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Già m’immaginavo il delizioso turbamento di Ortensia, quando chiederei la sua mano.... E mi smarrivo così nell’ebbrezza della felicità nel sogno. Per quanto?... Viva, imperiosa, sicura, mi si affacciava d’un tratto la persona di Roveni. E balzavo, d’un tratto, nel confronto di me con Roveni; poichè dovevo anteporre, alla mia, la felicità d’Ortensia; considerare, come un fratello, s’essa sarebbe più felice o meno infelice sposando me o lui.... Che differenza! Egli era un forte, un conquistatore della vita, un uomo a cui la fede di sè e l’equilibrio di tutte le facoltà, davano in pugno l’avvenire. Io invece....: un caduto a stento risorto; un debole imbaldanzito dalla speranza e nel sogno; un infermo che a mala pena aveva ricuperato la salute.

Sì? Ero guarito? io? un uomo di trentasette anni che amava perdutamente una giovinetta minore di vent’anni?

Del tutto dissennato, piuttosto! Ridicola vittima di un amore quasi senile in confronto all’amore di Roveni; ridicolo più di un ragazzo....

Eccomi, dinanzi agli occhi, anche Pieruccio Fulgosi: magro e pallido, soffocato dal colletto e dall’amore e impalato a contemplar Ortensia; con quegli occhi imbambolati e il sorriso ebete allorchè io lo deridevo, o quando egli s’accostava timidamente a me per ingraziarsi: «Permette»; «scusi».... Egli soffriva, chè aveva tutti ostili, e l’incuranza di Ortensia gli acuiva lo spasimo di un amore senza speranza; dell’amore sublime che accende l’animo quando, nell’adolescenza, la vita conserva tuttavia il velo di un divino mistero e la lusinga di una felicità fatale; dell’amore che io avevo schernito vilmente. Ma io sof-