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di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, biacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.
— Questo? — domandava Guidò scegliendo, per l’esame di botanica, fra il mazzo.
Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:
— Euphrasia officinalis.
E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.
Finchè l’ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:
— Il babbo!
Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.
— Ben arrivato! Babbo, babbo!
Nè prima la carrozza s’arrestava al cancello, che già Moser era a terra d’un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d’un giorno d’assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.
— Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio? (a me) E Mino?
Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.
— Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi all’ombra, laggiù! Perde,