [p. 126 modifica]la quale poteva essere anche indizio di stlanchezza, nulla appariva di mutato nelle abitudini e nelle attitudini del giovane ingegnere. Mi par di vederlo allorchè veniva a noi, la sera, dallo studio di Moser, là dove l’aspettavamo. Si arrestava su la soglia della sala o della terrazza, quasi a prender possesso della situazione. La sua prima occhiata era diritta alla mia volta; ma non me ne meravigliavo, perchè di solito ero nel gruppo giovanile, e di là prorompevano le grida che sfogavan la lunga attesa; applausi di Anna e Ortensia; rimproveri a mezza voce di Marcella; comiche esclamazioni di Guido.

— Che si fa? — domandava, sembrava comandare Roveni.

Se gridavano polka o waltzer, egli afferrava, senza indugio nella scelta, o Anna o Marcella o Ortensia, e trasportava la ballerina seguendo la novella foga della signora Fulgosi, sotto le cui rapide mani il pianoforte scontava le colpe del cavaliere.

Veramente Roveni rideva poco o punto, e per me sarebbe stato non bell’indizio se non ci fossimo trovati in mezzo a compagni che ridevan tanto. Mi pareva ch’egli dovesse sentirsi di tempra diversa e più forte. Sorrideva a pena pur quando Ortensia voleva strisciar il waltzer con il cavalier Fulgosi e il povero gentleman era costretto a scomporsi e ricomporsi alle norme dello strascico musicale, che la moglie protraeva per dispetto.

Talvolta però scherzava anche lui, l’ingegnere. Non di rado si schermiva dai giuochi e attaccava discorso con le signore e con i soliti contendenti politici, il cavaliere e il vecchio Learchi. Mi [p. 127 modifica]chiamava allora senza badare ad Anna, che l’avrebbe sempre voluto al suo fianco.

— Qua, dottor Sivori! È vero o no che in paese è corsa la voce....

Serio, mi obbligava ad attestare una strampalata notizia di sua invenzione, la quale era un po’ scandalosa e faceva sobbalzare per le risa l’adipe della Melvi madre. Oppure dal gruppo degli uomini diceva a voce alta verso di me: — Me n’appello al dottor Sivori! È vero o no che la guerra è nella natura delle cose? £ vero o no che secondo Darwin, o Spencer che sia, la prevalenza della forza è la legge dell’esistenza universale? Dunque i fautori della pace universale sono i peggiori nemici della società. I socialisti poi...., a domicilio coatto! in galera! mitraglia!

Io assentivo allo scherzo, pur osservando che anche in questo si rivelava l’energia dell’uomo.

Il vecchio Learchi grugniva: — bravo! — ; e il cavaliere spalancava le braccia.

— No, dottore, no!... Non faccia bonne mine à mauvais jeu! Stasera il nostro bravo ingegnere è un po’ farceur. Prima di tutto, confonde i socialisti con i più nobili, più puri pensatori della pace universale! Eppoi...., eppoi condannare sans façon tutti i socialisti, condannarli in nome della scienza...., ohibò...., è un’eresia! La scienza è amore!

E giù uno sproloquio per finire con la libertà nell’ordine e viceversa. Ma parlava con arte il cavaliere, mentre ascoltava e osservava sè stesso. Il suo gestire era effetto dì lungo studio, perchè gli altri ascoltatori ammirassero i polsini, i gemelli nei polsini, gli anelli delle dita, il [p. 128 modifica]candore e l’arco delle unghie. Ed ora tendeva il braccio agitando due o tre volte la mano aperta a dita aperte; ora col gomito nel braccio della poltrona abbandonava la mano fuor del polsino quasi fosse sostenuta da quello; or appuntava all’avversario l’indice teso fuor del pugno mollemente socchiuso col pollice a contatto del medio; or apriva ad arco ambedue le braccia e concedeva la vista d’ambedue le palme nell’atto del porgere....

Bisogna anche dire il perchè da quando era stato bandito Pieruccio l’eloquenza del cavaliere navigava per il mare magnum della pacificazione sociale. Da che moveva in lui, a che tendeva il desiderio di così vasta idealità?

Moveva dalla guerra domestica; intorno a cui informavano le Melvi. La lontananza di Pieruccio aveva, sollevato l’impenitente Don Giovanni, il vieux marcheur, da un grave peso, dal timore di scandalizzare il figliolo; e un giorno la signora l’aveva sorpreso mentre egli affrettava gli approcci alla facile fortezza della cameriera. Questa, bandita a sua volta, era andata rivelando per il paese le velleità del padrone e la gelosia, frenetica della padrona; onde chiacchiere e risa. Il ridicolo!

La famiglia Fulgosi nel ridicolo!

— Colpa vostra: vergognatevi! — diceva la signora.

— Colpa vostra! — ribatteva il marito. — Siete nervosa nervosa nervosa! E bisbetica! e accattabrighe! Gentildonna in apparenza; in realtà, povera donna! Sì: povera donna!; lo ripeto senza tema di essere smentito: povera donna!

Senza smentire, la gentildonna scagliò una [p. 129 modifica]spazzola a scomporre l’accurata pettinatura della barbetta maritale.

Onde l’idea di fondare in Valdigorgo il «Club della caccia» con inaugurazione al 20 settembre. Sissignori: dalla guerra famigliare nacque nel cavaliere il desiderio di portare la pacificazione sociale a Valdigorgo.

Dividevano il paese: socialismo germinante fra gli operai della fabbrica Moser; moderatume governante in municipio con irremovibile fede nel consiglio: «Adagio, Biagio!»; codineria collegante il grasso priore al non men grasso e più cocciuto Learchi, ai quali tenevan bordone clienti o satelliti in buon numero.

Anche lassù covava dunque l’odio di classe. Covava? Generava nelle osterie, nel caffè di mezzo e nel caffè grande, lunghe e feroci discussioni che alla lor volta partorivano odii personali, indegni del vivere civile, dell’amor di patria e dell’alta politica quale insegnarono Cavour, Bismarck, Gladstone, e quale insegnava il cavalier Fulgosi.

La pace è il maggior bene dei popoli, dei paesi, di un paese! II cavalier Fulgosi nel caffè grande esortava al bene di Valdigorgo: «Primo passo, unitevi, o cittadini, nel nome dello sport!» Solo sport a Valdigorgo era la caccia. Ebbene: in un club ove si raccogliessero per amor della caccia avversari d’ogni sorta, quanti dissidi potrebbero esser composti, quante questioni risolute, quante diatribe mitigate, quanti danni riparati, quanti vantaggi provveduti! Perciò l’idea del cavaliere comprendeva la sublime elevazione di un volo lirico: dall’amor della caccia all’amor della pace, all’amor del paese, [p. 130 modifica]all’amor della patria tutta! Il proposito poi d’inaugurare il nuovo club nel giorno anniversario della compiuta unificazione della patria con la capitale Roma, non aveva forse qualche cosa del moderno machiavellismo cavouriano, bismarchiano o gladstoniano? Come potrebbero esimersi dal partecipare alla festa nazionale cacciatori d’ogni sorta, fossero pure socialisti o clericali, se l’invito apparentemente non chiamava che a festeggiare l’amor della caccia e della cacciagione? Fin il sindaco, che cominciava a dubitare della sua resistenza nella onorifica carica da molti anni occupata, ascoltò il consiglio del segretario:

— Appoggi! appoggi! L’idea del cavaliere è buona.

Ma segretario e sindaco, poveri ingenui, ignoravano che cosa meditava il cavaliere! (Alle prossime elezioni....) Intanto essi favorivano. E il comitato presieduto dal cavaliere si mise a raccogliere soci; e un comitato di signore s’adoperava ad accumulare premi che rendessero più gloriosa una gara di tiro nel dì solenne.

Se non che non cessavano le battaglie nella famiglia Fulgosi e nelle vicinanze. La signora Fulgosi dubitava che la cameriera attirasse il marito in paese e faceva ancora volar le spazzole. Inoltre al signor Learchi padre bastava, per politica, bere, mangiare, pipare e predicar la castità ai rondoni....

Diceva: — Cacciatore è chi va a caccia; io a caccia non ci vado; quindi del suo club, stimatissimo signor cavaliere, non so cosa farmene. Religione ci vuole! Altro che caccia!

A parte la religione, l’ingegner Moser non andava più a caccia; l’ingegner Roveni non aveva [p. 131 modifica]tempo di andarci; Sivori — l’illustre pensatore — che cosa poteva cacciare? Eppure eran stati dei primi ad associarsi. Perchè? Per vantaggio del paese, per amor della patria tutta!...

.... In uno di quei giorni in cui si faceva scarrozzare a spese del futuro club, il leggiadro cavaliere piombò alla villa mentre io ero con Ortensia ed essa stava leggendo.

A quelque chose malheur est bon! — egli disse entrando nella sala. — Dolentissimo di non aver trovato l’ingegner Moser....

— Il babbo non torna che domattina — l’interruppe Ortensia.

— Me l’ha detto la signorina Marcella.... Felicissimo però, se non disturbo, di mettermi al coperto e trattenermi in così amabile compagnia. Come vedono, torniamo da capo. — Poi in accento toscano: — Il tempo si rimette.... a piovere, Dio bonino!

Sorgeva infatti un nuvolone nero.

— La signorina leggeva? Ah! Dickens! Lo conosco poco, a dire la verità. Non è uno de’ miei autori. — E strizzandomi l’occhio: — Io preferisco De Koch.

Gli chiesi:

— Come va il club?

All right! — Mi prese a braccio per susurrarmi in modo che Ortensia udisse: — Bisogna persuadere l’ingegner Moser ad accettare la presidenza effettiva.

— Saremo invitati anche noi alla festa? al banchetto? — domandò Ortensia.

— Invitate, sì: diavolo! Ma banchetto, no! Un lunch.... [p. 132 modifica]

— Con molte paste!

— ....e farewell!

— Chi fa il discorso?

Sorrise.

— Forse io....; si capisce: per non urtar nessuno, al 20 settembre, ci vuol tatto, savoir-faire.

E poiché tuonava:

— Niente paura! Sempre non è seren, sempre non piove!

Ma Eugenia e Marcella chiamavano

— Ortensia! Ortensia!

Marcella correva al piano di sopra ove il vento sbatteva vetri e finestre.

— Una nuvola che passa! — garantì il cavaliere seguendo Ortensia, che usciva, con gli occhi mollemente pecorini. — Quindi scosse il capo per asseveranza a quanto diceva. — Sempre più bella, quella ragazza! Ce ne sono delle più belle?... Grazie! Ma bellezze che non dicono niente; Ortensia invece.... che simpatia! che charme! Eh eh! Il mio Pieruccio non aveva poi tutti i torti.... Solo, alla sua età le ragazze sono pericolose; meglio le signore, per imparare ad amare. Laggiù a Varezze non gli mancherà occasione di far pratica, a quel ragazzo!

Una pausa. Eppoi:

— Tornando a Ortensia beato lei, dottore!

Io, che guardavo fuori, al tempo, mi rivolsi con un’occhiata feroce. Ma egli continuò:

— Lei è un uomo superiore ad ogni sospetto, superiore in tutto. Su di lei non è possibile far malignità, è inutile fin ripetere: Honny soit qui mal y pense. Voglio dire che lei può gustare tutta l’amabilità della signorina senza [p. 133 modifica]dar la minima ombra; la loro è un’invidiabile amicizia, un’entente semplicemente cordiale. Però mi consenta dirle anche che se Ortensia avesse solo qualche anno di più....

— Lei scherza! — feci io, aspro.

— Non scherzo niente affatto! Che a Lei questa mia idea non sia venuta, è naturale, perchè lei è un uomo superiore. Ma per me, non ci sarebbe niente di strano; anzi ci sarebbe da rallegrarsi d’un così bel matrimonio...., fattibile, ora aggiungo, fattibilissimo pur con la differenza di età che ci corre fra la signorina e lei.

Non scherzava il cavaliere, e che piacere mi fece!; come di una gratissima improvvisata. La mia antipatia per lui finì d’un tratto. Non era un uomo sagace?

— Che acquazzone! — esclamai.

— Una nuvola che passa. Ma senta: un mio amico, il commendatore Fiscaglia, ha sposato, a cinquant’anni, una ragazza di ventidue; e sono felici, con un bel maschiotto.... La questione sta nella scelta; nel volersi bene....; purchè, intendiamoci, si sia ben portanti e sani....

Trasse l’astuccio dello specchietto, e pareva dire: «Se io fossi vedovo!»

— Lei, dottore, non ne conta cinquanta delle primavere. Quante ne conta? Trentasei, trentotto? Ebbene, francamente, senza complimenti, per la pura verità, se io fossi nella signorina Ortensia io non esiterei un istante nella scelta, tra lei e....

A questa parola di «scelta» io mi era rivoltato d’improvviso, fissandolo non so come; come chi aspetta una cosa inaudita, come chi minaccia un guaio a un incauto. [p. 134 modifica]

Ma il cavaliere aveva già preso lo sdrucciolo, o sebbene avvertisse il passo falso dovè tirare innanzi.

— .... non esiterei nella scelta tra lei e l’ingegnere Roveni.

Roveni?... Ero pallido, immoto nella persona e nello sguardo. Il mio stupore, forse più che altro, esprimeva il dolore profondo d’un animo generoso colpito a tradimento. E al dolore sottentrava irrefrenabile lo sdegno.

Con il presentimento di una battaglia più dura di tutte le altre, il cavaliere aveva tolte dall’astuccio le sole armi che potessero levarlo d’imbarazzo: lo specchietto e il pettinino; e con tutta la disinvoltura che potè assumere, con la più tenera occhiata de’ suoi occhi pecorini, con l’ingenuità di chi spera ancora di riparare dopo averla fatta grossa:

— Che sia poi vero quello che si dice? — domandò.

Io l’investii:

— Si dice?...

Più pallido di me, tenendo il pettinino nella destra e lo specchietto nella sinistra, a mezz’aria:

— Non assumo alcuna responsabilità — mormorò: — Nessuna responsabilità delle chiacchiere altrui.... Si dice, dicono, lo dice anche la mia signora, che la signorina Ortensia sposerà.... l’ingegner Roveni.

Stavo sempre immobile, quasi aspettando ancora. L’altro, al mio silenzio, si smarrì del tutto, precipitò sino in fondo.

— Sarebbe un matrimonio già combinato....

Allora io gli gettai in faccia una sola parola:

— Sciocco!

E tornai a guardare il cielo. Fremevo, cieco [p. 135 modifica]d’ira; tremavo; non vedevo più l’altro, che balbettava:

— Ma.... ma...., dottore.... È un’offesa....

Ancora tacqui. Durante il nuovo silenzio freddo e pesante il poveromo si chiedeva che cosa gli restasse a fare. Intascare l’astuccio.... E poi? Mandarmi i padrini. Se no, la dignità del futuro sindaco di Valdigorgo correva un rischio terribile. Un gentleman a rischio di parer vile! Ma, d’altra parte, urgeva non comprometter la pelle. Che fare, dunque? Ah l’ingegnoso diplomatico che trovata ebbe!

Arditamente e solennemente disse:

— Dottor Sivori: lei mi ha offeso; lei ha offeso.... un vecchio!

Quasi disperato, per salvarsi, riconosceva ciò che altrimenti gli sarebbe stato più grave di ogni insulto: si confessava vecchio!

Ma non solo per questo io ruppi in una risata ironica, mentre Ortensia stava per rientrare....

E a veder Ortensia, il cavaliere, come ricuperasse l’anima che il mio riso respingeva su l’abisso, con uno sforzo sublime di spirito, mi lasciò, andò alla volta della ragazza, e varcando la porta salutò franco:

Au revoir, signorina! [p. 136 modifica]

XV.


— Il signor Oliviero mi piace! mi piace molto! — disse Ortensia riprendendo il romanzo e rimettendosi al solito posto, contro alla porta della terrazza.

Ancora su la soglia di quella io le voltavo le spalle, impietrato sotto il peso della cosa enorme: l’amavo!

— Dove siamo rimasti, Sivori?... Prego! Stia attento qui, adesso. Il mondo non casca più e il cavaliere, grazie al Cielo, se ne è andato!... Au revoir!... Ah! ecco dove eravamo.... Senta dunque.

Riprese a leggere. Io non osavo riguardarla. D’un tratto, la guardai...., in piena luce; nella luce d’una beltà divina. E non era più come una sorella.... Destinata in moglie a Roveni.... L’amavo! io l’amavo!

Tumultuarono in me, sotto il peso della cosa enorme, in quella luce di rivelazione, sentimenti mal definiti e violenti: gelosia; rabbia quasi per una sanguinosa offesa; dolore quale di chi patisce il furto di ciò che ha più caro....; strazio: Ortensia mi aveva ingannato! Tutto quel tumulto, tutto quel peso enorme mi travolse come nella rovina estrema della mia esistenza; mi sconvolse e mi oscurò il pensiero intorno a un’idea sola, superstite, viva e fugace come un lampo: ucciderla! Con una mano afferrai la porta della terrazza, mi trattenni colla sensazione di chi si afferra a uno sterpo sul lembo di un precipizio, [p. 137 modifica]con la sensazione che avevo provata un’altra volta, al folgorare nella mia mente di quella stessa idea; ma il mio terrore fu vinto da quello sforzo, fu convertito quasi in una muta ilarità, che mi si agghiacciò in faccia.

