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A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato sufficiente ragione neppure l’invidia, se l’invidia fosse stata possibile in me.

— Che fa lei qui? — mi chiese Anna Melvi.

— Studio — risposi, per dir qualche cosa.

Mi fissò per un attimo e disse:

— Ne imparerà delle belle!

Avrei voluto pungerla ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:

— La mamma dorme. . . .

Vedesse! È queta queta.

Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.

— Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?

— Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco e nelle nuvole?

Terrà compagnia alla mamma?

Certo — risposi appena.

Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse: «Lei crede di comprendere tutto il bene ch’io voglio a mia madre. Ma io gliene voglio di più, molto di più!»

Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l’andare del dancing l’ingegnere venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora la mia attenzione quasi sperando da lei sola una