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che certo aveva qualche affare in paese. — Piuttosto, di’, Sivori (e mi susurrò all’orecchio): — Mi prendi a Milano?

Risposi sogguardando a Ortensia, quasi per mitigare con la mia dolcezza l’asprezza di lei.

— Volentieri, caro amico! Ma la difficoltà più grande è il permesso del babbo. Bisognerà trovare una buona ragione o una grossa bugia.

Il fanciullo meditò a lungo, finchè quasi sapesse che a me non era più difficile quel che ancora era difficile a lui:

— Dilla tu, Sivori, la bugia!

Intanto Ortensia raccomandava alla sorella; e alla madre: — Spicciatevi: se no, perderete la messa! — E a me: — Andiamo?

Appena ci fummo incamminati io vidi che dalla concitazione, dall’eccitazione di pocanzi il suo animo era caduto in una depressione angosciosa. Che battaglia aveva sostenuta, in sè stessa, per esser meco l’ultima volta! Certo non affidava più alcuna speranza a quella gita, ma voleva forse che io comprendessi il male che le avevo fatto, o comprendessi quant’era grande l’amore che io avevo ostinatamente respinto. Il dì innanzi aveva resistito in un proposito di fierezza: poi la passione doveva averla persuasa ch’era per lei maggior forza confessarmi tutto. Se non che ora, a ritrovarsi sola meco, non poteva nemmeno celare il panico che le incuteva il suo fermo proposito. Procedeva a capo chino, senza trovar parola. Tornava la giovinetta inesperta intimidita dalla stessa passione che le aveva data tanta forza. E io dopo la scena di pocanzi mi sentivo più colpevole: avevo io forse intristita quell’anima?