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be; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo per....
Io lo prevenni:
— Per aprir bottega!...
— Non è vita da cani questa?
A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava l’ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui invecchiava, gli era un’ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz’aver avuto mai nè donna né asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino, io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloriai la gloria!
Quanto all’asino.... Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l’asino che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:
— Solita vita, caro signore! — Tritar fieno e paglia, nel sacco che gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e scorticare il prato quando aveva erba fresca; d’estate arrostarsi dalle mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l’inverno; grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo alla polvere, con ragli e gamba all’aria; dare il buon giorno, in suo modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per