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Via dunque senza, ombrello, alla volta del Ponte.

Ella provava la stessa gioia che traeva i passeri di sotto il tetto a litigare, a garrire e a bagnarsi, o forse delle piante e delle erbe che si asciugavano ricreate. Cadeva una luce pallida, che si sarebbe detta umida anch’essa a vederla sull’erboso velluto del clivo; finchè a levante trasparve, si colorì, si delineò, s’avvivò a un tratto, andò attenuandosi e scompare, l’arcobaleno.

— L’iride! — aveva esclamato Ortensia. — Glielo dicevo? Non pioverà più!

— È già sparito. Noi torneremo a casa molli fracidi.

Infatti da mezzodì avanzava una schiera d’altri nuvoloni, più neri, che avrebbero persuaso un eroe romano a tornare indietro e che invece attraevano alla meta la mia compagna. Ci arrivammo, come Dio volle, a osservar l’acqua torbida che passava gemebonda sotto il ponte, superava enormi massi alle rive, piegava i giunchi e le canne da cui l’oscura vôlta era invasa. Da lato, più gaia, chiara e spumeggiante, precipitava nel torrente l’acqua che un canaletto formato d’asse riceveva da un serbatoio in alto. La chiesuola a capo del ponte e a ridosso del monte, usciva candida dal verde folto e cupo, e dinanzi alla porta, più bassa, aveva un piccolo portico.

— È uno spettacolo stupendo! un paesaggio stupendo! — Ortensia ripeteva.

Io guardavo il cielo livido, plumbeo.

— Ortensia, ci siamo!

— Uhm! Comincio a crederlo anch’io! M’è caduto un gocciolone sul naso!

Ci rifugiammo, di corsa, là sotto il piccolo portico.

Albertazzi. Infaccia al destino. 8