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miravo e l’odiavo. Era il nemico che mi feriva a morte, e l’ammiravo e sentivo, più virile, la bramosia di misurare la mia, forza con la sua in un contrasto violento. Ma non dovevo; egli doveva restare il più forte! Pure, potevo dirgli: «Voi credete che io non abbia gli occhi? Gli altri per pettegolezzo, sapendovi nelle grazie di Moser, han conchiuso nella loro fantasia il vostro matrimonio, senza saper nulla in realtà. Io so, io ho visto quanto l’amate! Non dissimulate almeno con me: voi!»
E mi accostai sorridendo, coll’intenzione di domandargli:
— Dunque, è vero?
Ma subito, presso a lui, mi sentii a disagio.
Con tanta tranquillità mi guardava; era così fermo il suo volto, così saldo l’animo in quel volto, che la simulazione mi sembrò onesta in lui e disonesta, vergognosa, in me. Inoltre, di subito, giudicai inopportuna la dimanda che stavo per fare. Venendogli da me, la richiesta acquisterebbe troppa gravità e precipiterebbe l’evento temuto; la risoluzione che egli, per sue buone ragioni, ritardava.
Mi aspettò tranquillo dicendomi, quasi per risalutarmi:
— Dottore....
E dietro di me una voce, in tono di canzonatura, imitò quel saluto: — Dottore....; ingegnere....
Uno sdegno più forte di quello suscitato in me dal cavalier Fulgosi provai allora contro la Melvi; una smania di vendetta quasi fosse lei e lei sola colpevole del mio soffrire. Le chiesi, tra ironico e minaccioso: