In faccia al destino/Parte Seconda
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PARTE SECONDA.
I.
Mi ero proposto di rimanere a lungo a Berlino, perchè ivi spendevo assai ed ero costretto a lavorar molto.
La moda mi aiutava a scrivere articoli o relazioni di pseudo-scienza per giornali e periodici non solo d’Italia; e per lo più volgevo in apparenze di sociologia facili osservazioni intorno la vita privata e pubblica della Germania. Allorchè qualche rivista, di quelle più gravi, mi impose argomenti più seriamente scientifici, fui obbligato a studiare «sul serio»....; e di tutto ciò, in fondo, ridevo amaramente. Però al disprezzo dell’opera seguiva in me un conforto anche maggiore di quel che dà il lavoro per sè solo; il conforto di una nuova energia che mi sosteneva quando mi sentivo più stanco. Era la coscienza di me stesso ricuperata; era un impulso di emulazione per cui, al solito, mi confrontavo a Roveni quasi a un ideal tipo di uomo temperato a una vita sana e potente. Roveni mi aveva creduto debole. Ebbene, ora io faticavo duramente per vivere e vivevo per vincere la mia passione.
Ma vincere? Tutto ciò che non era ricordo di Valdigorgo mi pareva fittizio, erroneo, falso; e rincasando ogni sera, nel silenzio dopo il tumulto, provavo l’impressione di un artista comico che si spogli degli abiti scenici per tornare alla vita vera; e con un abbandono, quasi violento, ai ricordi tornavo lassù.
Soffrivo in modo che m’era necessaria una speranza. Speravo appunto che quella mia condanna volontaria, quel mio esilio volontario, quel mio faticar volontario un dì o l’altro finirebbe; uscirei da quello stadio di prova; supererei la prova. Dopo, raccolte e ricomposte tutte le mie forze, ritemprato e tranquillato, io potrei rivederla, Ortensia; potrei risentirne la voce.... Oh se l’amavo ancora!
Più spesso che nei sogni, nella prima apprensione del sonno l’immagine di lei tornava a me, non dolente ma sorridente; così viva che sobbalzavo.... — Ortensia! Ortensia! — Avrei voluto chiamarla, la chiamavo a voce alta, come lassù....; ma io non udivo dentro di me la sua voce; non riuscivo a ricuperare nella memoria il timbro, il suono preciso della sua voce; ed era uno spasimo.
Una volta, a una festa dell’ambasciata italiana, stavo chiacchierando con un giornalista, quando egli, d’improvviso, mi vide impallidire e mi chiese:
— Che avete?
Avevo intravvista, agile e bionda, passare nella ressa, tra le signore, una giovinetta.... Le rassomigliava.
Volli esserle presentato.
Ma parlando perdetti il senso della somiglianza che avevo percepita; invano, invano cercai nella sua voce un accento solo della voce d’Ortensia, e mi allontanai desolato, pentito quasi di una colpa. E talora la dolce immagine m’appariva per i luoghi più tumultuosi, impensatamente; spariva tra la folla; mi lasciava doloroso come se mi fosse crudelmente strappata una parte di me dopo un istantaneo gaudio di tutto il mio essere.
Nè avevo un ritratto di Ortensia!
A me non era lecito possederne nemmeno il ritratto, mentre Roveni poteva vederla, udirne la voce ogni giorno. La lontananza e il tempo assopirebbero in cuore ad Ortensia il ricordo di me; a ragione alleandosi alla giovinezza, che in lei domanderebbe amore vivo e fervido, la persuaderebbe che io stesso l’esortavo a consentire a Roveni.
A’ poco a poco ella avrebbe nel cuore l’accensione della nuova e più vigorosa fiamma, non più contenuta....
Io l’avevo baciata sulla fronte: Roveni le carpirebbe sulle labbra il primo bacio, le prime ebbrezze....
A questo pensavo! Con che tormento, con che strazio! Era debolezza, questa? Ancora m’infliggevo lo strazio degli ultimi giorni di Valdigorgo preparandomi al giorno in cui apprenderei che Roveni aveva il diritto di possederla.... Volevo, dovevo dominare in me, così, la gelosia: Roveni possederebbe Ortensia interamente! E correvo al di là di quel mio soffrire, al di là di quel giorno forse non lontano per la felicità di Ortensia, cercando d’immaginare me stesso rassegnato, pacato nell’animo. Rivedrei Ortensia moglie e madre; potrei un giorno, senza rancore e pago della felicità di lei, accogliere tra le mie braccia i suoi figliuoli....
Era debolezza, questa?
In data 2 dicembre 1890, da Pavia ov’era all Università, Guido mi scrisse:
- Caro dottore,
Un po’ in ritardo ti do la notizia del mio patatrac! e della mia successiva felicità. Cominciando dal patatrac, esso avvenne un mese fa, per colpa di quel vecchio imbecille di Sansone, il cavallo di Moser, nonchè di Gigi il servitore.
Come sai, Gigi aveva molti obblighi verso di me, che gli prestavo lo schioppo e gli regalavo le cartucce per tirare ai beccafichi; e in compenso lui trasmetteva degl’innocenti bigliettini a Marcella.
Ma Gigi un brutto giorno lasciò inginocchiare Sansone. Se per causa del suo servitore, Moser si fosse rotta lui una gamba, non c’è dubbio che avrebbe perdonato subito. Invece, a vedere spelate le ginocchia dell’amato Sansone si arrabbiò, come sai che si arrabbia delle volte; e Gigi, per difendersi cominciò a dire insolenze, non al padrone, che le avrebbe perdonate, forse, ma al cavallo; e fu bell’e fatta! Gigi fu licenziato, e venne a sostituirlo un cretino, che al primo biglietto da consegnare a Marcella, si fece cogliere dalla signora Eugenia. Per fortuna, nel biglietto io (che avevo fatta una scappata a casa dopo gli esami) dicevo solo che presto dovrei tornare a Pavia all’università e che bisognava far buon uso del tempo; e pregavo Marcella di venirmi incontro per la strada. Apriti Cielo! Un biglietto! Un appuntamento! Come se fosse una gran cosa, una novità! La signora Eugenia cominciò ad aprir gli occhi a Moser e lui...: apriti. o terra!, spalancati, inferno!
Tu, Sivori, penserai che Moser si sia inquietato tanto perchè crede Marcella ancora una bambina o perchè io non sono ancora laureato. Niente affatto! Si è inquietato perchè è in rapporti d’affari con mio padre! Non è un bell’originale? Un altro direbbe: Essendo noi genitori in rapporti d’affari, tanto meglio se i nostri figli si vogliono bene! Si fa tutta una famiglia, e buona notte! Moser invece è andato in bestia appunto per ciò.
Ora tu t’immagini di vedermi piangere come un vitello; ma t’inganni!
Io rido, felice e contento; perchè l’ingegnere ha sgridato tanto; Marcella, poverina, ha pianto tanto; mia madre s’è mostrata così afflitta, che la signora Eugenia, ha dovuto riparare al mal fatto; e a poco a poco ha quietato il Cerbero numero uno. Figurati che adesso io vado a trovare Marcella a Milano (dove i Moser sono da quindici giorni) proprio come un fidanzato ufficiale! Ma c’è anche il Cerbero numero due; mio padre! A questo ci penserà mia madre, se vuole presto un nipotino in tutte le regole!
Non ho altro da dirti. Anna Melvi è spesso a Milano anche lei. Studia il canto per calcare le scene. Ortensia, nell’ultimo tempo che stettero lassù, era divenuta insopportabile.
Adesso accompagna Moser di qua e di là; ma io non dico che questo è un capriccio, per non farti dispiacere....
Nel suo giocondo egoismo, Guido non vedeva cosa d’importanza che non si riferisse al suo amore; non immaginava che impressione mi farebbe quella sola frase: «Ortensia era divenuta insopportabile».Dunque la tristezza di lei era cresciuta! La smania di divagamento, a cui Guido alludeva infine, non significava forse che ella si tormentava come me per dimenticare?
