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— Facciamoci dir la sorte anche noi — propose Marcella. — Io acconsentivo; ma Ortensia: — No. Non voglio! non voglio profezie di sventure!

— Sciocchina, ci crederesti?

Non rispose alla sorella; tacita diede a me una di quelle occhiate che mi passavano sul cuore come su di una ferita un’acuta punta.

Più tardi, da una svolta venne verso di noi un uomo, che riconobbi da lungi, benchè a stento. Com’era deperito l’onesto Martino, il merciaiuolo ambulante, da poi che non l’avevo rivisto! Curvo, portava in ispalla un piccolo sacco e gli pendeva la bilancia dall’altro braccio.

— Come va, Martino?

— Ah! — fece egli in atto di chi è stato colpito da un’enorme disgrazia.

Marcella chiese:

— Vostra moglie?...

Ma egli si mostrò afflitto per ben altro che per la perdita della moglie! Allorché potè parlare, brontolò: — Mi è morto l’asino....

L’asino che io avevo invidiato era morto! Il ricordo mi fece sorridere. E Ortensia:

— Ecco il sorriso brutto...., che speravo non vedere mai più!

— Tu non sai il perchè sorrido. Sorrido perchè un giorno io mi confrontai all’asino di Martino; e c’è chi mi crede un grand’uomo!

A lei alludevo, che forse era stata indotta ad amarmi dall’opinione che i suoi avevan di me.

Proseguivo:

— Sorrido anche perchè, a mio scapito, un giorno io mi confrontai a Martino, che ora piange la