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— Sono tutti nella terrazza.

— Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.

Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:

— Dunque dimani vi avremo in giardino?

Allora la mia voce ruppe l’incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.

— Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere....; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un’espiazione....

Scosse il capo.

— No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare.... Questa notte — proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l’apparenza del sogno — questa notte ho sognato che prendevo dall’armadio la biancheria, per darle aria, e che l’odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.

— Segno che siete guarita — dissi io freddamente —, ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.

L’ammonimento tolse da noi l’impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un’impressione di freddo, di silenzio e d’immobilità a guardare il lume di luna.