Ortensia, al volger d’una pagina disse:

— Basta, signor Oliviero!; sono stanca. — Poi: — Che è stato? — esclamò balzando in piedi. — Il sorriso brutto! Perchè?

Proruppi:

— A questo mondo tutto è possibile! Ogni errore, ogni colpa, ogni vigliaccheria, ogni infamia! È fin possibile che tu m’inganni; che tu sia falsa!...

Alle mie parole subito il volto di lei dimostrò uno stupore così doloroso, un’angoscia tale di ingiusta accusa, che fui costretto a contenermi, pentito, dall’eccesso della passione. Ella domandava:

— Perchè mi dice così?

Era atterrita

— Non spaventarti — risposi con viso diverso ma con sorriso sempre ironico. — Una nuvola che passa.... Ho appreso una bella notizia.... Solo, mi è spiaciuto apprenderla da altri, non da te.

— Quale notizia?

— Che l’ingegner Roveni...., forse o senza forse....

— Anche lei! — m’interruppe riavendosi e tendendomi un dito agli occhi, al modo di Mino quando incolpava qualcuno. — Anche lei?! Da lei, questa, non me l’aspettavo! No, no! non me l’aspettavo! — essa ripeteva sdegnata.

Triste io, e incauto, procedetti al solo rimprovero che potevo muoverle; [p. 138 modifica]

— Però tu hai detto: «anche lei!» Dunque molti lo dicono, e io non lo sapevo! Io non sapevo quel che sa il cavalier Fulgosi!

— Non è vero! Non è vero! — esclamò battendo i piedi.

Ed io a insistere, immiserendomi nel mio stesso affanno.

— Vero o non vero, io non lo sapevo!

Stette zitta un po’, e poi disse:

— Senta: lei mi rimprovera che non rifletto, che sono sventata.... Ha ragione. Ma lei di me ha molta stima; ha molta fiducia in me; ne sono sicura! Non sono come Anna io, per lei!... Bene! A venirle a dire: Sa? Dicono che Roveni vuol sposarmi....; non è vero ma, lo dicono....; a venirle a dir questo, mi sembra anche adesso che sarei stata come Anna. Anna avrebbe potuto dirle così, e ridere. Io no; io non ho potuto! Mi crede? Non ho potuto! Non so spiegarmi, ma mi pareva una cosa sconveniente. Ah se fosse vero quel che dicono; se Roveni mi facesse la corte (nella frase di prammatica arrossì, rivelandomi in quel pudore gentile forse la miglior ragione del suo silenzio).... se fosse vero, gliel’avrei detto subito. Ma non è vero! — ripeteva alzando ogni volta più il tono della voce — ; non è vero! non è vero! E vuol sapere il perchè non è vero?

Io non avevo ancora assentito che già ella si correggeva:

— Non posso dirglielo, il perchè; è un segreto.

— Un altro segreto — mormorai.

— Non mio: della mamma. Ma via! a lei si può confidare. — Susurrava:

— Presto, quest’altr’anno forse, Roveni se ne [p. 139 modifica]andrà. Capisce? Il babbo non deve saperlo; almeno per ora....

C’era tanta sicurezza, franchezza e sincerità nelle sue parole! Tanta ingenuità! Ed io, che potevo far io se non sforzarmi a dissimulare, a mentire?

— E se tornasse? — domandai, comprimendomi dentro il peso dell’infingimento in cui mi avvilivo. — Potrei io desiderarti un giorno, se tornasse, sposo più degno?

Allora essa volse in burla la domanda patetica.

— Oh no! Un buon giovane! un bravo giovane! un bel giovane!... Che partito invidiabile! Tornare, chi sa di dove, a Valdigorgo per sposar me! E quanti confetti! ma pare di vederli, di mangiarli!

— Io non scherzo!

— Io sì.

Ella aveva assunto qualche cosa della mia amara ironia. Ma diceva la verità.... E che bene mi voleva!

Rasserenata, proseguiva:

— Lei, quando è di cattivo umore, va a cercare con la lanterna tutte le ragioni per far inquietare anche me. Basta! basta! non ne parliamo più! Le perdòno. E che ne dice di Roveni? Andarsene; lasciare il babbo.... Me ne dispiace molto per il babbo. Per me, stia pur certo Roveni che non piangerò quando partirà. Avrò dispiacere, ma piangere!... Anna piangerà; che ne è innamorata cotta!

Era sincera. Ella non amava Roveni e voleva un gran bene a me. Ma a me tanto bene non bastava più! [p. 140 modifica]

Che giorno fu quello! Appena fui solo, mi parve ancora di precipitare nel considerar di nuovo la cosa incredibile e vera, ridicola e tremenda. O meglio, mi vidi in un labirinto angoscioso e senza uscita; mi vidi goffa vittima d’un mio proprio inganno e miserevole vittima d’incanni altrui; vidi come io — che odiavo la menzogna — d’allora in poi avrei dovuto mentire e come a me, stanco d’ogni finzione, sarebbe stato necessario nascondere segretamente, per tutti e per sempre, il mio errore, la mia colpa, la mia vergogna; vidi che per guarire d’un male, per cui non avevo cercato e trovato a rimedio la morte, ero caduto in un maggior male, onde avrei dovuto essere più forte e sarei stato più vile! o l’amavo!: questa la verità rivelata d’improvviso, a me stesso, quasi per uno strappo, dalla notizia che già Ortensia poteva essere amata da un altro; e non più da un ragazzo: da un uomo quale Roveni. Io avevo trentasette anni ormai; Ortensia diciassette; e l’amavo! Io avevo desiderato la morte, desideravo la morte; e amavo, io Ortensia! L’amavo come non avevo mai amato. E la coscienza del mio amore, della mia colpa, della mia demenza, del mio tradimento, della mia vergogna m’era venuta dal più torbido fondo della passione: la gelosia. Poteva esser vero che Roveni non l’amasse; ma; ad ogni modo ella non avrebbe dovuto essere amata da nessun altro che da me! Io già ingelosivo del suo avvenire!

E che sarebbe di mie se io non sapessi mentire e fingere? In che condizione mi mettevo con Claudio? con Eugenia? con la mia coscienza? Avvertendo la mia follia, avvertivo l’oscuro presentimento d’un delitto o di una tragica catastrofe, [p. 141 modifica]inevitabile. Comprendevo fin d’allora che sarei dovuto fuggire subito, anche per pietà di me. Fuggire? Ma io non scorgevo più che due termini a un imminente, lungo, incommensurabile, sconosciuto soffrire: o la felicità o la morte! E la felicità non era assurdo pensarla? Il cavalier Fulgosi non sapeva che non solo la differenza di età mi divideva da Ortensia. Non avevo una fede, io! Non avevo fede in me; e l’amore non basta alla felicità; e renderei infelice Ortensia perchè sarei sempre un uomo infelice! Dunque: fuggire! Non udir più la sua bella voce; non rivederla mai più! Andrebbe sposa.... E perchè non a Roveni?

Possibile che in quel che si diceva non ci fosse nulla affatto di vero? Ma Eugenia non me ne avrebbe detto nulla? Mi sembrava che io e Ortensia fossimo avvolti in un mistero; e poichè nei frangenti della passione anche ciò che accrescerà il male assume spesso l’illusione di un bene, mi parve che chiarir il mistero potesse alleviarmi il nuovo tormento. Ma perciò dovevo dissimulare, fare il disinvolto, osservare freddamente.... Non ci riuscii.

La sera Roveni, entrando, guardò al solito modo; ma Ortensia non era vicina a me. Tentava di persuader Mino a ubbidire. Oh come ho viva nella memoria questa scena!

Quando aveva più sonno Mino si ostinava a star alzato, e la vecchia cameriera lo chiamava invano. Quella sera egli pretendeva che l’accompagnasse Ortensia. Nascondeva il viso nella poltrona piagnucolando e sgambettando contro tutte le sollecitazioni del pubblico; anche contro di me. [p. 142 modifica]

— Voglio Ortensia!

Finalmente Eugenia, stanca, minacciò di chiamare il padre.

Presto!...; il babbo arrivava; su, Mino: eccolo!

Tacque un po’ e quindi, forse più per il rimorso che per il timore d’un castigo, si gettò al collo della sorella rompendo in un pianto ch’era invocazione di pietà. E Ortensia impietosita se lo caricò in braccio.

Ah io vidi lo sguardo che Roveni posò su di lei, mentre ella usciva col fratellino in braccio!

Era vero! Ah come dileguò allora l’ombra che già avevo notata nel suo sguardo! Come l’amava!

Cieco io ero stato, cieco a non accorgermene prima! Io vidi e invidiai come l’amava: d’un amore sano, perfettamente umano, anticipandone a sè stesso le migliori gioie. Aveva guardata in lei la sua donna; la moglie che portava in braccio così un loro figliolo. Quanto affrettava nella sua speranza quel giorno! Quanto gli rincresceva che per la sua stessa felicità avvenire, per prudenza e sagacia, non potesse comunicare quel suo gioioso pensiero a Ortensia! Con che cuore accresceva di due anni, di un anno la giovinezza di Ortensia! Non farneticavo; comprendevo tutto ora.... Certo a Roveni doleva di abbandonar Moser per cercare la sua fortuna, che poteva mancargli. Che azione avrebbe dunque commessa innamorando di sè e abbandonando la figlia del suo benefattore? Ah, costui che dominava in sè, così, le due più forti passioni umane: l’ambizione e l’amore, costui era un uomo! Io non ero stato cieco ma egli, egli usava di una meravigliosa forza a dissimulare; e chi dissimulava così doveva esser capace di una passione grande! [p. 143 modifica]L’ammiravo e l’odiavo. Era il nemico che mi feriva a morte, e l’ammiravo e sentivo, più virile, la bramosia di misurare la mia, forza con la sua in un contrasto violento. Ma non dovevo; egli doveva restare il più forte! Pure, potevo dirgli: «Voi credete che io non abbia gli occhi? Gli altri per pettegolezzo, sapendovi nelle grazie di Moser, han conchiuso nella loro fantasia il vostro matrimonio, senza saper nulla in realtà. Io so, io ho visto quanto l’amate! Non dissimulate almeno con me: voi!»

E mi accostai sorridendo, coll’intenzione di domandargli:

— Dunque, è vero?

Ma subito, presso a lui, mi sentii a disagio.

Con tanta tranquillità mi guardava; era così fermo il suo volto, così saldo l’animo in quel volto, che la simulazione mi sembrò onesta in lui e disonesta, vergognosa, in me. Inoltre, di subito, giudicai inopportuna la dimanda che stavo per fare. Venendogli da me, la richiesta acquisterebbe troppa gravità e precipiterebbe l’evento temuto; la risoluzione che egli, per sue buone ragioni, ritardava.

Mi aspettò tranquillo dicendomi, quasi per risalutarmi:

— Dottore....

E dietro di me una voce, in tono di canzonatura, imitò quel saluto: — Dottore....; ingegnere....

Uno sdegno più forte di quello suscitato in me dal cavalier Fulgosi provai allora contro la Melvi; una smania di vendetta quasi fosse lei e lei sola colpevole del mio soffrire. Le chiesi, tra ironico e minaccioso: [p. 144 modifica]

— Ha bisogno della mia compagnia! o di quella dell’ingegnere?

Arma si era appoggiata a un tavolino, su cui ardeva una lampada, e dava la caccia a una farfalletta che svolazzava intorno al lume.

Rispose arditamente: — La sua compagnia è troppo seria, per me!

Roveni fece: — Oh! oh! Io mi accostai alla Melvi; e mentre ella bruciava la farfalla alla lampada, dissi per provocarla:

— Essere troppo serio per lei non significa che io sia molto serio!

— E questo vuol dire che io sono così allegra.... che non dovrei prendere sul serio nemmeno lei? nemmeno un poco?

— Un poco, via! Se non per altro, per, la mia abitudine di indagare nell’animo della gente di scrutare i cuori umani.

— Indaghi, dottore; ma badi che i medici van soggetti a sbagliare. Fan certi spropositi!... Per esempio, lei, che legge nei cuori, non si è ancora convinto che dovremmo essere amici noi due e non nemici! Gliel’ho detto un’altra volta.

Già: me l’aveva detto di ritorno dalle Grotte; e allora aveva data spiegazione diversa da quella che era stata per dire.

— Si spieghi meglio! Perchè dovremmo essere amici?

— Indovinala grillo!

E fuggì dalla porta della terrazza, da cui si scendeva nel giardino, evidentemente per attirarmi là a discorrere. Non la seguii; vidi Ortensia rientrare dalla porta opposta: Roveni, che stava ciarlando con la Fulgosi e la vecchia [p. 145 modifica]Melvi, si voltò di scatto. Un altro non si sarebbe voltato. Ma ecco Anna rientrare anch’essa, di corsa, trafelata e ridente perchè inseguita da Guido. Entrò nel salotto attiguo; ove si abbandonò su di una seggiola.

— Lasciala stare! — dissi a Guido. — Ho da parlarle.

Andai risoluto, chiudendo l’uscio dietro di me. — Voglio sapere chiaramente perchè io e lei dovremmo essere amici!

Ella attese un poco, eppoi agitò incontro a me le mani strette a palma a palma, come per preghiera ed esclamò:

— Ma insomma! sono io che non capisco niente, o è lei? Ha piacere lei che Roveni sia innamorato di Ortensia? No, a quel che pare! Ebbene (e allargava le braccia alla spiegazione che mi concedeva): lei dovrebbe essermi grato se io cerco distrarre Roveni e di liberargliela, la sua Ortensia!

Insolenza, disprezzo, livore, erano in essa.

Il cavaliere mi aveva adirato soltanto; costei sommoveva in me l’astio profondo dell’uomo svergognato, dell’uomo messo alla gogna; addensavo la mia rabbia, la mia bile per una pronta vendetta che, fosse pure indegna, mi riscuotesse subito da una umiliazione intollerabile.

Tesi il braccio e la mano verso la ragazza, quasi ad arrestarla perchè il colpo non fallisse.

— Chi non capisce niente è proprio lei, signorina Melvi! Lei, che non capisce di poter dire a me «la sua Ortensia» senza ferirmi. Sì: Ortensia è mia; ma in un senso che sfugge alla intelligenza della malignità!

— Malignità? Poverino! Dal modo con cui lei or ora guardava a Roveni.... [p. 146 modifica]

— E chi invece capisce qualche cosa sono io, propirio io! — proseguii interrompendola: — Io, che ho capito il suo gioco!

— Ah sì? Quale?

— Questo: Roveni è un uomo leale, ma confinato a Valdigorgo, lontano dagli svaghi che calmano il sangue. Che importa se è innamorato di un’altra? Per lei basta che egli abbia uno smarrimento istantaneo...., quando va a trovarlo alla fabbrica! Roveni è onesto: dopo, sarà costretto a riparare! Ecco perchè io e lei siamo nemici!

Anna si era alzata in piedi con la veemenza di una fiera frustata. Dubitai m’affrontasse rabbiosa. Ma la fiamma delle guance e degli occhi si spense d’un tratto; e rimase bianca, con le labbra tremule. Indi sorrise, scosse le spalle dicendo:

— Me ne infischio!...

— Ma aggiunse con un’occhiata di ricuperata energia e di minaccia: — Per ora!...

XVI.

Risi della minaccia di Anna perchè dalla scienza non avevo imparato a temere la vendetta delle donnicciole, nè mi dolsi d’aver inveito in tal modo contro di lei perchè l’odiavo: l’odiavo per la sua condotta equivoca, per essere stato accertato da lei dell’amore di Roveni, per essere stato ferito da lei, nonostante il mio diniego, nel mio amore. Ma se mentre vegliavo, nella notte, non mi agitava più il pensare ad Anna, mi [p. 147 modifica]travagliava il pensiero che altri sguardi d’amore si fossero posati su di Ortensia prima de’ miei: questo il mio dolore, il mio sdegno, la mia rabbia come per una violazione patita, par un furto crudele! — L’anima d’Ortensia — mi dicevo durante l’ambascia — deve essere mia divenire interamente mia: a ogni costo!

Non era giusto che fossi io la vittima; che per tutto trovassi dolore, io; che dal destino fossero contaminate le mie intenzioni più pure, i miei affetti più semplici, innocui, generosi!

Ah io avevo errato a credere in un affetto di misura e di natura fraterno? In me, in un uomo della mia età quel concetto e quella fede dì un affetto fuori dell’ordine umano meritavano rimprovero o scherno? Io meritavo compianto! E se Ortensia, non esperta del cuore umano, aveva consentito ingenuamente a quell’affetto semplice e naturale, ebbene io sapendo che il suo affetto era già teso all’estremo grado, non esiterei....: ancora un passo, una parola sola, e io farei vibrare d’amore quell’anima! Perchè ristare? Non era una colpa che io avessi vent’anni più di lei, e a nessuno, non al Fulgosi e nemmeno ad Anna, pareva inverosimile che io l’amassi e ne fossi amato. Io potevo contare ancora quattordici o quindici anni di forte virilità. Sano, ero. Quante infermità psichiche sono generate da cause che non toccano gli organi essenziali? In una appunto, per cause estranee alla fisiologia, era pur io caduto; ma già me ne sentivo risollevato.

