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savo del tutto le palpebre. Sognavo? No. Avevo in quest’affetto un legame alla vita; non era più un’illusione: per quest’affetto muterei in una operosità determinata e proficua l’attività del pensiero che male avevo usata in difficoltà insuperabili, rodenti ed estenuanti. La vita non sarebbe più per me una condanna; la morte non mi darebbe più un’apprensione continua; l’avvenire non m’era più pauroso, perchè non avevo più da sopportare danni e sventure senza che una voce mi dicesse: «sopporta se non per te, per me!» E mi sembrava che nel mio avvenire sorgesse, con novella aurora, il sole.

Intanto pioveva. Quando però la pioggia scemava, quasi snebbiasse, Ortensia correva a prendere l’immane preistorico ombrello di tela cerata verde, che sudavo a portare, e via, qua e là, quasi sempre non dove la strada era buona ma per strade fangose.

Immaginarsi la fatica! Le scarpe caricandosi di fango, diventavano grandi e pesanti come case; nondimeno bisognava ubbidire alla signorina.

Al terzo o quarto giorno di quel bel tempo, l’acqua cessò quasi per uno stacco improvviso; cadde un fascio di raggi tra il nuvolo. Ortensia gridò felice:

— Non piove più! Andiamo al Ponte del Crocefisso, a vedere la piena?

Io astrologavo.

— Tra poco ricomincia.

— No. Lei non se ne intende! Non vede che Monfalco è scoperto? «Monfalco senza cappello, fa bello, fa bello»!

— Ma l’ombrello non farà male.

— Le dico che non piove più! Sono pratica io!