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sempre così. A udirla narrare adagio e piano della sua malattia e delle pene de’ suoi, mi pareva d’ascoltare un racconto non più doloroso; mi pareva naturale che nello sguardo di Marcella passasse l’ombra di tante angosce; naturale che Ortensia poggiasse il capo accanto al capo della madre e che le rosee guance e le guance emaciate stessero insieme un poco sul cuscino bianco, e che le labbra vive di sangue ricercassero a quando a quando, come per riscaldarla, la fronte esangue.

Finchè un giorno, mentre Ortensia usciva dalla stanza, dissi senza intenzione di recar piacere, senza intenzione alcuna:

— Sono belle, Eugenia, le vostre figliole.

La madre non negò. Affermò:

— Sono buone.

Io tacqui, parendomi naturale che la madre, non io, che pure le conoscevo, ne avvertisse la bontà e che io tacessi.

Ma quello stesso giorno, avanti desinare, Ortensia mi sorprese laggiù, sotto i tigli.

Disse scherzosa: — Riverisco! — e s’inchinò.

— Chi t’ha svelato il mio rifugio? — domandai a mezza voce. (Ubbidendo a Moser proseguivo a dar del tu alle signorine, tuttavia bambine agli occhi del padre....)

— Lo sapevo — ella rispose. Poi aggiunse franca: — E voglio saper tutto, tutto!

— Che cosa?

— La mamma lo dice da un pezzo: Sivori è mutato. Si può sapere cos’ha?

Quantunque ardita innanzi a me, Ortensia m’interrogava con un sorriso incerto; col dubbio manifesto che non le rivelerei il mio segreto, e col