Approssimando l’anno nuovo, da Milano, Marcella ricambiò «a nome di tutti» i miei auguri; e a una mia domanda abbastanza, esplicita intorno a sua sorella, rispose così:
Di Ortensia cosa vuole che le dica? li ha sempre avuti, anche da bambina, i grilli per il capo, gli alti e bassi di buon e di cattivo umore, ma adesso! Si irrita per niente; e quando è triste, si vede proprio che soffre. E perchè? A Milano non ci voleva venire, e viceversa, a Valdigorgo si annoiava a morte; ma adesso vorrebbe tornar in campagna, con questo freschino! Quella linguaccia di Anna direbbe che stando a Milano Ortensia sì è innamorata di Roveni.... Ma io per Roveni ci spero poco! Quando partimmo egli le disse, in mia presenza, che coltivava una speranza....; essa finse di non capire. Cervellina sempre!
II.
Mi amava ancora? Era effetto di passion quel che a sua sorella e a sua madre sembrava difetto d’indole e di carattere? Se io mi rispondevo: — Sì, mi ama ancora — , ecco l’immaigine di Roveni che si affacciava a dirmi, come mi aveva detto alla fabbrica: «Fuori dei romanzi, nella realtà vera, non può resistere in una ragazza di neppur diciotto anni un amore che fu interrotto appena nato. Resiste in voi, spirito infermo!»
E mi adattavo a pensare che Ortensia soffrisse non per amore, ma per rancore, per l’amarezza della prima delusione, per l’abbandono in cui l’avevo lasciata. Non sempre però mi riposava questo pensiero; spesso anzi, per reazione, mi abbandonavo al ricordo di Ortensia con disperata voluttà e disperatamente godevo di quella mia passione come di un’elevazione sublime. S’acuiva allora in me l’intendimento delle più nobili facoltà dello spirito; mi pareva d’intender Dio. Ortensia, nell’aspetto di una giovinetta, era un’anima bella che aveva avvinta l’anima mia, a cui l’anima mia si era avvinta per sempre, contro ogni ritegno, ogni resistenza di pregiudizi e di piccoli doveri.
Stolto! Avevo creduto ingiusta quell’affinità di due anime per differenza d’età!; avevo misurato ad anni quel che è immortale!; avevo sacrificato a basse, convenienze la felicità di un amore trascendente la vita materiale e comune!
E una voce mi diceva: — Ortensia intende l’amore così!
Ah se avessi dato ascolto a quella voce!
III.
Finalmente venne la primavera; venne una lettera di Marcella. La poverina impiegava più pagine per dire soltanto che, essendo Roveni necessario alla fabbrica (poichè Moser aveva assunto una grande impresa edilizia a Novara), Roveni si era indotto a rimaner a Valdigorgo per un altro, anno; e che non molto dopo il loro ritorno da Milano a Valdigorgo una spiegazione era intervenuta tra Ortensia e lui. Alla esplicita dichiarazione dell’ingegnere Ortensia aveva risposto:
— Per adesso non ci penso, a maritarmi.
L’ingegnere anche stavolta non si era adontato; aveva detto tranquillamente: — Bene, bene!; ne riparleremo poi!
Indispettita, Marcella osservava:
Roveni tratta l’amore come un affare. Chi direbbe a vederlo che è innamorato davvero? Cosa fa per vincere la freddezza di Ortensia? Quando parlano insieme, parlano in un certo modo....; come se avessero paura di scottarsi! E che bei discorsi! Piove? Pioverà oggi?...
Altro commento facevo io: così amava quell’uomo!; con fermezza, con tenacia, con avvedutezza quali bisognavano a piegare una volontà, poco arrendevole. Nell’apparente freddezza o tranquillità, con che prudente ritegno di sè stesso conquisterebbe a poco a poco il cuore di Ortensia, che egli vedeva non ancora libero dal ricordo di me!
Nella stessa lettera la buona Marcella mi metteva presto una grande notizia. Questa me la diede Guido, indi a poco, e ci ragionava su da filosofo felice.
Suo padre s’era opposto al matrimonio.
— Se vuoi moglie pensa tu a mantenertela — diceva il padre. Ma la madre si era accordata con la signora Eugenia, che per Marcella aveva garantito una parte della sua propria dote, non potendo Moser compromettere allora, in alcun modo i suoi capitali....
