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In chi credere? in che cosa? L’altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto: «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»

Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d’un uomo roso da un morbo insanabile?

— Una sorella.... — mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. — Perchè Dio non vi ha dato una sorella?

Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.

— Cervellina! — le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. — Cervellina!

La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.

Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:

— Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive.