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— Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell’asino. Avrei potuto andarmene già l’anno scorso. È vero che.... Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.

Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi.... Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato....

Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che....», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?

Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto — più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo — anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell’uomo. Notai, sì, ch’egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l’abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l’ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.

Proseguiva:

— Ho lottato sempre e non dispero di vincere. — Aggiunse: — Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?,

— Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra — risposi.

— La forza di volontà non basta! — ripigliò