Non mi temevo più in preda d’un misterioso male, io, che altro malanno non avevo avuto se non il mio pensiero; io che un semplice affetto era bastato a guarire! Del resto, mi sarebbe [p. 148 modifica]facile accertarmi della mia valida costituzione recandomi da qualche insigne collega, di cui indovinavo il responso, dopo l’ascoltazione e la percussione: «Cuore sano; polmoni sani; cervello sano....; nessuna lesione nel cerebro»: di questo potevo star certo! Nessun ostacolo nell’età o nella salute fisica. Non ero ricco; nè uomo da affidare la mia famiglia e la felicità famigliare alla dote di mia moglie. Ma troverei senza dubbio un buon impiego; tranquillo; di lavoro materiale e agevole....

Esagerando, per la rivelazione improvvisa del mio amore, avevo accusato in me quale fonte d’infelicità la mancanza di una fede. Ma alla fede perduta sostituirei la fede in Ortensia e l’amore della famiglia. Dalla fredda ragione il mio amore non ripugnava dunque più come un’enormità; io potevo dunque conchiudere che per nessuno al mondo sarebbe inverosimile, anormale, enorme, un mio colloquio con Moser press’a poco in questi termini:

— Moser, sono innamorato.

— Bene!

— .... d’una ragazza di diciassette anni!

— Di una ragazza di diciassette anni? tu?

— Sì!

— Annegati, caro amico!

— Ma bada....: la ragazza è Ortensia.

Un istante di stupore; di silenzio; uno scoppio d’ira.

— Ortensia è una bambina!

— Ha diciassette anni.

E la risoluzione:

— Ortensia è tua moglie!

Sarei felice! [p. 149 modifica]

Già m’immaginavo il delizioso turbamento di Ortensia, quando chiederei la sua mano.... E mi smarrivo così nell’ebbrezza della felicità nel sogno. Per quanto?... Viva, imperiosa, sicura, mi si affacciava d’un tratto la persona di Roveni. E balzavo, d’un tratto, nel confronto di me con Roveni; poichè dovevo anteporre, alla mia, la felicità d’Ortensia; considerare, come un fratello, s’essa sarebbe più felice o meno infelice sposando me o lui.... Che differenza! Egli era un forte, un conquistatore della vita, un uomo a cui la fede di sè e l’equilibrio di tutte le facoltà, davano in pugno l’avvenire. Io invece....: un caduto a stento risorto; un debole imbaldanzito dalla speranza e nel sogno; un infermo che a mala pena aveva ricuperato la salute.

Sì? Ero guarito? io? un uomo di trentasette anni che amava perdutamente una giovinetta minore di vent’anni?

Del tutto dissennato, piuttosto! Ridicola vittima di un amore quasi senile in confronto all’amore di Roveni; ridicolo più di un ragazzo....

Eccomi, dinanzi agli occhi, anche Pieruccio Fulgosi: magro e pallido, soffocato dal colletto e dall’amore e impalato a contemplar Ortensia; con quegli occhi imbambolati e il sorriso ebete allorchè io lo deridevo, o quando egli s’accostava timidamente a me per ingraziarsi: «Permette»; «scusi».... Egli soffriva, chè aveva tutti ostili, e l’incuranza di Ortensia gli acuiva lo spasimo di un amore senza speranza; dell’amore sublime che accende l’animo quando, nell’adolescenza, la vita conserva tuttavia il velo di un divino mistero e la lusinga di una felicità fatale; dell’amore che io avevo schernito vilmente. Ma io [p. 150 modifica]soffrivo più di lui perchè ero più ridicolo di lui; partivo in me, più dura, dell’irrisione altrui, la mia propria irrisione; avevo più angosciosa, che l’indifferenza d’Ortensia, la necessità di nascondere a Ortensia il mio amore quasi una colpa. Questo dunque era il benefizio atteso dal proposito di impicciolirmi e di ricuperare in me, da tenui fonti, la vita? Ma non stavo meglio quando dall’apprensione dell’immensità ero precipitato in un morboso annientamento, a non sentir più nulla?

Qual destino, qual maledizione m’aveva risospinto a giocare e raccontar favole con Mino, a riconoscere la gioia dell’esistenza nell’anima fervida di Ortensia, a ricercare il sole?

Il sole! Oh il sublime ristoro del dì che avevo sentito il sole innondare tutto il mio essere, penetrarmi in ogni vena, riscaldarmi le vene e rischiararmi la mente perchè nella sua luce io vedessi la luce di Dio, che la scienza mi aveva contesa, negata! Dio! Era Dio forse a volere che io amassi così? Amassi Ortensia perchè amassi la vita? Dio forse mi chiamava alla felicità, o mi puniva al punto che non mi comprendessi in balia di una frenesia morbosa?

Fra questi estremi mi dibattevo: o credermi pazzo, o credermi risollevato pienamente, con l’amore e per l’amore, alla norma più umana della vita, e alla più alta intenzione dello spirito!

Amavo e non avevo amato mai in tal modo. Così si ama una volta sola; e quanti erano al mondo che potessero dire d’aver amato in tal modo? Poteva dirlo Roveni? Impossibile!

Ma egli era un forte! Dunque la mia passione era debolezza!... Tra quiesti estremi mi dibattevo! E Anna Melvi ghignava alla mia fantasia, nelle [p. 151 modifica]tenebre.... Poi: Eugienia; il resto del mistero. Dubitavo che Eugenia m’avesse taciuto per secondo fine quel che si diceva di Roveni e d’Ortensia; pensavo anche che per pietà di me mi avesse nascosto il proposito dell’ingegnere, a lei già noto! E la rimproveravo per la libertà che lasciava alle figliole, sicchè Learchi e Roveni avevan potuto innamorarsene a sua insaputa....

Rimproveravo fin Claudio perchè riteneva ancora bambine le sue figliole!

Insomma, ero proprio come Pieruccio nell’ora, del parossismo e della maledizione!

E la voce di scherno m’arrovellava dentro: dissennato!

.. .. Mi tranquillai verso l’alba, convincendomi, al cessar delle tenebre, che Eugenia interrogata non potrebbe nascondermi la verità. E se mi rispondesse: — Per la felicità di Ortensia si farà questo matrimonio; — e se veramente ella desiderasse d’avere in Roveni il marito della sua figliola, ebbene.... io, a qualunque costo, io rispetterei il suo desiderio; vorrei io pure, come un fratello, la felicità di Ortensia. Non debole; non un ragazzo! Ero un uomo capace di una folle passione; ma sarei un amico leale.

XVII.

A rivedere Ortensia così serena io, con bramosia angosciosa, l’immaginai trasformata dal desiderio vago e profondo, dalla malinconia soave e dalla gioia appassionante, dal sentimento impetuoso e ineffabile con cui l’amore invade, la [p. 152 modifica]prima volta l’anima di una giovinetta. Innamorata di me! Quale delizia, quale voluttà più grande che rivelare a sè stessa, innamorata, un’anima? Con una sola parola, che sorriso non avrei io raccolto da quelle labbra? che bacio? — Non dovevo! E forse.... Illusione! illusione! Convinta e ferma in un bene fraterno, ella forse apprendendo il mutamento avvenuto in me, non potrebbe amarmi: a una mia parola d’amore si ritrarrebbe, forse, con un freddo senso di ripugnanza, di profanazione, triste e delusa; nemica per sempre. Tradire il nostro affetto! Sì, ella mi voleva bene come a un fratello, con tutta l’anima! Sì, questo doveva bastarmi! O tanto, o niente! ad altri l’amore: a Roveni, presto, i primi palpiti; le prime commozioni.... — impossibile che io sopportassi!

Ricominciava in me la battaglia; e per non esser vinto m’afferrai con tutta la volontà al proposito già preso: dissimulare e parlare, quel giorno stesso, a Eugenia. Ma non sapevo come introdurmi nel discorso di Roveni. Ci voleva un pretesto; nè potevo addurre le chiacchiere della Melvi senza turbare Eugenia, se le ignorava. Mi venne in pensiero Marcella, da cui apprendere almeno se anche lei, come Anna, dubitava che io amassi Ortensia.

Con che invidia osservavo ora la quieta Marcella! I suoi dolci occhi esprimevano la fede costante in una felicità avvenire, attesa senza colpa e senza dubbio. Con che fatica mi trattenni dall’aprire a lei il mio cuore e confessarle, — Amo tua sorella. Dimmi tu: sono pazzo?

Le dissi invece: — Per fortuna le Melvi non vengon qua di giorno. Se no, mi taglierebbero i panni addosso. [p. 153 modifica]

— Perchè?

— Mi vedrebbero sempre con Ortensia....

— Eh! Ma tutto il mondo lo sa che Ortensia è la sua «piccola amica»! Che c’è di male? Sarebbe bella che per far piacere alle Melvi lei dovesse annoiarsi anche più di quello che si annoia! Faccia come me: non dia mai retta ad Anna, che ha poco giudizio.

Cercai anche di Guido e, trovatolo presso a casa sua, lo tenni in discorsi per condurlo al termine desiderato: a dirmi se qualcuno mormorava per la mia consuetudine con Ortensia.

— Bah! Lei potrebbe essere suo padre! — rispose Guido, beato nella faccia tonda. — Se la signora Eugenia avesse tanta fiducia in me!

Egli voleva persuadermi, con quella faccia così diversa dalla mia, che adesso era disgraziato; e parlava, parlava....

I giorni nei quali Eugenia convalescente passava le ore con noi in giardino erano trascorsi, pur troppo, e adesso egli non aveva che la sera a sua delizia; e anche di sera gli conveniva dimostrarsi molto riguardoso. Mi narrò come un tentativo perchè la signora Eugenia permettesse alle figliole un’altra passeggiata più lunga che quella delle Grotte, era fallito; che Eugenia minacciava ogni giorno di aprir gli occhi a Moser....

— Succederà un patatrac!

In conclusione, Guido aveva bisogno del mio aiuto; umilmente, con insistenza, mi pregava d’interporre, con Eugenia, una buona parola....

Perchè no? Sarebbe il pretesto ad affrontare Eugenia per il discorso che mi premeva molto di più.

— Tu abbi giudizio — (consigliavo io giudizio [p. 154 modifica]agli altri!) — Non dar materia alle chiacchierone.... Sai che tra di loro han già combinato il matrimonio di Roveni e Ortensia?

Guido non rise, questa volta.

— Lo dice Anna, per paura che sia vero! Lo vorrebbe lei, Roveni!

Fremevo. Con quanta più forza potei farmi, domandai:

— Ma tu credi che sia vero?...

— Per me, io credo che il padrone del mondo.... punf! paf! paf! punf! (imitava l’andatura di Roveni) .... finirà con l’andarsene alla Mecca senza di Anna e senza Ortensia. Furbo, l’amico!

— Perchè?

— Di Anna ne ha già avuto abbastanza!

— E Ortensia?

— Ortensia non è ragazza per lui. Con Ortensia, scusi, bisogna ubbidire, non comandare!; e lui invece: paf! punf!; punf! paf!

Anche questa ragione m’affidava poco; piuttosto le parole e la mimica di Guido giovarono a schiarirmi quello che già Anna mi aveva lasciato comprendere: dicendo cioè, che l’ingegnere sposerebbe Ortensia, ella sperava ingelosirmi e indurmi a domandare la mano della Moser: Roveni resterebbe a lei.

Tuttavia io rifacevo la mia strada come un uomo che abbia una meta di dolore.

Quand’ecco il cavalier Fulgosi, dal suo villino, m’invocò, mellifluo:

— Dottore, ehi! Dottore! — Venne al cancello, con la mano tesa, declamando:

Mon amitié n’est pas semblable au baromètre
Qu’un air rude ou plus doux fait monter ou décroitere!

[p. 155 modifica]

Quel povero diavolo mi aveva giudicato non indegno di sposar Ortensia e io l’avevo ricompensato dandogli dello sciocco! Grli strinsi forte la mano senza dir nulla.

— L’ho disturbato? Mi perdoni! — aggiunse egli ritraendosi con nobile contegno. — Lei, vedo, medita all’aperto come me. Da quando sono in pensione ho bisogno d’aria per trovar le idee. Ora poi che ho da preparare il discorso per il 20 settembre!...

Chi gli avesse detto su che cosa meditavo io!

E affannoso e timoroso andai a cercar Eugenia.

Non era facile trovarla sola la buona signora. di solito non scendeva a terreno che all’ora della colazione e del desinare. Riceveva nella sua camera o la contadina o l’ortolana per i conti di compre e vendite; o aveva la tessitrice; o la cucitrice; questa o quella paesana; e Marcella quasi sempre alle costole. Quel giorno però essa, per caso, era rimasta sola.

— Le ragazze e Mino sono andati a cercarvi al convento — mi disse.

Risposi palpitando:

— Vengo dalla strada maestra...., dove ho visto Guido, molto afflitto....

— Bravo, Sivori! Venite pure a difendere il vostro amicone, che presto presto mi farà scappar la pazienza.

— Per far scappare la pazienza a voi bisogna aver commesso un delitto. Che delitto ha commesso Guido?

— Abusa della mia debolezza. Dite la verità, non sono troppo debole a permettere che tutti sappiano di questi amori, fuorchè Claudio? Voi, [p. 156 modifica]che mi conoscete, non vi meravigliate che io permetta dei sotterfugi?

— Guido ha buone intenzioni. D’altra parte, conosoendo Claudio....

— Sì: guai a parlargliene adiesso, a Claudio, dì maritar le figliole! Ma avrebbe poi tutti i torti se si opponesse all’assiduità di Guido? Guido non ha ancora la laurea, e, dopo, credete che suo padre sarà disposto ad aiutarlo? Insomma, quel benedetto ragazzone dovrebbe essere più guardingo, più serio. E già che siamo in questo discorso, vi dirò che c’è un altro, qua, più serio, più prudente di lui....

Mi corse tutto il sangue al viso. Se Eugenia non avesse avuti gli occhi abbassati sul lavoro, m’avrebbe letto in faccia l’enorme segreto.

— È Roveni — io mi sforzai a dire con voce ferma.

— Ve n’ha parlato Ortensia? — Eugenia chiese con ansia.

— Ortensia non crede a quel che si dice: ecco tutto.

Tanto la signora fu sollevata dalla mia risposta quanto in me pesava il presentimento del mio inevitabile sacrificio.

Ella proseguì: — Roveni sta ai patti. Non ve n’ho mai parlato appunto perchè ho voluto che vi facciate un concetto sicuro di lui e della sua condotta. Francamente: ve ne siete accorto voi stesso che egli ha simpatia per Ortensia?

— No: forse non me ne sarei accorto se non me n’avesse avvertito il cavaliere. — E aggiunsi, per alleviarmi l’angoscia con una digressione:

— Il cavaliere è il trombettiere delle pettegole. [p. 157 modifica]

— Povero Fulgosi! Ma con le Melvi voi siete troppo severo. Chiacchierano, han la lingua un po’ lunga.... In fondo, però, non sono cattive. Io non dimenticherò mai le premure che ebbero per me quando ero ammalata....

— Anna è una civetta! — esclamai io. — Mi duole che per amor di pace non possiate allontanarla da casa vostra.

Eugenia tacque un po’ e disse:

— Dovrebbe bastarmi la vostra opinione per allontanarla subito. Ma ho fiducia che le mie figliole non abbiano intenzione d’imitarla.

— Questo è giusto.... — E ripresi:

— Dunque Roveni?

— Oh, è una storia molto breve. Un giorno la Melvi madre mi avvertì che parlando con l’ingegnere aveva scoperto in lui a dirittura un grande amore per Ortensia. Sapendo che la Melvi è facile a esagerare in tutto, non le credetti che poco. Anche qui, del resto, mi rassicurava il contegno di Ortensia: con Roveni si comportava come per il passato; impossibile ch’egli le facesse la corte e che essa non me l’avesse lasciato comprendere. Pure volli chiarir la cosa. L’ingegnere mi aveva già confidato che dubitava di poter restare un pezzo a Valdigorgo, e io tornai sul discorso. Ripetè che trovando un impiego migliore dovrebbe andarsene; e infine confessò d’aver molta simpatia per Ortensia, e che non disperava nell’avvenire. La sua franchezza, la sua lealtà mi piacque. Ma Ortensia è così giovane! con un carattere così strano; e io mi sentivo allora tanto male! Non volevo preoccupazioni e angustie. Ebbene, ottenni da Roveni la promessa che non turberebbe per adesso la pace mia e di Ortensia, [p. 158 modifica]Voi siete testimonio che ha mantenuta la parola. Ma ditemi: che ne pensate voi, di lui?

Eugenia mi strappava il cuore! avessi potuto fuggire scomparir in quell’istante da questa stupida scena del mondo!

Risposi che pensavo assai bene dell’ingegnere.

— La sua condotta non potrebbe essere più corretta.

Eugenia proseguì:

— Dite pure che egli è prudente anche per non compromettersi. Ma non è giusto? Il suo avvenire non sta solo in lui; è nelle mani di Dio. Dio voglia che un giorno egli renda felice mia figlia!

Se Eugenia avesse detto tutto ciò in altro modo, io avrei creduto volesse abbattere la mia insana rivalità; ma ella aveva parlato adagio, semplicemente, e il solo dubbio di tale intenzione sarebbe stato un’offesa.

— È giusto! — ripetei. (Fuggire! dovevo fuggire!)

Concluse Eugenia:

— Son contenta che mi diate ragione per Roveni e che non mi diate torto per Guido.

