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XXII.
Quando entrai alla fabbrica, Roveni, su la porta della piccola casa che serviva a dimora ed ufficio del direttore, era intento a una faccenda strana, quantunque potesse parere uno spasso di dopo colazione: ripuliva un rewolver. Del resto, con l’usata franchezza di parole e di modi, egli impedì subito la mia meraviglia.
— Mi brucia d’esser stato battuto ieri, al tiro. Ho sbagliato l’ultimo piccione. A tiro a segno non sarebbe andata così.
Nè mi meravigliò il rancore che dimostrava così dicendo; indizio di tenacia anche nell’amor proprio.
Aggiunse:
— Voglio vedere se oggi ho il polso fermo.
Appena fuori della porta era una carretta da trasportar mattoni. A una parete di essa egli segnò un cerchio; si mise a distanza di una quindicina di passi; mirò per alcuni istanti, e sparò.
— Centro! — disse un operaio che accorse per primo.
— Bravo! — feci io. Roveni con un lieve movimento del capo significò: n’ero sicuro.
Non m’invitò a tirare, quasi dubitasse di umiliarmi; tranquillamente riprese a pulire il rewolver. Chi avrebbe dubitato che tutto ciò seguisse a un proposito e tendesse a un fine recondito?
Poi entrammo nell’ufficio; d’onde, dall’ampia finestra, si osservava l’andamento laborioso degli