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avanti la primavera di quest’altr’anno; così avrò tempo di spiegarmi anche con Moser. Va bene?
Gli strinsi la mano.
Forse un altro che ricordasse il proverbio «guardati da chi si dice uomo leale», un altro forse avrebbe sospettato un motivo recondito e oscuro alla condotta di Roveni; avrebbe potuto diffidare di lui appunto perchè egli aveva voluto dissipare ogni possibile equivoco.
Ma io! Io mi chiesi: «Se fossi davvero fratello di Ortensia potrei desiderare per mia sorella marito migliore?» La scienza mi suggeriva ch’egli era un uomo eletto per forza, equilibrio, sanità, saviezza, fede, predominio di sè e dominio della vita.
Che ero mai io al paragone di lui?... E Ortensia non saprebbe mai il mio sacrificio!
«Ah morire per te, sorellina!»
Essa non era rimasta ad attendermi; ma vedendomi tornare, mi aspettò presso il cancello. Non sorrise; non mi chiese di dove venivo. Disse:
— Porto l’elemosina a Giovannin. Quanti giorni ce e siamo dimenticati!
Allora sorrise; con l’ineffabile tristezza di un bel sogno dileguato. Poi disse:
— Gli dia qualche soldo anche lei, per domani, che è festa.
Come Ortensia, senza dir nulla, pose il cartoccio su le ginocchia del cieco, questi trattenne il suono dell’organetto e alzando quel suo volto, che l’improvvisa gioia illuminava accrescendo l’orrore delle pupille spente, esclamò:
— Ortensia di Claudio!
— Mi vuoi ancora bene, Giovannin?