Con uno sforzo supremo io sorrisi; conclusi anch’io:

— Gli farò una predica all’amico. E con l’affetto che ho per tutti voi, auguro che le vostre figliole siano un giorno ugualmente felici. Lo meritano, perchè sono buone come voi, Eugenia!

Ero sincero in queste parole. Ma un nodo mi stringeva alla gola....

(Fuggire! dovevo fuggire!) [p. 159 modifica]

XVIII.


La vittoria è dei forti! Questo almeno sapevo per scienza ed esperienza. Dunque.... fuggire!; inutile competere con Roveni, forte di nervi, di mente, di animo, di fortuna! Già nel desiderio di Eugenia egli era eletto sposo di Ortensia e presto il capo biondo, che avevo visto un giorno poggiare con affettuoso abbandono sul petto materno, s’abbandonerebbe per amore su quel petto forte. Fuggire.... Quando? Ah se fui debole! se fui vile! Mi affidai alla mia debolezza per ritardare quell’ora; per non correre subito al limite verso il quale il destino mi spingeva e di là dal quale non vedevo che cosa ci fosse: la tenebra; il vuoto; il nulla come un tempo: peggio che la morte! Mi raccomandai alla ragione. La mia partenza improvvisa dopo il colloquio con Eugenia avrebbe rivelato il mio segreto a Eugenia, ad Ortensia, a Claudio, a tutti! Ancora qualche giorno per nascondere il mio segreto; per distogliere ogni sospetto anche da Anna Melvi; per compiere il sacrificio che, lontano, conforterebbe forse il mio dolore, tratterrebbe forse il mio braccio dall’estrema insania contro me stesso! Ancora qualche giorno!

Per la mia vita infelice, per la mia triste giovinezza, per quel che avevo sofferto e avrei da soffrire resistendo a vivere, impetravo da me stesso qualche giorno ancora! — Rimasi. E intanto dissimulare, fingere, mientire! Perduta la [p. 160 modifica]rettitudine del procedere, dubitavo e temevo. Mi spaventava il dubbio che Ortensia s’avvedesse del mio dolore e dei miei rossori; se ne avvedessero gli altri.

Avrei voluto conoscere quel che pensassero o dicessero di me la Melvi madre, la Fulgosi e la Learchi; ma in ognuna temevo ragioni di celarmi il loro pensiero. E per tutte queste indagini e per tutti questi sospetti provavo come il disgusto di un avvilimento indegno di me e della mia passione.

Peggio; a quando a quando mi abbattevo del tutto come sotto una condanna meritata. Avevo voluto rivivere; non potevo rivivere che così miseramente.... Quale un cieco che smarrito cerchi un sostegno, io cercavo adesso Ortensia. Essa era la luce dei miei occhi.

Il suo sguardo, il riflesso dei suoi capelli, l’armonia della sua voce, l’euritmia delle sue forme potevano nel mio animo sconvolto come (non esagero) il sole che fenda l’oscurità e spazzi via un nembo. «A ogni costo essa non deve soffrire!» — giuravo allora con un sentimento di pietà e di gioia, con tutta la voluttà del sacrificio.

Non so dire con che cuore in quegli ultimi giorni la vedevo tornare a me al mattino, sorridente e viva. Ella sorgeva adagio dalla scala della terrazza, e giungendo su la soglia si fermava un istante: staccata dal fondo arioso e chiaro, nella fresca e chiara veste, m’appariva immagine sorridente, vivace, palpitante. E poi diceva: — Buon giorno....

Nè so dire di quale refrigerio mi era la sua voce. Il dolce suono dell’accento paesano or si [p. 161 modifica]prolungava or si rinvigoriva in una particolare dolcezza di timbro; in una soavità calda e tremula nelle vocali forti, che s’acuiva a una intonazione nitida se elevava o affrettava la parola o rideva. — Parla! — le dicevo, quasi per raccogliere quell’armonia nel cuore e non perderla mai più.

Ma alla prima gioia di rivederla e di riudirla, sottentrava dopo pochi minuti il cordoglio, la disperazione. E dovevo fingere, celarmi!...

Poi ebbi una nuova perplessità.

Perchè essa non era più mattiniera come una volta; tardava tanto a discendere?

Un mattino quell’attesa fu anche più lunga.

— Dorme Ortensia? — domandai a Mino, che scendeva le scale.

Mino portò l’indice al naso, perchè tacessi; corse in tinello e tornò con due bei grappoli d’uva: uno bianco e uno rosso.

— Glieli porto.... Come riderà a vederli quando si sveglia!— Si avviò; tornò indietro:

— Ne ho mangiata tanta anch’io! Ne vuoi, Sivori? — Io gli diedi un bacio. — Va’, va; portali a tua sorella!

Salì infatti, per discendere poco dopo e dirmi:

— A vederli s’è svegliata!

L’immaginavo nell’atto di spiccare le dolci grane, desiosa, gioconda, senza pensiero di me che l’aspettavo triste, solo, pensando a lei; la scorgevo riabbandonare il capo al cuscino, dipartire dalla fronte i capelli e guardare la striscia di cielo per le imposte socchiuse. Ricadeva, dopo la prima allegrezza, niella pigrizia piacevole che lascia il sonno non del tutto scosso dalla frescura del mattino di settembre, e appena [p. 162 modifica]appena abbassando le palpebre raccoglieva ad una ad una, quasi dalla luce esterna, Le idee. Erano ricordi? desideri? propositi per l’oggi? speranze lontane? Era amore?

Ah non per me, che aspettavo ansioso, da basso: ella stessa non sapeva per chi, ma non per me, fermo nel proposito di non dirle: «il tuo affetto, sorella, non mi basta più!»

Quando giunse, mi parve che i suoi occhi mi leggessero in cuore; che il mio segreto le fosse già manifesto; ch’ella stessa fosse mutata. E durante il giorno mi parve che le sue assenze per le faccende domestiche si prolungassero troppo. Forse la tratteneva Eugenia, che forse già sapeva di me....

Voglio confessare tutti quei miei affanni, quelle mie debolezze, quelle mie tristezze!

Non solo provavo vergogna dell’infingimento: quel mostrarmi allegro e disinvolto con Eugenia e con Moser; quello sforzo a padroneggiarmi e a non mutar colore se si parlava d’Ortensia ch’ella non ci fosse, e al sopravvenire improvviso di lei; quel cercarla non più franco e senza incertezza come prima, ma con desiderio irrequieto; quell’attenderla a lungo in un luogo senza parere....: non solo. La gelosia divenne in me torva quale la gelosia di un uomo in preda a un amore senile; maligna e gretta quale la gelosia di un marito vecchio per una moglie giovine. Invano a veder Roveni ballare con Ortensia, nelle ultime sere, tentai persuadermi che egli amava senza impeti e senza urti; a sorrisi di poca significazione ed a inavvertibili occhiate, quasi prendendo l’amore per un gioco tranquillo: ogni suo sguardo, ogni sorriso, ogni atto valeva per me un’ardente ed [p. 163 modifica]evidente espressione d’amore; nè l’avaro che vide rubarsi un tesoro patì mai tanto quanto io a seguire con l’occhio, nel ballo, Ortensia e Roveni. Se parlavano, mi avvicinavo per udirli; se ridevano, ne chiedevo, dopo, il perchè a Ortensia.

A poco a poco mi si faceva strada nell’animo il sospetto che fossero d’accordo per ingannarmi; solo per il piacere d’ingannarmi; oppure pensavo che Ortensia mentisse meco per pietà, accortasi della mia passione; o anche perchè fosse stata sua madre a pregarla d’avere misericordia di me....

A questo punto! A tal punto cresceva il mio soffrire che in certi momenti mi pensavo in diritto di confessare il mio amore.

Ma non dovevo. Per la sua felicità, non dovevo! per la pace di Claudio e di Eugenia, non dovevo! per la mia dignità e per il mio orgoglio, non dovevo! Soffrire e tacere! Vederla ignara e tacere! Vedermela, portar via, e tacere!

Spiavo. Un pomeriggio Roveni venne ad attendere Moser. Io lasciai che egli si accompagnasse, per il viale del giardino, con Ortensia, allontanandomi con un pretesto. Poscia, di nascosto, li prevenni dalla parte opposta e mi nascosi dietro la macchia ch’era intorno agli abeti gemelli. Quando afferrai che parlavano di lawn-tennis ebbi tal gioia da svelarmi con un grido, come fossi là per impaurirli.

Alla gelosia ingiusta, seguiva più tormentoso il rimorso; e per purificarmi del veleno che mi sembrava avere ingoiato, avrei versato il sangue a gocce, da ferite. Che, dolcezza se avessi potuto domandar perdono a Ortensia! Per giustificarmi almeno un poco, entro di me, ebbi desiderio di [p. 164 modifica]narrarle i miei antichi amori; di apprenderle il disprezzo, il ribrezzo, la nausea, la cattiveria che me n’era rimasta: accrescerle così orrore della sensualità, della colpa e del tradimento; ma avrei fatto male e mi vinsi.

Eppure si sarebbe potuto credere che qualche cosa di quel che turbinava nella mia testa giungesse alla mente di Ortensia.

Uscì a dire con disgustò:

— Anna, che sguaiata! Non ha avuto il coraggio di chiedermi se l’accompagnerei ancora alla fabbrica?

— E tu?

— Io le ho risposto di no. — Perchè no? — mi ha chiesto. — Perchè no! e basta. — E lei: — Avrai da tener compagnia a Sivori. A te, che gli vuoi bene, non fa le critiche che fa a me.

— Certo che gli voglio bene a Sivori: tanto tanto! — Gliel’ho detto perchè ci ha rabbia. Ma non parliamone più, di colei. Mi fa ribrezzo!

Se non che un istante dopo aggiunse:

— Sa che Anna studia il canto?

— Per caffè-chantant è adatta — io mormorai.

— E sa che nome mi ha messo a me, per canzonarmi? «La Regina Ortensia di Valdigorgo.» Crede di farmi dispetto! Eh! perchè faccio spesso a mio modo e dico: piace a me e basta; comando a tutti, anche a Sivori, il nome non mi sta male!

— Anche a Roveni comandi?

— Sì che anche Roveni mi ubbidirebbe! Ma non comando mai nulla, a lui.

Io ripresi, senza più sorridere, con risoluzione che sembrò improvvisa:

— Anna lasciala cantare. Quanto a me, presto [p. 165 modifica]la libererò del mio fastidio. Tra pochi giorni me ne vado....

A. questa notizia Ortensia mi guardò incredula; balzò in piedi; venne a me, che le sedevo, di fronte, su la poltrona alla parete opposta, e severa, con un atto imperioso della mano:

— Non voglio!

— Ma io non ti riconosco pier la Regina di Valdigorgo!

Con voce mutata, meno forte, seria, ella ricordò:

— Il babbo non la lascia partire prima che cada la neve. Non sono d’accordo? — E rianimandosi: — Immagini, Sivori, la prima neve quassù, che delizia! Immagini: tutto bianco.... I monti, là; e il giardino tutto coperto; gli abeti, così alti, vestiti di bianco! E correre fuori, là in mezzo? — Ma dubbiosa dell’efficacia della sua descrizione, pregava con tutta la grazia degli occhi, della voce; premendomi con una mano al braccio.

— Stia qui da noi, Sivori, finchè andremo in città, a Natale.

— Impossibile!

— Io e Mino non la lasceremo partire.... Pensi al dispiacere di Mino!

Ripetei: — Partirò a giorni.

— Mi getterò in ginocchio, a’ suoi piedi.... Lasciarmi qua sola!

Le pareva che resterebbe sola!

— Ti restano tanti: il cavaliere....; Anna....

— Zitto! Non la nomini!

— La signora Learchi....; la Fulgosi.... — E in altro modo dissi: — Roveni....

— Cattivo! Cattivo! Oh com’è cattivo! Anna [p. 166 modifica]ha ragione quando le dice cattivo! — S’allontanava imbronciata.

Io....: ancora soffrire! ancora! ancora!

Era così dolce soffrire! Ancora ebbi pietà di me.

— Resterò due giorni di più e dirò a tutti: sono rimasto due giorni di più, non per voi, per Ortensia! Sei contenta?

Allora tornò lieta.

— Due giorni? Proprio! Qua il lunario, che le dirò io il giorno della partenza! Non ha nemmeno un calendario? Oh che uomo! — Uscì; tornò col calendario, dicendo:

— Ne abbiamo? Dodici. Dodici settembre. I Santi vengono? Al primo novembre. Dunque.... Dunque Sivori dovrebbe partire il tre: va bene? Il tre per non lasciarmi sola il giorno dei Morti, con quella malinoonia. Otto e tre fanno undici.... È deciso!

Annunciò a voce alta, a una folla, immaginaria:

— Il dottor Sivori partirà da Valdigorgo fra due mesi, l’undici di novembre! Avete inteso, signori? Ordine mio: della Regina Ortensia di Valdigorgo!

Io pensavo ai monti e al giardino bianchi di neve. In tinello, il fuoco acceso e crepitante....

Fuori, nel silenzio, fioccava; e tutti eravamo attorno al fuoco; e io a raccontar favole, che Mino ascoltava da su le ginocchia di Ortensia.... Ma rialzando gli occhi....: Ortensia aveva perduto ogni segno della vivacità fanciullesca di pocanzi.

A che pensava? [p. 167 modifica]

XIX.

Mi amava?

Al sospetto rispose in me un proposito che poteva già essere effetto di rimorso: «Ortensia non deve soffrire!»; e per i pochi giorni che resterei ancora lassù, saprei attenuare ogni espressione affettuosa, ponderare ogni parola, correggere ogni sguardo, affinchè l’affezione di lei per me non prorompesse in amore e dolore, e il mio sacrificio fosse pieno e grande.

«Non deve soffrire! Come vuole sua madre, deve viver lieta sino a quando Roveni le manifesterà le sue intenzioni. Allora amerà e andrà sposa felice».

Virtù? Sacrificio? Non eran vane parole. Ma il pensiero di perderla interamente, tardi o presto, mi dava tale spasimo da scusarmi d’ogni pensiero più insano.

«Che io mi posponga a Roveni, è giusto; ma non è giusto che io creda alla felicità di Ortensia perchè egli le darà i gaudi dell’amor materiale ed ella soggiacerà alla turpe legge dei sensi».

Ed eccomi a chiamar ribelli sublimi! coloro che rifiutano di vivere nel mondo per rifiutarsi alla legge universale, bestiale e prepotente; e si mortificano e muoiono lieti d’esser sfuggiti all’inganno del piacere e d’aver servito alla sensualità. Avessi potuto rapir meco, salva da ogni cupidità e da ogni bruttura, la vergine che aveva inteso [p. 168 modifica]in me un bene libero da quella esperienza materiale e torbida!

Ed ecco un altro tormento. In me, ora un involontario contatto della persona con Ortensia, sedendo vicini o passeggiando, o l’abbandono innocente e confidente della sua mano alla mia, che non la ricercava, destava un sospetto oscuro, improvviso, infrenabile, rapido come un brivido: nel mio sangue, non nella mente.

Il mio pensiero ripugnava da quella istintiva concitazione sensuale, mentre io la vedevo e la sentivo così fervida e giovine. La guardavo fisso, con un timore doloroso. E lei diceva:

— Perchè mi guarda così?

Alla dimanda, mi si allargava il cuore, perchè non scorgevo ne’ suoi occhi nemmeno l’ombra di quel mio sospetto; perchè il suo sguardo mi cadeva limpido nell’anima quasi a purificarla subito; perchè rivelandosi ignara, fin nella voce, dei motivo che io aveva avuto a guardarla così, essa non attendeva risposta nè mostrava dubitare d’altro motivo che non fosse un affettuoso e semplice indizio di tenerezza....

Ma il più lieve contatto d’altri, o un altro sguardo, avrebbe potuto proporle e insinuarle il desiderio; una differente stretta di mano avrebbe potuto darle la sensuale commozione che non le davo io.... E un altro la contaminerebbe!

In confronto a questa infamia — era un medico che la chiamava un’infamia! — sembrava cessare ogni colpa nel mio amore nobile e puro; e mi dicevo che se Ortensia mi amava, mi amava allo stesso modo di me, nè proverebbe mai voluttà più grande....

....Mi amava? [p. 169 modifica]

Era tanto mutata!; o mi pareva. Diversa nei modi: non accorreva più come una volta, non rideva più con l’impeto di prima; diversa nello sguardo, più luminoso e profondo; e in tutta la persona di lei sembrava definirsi la gravezza di un intimo raccoglimento, d’una meraviglia deliziosa intensa, continua; quasi d’una beatitudine meditata e riflessiva.... Se pure non m’ingannavo!

La consideravo con timida gioia. Ma diveniva tosto una gioia affannosa, paurosa; e con più speranza che timore mi ripetevo:

«Forse m’inganno».

XX.

O forse tutto era un inganno? Per difendermi del male che facevo e che avevo, inveii contro me stesso e rimproverai Ortensia. Innamorato, al pari di tutti gl’innamorati forse io ero uno stolto che alla donna reale aveva sostituito la creatura del suo sogno. Troppa bellezza, troppa intelligenza avevo attribuito a quella ragazza diciassettenne; e bisognava rompere l’incanto, non solo per risparmiarle soffrire, ma per risparmiarmi soffrire.

Era bella; nessuno poteva negarlo: un fiore. Beltà ]però facile a deperire presto, come accade di tutte le bionde.