E diceva Guido:
Se non ci fossero state tante questioni, il mio fidanzamento si sarebbe prolungato chi sa quanto! Le questioni invece hanno invelenito mio padre al punto che egli ha giurato di lasciarmi rompere il collo, come dice lui, senza curarsene; quindi mia madre, sempre più commossa, ha finito coll’assicurarmi che mi aiuterà lei di sottomano finchè sarò in grado da guadagnare come voi altri mediconi. Stando così le cose, perchè protrarre lo sposalizio? Maritandoci in estate, Moser avrà vicino per più mesi la figliuola e ne sentirà meno il distacco in seguito, quando io andrò a Milano a cercar clienti. Dunque, appena laureato....
Infatti in giugno ebbi l’annunzio che l’Italia aveva un medico di più e pochi giorni dopo ebbi la partecipazione che il mondo contava un marito e una moglie di più. Del resto, era felice anche Claudio; che trovò il tempo di raccontarmi a suo modo il lieto evento.
Per poco non aveva preso a revolverate quel traditore che gli portava via una delle sue «bambine». Ma s’era consolato a veder in Marcella ipso facto, «una bella sposa»; e invitava anche me ad ammirarla.... Aspettami, povero Moser!
IV.
Con che accorata nostalgia durante l’estate che m’ero condannato a trascorrere in terra straniera, ripensavo ai luoghi più grati alla mia memoria! Le fresche acque correnti ai lati delle vie; il Gorgo spumeggiante ai ponte del Crocifisso; l’erta e ombrosa strada di Paviglio; il colle boscoso dell’antico convento; la chiostra dei monti a sfondo del cielo nitido, quale era a riguardarla dal giardino fiorito della villa....; oh dolci e tristi visioni nella memoria dell’esule! E che amarezza rammentando ogni giorno le ore belle degli stessi giorni dell’anno innanzi; le ore passate con lei! Nulla più di meschino, di puerile, in quel mio passato: la lontananza di luogo e di tempo imponeva alla ricordanza tanta poesia! Provavo il compiacimento come di un’arrendevolezza generosa e gioiosa ripensando anche alla pazienza con cui consentivo ai giochi di Mino e Com’egli mi trattava da pari a pari, mi comandava saldo in gambe, impettito nel grembialone quasi in una corazza, con le braccia dimenate a misura dei passi; e il cappello di carta, e lo schioppo in ispalla.
Nè egli, Mino, si dimenticava degli amici, sebbene fosse divenuto un letterato.
Caro amico,
Come è bello quel bastimento a vapore che mi ai mandato, tutto il giorno io mi bagno nel fosso della lavandaia e faccio ràbiare un poco la mamma ma voglio fare il marinaio.
È stato un gran regalone e adesso ti sono proprio affezzionato. I miei genitori sono stizziti con te perchè non vieni a Valdigorgo specialmente il babbo che mi comprerà un cavallino vero di carne, perchè sono passato all’esame.
Anch’io sono instizzito micca con te, con Ortensia che è cattiva, ma non dirlo alla mamma, non mi racconta più delle favole vere, di uomini, non ne voglio di bestie. Se tu non vieni mandami delle favole di uomini, ma spero che verrai e ti aspeto giorno per giorno.
Mino.
Ti ringrazio tanto tanto. Scusami degli sgarabocchi....
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Povero Sivori! che cosa vi toccherà mai di leggere? Io non debbo saperlo, perchè Mino non vuole, ma approfitto della sua bella lettera (non so se l’abbia scritta con la complicità di Marcella) per mandarvi saluti cordiali. Noi stiamo bene. Fateci un’improvvisata, Sivori!
Eugenia.
Mino mi scrisse così con la complicità di Marcella; non di Ortensia. Ortensia era cattiva.
Sì: non mi scriveva lei! E anche i nuovi coniugi Learchi avevan pensiero d’altro che di me! Silenzio di tutti fino all anno nuovo. Poi, all’anno nuovo, Eugenia, prevenne i miei auguri inviandomi auguri per tutti loro; Eugenia, non Ortensia!; ed Eugenia prevenendo a scrivermi cercò forse evitare mie domande, cui le sarebbe stato difficile rispondere....
Forse...., forse....; forse....: per quanto tempo ancora la mia vita si atterrebbe su questo dubbioso termine? Per quanto tempo ancora?
