Pagina:In faccia al destino Adolfo Albertazzi.djvu/110


— 108 —

lattia dovevano ubbidire a lei. Io peggiorai; e allora fu per parecchi giorni una disperazione muta, continua. Non mangiava, non dormiva più, sempre al mo letto, e guai se il medico o Claudio o Marcella tentavano di confortarla. Ma se io morivo?

II discorso fu interrotto dal sopravvenire di Ortensia....

XII.

Però quelle parole di Eugenia m’impensierirono. Per la prima volta, dopo, esaminati la mia condotta meditai sugli obblighi che m’imponeva l’amicizia, dubitai che uno squallido e sordido egoismo mi trascinasse a colpa di cui un giorno la coscienza mi rimorderebbe. Egoista, io cercavo dall’affetto di Ortensia un benefizio assecondando in lei quelle tendenze che a giudicarle con senno e con lume d’esperienza erano dannose. Volendo dimenticar me stesso cercavo di veder lei spensierata, e volendo reprimere dentro di me un pessimismo mortale cercavo quella sua serenità a cui tutto appariva bello e buono.

Infelice, io traevo rimedio da lei consentendo a una felicità fuori della vita reale. Ma se io volevo bene davvero a Ortensia dovevo esentarla dai pericoli di una infelicità futura; dovevo predisporla agli urti della realtà, armarla contro le violenze del destino.

Eugenia aveva ragione. Il compito che la madre mi affidava, di contenere nella figliola le facoltà e le illusioni pericolose, diveniva per me