Poi mi meravigliavo perchè adesso Ortensia non chiacchierava più come per l’addietro, e la credevo perciò innamorata? Ma taceva solo perchè [p. 170 modifica]tacevo io! A suggerirle argomenti, era stata loquace: da sè non trovava da dire cose notabili. Del resto, le donne molto intelligenti si dimostran tali nell’eleganza e nel buon gusto: Ortensia non aveva sempre buon gusto.

— Perchè ti sei messa questa giubba grigia, che ti sta così male?

— Comincia a far fresco, la mattina.... È di flanella. Ma non la porterò più.

— Te l’ho detto un’altra volta che è un colore che ti fa parer brutta.

— E vero; non me ne sono ricordata.

E io, dopo una pausa:

— Sei infatti molto smemorata, Ortensia! Tua madre e tua sorella hanno ragione di dirtelo.

Rispose paziente, con un queto sorriso:

— Metterò giudizio, e lei non avrà più da sgridarmi.

Ahimè! I tentativi di rompere l’incanto erano vani! Essa mi guardava in un modo....

Ma a quella frase di «metter giudizio» rammentai le raccomandazioni che mi aveva fatte Eugenia e che avevo dimenticate da un pezzo. Tuttavia aspro ripigliai:

— Tua madre desidera che io ti corregga.... Son gli ultimi consigli.

Essa con un tremito nella voce (non m’ingannavo), esclamò:

— Ultimi? perchè ultimi?

— Ti Ripeto che debbo partire lunedì.

Sbigottite pallida (non m’ingannavo), mi fissò dicendo:

— Non lo credo; nessuno lo sa, in casa!

— Lo sapranno oggi stresso.

— Ma perchè? che è stato? [p. 171 modifica]

Ed io, col cuore che palpitava come il suo:

— Nulla.... L’altro dì te lo dissi pure che sarei partito a giorni.

— Io credevo scherzasse.... Non mi promise....?

L’interruppi:

— Fu una promessa della tua fantasia. Eccoti un consiglio: non affidarti mai alla fantasia contro le imposizioni della realtà.

Questo le dissi, io, che avevo tentato invano di romper l’incanto!

Ma essa si strinse nervosamente le mani, a capo chino; poi mi guardò in quel modo.... Non m’ingannavo! Mi sembrò di vacillare; non potei non mitigare la voce, non dire:

— In realtà.... tu sei buona.

— Buona? — Sorrideva così triste!; un sorriso di amore dolente.

— Sì, buona! — proseguii fingendo di non capire e cercando pretesto a inasprirmi di nuovo. — Il mondo invece è cattivo! Che dolore sarebbe per me, un giorno, se dovessi apprendere che tu ti sei mutata all’esperienza del mondo!

A sua volta, quasi suo malgrado, ribattè fiera, aspra:

— Lei ha poca fiducia in me; ed io ne ho tanta in lei!

— Che sai di me, tu? — esclamai senza più chiaramente avvertire quel che mi dicessi. — Ricordati che ogni infamia è possibile: anche quelli che stimiamo di più ci possono mancare!

Il mio pensiero, trasportato dalle mie stesse parole, corse a Roveni. Ma indietreggiai; contenni l’impeto della gelosia a cui stavo per abbandonarmi.

— No: esagero. Non tutti quelli che stimiamo [p. 172 modifica]si dimostrano indegni della nostra stima. Io di Roveni....

— Sivori! — Ortensia gridò, sdegnata, quasi minacciosa, come non l’avevo mai vista.

— Lasciami dire. Di Roveni io ho tanta stima che non posso pensare alla tua felicità senza pensare alla sua felicità.

Allora essa mormorò:

— Non credevo....; non credevo.... — e fuggì via.

Non credeva che io fossi spietato!

.. .. Annunciai poco dopo a Eugenia che partirei il lunedì prossimo. Eugenia mi disse:

— Perchè non restare ancora un po’ da noi?

Speravamo restaste fino all’inverno!... Volete andar laggiù, in pianura, in autunno?

Non andrei a Molinella.

— Farò come Roveni. Andrò anch’io lontano a cercar lavoro; ma con minori speranze di lui!

— Vedete che non siete guarito? — la signora mormorò notando il modo delle mie parole. Scoteva il capo; e come un giorno aveva detto: «perchè Dio non v’ha dato una sorella?», ora disse:

— Se aveste una famiglia, vostra....

Questo dovevo udir io, da sua madre, senza rompere in pianto!

A desinare, dalle occhiate bieche di Claudio mi avvidi che Eugenia l’aveva già informato della mia decisione. Mi avvidi anche che n’era informata Marcella: Ortensia arrossì, guardandomi....

Quanto mi amava! [p. 173 modifica]

XXI.

Assistere alla commedia della vita col pianto nel cuore: anche questo è la vita!

Alla festa del XX settembre, in Valdigorgo, che avrebbe dovuto redimere il cavalier Fulgosi dal ridicolo in cui egli asseriva d’esser precipitato per colpa della moglie, anch’io risi; ma la comicità dei casi è solo nella mia memoria mentre ho vivo nel cuore il dolore che in me accompagnava la stentata ilarità. Sì gran dolore risento, da non poter indugiare nel racconto, quasi per un senso di profanazione. Tre immagini, del resto, importa solo che io rilevi dalle ricordanze di quel dì e le scorga nella lor propria luce: in luce d’amore. Ortensia; chiaramente perfida, Anna Melvi; nella penombra da lui sempre cercata, Roveni.

E mi rivedo, prima, nella sala del Municipio, rigurgitante di pubblico; con il popolo in fondo; con le file delle signore in cospetto all’oratore e, dietro, in poltrone, le autorità del Comune e del Circolo che s’inaugurava. L’oratore parlava su di un palco, davanti a un tavolino; e il discorso procedeva alla volta della pace universale, tediosamente inzeppato di frasi a doppio senso, per congiungere il tema della caccia alla politica. «Sappia l’Italia che il punto di mira dei Valdigorghesi è il bene della patria»....; e così via: col paretaio della difesa» nazionale; con le poules e il bersaglio del patriottismo.... [p. 174 modifica]

Durante il fastidio dell’enfatico sproloquio, Ortensia cercava con insistenza il mio sguardo. Mi sorrideva, e quel lieve sorriso senza circospezione, senza sospetto, nell’innocente abbandono di un bene che nulla più può contenere, mi angustiava di consolazione e di pena. Ritraevo gli occhi da lei provando l’impressione che quello sguardo mi rinnovasse l’anima; e pur conservando nella vista mentale l’amorosa immagine, non resistevo alla tentazione di tornar a guardarla e tremavo all’istantaneo riscontro dei nostri occhi. Là fra le altre essa era sovrana non solo per la bellezza, ma perchè il suo aspetto aveva perduto ai miei occhi ogni apparenza d’adolescente ignara, e io la vedevo in tutto lo splendore della giovine innamorata e orgogliosa dell’amore che le fioriva in petto. Ora temevo che gli altri ci sorprendessero; ora, in un impeto di insania, avrei voluto che tutti scorgessero come essa mi amava.

Sola cosa buona che facesse il cavaliere era quella che con la sua personcina elevata sul palco impediva a Roveni di scorger Ortensia.

E rivedo Roveni che, impassibile, seduto accanto a Moser, s’estendeva i folti e arditi baffi, o incrociava le braccia puntando lo sguardo al soffitto. Anna Melvi sorrideva, all’oratore; avventava occhiate a me; guatava Ortensia.

Eppoi, dopo lung’ora, la catastrofe. A vendetta di Learchi e degli altri capoccia clericali, ch’eran rimasti assenti, il cavaliere improvvisava un inno al lavoro, e col «sacrosanto grido di: pane e lavoro!» gettava l’offa ai socialisti. Più di una volta i suoi pugni eloquenti non avevan per poco rovesciato il tavolino; ma quando egli volle mitigare l’audacia di quel suo favore al socialismo [p. 175 modifica]mandò un poderoso grido di «Viva l’italia!», allora.... Un crac formidabile; un rovescio fragoroso e, simultaneo del tavolino, dell’oratore, della bottiglia e del bicchere che eran sul tavolino. Un’asse diel palco s’era rotta e il palco s’era sfasciato.... Immaginare il trambusto, il tumulto!

Della folla tutti si alzarono in piedi, addosso gli uni agli altri per vedere; molti, troppi, accorrevano per soccorrere. La signora Fulgosi svenne; le lelvi ridevano sgangheratamente; io e Moser rialzammo il caduto, che ci raccomandava di raccogliere le cartelle del discorso, mentre il dottor Minguzzi gli appiccicava un pezzo di taffetà in una guancia sanguinosa.... Quand’ecco a quello scompiglio successe un clamore più grande. Lo provocò una voce che gridava:

— Sono stati i clericali!... Tradimento dei clericali! — E alcuni clericali o lor difensori, i quali si trovavan là in fondo, protestarono con violenza.

Si videro braccia in aria; pugni piombar su teste; confondersi gente in mischia....

Queste, furon queste le conseguenze del nobile intento della pacificazione universale!...

Ebbene, in quel disordine, io rivolsi gli occhi più d’una volta a Roveni e lo vidi sempre là, in piedi ma al posto di prima, immobile a guardare freddamente lo spettacolo inaspettato; superiore a tutti nella gazzarra. Era come lo spettatore di una farsa: di una farsa però che non riesce a farlo ridere le di cui attende tranquillo la fine, quale che sia. Anzi egli s’imponeva tanto alla mia attenzione e m’aveva confermato in tale opinione della sua energia, che l’avrei paragonato a un valoroso il quale assistesse a un [p. 176 modifica]conflitto non degno del suo intervento. A chi mai, vedendolo in quell’attitudine, sarebbe venuto il dubbio che quell’uomo fosse un vile? O chi avrebbe dubitato che, se invece di comico il caso fosse stato tragico davvero, egli non si sarebbe comportato diversamente?

....Poi mi rivedo nella sala del buffet. Ivi gli invitati, mangiando paste e sandwich, si preparavano ad assistere alla gara di tiro.

Io passavo di gruppo in gruppo, con la sola intenzione di star lontano da quello in cui era Ortensia.

Insieme con la sorella, due o tre signorine paesane e alcuni giovani corteggiatori, essa era rimasta confinata presso al balcone; nè il mio sguardo poteva correre là senza incontrare lo sguardo di lei. Essendomi avvicinato una volta lei si staccò dagli altri e venne a me, in apparenza ardita, ma mi chiese pavida, a bassa voce:

— Perchè non sta qua con me?... con noi?

Colto all’improvviso, non seppi che rispondere. Risposi sorridendo come chi muova un benevolo rimprovero: — Bambina....

Essa, di pallida che era, avvampò.

Roveni, intanto, percorreva la sala con il fare di un padrone di casa. Osservai che quel giorno gli occhi del giovane erano senz’ombra alcuna; anzi il suo sguardo, così freddo per solito e teso innanzi a lui, pareva più limpido e ricercava come per un’accondiscendenza o cortesia nuova il mio sguardo. Aveva già saputo della mia partenza? Così pensai. Eppure non potevo odiarlo!; tale concetto ne avevo!

— È vero che Ortensia sta bene vestita così? [p. 177 modifica]mi chiese. E ci accostammo insieme a quel crocchio.

Ortensia suggeriva qualche cosa all’orecchio di Marcella, la quale prima parve disapprovare o schermirsi; indi, fattasi animo, ripeteva la cosa a Guido. Questi fece due salti fregandosi le mani, tutto contento, ed esclamando: — Bene! benone! benissimo!

— A Sivori non dispiacerà? — domandò ancora Marcella.

. Infatti Ortensia era incerta, quasi dubitasse a interrogarmi.

Finalmente l’arcano mi fu chiarito da Guido.

— Lei e le ragazze sie ne stanno in giro qui, per il paese. Io faccio di tutto per sbagliare il primo colpo; mi metto fuori concorso; scappo e torno da loro. Va bene?

Roveni udì e non fiatò. Invece dagli altri sorsero proteste per la defezione delle Moser, appena esse ebbero ottenuto l’assenso del padre.

Ma Ortensia non si confuse:

— Assistere a una strage di piccioni? Lo lasciamo a voi questo bel divertimento!

— Un capriccio, al solito — esclamò Anna Melvi accostandosi col dottorino Minguzzi al fianco.

Marcella, confusa, le disse:

— Vieni anche tu, con noi....

— No, cara! Mi son prestata abbastanza.... Basta, oramai!

La povera Marcella divenne rossa rossa; Ortensia scosse il capo sdegnosa; Guido ruppe in una risata. Ma Roveni con aria di perfetta indifferenza domandò alla Melvi:

— Prestata a che?

— A sfidar la malignità per favorire l’amicizia! [p. 178 modifica]

Ribattè Roveni, col tono di prima:

— Eh! per la malignità lei non ha niente da temere! — Al colpo io sorrisi; Anna mi vide; si morse le labbra, e mentre fissava l’ingegnere con quei suoi occhi di vipera, non nascose lo sforzo a trovare una risposta adeguata. La trovò e colpì anche me.

— C’è sempre da temere quando si hanno amici e nemici in una posizione equivoca.

Il nemico ero io!

— Da una posizione equivoca — dissi — si può sempre uscire per la via diritta, ma non si sa dove si possa finire con una condotta equivoca.

— Uhm! Una distinzione molto sottile — ribattè Anna astutamente. — Non la capisco. E tu, Ortensia?

Ortensia rispose:

— Io non me ne intendo di queste cose.

E vedendo che io approvavo e sembravo incitarla aggiunse:

— Se non capisci tu, ho da capir io?

— Brava! — fece Roveni, non poggiando troppo sulla lode e andandosene.

— Andiamo! Andiamo. È ora! Al campo di tiro, signore e signori! Al Poligono, per la gara! — ripeteva il segretario a destra e a sinistra.

Esclamò Anna:

— Dottor Minguzzi, noi sapplamo dove andiamo a finire: al Poligono!; e senza equivoci, noi!

L’altro tergiversava, ma Anna se lo prese a braccetto e s’avviò, dopo avermi avvolto in Cina occhiata di sprezzo.

Roveni intanto mi attendeva, a capo della scala. Lasciò che Le Moser ci precedessero, per dirmi: [p. 179 modifica]

— Sono stato ferito da due parti in una volta; dalla frecciata della Melvi e dalla risposta che lei ha data alla Melvi. Ma dica: per lei, io sono soltanto in una posizione equivoca, o è equivoca la mia condotta?

Non aveva certo l’aria di un provocatore; in quella sua calma però scorgevo il desiderio di metter carte in tavola. Sarebbe stata forse diversa la mia risposta se mi fossi ricordato del proverbio: «chi è in difetto è in sospetto»; ma gli scienziati, per quanto psicologi, han poco uso di proverbi. Sinceramiente, senza attenuazione alcuna, risposi che potevo arrogarmi il diritto di giudicare la condotta di Anna, non la sua.

— Non credo — aggiunsi — che lei sia uomo da percorrere vie oblique, e non la credo affatto in una posizione falsa.

L’ingegnere disse: — Grazie; ad ogni modo, desidererei parlarle in proposito. Ma lei non viene mai a trovarmi alla fabbrica!

— Verrò domani; sarà la visita di congedo.

Non mostrò meraviglia della notizia e conchiuse: — L’aspetto.

Sulla porta m’attendevano le sorelle; e noi tre soli c’incamminammo per il paese. Nella maniera con cui Ortensia mi scrutava era evidente il pensiero: «Lei lo sa già il bene che le voglio. Non avrà una buona parola per me?»

Perciò essa aveva voluto restassimo soli; ma io, io, che avevo ceduto temendo lo scorgere degli invitati alla festa, non volevo piegarmi.

Mi risonavano all’orecchio le parole di Roveni; mi rimproveravo e insieme mi rinfrancavo pensando alla lealtà di lui; mi pareva nello stesso [p. 180 modifica]tempo che io avessi tardato troppo a frenar la passione di Ortensia e ch’ella vi si abbandonasse troppo debolmente.

E non potevo dirle: — Se tu sapessi il bene che ti voglio!

Quasi strappandosi dai suoi pensieri, Ortensia esclamò:

— Sai, Marcella? Sivori non parte più per ora.

— Come? — feci io nel tono di chi respinge un brutto scherzo.

— Si è sfogato. È stato feroce. Non saran più i pettegolezzi di Anna che lo faran partire così d’improvviso. Ad Anna nessuno bada più; neanche Roveni.

— Ma io non parto per questo!

— Perchè dunque? — fece Marcella senza malizia.

— Perchè lunedì debbo essere a Milano.

Ortensia ritardava il passo sì da lasciar avanzar un po’ la sorella, e velata di subitanea tristezza, mormorò:

— Non credevo....; non credevo....

Le chiesi a voce alta:

— Che cosa non credevi?

Mormorava:

— Che lei mi tenesse ancora per una bambina....

— Ma no! via!

— Leggera, dunque; capricciosa; falsa, come Anna!

— Chi t’ha detto questo? Non è vero!

— Si vede, si vede!

— Ti prego, Ortensia....

Marcella, che si era fermata ad attenderci, rise.

— Vi bisticciate? [p. 181 modifica]

Proseguimmo in silenzio.

