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rammarico che neppur lei, la mia «piccola amica» d’una volta, meriterebbe tal confidenza. Dubitava d’un mistero. E io, che non sapevo che dirle:

— Sono stanco — dissi; e la guardai in modo da toglierle il sospetto del mistero.

— Stanco fin di parlare?

— Sì....; non d’ascoltare, però. Parla tu.

— Santa pazienza! Parlare? Ma di che, con lei?

Frattanto siedè nell’erba e s’abbandonò non scomposta, reclinando il capo a un tronco, e chiese:

— Che debbo dirle? Su! presto!

Ma io non avevo ancora parlato ch’essa si rialzò d’un tratto a seder meglio.

E fermando al petto un grosso mazzo di margherite:

— È stanco anche dei fiori?

Non risposi.

Allora venne a pormi due margherite all’occhiello della giacca, mentre ripeteva: — Sivori non è più lui! non è più lui!

Ed io scossi le spalle, impaziente:

— Parla d’altro!

— Cosa debbo dirle? Andiamo!

— Raccontami della tua vita in città, quest’inverno. Andavi a scuola?

— A scuola io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!

Ne pareva meravigliata essa stessa.

— E ne sai abbastanza?

— Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi — siamo rimaste a Milano tre mesi — tutti i giorni quella seccatura! Io non ne azzeccavo una; le somme non tornava-