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le figliole pervenivano all’età da marito. Perciò tacqui.

E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi d’improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo cuore.

Sì: la timida Marcella...., con Guido Learchi....

Mentre con Roveni ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano l’uno negli occhi dell’altra la propria felicità. Non ne mostravano meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere, ridere d’ironia. — Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei fare all’amore anch’io? — mi chiesi; e fissai Guido ridendo.

Egli venne da me rosso in faccia, con l’indice al naso:

— Zzz.... zitto, per carità!

— Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?

— Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla — rispose con voce dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi crudele chiamai Marcella:

— Debbo dar retta a Guido?

Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.

— Perché? che vuol dire?

— Debbo aiutarvi?