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lungava or si rinvigoriva in una particolare dolcezza di timbro; in una soavità calda e tremula nelle vocali forti, che s’acuiva a una intonazione nitida se elevava o affrettava la parola o rideva. — Parla! — le dicevo, quasi per raccogliere quell’armonia nel cuore e non perderla mai più.
Ma alla prima gioia di rivederla e di riudirla, sottentrava dopo pochi minuti il cordoglio, la disperazione. E dovevo fingere, celarmi!...
Poi ebbi una nuova perplessità.
Perchè essa non era più mattiniera come una volta; tardava tanto a discendere?
Un mattino quell’attesa fu anche più lunga.
— Dorme Ortensia? — domandai a Mino, che scendeva le scale.
Mino portò l’indice al naso, perchè tacessi; corse in tinello e tornò con due bei grappoli d’uva: uno bianco e uno rosso.
— Glieli porto.... Come riderà a vederli quando si sveglia!— Si avviò; tornò indietro:
— Ne ho mangiata tanta anch’io! Ne vuoi, Sivori? — Io gli diedi un bacio. — Va’, va; portali a tua sorella!
Salì infatti, per discendere poco dopo e dirmi:
— A vederli s’è svegliata!
L’immaginavo nell’atto di spiccare le dolci grane, desiosa, gioconda, senza pensiero di me che l’aspettavo triste, solo, pensando a lei; la scorgevo riabbandonare il capo al cuscino, dipartire dalla fronte i capelli e guardare la striscia di cielo per le imposte socchiuse. Ricadeva, dopo la prima allegrezza, niella pigrizia piacevole che lascia il sonno non del tutto scosso dalla frescura del mattino di settembre, e appena appe-