Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 138 — |
Che giorno fu quello! Appena fui solo, mi parve ancora di precipitare nel considerar di nuovo la cosa incredibile e vera, ridicola e tremenda. O meglio, mi vidi in un labirinto angoscioso e senza uscita; mi vidi goffa vittima d’un mio proprio inganno e miserevole vittima d’incanni altrui; vidi come io — che odiavo la menzogna — d’allora in poi avrei dovuto mentire e come a me, stanco d’ogni finzione, sarebbe stato necessario nascondere segretamente, per tutti e per sempre, il mio errore, la mia colpa, la mia vergogna; vidi che per guarire d’un male, per cui non avevo cercato e trovato a rimedio la morte, ero caduto in un maggior male, onde avrei dovuto essere più forte e sarei stato più vile! o l’amavo!: questa la verità rivelata d’improvviso, a me stesso, quasi per uno strappo, dalla notizia che già Ortensia poteva essere amata da un altro; e non più da un ragazzo: da un uomo quale Roveni. Io avevo trentasette anni ormai; Ortensia diciassette; e l’amavo! Io avevo desiderato la morte, desideravo la morte; e amavo, io Ortensia! L’amavo come non avevo mai amato. E la coscienza del mio amore, della mia colpa, della mia demenza, del mio tradimento, della mia vergogna m’era venuta dal più torbido fondo della passione: la gelosia. Poteva esser vero che Roveni non l’amasse; ma; ad ogni modo ella non avrebbe dovuto essere amata da nessun altro che da me! Io già ingelosivo del suo avvenire!
E che sarebbe di mie se io non sapessi mentire e fingere? In che condizione mi mettevo con Claudio? con Eugenia? con la mia coscienza? Avvertendo la mia follia, avvertivo l’oscuro presentimento d’un delitto o di una tragica catastrofe,