Io vincerei; ma a, che prezzo! Nè tardai ad avvedermi che l’intima battalia di Ortensia superava forse, per asperità, quella che io sosteneva in me. Ah il sogno della giovine innamorata s’abbatteva; s’infrangevano le ardite speranze contro la mia durezza? Ma il silenzio di lei mi significava che la giovinetta, che per un momento avevo creduto debole, già m’opponeva la fierezza di una passione pienamente consapevole, di una donna già consapevole e guardinga della sua dignità. Dalla bella persona, alta e snella, che mi camminava al fianco, ricevevo una impressione di severità e di nobiltà, che non poteva esserei solo l’abito elegante e di colore insolito a conferirle.

Quant’era mutata in pochi giorni! Nè era quella mutazione un travisamento innaturale e transitorio, quale deriva talvolta da un gran dolore; era come un raccoglimento rapido eppur naturale e duraturo che una misteriosa energia aveva imposto a quell’animo irrequieto e della quale tutta la persona pareva improvvisamente dominata e investita. Non osavo guardarla negli occhi, nei begli occhi in cui poco prima avevo scorto uno stupore di gioia e di vita nuova e poi un tremulo desiderio d’abbandono: temevo ora di scorgervi lo sdegno e il rimprovero di un’imperdonabile offesa.

Per togliermi e togliere Ortensia da tanta pena cercavo invano d’apparir disinvolto, traendo argomento a discorrere da ciò che osservavo nella via.

Ricordo che dalla piazza avanti la chiesa un figuro giullaresco chiamava a suon di tromba gli ultimi curiosi attorno a una sonnambula. [p. 182 modifica]

— Facciamoci dir la sorte anche noi — propose Marcella. — Io acconsentivo; ma Ortensia: — No. Non voglio! non voglio profezie di sventure!

— Sciocchina, ci crederesti?

Non rispose alla sorella; tacita diede a me una di quelle occhiate che mi passavano sul cuore come su di una ferita un’acuta punta.

Più tardi, da una svolta venne verso di noi un uomo, che riconobbi da lungi, benchè a stento. Com’era deperito l’onesto Martino, il merciaiuolo ambulante, da poi che non l’avevo rivisto! Curvo, portava in ispalla un piccolo sacco e gli pendeva la bilancia dall’altro braccio.

— Come va, Martino?

— Ah! — fece egli in atto di chi è stato colpito da un’enorme disgrazia.

Marcella chiese:

— Vostra moglie?...

Ma egli si mostrò afflitto per ben altro che per la perdita della moglie! Allorché potè parlare, brontolò: — Mi è morto l’asino....

L’asino che io avevo invidiato era morto! Il ricordo mi fece sorridere. E Ortensia:

— Ecco il sorriso brutto...., che speravo non vedere mai più!

— Tu non sai il perchè sorrido. Sorrido perchè un giorno io mi confrontai all’asino di Martino; e c’è chi mi crede un grand’uomo!

A lei alludevo, che forse era stata indotta ad amarmi dall’opinione che i suoi avevan di me.

Proseguivo:

— Sorrido anche perchè, a mio scapito, un giorno io mi confrontai a Martino, che ora piange la [p. 183 modifica]morte dell’asino come non piangerebbe la morte di sua moglie. E c’è chi mi crede un uomo diverso dagli altri!

Con la mia stessa ironia Ortensia ripetè la frase udita più volte da me:

— Ogni infamia è possibile....: anche che lei non sia diverso dagli altri.

Tacqui, io, ora; e forse per il mio silenzio la sua speranza si ridestò in un tentativo estremo.

— Da tanto tempo — mormorò — io mi son detto che non c’è uomo eguale a lei. Perchè dovrei essermi ingannata?

Era pur dolce sentirla parlare senza ironia, senza amarezza, con pentimento, con fede! Tacevo.

Fissandomi quasi per accendere ne’ miei occhi smarriti la fiamma che aveva nell’anima e per vincermi con una confessione ardita e violenta:

— Sì! sì! — ripetè senza dire di più.

Sì: non si era ingannata; voleva non essersi ingannata nel concetto di me; sì, mi amava. Ma io chinai il viso....; non volevo vedere ciò che di più sublime può attingere l’idealità e la passione umana: come nella bella e fiorente giovinezza di una tal creatura una misteriosa inspirazione aveva reso perfetto il sentimento della vita con l’improvviso palpito dell’amore.

Essa.... Ancora sperava?

— Mino — disse dopo un poco — m’ha chiamata, stamattina al suo letto per dirmi in un orecchio: «Se Sivori mi prende a Milano, ci vieni anche tu. Ortensia?»

Mi riferiva l’innocente domanda del fratello per intenerirmi; ma fu come non avessi udito.

— Da Milano, lei, va dopo a casa sua, a Molinella? [p. 184 modifica]

— No: all’estero. Laggiù andrò quest’altr’anno; d’estate.

— E non verrà a Valdigorgo?

— Non so se potrò venirci.

Non le restava più alcuna speranza! Tornò d’un tratto sarcastica.

— Ci ha qualche sorella, laggiù?

Ah! quanto male mi fece! Eppure non dissi: «Perchè mi fai tanto male?»; risposi:

— Non ci ho che due vecchi: il Biondo e sua moglie.

— Le vogliono bene?

— Poveri vecchi!

— Ah dunque c’è qualcuno al mondo che le vuol bene!

Così, con la mia stessa ironia....

E non parlò più. Nel caffè, dove sedemmo ad attender Guido, fingeva leggere i giornali. Ma quando Guido giunse, gli chiese impaziente:

— Il babbo tarderà molto?

Oh se tardò!; se fu grande la pena dell’attesa!

Infine rammento che Moser venendo a noi, con la carrozza, annunciò:

— Il primo premio all’assessore; il secondo a Roveni. — E rivolto a me e a Guido: — Voi duo avete fatto bene a squagliarvi. Costui (accennava a Guido) tira ai piccioni come tu, Sivori, tiravi alle anitre. — Mentre parlava, Claudio guardò Ortensia, aggrottò le ciglia; quindi le chiese:

— Cos’hai?

— Nulla, babbo; perchè?

— Mi pareva....

Marcella nel salire in carrozza mormorò in modo che io solo la udissi: — Cervellina! [p. 185 modifica]

XXII.

Quando entrai alla fabbrica, Roveni, su la porta della piccola casa che serviva a dimora ed ufficio del direttore, era intento a una faccenda strana, quantunque potesse parere uno spasso di dopo colazione: ripuliva un rewolver. Del resto, con l’usata franchezza di parole e di modi, egli impedì subito la mia meraviglia.

— Mi brucia d’esser stato battuto ieri, al tiro. Ho sbagliato l’ultimo piccione. A tiro a segno non sarebbe andata così.

Nè mi meravigliò il rancore che dimostrava così dicendo; indizio di tenacia anche nell’amor proprio.

Aggiunse:

— Voglio vedere se oggi ho il polso fermo.

Appena fuori della porta era una carretta da trasportar mattoni. A una parete di essa egli segnò un cerchio; si mise a distanza di una quindicina di passi; mirò per alcuni istanti, e sparò.

— Centro! — disse un operaio che accorse per primo.

— Bravo! — feci io. Roveni con un lieve movimento del capo significò: n’ero sicuro.

Non m’invitò a tirare, quasi dubitasse di umiliarmi; tranquillamente riprese a pulire il rewolver. Chi avrebbe dubitato che tutto ciò seguisse a un proposito e tendesse a un fine recondito?

Poi entrammo nell’ufficio; d’onde, dall’ampia finestra, si osservava l’andamento laborioso degli [p. 186 modifica]operai. Laggiù, coloro che informavano le crete agli stampi e la lunga fila delle carrette che recavano alla fornace il materiale pronto alla cottura: un’altra fila di carrette ne usciva con il materiale già cotto. Risonavano i mattoni nel venir scaricati e ammucchiati. Transitavano intanto, con fragore di ruote e tinnio di sonagli e voci di birocciai, le birocce di trasporto alla ferrovia.

La produzione era davvero grande. Come spacciare tanta roba?

— Ora Moser ha una buona ideal — disse Roveni mentre, deposta l’arma, rovistava su lo scrittoio. — Pensa di costituire una società in cui entrerebbero altri appaltatori.... Purché non v’entrino le piovre!

— Chi sono?

— Si capisce: amici; ai quali è costretto a ricorrere nei momenti d’angustia. Per il fondo di scorta non gli bastano certe volte i prestiti concessi dalle banche. E la piovra più insaziabile è il signor Learchi.

— Learchi!... — esclamai stupito. Che Learchi fosse stato un affarista, un tempo, lo sapevo; ma lo credevo.... in riposo. E apprendevo ch’egli strozzava il padre della sua futura nuora, quando gli si sarebbe dato, tutt’al più, del burbero beneficio!

— Com’è difficile conoscere gli uomini!

Ora che cerco di rappresentarmi Roveni quale mi si dimostrò in quel giorno, con ogni sua mossa e parola, ne ricordo la fuggevole occhiata alla riflessione con cui accompagnai, l’esclamazione di meraviglia. E ricordo ora che non di rado egli aveva di tali occhiate, le quali sembravano sfuggirgli, per quanto fosse padrone di sè, [p. 187 modifica]come sospettasse d’esser lui in sospetto d’altri. Ma già Roveni aveva trovata la carta ricercata.

— Vede? — disse. — È la proposta di un impiego per me. Potrei uscire anche adesso, subito, dalla posizione apparentemente falsa in cui mi trovo....

Richiamandomi così direttamente a quanto egli mi aveva detto dopo il mio dibattito con Anna, l’ingegnere s’imponeva di nuovo, più leale di me, al mio giudizio e alla mia stima. Per il peso della simulazione che io avrei voluto gettarmi d’addosso, e non potevo, tentai interrompere il discorso.

— Le ripeto che lei non mi deve alcuna spiegazione.

— Anzi! — ribattè egli. — Io ho proprio il dovere di spiegarmi con lei. Lei è il più fidato amico della famiglia Moser ed è bene che veda chiaro nel mio modo di procedere. È strano che un giovane della mia età, non un bambino come Pieruccio Fulgosi, pensi sul serio a una ragazza e si contenti di guardarla senza dirle nulla. Sembra un mistero.

— Ma io so che Eugenia volle promessa da lei di tacere ad Ortensia, per adesso....

— Ah! sa? Benissimo! Ho avuto riguardo alla signora Eugenia, che è tanto apprensiva; e ho mantenuta la promessa, da uomo leale. Ma questa lettera, questa proposta d’impiego mi scuserebbe, abbastanza se uscissi da ogni riserbo. Diavolo!

Posso provare che un impiego non mi mancherà, e con tutto il rispetto alla signora Eugenia, potrei cominciare a corteggiare Ortensia, che non è più una bambina.... Invece, no: lei ha visto; lei vede come mi comporto. Perchè? Appunto perchè non [p. 188 modifica]mi piace di stane in una posizione falsa; perchè io debbo riguardi anche a Moser le non voglio si dica che, mentre mi dispongo ad abbandonarlo, gli innamoro la figliola senza avene la certezza assoluta di sposarla. La certezza assoluta! L’impiego che mi proongono non l’accetto: è vantaggioso; molto vantaggioso; ma non mi soddisfa del tutto. Eppoi: non voglio, non debbo abbandonare Moser finchè non si sia provvisto di un altro direttorne, o non abbia costituita la società.

Costui era un uomo! Io?... Mi sentivo umiliato, avvilito; ebbi di nuovo una smania impetuosa di riscuotermi, di svelarmi, di non restare inferiore a lui.

— La sua condotta, ingegnere, non merita che lodi. Suo solo errore è d’aver preso per sè un rimprovero che non era nelle mie intenzioni; che lei forse potrebbe riferire a me stesso.

Egli mi fissò come non era solito e come chi dubita d’aver frainteso.

Quindi disse (e io non badai che le sue parole non s’accordavano del tutto all’espressione da me attribuita alla sua occhiata):

— Lei pensa che io abbia dato retta alle chiacchiere di Anna? — E scrollò le spalle.

— Quali chiacchiere? — domandai. — Che io sono innamorato di Ortensia?

— E che Ortensia è innamorata di lei.

Se io mi lasciavo andare alla confessione del mio amore, non compromettevo Ortensia, per allora e per l’avvenire? Perciò sorrisi in modo che quel sorriso valeva una menzogna; e dissi:

— Lei non crede ne l’una cosa nè l’altra? Perchè? [p. 189 modifica]

— Prima di tutto, perchè lo dice Anna. Povera diavola! Cercava persuadermi che lei sposerebbe Ortensia, naturalmente per trarmi nella rete. Non poteva capacitarsi, Anna, che Ortensia mi piacesse davvero!; sperava sostituirla! Ma ha visto ieri come dà la caccia, adesso, al dottor Minguzzi?

Intanto Roveni lasciava sospeso il discorso di prima. Ripresi io:

— E per quali altre ragioni le sembra inverosimile ciò che la Melvi dice di me e di Ortensia?

— È impossibile che un uomo come lei abbia voluto innamorarsi di Ortensia; un uomo di studio, di studi ben diversi dai miei; un uomo che forse non ha mai pensato ad accasarsi e che, se mai ci pensasse, non si perderebbe con una giovinetta....

— Oh bella! — esclamai dissimulando la ferita che mi diede quest’argomento. — Non è possibile che io abbia voluto innamorarmi? Non potrei essermi innamorato senza volere?

— No. Io non credo all’amore fatale dei romanzi. O meglio, credo che gli amori romanzeschi siano per la gente debole, malata, senza volontà. La volontà, per me, entra anche nell’amore.

— Uhm! — feci io lieto di dare al colloquio un avviamento di discussione psicologica. Ed egli:

— Anche nell’amore c’entra la volontà! Ma scusi: un uomo sano, normale, con la testa a posto, desidera una donna. Che deve fare per ottenerla? Deve misurare gli ostacoli che lo separano da lei. Sono superabili? Avanti! Non sono superabili? E allora non ci pensa più! [p. 190 modifica]

— Il guaio è che l’amore accieca, fa perder la testa.

— Accieca chi non ha occhi; fa impazzire chi non ha giudizio!

— .... O illude: attenua gli ostacoli che sembrarono superabili. In chi non li può superare l’amore diventa poi romanzesco, come dice lei.

— L’uomo sano deve prevedere questo pericolo!

Poi con la sicurezza di un giusto orgoglio Roveni troncò la teoria per addurre l’esempio di sè.

— Io spero di non illudermi; spero di superare gli ostacoli che si frappongono per adesso a fidanzarmi con Ortensia; voglio superarli. Non ci riuscirò? Non mi ammazzerò per questo, come si usa nei romanzi. Solo — aggiunse — si può vivere anche senza moglie!

Quell’uomo di volontà indomita, quell’uomo che con la energia della persona e della fisionomia pareva domandar a confronto la saldezza del granito o del bronzo, e che pareva condensare e raffreddare a un tempo tutta l’energia dell’animo e dei nervi nello sguardo degli occhi chiari, quasi bianchi, quando disse: — Si può vivere anche senza moglie! — tremò nella voce; le sue labbra ebbero un tremito! Ora io domando: chi a osservare così vivi contrasti avrebbe giudicato tal uomo all’opposto di quel che lo giudicavo io? Per me era un forte che amava fortemente; che aveva giurato a sè stesso: o Ortensia, o nessun’altra!

Con amarezza; con invidia non abbastanza respinta nel cuore, osservai:

— Lei però dimostra anche che quanto più son [p. 191 modifica]gravi gli ostacoli, tanto più aumenta l’amore, sia o no volontario....

Non si diè per vinto. Esclamò:

— Bene! Ecco perchè lei, dottor Sivori, non può essere innamorato di Ortensia! Che cosa le impedirebbe di sposarla, se la volesse?

— La differenza di età.

— Che! Moser per darla in moglie a lei aggiungerebbe dieci anni addosso a sua figlia!

— Ma io potrei non volerla per timore di renderla infelice; per la fiducia almeno che moglie di un altro sarebbe meno infelice.

L’ingegnere ruppe in una sghignazzata. Rideva di rado, ma quando rideva, rideva così: con violenza.

— Oh questa è grossa! Questa farebbe ridere anche in un romanzo! Amare una donna vuol dire desiderare di renderla felice; vuol dire sperare, aver certezza di renderla felice, come nessun altro: se no, che amore sarebbe? — E proseguì: — Ma lei scherza! Si vede. Non nego però che forse qualcuno le darebbe ragione, a costo di far ridere i polli. Piuttosto che confessare la propria debolezza c’è chi cerca di gabellare la debolezza per eroismo, e chiama egoisti gli altri. Io non li posso soffrire.... So bene che lei non è di questi! Lei scherza!

Nelle ultime parole Roveni insistè per escludere assolutamente il sospetto di un’allusione; mentre io sorridevo proprio a mo’ di chi ha scherzato. Per non scherzar più, avrei dovuto dirgli: «Ebbene: Ortensia sarà mia!» Ma una voce mi diceva dentro: — «Il tuo sacrificio è ridicolo per lui, per la sua forza; ma tu devi compierlo per la felicità d’Ortensia!» [p. 192 modifica]

Tuttavia il discorso non era compiuto. Fiaccamente, quasi solo per proseguire nell’argomento scherzoso, chiesi anche:

— E perchè Ortensia non potrebbe essere innamorata di me?

