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più raccolta e più cara, costringendoci a restar quasi sempre in casa.
Però anche lei, la sorellina, aveva vinto oramai. Era così ubbidiente, paziente, affettuosa! Io per lei sentivo rifluirmi nelle vene il sangue della salute, nè mi bisognava più uno sforzo di volontà a bandire dalla mente i pensieri maligni.
Mentre la pioggia or bruiva a pena a pena or squassava a dirotto, dalla poltrona ov’ero adagiato io sogguardavo, con le palpebre un po’ chine, alla cupa linea boschiva, in fondo, tutta velata sotto il cielo piovoso, e dinanzi, giù nel giardino, agli abeti densi, dall’innumeri braccia ad arco e dalle esili vette immote a ricever l’acqua, come Dio la mandava.
Ortensia leggeva. Non leggeva male; rilevava anzi agevolmente il senso e variava senza leziosaggine la bella voce, e di tratto in tratto s’arrestava, colpita.
— To’! Questo è vero! Questo è bello!
Ma talvolta non coglieva giusta la pronuncia di parole, o non poneva giusto l’accento tonico.
Correggerla era tempo perduto.
— Si dice così — avvertiva io. — E lei;
— Si dice così, ma io dico a mio modo; mi piace di più! E avanti impavida.
Sopravveniva Eugenia.
— Cerca Ortensia; cerca Ortensia.... Dov’è? con Sivori! Sempre con Sivori! Ma non vi stanca?
— Voi vedete.... Mi mette di buon umore.
— Non ditelo a lei, che è capace di vantarsene, la cervellina!
— Sì, mamma, che me ne vanto!
Quando non avevo voglia d’ascoltare, abbas-