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giudicavo quest’apatia un semplice caso di «atonia della sfera psichica».

Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione della morte e, insieme, l’orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non osavo. Ma in me non c’era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione del nostro organismo in dissoluzione l’anima sopravvive....; e da quel tentativo di confermare con la scienza l’antica fede mi era rimasta l’apprensione dell’al di là. Ecco perchè non mi credevo semplicemente un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a varcare i limiti di ciò che si definì l’inconoscibile.

Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa vedere com’era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d’un’entità vaga e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose estensioni....

Eppoi.... Eppoi, tiriamo innanzi!