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tudine del procedere, dubitavo e temevo. Mi spaventava il dubbio che Ortensia s’avvedesse del mio dolore e dei miei rossori; se ne avvedessero gli altri.

Avrei voluto conoscere quel che pensassero o dicessero di me la Melvi madre, la Fulgosi e la Learchi; ma in ognuna temevo ragioni di celarmi il loro pensiero. E per tutte queste indagini e per tutti questi sospetti provavo come il disgusto di un avvilimento indegno di me e della mia passione.

Peggio; a quando a quando mi abbattevo del tutto come sotto una condanna meritata. Avevo voluto rivivere; non potevo rivivere che così miseramente.... Quale un cieco che smarrito cerchi un sostegno, io cercavo adesso Ortensia. Essa era la luce dei miei occhi.

Il suo sguardo, il riflesso dei suoi capelli, l’armonia della sua voce, l’euritmia delle sue forme potevano nel mio animo sconvolto come (non esagero) il sole che fenda l’oscurità e spazzi via un nembo. «A ogni costo essa non deve soffrire!» — giuravo allora con un sentimento di pietà e di gioia, con tutta la voluttà del sacrificio.

Non so dire con che cuore in quegli ultimi giorni la vedevo tornare a me al mattino, sorridente e viva. Ella sorgeva adagio dalla scala della terrazza, e giungendo su la soglia si fermava un istante: staccata dal fondo arioso e chiaro, nella fresca e chiara veste, m’appariva immagine sorridente, vivace, palpitante. E poi diceva: — Buon giorno....

Nè so dire di quale refrigerio mi era la sua voce. Il dolce suono dell’accento paesano or si pro-