— Innamorata? Come dice Anna? Ehi, conosco le donne! conosco le ragazze! Un capriccio....; un fuoco di paglia, potrebbe darsi; se lei stesse ancora qua, o tornasse presto: sarebbe un primo amore; e io mi ricordo di quello che disse lei del primo amore a proposito di Pieruccio. Una ragazza come Ortensia, a diciassette anni, non fa passioni.... affezionarsi, sì. Questo è indiscutibile: a lei Ortensia è molto affezionata; ed è un bene. Io ne sono contentissimo!

Spalancai gli occhi. Egli proseguì tranquillamente: — Da un po’ di tempo s’è fatta più seria, la signorina! Aveva tanti capricci! Ma adesso diventa una donnina a modo. Brava! Perchè c’era da preoccuparsene. Non sono un poeta io; sono un meccanico! Quasi per concludere, ma in realtà per togliermi ogni timore in proposito e ogni scrupolo, io mi sforzai a domandargli anche quando penserebbe di chiederle la mano d’Ortensia.

— Appena sarò sicuro del mio avvenire; gliel’ho già detto.

— Ma lei è sicuro del suo avvenire!

— Non ancora. Le ripeto che non amo i castelli in aria e che sono un uomo leale. Cerco un buon impiego; stabile. Quando l’avrò trovato, mi terrò sciolto dalla promessa che ho fatta alla signora Eugenia e parlerò liberamente a Ortensia. La mia partenza, a ogni modo, non sarà [p. 193 modifica]avanti la primavera di quest’altr’anno; così avrò tempo di spiegarmi anche con Moser. Va bene?

Gli strinsi la mano.

Forse un altro che ricordasse il proverbio «guardati da chi si dice uomo leale», un altro forse avrebbe sospettato un motivo recondito e oscuro alla condotta di Roveni; avrebbe potuto diffidare di lui appunto perchè egli aveva voluto dissipare ogni possibile equivoco.

Ma io! Io mi chiesi: «Se fossi davvero fratello di Ortensia potrei desiderare per mia sorella marito migliore?» La scienza mi suggeriva ch’egli era un uomo eletto per forza, equilibrio, sanità, saviezza, fede, predominio di sè e dominio della vita.

Che ero mai io al paragone di lui?... E Ortensia non saprebbe mai il mio sacrificio!

«Ah morire per te, sorellina!»


Essa non era rimasta ad attendermi; ma vedendomi tornare, mi aspettò presso il cancello. Non sorrise; non mi chiese di dove venivo. Disse:

— Porto l’elemosina a Giovannin. Quanti giorni ce e siamo dimenticati!

Allora sorrise; con l’ineffabile tristezza di un bel sogno dileguato. Poi disse:

— Gli dia qualche soldo anche lei, per domani, che è festa.

Come Ortensia, senza dir nulla, pose il cartoccio su le ginocchia del cieco, questi trattenne il suono dell’organetto e alzando quel suo volto, che l’improvvisa gioia illuminava accrescendo l’orrore delle pupille spente, esclamò:

— Ortensia di Claudio!

— Mi vuoi ancora bene, Giovannin? [p. 194 modifica]

Egli rispose, goffamente solenne:

— Come a Dio!

— Prendi — dissi io, buttandogli alcune monete nel cappello.

— Voi chi siete? — domandò allora il cieco perplesso, serio; meravigliato egli stesso, pareva, che la voce non gli manifestasse di subito la persona. Finchè rise dalla enorme bocca, che mostrava i denti candidi, e con modo di stupida furbizie:

— Ah! Lo so chi siete!

— Chi sono?

— Lo so! lo so! Era contento; godeva a indugiare nella risposta. Esclamò infine:

— Siete....: lo sposo di Ortensia! Ella arrossì, mentre io ridevo più stupidamente del poveretto.

— Suona Giovannin....; — Ortensia disse con intenzione ironica, nell’avviarsi.

Quando fummo di nuovo al cancello (e il cieco straziava l’«addio, mia bella, addio!») essa mormorò:

Giovannin è forse da invidiare!

Io avevo l’angoscia alla gola; avrei voluto ribattere: «Anch’io credetti invidiarlo un giorno! Ma tu in avvenire sarai felice!»

Chiesi invece, per celarmi:

— Dove vai?

— Su in casa, a cucire.

Nè la rividi in tutto il giorno. «Mette a prova la sua forza di volontà — io pensavo. — Se resiste alla tentazione di star meco le ultime ore, resisterà all’amore fino a guarirne, e forse in breve». Anche lei più forte di me!; ed essa ignorava quant’io soffrivo! [p. 195 modifica]

Sul tardi Eugenia, passando dalla sala terrena e scorgendomi solo, si meravigliò e ristette.

— Ortensia non è qui, con voi?

— No: m’ha detto che saliva a cucire.

La madre scosse il capo.

— Al solito — disse — : ieri si è divertita, e oggi è un brutto giorno. Vedete se ho ragione di lamentarmi? Non si fa forza nemmeno per non dispiacere a voi, gli ultimi momenti che siete qua.

Che dire? Pregai che lai lasciasse queta; tentai scusarla con lo stesso argomento: il malumore, dopo le ore di svago, era segno di una rara bella facoltà spirituale....

— Voi la scusate sempre! — disse l’ingenua madre.

Quindi volse il discorso alla mia visita alla fabbrica, della quale l’avevo informata la mattina.

Credei desiderasse sapere se Roveni m’aveva parlato di Ortensia. Ma ella mi prevenne:

— Roveni v’ha parlato di Moser? degli affari?

E vedendomi incerto, aggiunse:

— Io non so nulla, non debbo saper nulla. Claudio è fatto così.... Parla di tutto in casa, fuor che degli affari. Ma la notte è spesso desto....; sospira. Temo mi nasconda qualche cosa di brutto.

M’affrettai a dirle del disegno che Claudio aveva di comporre una società e che Roveni approvava; sebbene Claudio stentasse a ridurcisi. — Vorrebbe esser solo; far tutto da, solo. Però sarà meglio limiti le sue fatiche.... [p. 196 modifica]

— Certo che sarà meglio! Così non potrebbe continuare. Si consuma l’esistenza....

Tranquillata intorno a ciò, Eugenia mi domandò se Roveni mi aveva parlato di Ortensia.

Con acerba soddisfazione della mia coscienza, con l’acre voluttà di contrappormi all’ingegnere e di essere forte come egli non avrebbe immaginato mai, le risposi di sì: me ne aveva parlato; mi aveva manifestato chiaramente le sue intenzioni.

Egli l’amava tanto, Ortensia, che aveva giurato a sè stesso: — o Ortensia o nessuna!

— Farà felice la, vostra figliola; e sarà degno dì lei.

Questo dissi!

— E di Ortensia, voi, che cosa pensate?

— Ha molta stima di Roveni; dalla stima verrà la simpatia, l’amore.

Questo dissi! Avevo vuotato il calice sino alla feccia! Ma Eugenia, la buona amica che ger bontà mi leggeva nel cuore, questa volta non mi lesse nel cuore.


XXIII.


L’agonia cominciò là mattina dopo; la domenica. L’ultimo giorno! Perchè si ostinava Ortensia a starmi lontana anche in quelle ultime ore? Per nascondermi il suo dolore, l’amore, lo sdegno? Per dimostrarmi la sua fierezza? Avrei dato metà del mio sangue per rivedermela lieta dinanzi ancora una volta, come quando accorreva ad [p. 197 modifica]augurarmi il buon giorno, e il sorriso in cui m’appariva tutta la sua persona placava la cura che mi rodeva. Non più quel sorriso! Mai più! Patire, frattanto, il castigo quasi d’un delitto; dubitare che fosse insania non l’amore ma l’azione generosa che mi era imposta da un destino crudele.... Ortensia! Ortensia! Era una crudeltà.... Non poter chiamarla a voce alta per quelle ultime ore; non poter invocarla a sostenere con la suapresenza quell’agonia....

Dalla terrazza udii affrettare passi alla mia volta. A distrarre la mia pena veniva invece il cavalier Fulgosi con un fascio di giornali, che sollevava e agitava come un trofeo.

— Dottore! Hurrà!

La Campana e Il Corriere della Valle, allora giunti, riferivano che alla festa del 20 settembre in Valdigorgo era stato presente anche un illustre scienziato; perciò il cavaliere veniva a portarmeli così per tempo, e a portarne copie alle signorine. Ma perchè io partivo l’indomani? Avrei potuto, dovuto attendere a partir con lui e con la sua signora appena Pieruccio sarebbe ritornato da Varezze, ove era guarito....

(Pieruccio era guarito!...)

— Si guarisce presto dell’amore a diciassette anni! E le medicine della giovinezza sono dolci. Ma alla mia età — sospirò Fulgosi traendo di tasca lo specchietto — è amaro non poter ammalarsi così! A me non resta che trovar dolci le amarezze della politica. Eppoi...: tout passe, tout casse, tout lasse!

Per non apparir gioioso, qual era, della réclame che s’era fatta egli stesso nei giornali, si mutava a quell’aria di melanconia. [p. 198 modifica]

Sospirò e disse:

— Lei, dottore, almeno ha la scienza....

— Almeno?

Vedendosi in pericolo, aggiunse subito:

— ....se sdegna l’amore.

— E chi le ha detto che io lo sdegni?

— Nessuno.... Immagino....; suppongo....; forse.... Ah! è qua l’amabile Ortensia. « Venite a noi parlar, s’altri nol niega!»

Ortensia, che sopravvenendo salvava il cavaliere dalla china perigliosa, non si curò di lui e si rivolse a me concitata, quasi per ira mal rattenuta:

— A messa in paese io non ci vado! Vado all’Oratorio. M’accompagna lei, Sivori?

Io non avevo ancor risposto che Fulgosi s’inchinò come a una regina, e disse:

— Anch’io, se crede.... — Ma ella l’interruppe, evidentemente decisa a non volerlo.

— Domenica prossima m’accompagnerà lei, cavaliere.

— Volentierissimo! Parigi vai bene una messa!

— Farà lei questo sacrificio.... — E Ortensia mi guardava.

— Un sacrificio — il cavaliere oppose — che il corrispondente della Campana invidierebbe. Legga, signorina, che cosa si dice qui.... — E le porse uno dei giornali.

Da prima sommessamente, poi forte, Ortensia lesse; ma nel suo volto pallido la lettura sostituiva tosto alla noia un’impronta di sarcasmo. Mi parve di vedere un’anima intristita. E quando dalle lodi del cavaliere «oratore splendido», degno di essere assunto non pure «alla più alta carica municipale, ma a quella di rappresentante [p. 199 modifica]dell’intera nazione», il corrispondente passò a descriver la festa, a nominar le persone cospicue del pubblico e a vantar le «ideali parvenze» delle signorine Moster, allora Ortensia proruppe: il cavaliere rimase innondato da un’onda di torbida ilarità.

— Ma bravo! Bravo, signor cavaliere! E lei crede che nessuno se n’accorga? Ah Ah! Ma la corrispondenza l’ha fatta lei! Tutti lo capiranno; e se qualcuno non lo capirà lo dirò io! io! a tutti!

Fulgosi affogava. Si mise ai scongiurare:

— No, signorina, non lo creda; non è vero; non lo dica!... Anche se lo crede, per carità non lo dica!... Noblesse oblige.... Lei così gentile perchè vuol rovinarmi?

— A tutti! Tutti debbono saperlo! Mamma, Marcella, venite a leggere che coraggio ha avuto il cavalier Fulgosi!

Fortunatamente Eugenia e Marcella le quali venivano già pronte per andare in paese, interpretarono quello sfogo come uno scherzo; e io stesso m’intromisi a mutar la cosa in gioco.

Salvo, il cavaliere s’accontentò dei ringraziamenti che gli fece Marcella; poi s’accomiatò più frettoloso di quando era venuto.

— Dunque — disse Eugenia — tu. Ortensia, che fai?

— Vado all’Oratorio.

— Un capriccio!

— Con Sivori, ci vado!

— Meno male!

— disse Marcella. — Un capriccio questa volta che ha una buona intenzione!

— Io vado con la mamma, — interloquì Mino, [p. 200 modifica]che certo aveva qualche affare in paese. — Piuttosto, di’, Sivori (e mi susurrò all’orecchio): — Mi prendi a Milano?

Risposi sogguardando a Ortensia, quasi per mitigare con la mia dolcezza l’asprezza di lei.

— Volentieri, caro amico! Ma la difficoltà più grande è il permesso del babbo. Bisognerà trovare una buona ragione o una grossa bugia.

Il fanciullo meditò a lungo, finchè quasi sapesse che a me non era più difficile quel che ancora era difficile a lui:

— Dilla tu, Sivori, la bugia!

Intanto Ortensia raccomandava alla sorella; e alla madre: — Spicciatevi: se no, perderete la messa! — E a me: — Andiamo?

Appena ci fummo incamminati io vidi che dalla concitazione, dall’eccitazione di pocanzi il suo animo era caduto in una depressione angosciosa. Che battaglia aveva sostenuta, in sè stessa, per esser meco l’ultima volta! Certo non affidava più alcuna speranza a quella gita, ma voleva forse che io comprendessi il male che le avevo fatto, o comprendessi quant’era grande l’amore che io avevo ostinatamente respinto. Il dì innanzi aveva resistito in un proposito di fierezza: poi la passione doveva averla persuasa ch’era per lei maggior forza confessarmi tutto. Se non che ora, a ritrovarsi sola meco, non poteva nemmeno celare il panico che le incuteva il suo fermo proposito. Procedeva a capo chino, senza trovar parola. Tornava la giovinetta inesperta intimidita dalla stessa passione che le aveva data tanta forza. E io dopo la scena di pocanzi mi sentivo più colpevole: avevo io forse intristita quell’anima? [p. 201 modifica]

Finalmente disse:

— Sono stata, cattiva con Fulgosi! Ora me ne dispiace....

A udir la sua voce così diversa a vederla così rabbonita, ebbi un infrenabile moto di consolazione entro di me; le sorrisi.... L’amore ci voleva buoni entrambi, nell’ultima ora che stavamo insieme! II sole, il cielo ci volevan buoni se non potevamo essere, per quell’ora, felici!

— Che giornata! — io dissi guardando intorno allo svoltar della viottola. Solo in un punto vapori candidi quasi impercettibili velavano il cielo: sul resto, nel chiaro azzurro, andava diffuso il sole ormai autunnale, e per i dorsi bruni dei monti e per gli spazi verdeggianti, e i molli declivi e i campi tracciati di solchi e carraie, effondeva una dolcezza che non ha la primavera. Sui tetti d’ardesia, nel paese, la luce si rifletteva come ad accenderli; prorompeva entro le finestre; vibrava intorno il campanile dalla croce scintillante in alto. Con più frequenza che in primavera giungevan pigolii dai campi, e richiami nitidi di luì e gazzarre festose di passeri. Bianche farfalle sorpassavano la siepe; vagolavano a due a due: lievi anime in rincorse d’amore. La costa boschiva dell’antico convento era immersa in un fulgore immoto, in uno splendore coerente e meraviglioso.... Io mi ricordai d’un tramonto....

Ortensia guardava anch’essa; e ripetè: — Che giornata!

Indugiava quasi ad assaporare quella dolcezza; scosse il capo come quella dolcezza le si mutasse dentro, nell’animo, in una mestizia profonda. Quindi, per dire qualche cosa, disse: [p. 202 modifica]

— Don Pietro si spiccia in venti minuti. Ma il priore, in parrocchia, non la finisce mai.

aggiunse; — Del resto, per pregar bene non basta un minuto?

— Anche meno, per chi può pregare. Tu non puoi; me lo confessasti.

Senza titubanza, ma con un brevie rossore, ribattè:

— È vero. Quand’ero così allegra, dopo la guarigione della mamma, non ne sentivo il bisogno, di pregare, neppure per un secondo.... — La voce le cadde interrotta perchè interruppe l’espressione del pensiero, che doveva compiersi nella esclamazione: «ma ora!...»; Riprese: — Lei però non prega nemmeno quando è triste. Non crede a nulla!

A niente: nemmeno a lei, che mi amava! Invano ella mi aveva voluto tanto bene; invano mi amava così; e io, che non raccoglievo dalle sue parole il rimprovero e le lagrime, io ero perverso; ero spietato io, che non osavo guardarla negli occhi e sorprendervi quanto amore vi tremava per me!

Esclamai:

— T’inganni! Oggi credo fino a me stesso! Mi sento buono oggi.... E tu? — Mi sembrava di correre su l’orlo di un precipizio con il senso della vertigine. — E tu credi a ciò che senti?

— Certo!

Tacque a lungo, dopo. Voleva pur dire; e non osava; finchè i nostri occhi s’incontrarono.

Disse:

— Ho sempre pensato.... una! cosa strana!: che ci rassomigliamo, noi due.... Ma io non so esprimermi! Ecco — proseguiva rianimandosi — se non ci rassomigliassimo io non avrei tanta fiducia in lei. Invece, credo che con lei non avrei [p. 203 modifica]paura di nulla, che potrei seguirla, a occhi chiusi, nei più grandi pericoli....

Fin nelle parole c’era una voluttà d’abbandono! Perchè, strappato ogni ritegno, dimesso ogni infingimento, io non la riceveva ed essa non s’abbandonava nelle mie braccia? Fui per scongiurarla: «Abbi pietà di me, di noi! lasciami fuggire! Non dir più una parola!»

Sorrise.

— Ma quante volte ho creduto che lei mi credesse sciocca! Per fortuna, mi consolavo a indovinare....

— A indovinare che cosa?

— ....i suoi pensieri....; che so?...; le cause del suo malumore. Lei invece.... non ha mai indovinato nulla di me!

— Questo ho indovinato: che hai l’anima di tua madre e il cuore di tuo padre.

Il suo sguardo s’accese di una gioia istantanea....

Intanto chiamava la campanella dell’Oratorio, e affrettammo.

Poi rallentammo i passi senza che ce ne accorgessimo. Quando avrei voluto chiederle: — a che pensi? — mi chiese essa:

— A che pensa? — provocandomi, per disperazione, a finir quell’angoscia.

— A nulla!

— Non si può non pensare a nulla. La notte, al buio, cerco il sonno e non. lo trovo, se mi viene in mente qualche cosa....; e provo a non pensarci. Ma che! Non ci si riesce!

— Tu hai diciassette anni — ribattei amaramente: — io venti di più. Alla mia età si può anche non pensare a nulla!

Ma pensavo, ancora, al male che avevo fatto! [p. 204 modifica]

Che possanza ogni mia parola, ogni mio atto, a poco a poco, di giorno in giorno, aveva avuta su quell’intelligenza e in quel cuore!

— Non hai fiori oggi — dissi chinandomi a raccogliere un fiore di colchico.

— Mi dia quello!

— No. È velenoso.

— Che importa? Me lo dia, Carlo!

E I mentre lo fermava al petto:

— Non voglio più dirle: Sivori, Carlo: che bel nome!

Dal tono della voce m’accorsi che nel suo segreto più volte ella doveva aver ripetuto forte, così, il mio nome.

— Andiamo: arriveremo a messa finita!

Quando arrivammo il campanello indicava il Sanctus; le donne s’inginocchiavano.

Ortensia s’avvicinò a loro; là, dove ci eravamo rifugiati il dì della bufera. Ed io, poggiato al pilastro, liberamente, adiesso, avvolgevo Ortensia del mio sguardo.

...Dove andrei? in qual parte scamperei ai mio soffrire? M’accogliesse, anzi che monti aprichi e boschivi, una landa; m’arrestassero lo sguardo i muri d’una città anzi che estendermelo un orizzonte sterminato: che importava? Per tutto ella mi seguirebbe a farmi soffrire! Dolente immagine, mi seguirebbe? o ridente? Salva del mio amore? felice un giorno nell’amore di Roveni? Ah se tutto non era vanità come l’ombra che ci proteggeva; se tutto non era illusione come la fede che le pareva sentire adesso, perchè il suo Dio non le toccava il cuore e non le diceva: «Sii di me solo?»

. Non impazzivo! All’Elevazione abbassai gli [p. 205 modifica]occhi, per non vederla, e cercai invano nel mio cuore una preghiera infantile.

Ma se non potevo pregiare, neanche potevo più maledire! Impossibile in quel trepido silenzio invocare, come un tempo, un disordine enorme che lanciasse il mondo delle passioni umane nelle tenebre e nella morte! Impossibile sognare mai più che una potenza suprema, mostruosa e gaia, si rivelasse a por termine alla sua commedia, ordinando: «Basta! Basta con l’amore!; col dolore!» Per i buoni, per gl’ingenui, per i forti, — se non per me— una fede, un Dìo, c’era! E gettando lo sguardo all’aperto: «Sì, tutto nell’autunno deperirebbe e ingiallirebbe, e marcirebbe nell’inverno; ma in quel cielo cristallino e fervido, in quella letizia luminosa e festiva, risplendeva, certa, una promessa di vita.

Dal mio stesso dolore, nel sacrificio, non rampollerebbe un bene?... Senza più ira, senza più gelosia mi provai a riguardarla....

E quando, finita la messa, la vidi venirmi incontro con quel sorriso di dolore non più respinto, ma palese le quasi solenne, io era deliberato al pari di lei. Lasciammo sfollare; indugiammo per il sentiero risalutando chi oltrepassava e ci salutava.

Tra gli ultimi fu una, coppia amorosa. La giovane arrossì; il giovane ci fe’ un saluto confidenziale.

— Lo ravviso....

— È un operaio della fabbrica. — Ma sì dicendo Ortensia ristette. Non più vane parole!

— Domani, dunque... È deciso?

Irremovibile nel pensiero, con il pensiero di fatalità che i parola comprendeva, risposi: [p. 206 modifica]

— È necessario!

Anche qualche passo procedemmo; Ortensia, a capo chino, oppressa.

Ma s’arrestò di nuovo raccogliendo tutta l’energia della sua volontà per guardarmi, parlarmi, dirmi con tutta la pietà, con tutto lo strazio del suo cuore nella voce:

— Carlo! Che cosa le ho fatto, io?

La guardai. Tacqui un istante.

— Senti! Senti che cosa mi hai fatto! — esclamai in uno sfogo di gratitudine e di passione. — Senti! Io ero un miserabile perchè non credevo più in me; desideravo la morte, la distruzione, il nulla; io era cattivo perchè invocavo a dividere un soffrire ignobile, per un egoismo feroce, un’anima buona, e cercavo una sorella. Ma la sorella vedeva sereno il cielo, ridente la terra, lieta come lei ogni cosa. Era tanto giovane! Sua madre era guarita, ed essa coglieva dei fiori, e cantava. E la giovinezza e la vita poterono più che l’apatia e la morte: io fui vinto: essa mi fece rivivere: mi ridiede la coscienza della vita.... Ecco che cosa mi hai fatto!

Oh quello sguardo, allora!

Continuavo:

— Ma io che farò per te?... Non è lontano il giorno che io scorgo che io invoco per te, per i tuoi.... per lui, lui, che ti ama e ti vuol sua.... Io sento fin da oggi quel che t’augurerà quel giorno tuo padre. E tu sarai felice, perchè noi ti vogliamo felice! Tu dovresti essere felice, pienamente felice, per sempre! Ma se a Dio non bastassero le preghiere di tua madre; se contro il destino non bastasse il nostro volere; se mai in un lontano tempo la sventura passasse sul tuo capo.... [p. 207 modifica]

— Carlo! Carlo!

S’abbandonò, rompendo in singhiozzi, disperata, al mio petto.

Io la risollevai un poco perchè, piangendo, vedesse nei miei occhi l’anima mia....

E la baciai nella fronte.


XXIV.


Tànn!... Uno.... Tànn!... Due.... Sei tocchi così. Fosse la campana di bronzo buono, o l’aria pura fosse più capace che altrove d’estendere, limpide e vibranti, le onde dei suoni, l’orologio di Valdigorgo cantava le ore. Rispondeva a colpi piccoli, nitidi, frettolosi, da lungi, quello di Paviglio.... Mezzanotte.

Io davo volta nel letto. A che pensane per non pensare a lei?

A quel che m’aveva detto Mosier. Dopo desinare l’avevo affrontato nello studio mentre egli, allo scrittoio, faceva conti.

— Claudio: parto domattina con la prima corsa. Debbo essere a Milano nel pomeriggio; e ci sarò!

— A Milano? Benissimo! Sabato ci debbo essere anch’io. Puoi attendere. Ci andremo e torneremo insieme. — E si era rimesso a scrivere e a borbottar cifre.

Sapendo che irritarmi gl’impedirebbe d’irritarsi, avevo ribattuto in tono decisivo:

— Ti ripeto che io debbo trovarmi là domani!

Tredicimila e quattrocento lire.... [p. 208 modifica]Dicevi? Domani? Bene! Se è vero, va! Sabato però ci vedremo; torneremo insieme.

— Ti ripeto che mi converrà forse prendere la via del Gottardo....

Mattoni seimila!... I preventivi di Moser fallano di poco, caro amico! Gira e rigira, la spesa non sarà inferiore alle ventottomila lire.... Eh! Eh! proprio così!... Dunque? Ma che Gottardo! ma che Gottardo! Ti dovrebbe venire la malinconia di viaggiare, adesso! Non sai che tutto il mondo è paese ma che il più bel paese del mondo è Valdigorgo?; salvo il rispetto, s’intende, a Molinella, dove pure abbiamo riso molto...., col Biondo.... Ah! Mi dimenticavo le finestre; il ristauro alle finestre!...

Una pausa. Poi:

— Ho voglia di rivedere il Biondo e la Rita.... Bei tempi quelli! E! tirare alle folaghe?... ora che sono presidente del Club! Perchè no? Se mi riesce.... Sai che ho in mente di prendermi due soci nella fabbrica?

— È una bella idea, perchè tu lavori troppo; abbracci troppo....

— Se mi riesce, dopo, faccio una scappata a Molinella a trovarti.... Ma.... Tutto sommato: Ventottomila e settecento lire.... Meno è impossibile!... Ma a te di fermarti a Molinella, per un pezzo, non ti consiglierei. Voialtri Spinoza avete il nemico dentro di voi; avete bisogno di distrazioni più che del pane per vivere.... Oh! mi credi proprio un imbecille?

Nel dir questo aveva gettata via la penna e m’aveva piantati gli occhi in faccia.

— Perchè?

— Credi che non mie ne sia accorto, io, che te [p. 209 modifica]ne vai press’a poco com’eri quando venisti da noi? Non è vero che abbi necessità d’andartene! La verità, è che dappertutto stai male! che neanche l’amicizia ti basta! che neanche Valdigorgo ti basta! Ma sei ancora in tempo per far l’ultima prova. Spicciati! Ammogliati!

— Se tu sei un galantuomo, e se io sono infelice, dovresti dirmi che sarebbe un delitto trascinassi una donna nella mia infelicità.

— Ma perdio! — egli gridò esasperato — : perchè sei tanto infelice?! perchè?

Gli avevo risposto quello che una volta sarebbe stata la verità piena e che piurtroppo adesso non ne era che parte:

— Perchè non ho nessuna fede.

E a reprimere il suo sorriso più di pietà che di scherno, avevo soggiunto:

— Io non sono come voialtri che sapete prenderla pel suo verso la vita! Voi sapete perchè siete al mondo, perchè lavorate, perchè soffrite, perchè amate, perchè godete.... Voi leggete nel vostro destino; nel mio, io non so leggere. Lasciami andare al mio destino: quello che è e quello che sarà.

— Il tuo destino è qui! — Claudio si era alzato in piedi; rosso di collera; si era battuta con la mano la fronte. — Qui! Nella testa! Altro che filosofia! Sai cosa ho da dirti? Che è peccato mortale volerti bene! Non lo meriti! Ti vogliam bene tutti; Eugenia, le ragazze. Mino; e per compenso, tu: «Lasciatemi andare al mio destino!» al Gottardo!

Dopo il quale sfogo la scena si era conchiusa con un fraterno abbraccio e con la mia promessa di tornar presto.... [p. 210 modifica]

....Di nuovo mi voltai per il letto; pensai ai saluti degli amici dopo la conversazione: Roveni serio, sempre uguale a se stesso, m’aveva stretto forte la mano; il cavaliere si era industriato a commuoversi, con di più la preghiera d’inviargli le mie opere, cui farebbe degna meritata, réclame; la sua signora m’aveva augurato buon viaggio con smorfie gentili e disinvoltura aristocratica; Guido, al quale avevo imposto di passare, scrivendomi, dal lei al tu, m’aveva detto addio grato e ridente nella faccia tonda, quantunque gli spiacesse la mia partenza, che gli diminuiva sempre più la libertà di amoreggiare e gli toglieva un protettore....

Le Melvi, per fortuna, non eran venute.....

Transitava intanto, nella notte fonda, un tinnio di sonagli col rumor basso delle ruote....

Ed Eugenia mi aveva detto: — A Molinella ci avete i ricordi; ma la vostra casa, è qui. Nessuno vi vuol bene come noi.

E Marcella:

— Domani avremo tutti la luna!

....Io cercavo con gli occhi chiusi il sonno e non trovavo che le tenebre; e se li riaprivo, scorgevo dalla finestra aperta la serena oscurità celeste. In attesa, così, del giorno.

Finalmente: Tànn!... Un’ora.

.... Quanti giorni ero rimasto lassù?...

Dodici giorni dopo il mio arrivo avevamo portato Eugenia in giardino....

Curioso però il pensiero di Eugenia, a indagare il mio male nei primi giorni della mia dimora lassù! Con che sorriso io avevo risposto al dubbio di lei, che soffrissi per una passione d’amore!

Già: Amore e morte.... [p. 211 modifica]

          Cose quaggiù sì belle
          Altre il mondo non ha; non han le stelle!


....Un tempo io avevo studiato il terrore della morte in animaletti: in un sorcio; in una cavia. Ferii un giorno una passera, che precipitò senza un grido dall’albero e quando fui per raccoglierla, sollevò le palpebre invocando pietà e aperse il becco come per l’ultima inspirazione di vita. Mi pareva vederla....

Meglio saltar dal letto; vestirmi; spalancar le vetrate e mettermi alla finestra, al fresco. O no; meglio rivoltarsi e guardare con gli occhi chiusi alle tenebre vorticose; meglio il buio che le stelle! Aspettare. Suonerebbe pure quel maledetto orologio, che non aveva battuta dei quarti d’ora; e i quarti dell’orologio di Paviglio erano così deboli che non mi giungevano.

Proprio una maledizione! Quando stavo per assopirmi transitò un’altra biroccia.... Finchè, volta di qua e toma dall’altro lato....: tànn!

Ah finalmente suonarono quelle maledette due ore!...

Ma che mi veniva in mente adesso? quanta demenza travolgeva la mia povera testa? Che fatica persistere al desiderio d’alzarmi; d’uscire piano piano; e andar sotto quella finestra! Forse era socchiusa. Temeva addormentarsi....; voleva essere alzata alla mia partenza.... Come Pieruccio! Scendere e mettermi sotto la finestra di lei.... Ma Pieruccio era guarito dalla sua passione!

Io partivo com’egli era partito. Non guarirei? Avrei almeno il conforto d’aver compiuta una buona azione.... E dopo? Non vederla mai più, se [p. 212 modifica]Roveni basterebbe alla felicità di lei! Quetare il dolore in una vita nuova, se quest’affetto aveva rinnovato in me una sorgente di vita; vivere.... Oh meglio non pensarci!... Vivere con un vano ricordo d’amore era la mia sorte....

Ah Roveni, lui sì che vivrebbe felice! Vile io ero stato! Vile! Avrei dovuto dirgli: — Io, io stesso, che l’amo, vi voglio felice! — Immaginavo un conflitto tra me e lui, quale sarebbe potuto avvenire. — Voi non sapete come io l’amo! Io che ho più anni, più esperienza più pensiero, più anima di voi!...

Rispondeva Roveni: — Io sono giovane; e voi, ormai vecchio! Io ho pensato sempre alla vita; e voi ancora pensate alla morte! Io sono forte; e voi? La vittoria è dei forti!

Al sorriso che immaginavo seguire a tali parole mi raccoglievo in me con stento angoscioso....

Eppure dovetti cadere un poco nell’incoscienza del sonno, perchè presto, mi parve, suonarono le tre. Ma un eternità ed volle prima che un gallo cantasse.

. Quando cantò balzai dal letto, da quel letto, per sempre!

Era uno stellato splendido. Da quanto tempo non avevo guardato alle stelle! Nel loro palpitante mistero vidi una luce che non avevo visto mai: una luce d’amore; sol ragione della vita alla nostra meschina conoscenza.

Finalmente, alle cinque, Claudio batteva all’uscio.

— Svegliati, che è tardi!

— Pronto!

— Faccio attaccare.... [p. 213 modifica]

Non uscii che quando ebbi udito il rumore della carrozza.

— Se perdi la corsa, casca il mondo! — brontolò Claudio. — Non mi sono fidato di nessuno; neanche della sveglia! Andiamo?

— Aspetta.... — diss’io. — Indosso il paletot.... I guanti? Sono qui.... Aspetta! Ho lasciato l’ombrello.

— Andate a prendergli l’ombrello! Presto!

— Il caffè, signor dottore? — pregava la vecchia cameriera reggendo il vassoio con le due mani.

— No, grazie....; scotta.

— Bevi....; c’è tempo!

Eccola....: Ortensia.

— Perchè alzarti? — La mia mano tremava reggendo la tazza.

— Quando la rivedremo? — ella disse; perchè il padre la guardava.

Ecco anche Marcella.

— Ohe! signorine complimentose! Vostro padre, non si saluta?

E a me Claudio ripeteva burbero: — Andiamo?

Marcella disse: — Buon viaggio, Sivori; non si dimentichi di noi. Ci scriva! Ci scriva spesso!

— Addio.... — La sua mano era fredda.

Quando già salivamo in cairozza giunse anche Mino; senza bugie, ma, caso mai non tornassimo tosto, con la tromba in una mano e il tamburello nell’altra.

— Vengo con te, Sivori!

— Via! — gridò il padre, frustando Sansone.

— Addio!

— Buon viaggio! Buon viaggio! — ripetevano Marcella e i servi». [p. 214 modifica]

Ortensia non disse nulla; mi guardò; sorrise appena; trasse d’impeto nelle sue braccia Mino, che urlava piangendo:

— Voglio andare la Milano, con Sivori!

Come la carrozza svoltava dal cancello, scorsi quello sguardo lungo; che mi seguiva. Essa pareva tendere a me col fanciulletto, che sosteneva da un lato per vedermi...

Quello sguardo lungo, privo di lagrime, mi seguiva innocente e doloroso quale lo sguardo d’una vittima.