Quattro mesi dopo (aprile del 1892) Guido mi annunciava che egli era padre, il più felice dei padri. Aggiungeva: Quando Marcella si sarà riposata (perchè dar un nipotino a Moser le è costato più fatica che dargli le solite pantofole) ti racconterà lei con che sorta di no senza attenuanti Ortensia ha risposto alla definitiva richiesta di Roveni.
Come rimasi a legger queste parole!
Ortensia aveva risposto no!... Un no «senza attenuanti» alla definitiva richiesta di Roveni!...
Il bello è — seguitava allegramente Guido — , il bello è che costui ha preso licenza da Moser, ma solo per la fine dell’anno. Capisci? Dopo un tal no ha il coraggio di restar a Valdigorgo anche altri otto mesi! Comincio a credere che il padrone del mondo, a cui basta battere il piede in terra per aver impieghi, non sappia dove batter la testa per trovarne uno. Punf! Paf! Paf! Punf! A Valdigorgo, dopo tutto, non ci si sta male anche senza Ortensia; e se un affare è andato male, ci si può rimediare con un altro. Forse spera anche lui nella società che Moser è ormai costretto a costituire.
Non attesi il racconto di Marcella. Scrissi a Eugenia chiedendo a dirittura se le sue speranze di un tempo intorno a Roveni erano mancate, come Guido mi lasciava credere.
Candidamente Eugenia mi rispose che Ortensia aveva consultato il suo cuore e aveva confessato di non poter promettere a Roveni, nè allora nè poi, l’affetto che rendesse felici entrambi.
A me mi è dispiaciuto perchè di Roveni ho la stessa opinione che avete voi, ma meglio questa franchezza di Ortensia adesso, che un pentimento dopo. Roveni mi par rassegnato. Solo desidera che Claudio non sappia nulla di tutto questo.
E quando Marcella si fece viva, non aggiunse altro che Ortensia era stata troppo rude con Roveni.
Ma, francamente! la colpa è anche di lui. Non si fa così a innamorare le ragazze! Troppa sicurezza; troppa aria di padronanza! Figurarsi se una ragazza come Ortensia poteva innamorarsi per ubbidienza!
V.
Amando Ortensia di tanta passione avrei dovuto correr subito a lei, dopo la notizia che essa aveva respinto Roveni?
Sì, fu un errore non dar retta al consiglio che la passione mi dava; ma questo fu conseguenza di un errore più grande: il più grande errore della mia vita; un errore enorme, che solo una mente ottenebrata da pregiudizi più dannosi di qualsiasi malattia poteva commettere.
Nel concetto che m’ero fatto di Roveni avevo errato ed erravo così! E per me allora erravano invece tutti gli altri: Guido, Marcella, Eugenia.
Guido si meravigliava che l’ingegnere restasse a Valdigorgo dopo lo scacco che gli era toccato e non ci scorgeva altra ragione che l’interesse: io credei fermamente che Roveni non fosse rassegnato, come diceva Eugenia, e che respinto da Ortensia, non si tenesse ancora per sconfitto e sperasse ancora di piegarla restando a Valdigorgo per altri otto mesi.
Marcella non si meravigliava del no di Ortensia, perchè l’ingegnere, secondo lei, l’aveva sdegnata con i suoi modi; perchè egli non aveva saputo usar le affettature e le delicature di una educazione molle, o gl’inchini, i complimenti, le adulazioni dei frivoli corteggiatori: io pensavo che sotto la scorza dell’uomo positivo Ortensia avesse ben inteso un amore forte e tenace e che con le mezze parole, le espressioni rudi, le occhiate e i silenzi, Roveni le si fosse manifestato meglio che con i sospiri e i languidi discorsi. Non perciò le era divenuto antipatico! Essa non aveva ancor potuto dimenticarmi del tutto e forse si attendeva di rivedermi nel prossimo estate: da ciò la sua ripulsa.
Ma io non andrei; non dovevo tornare a Valdigorgo prima della fine dell’anno, se davvero temevo ch’ella perdesse per causa mia un felice avvenire! E che accadrebbe? Forse Ortensia farebbe tra me e Roveni un nuovo confronto: io dimostravo di averla abbandonata per sempre; egli, il rude e freddo Roveni, non si rassegnava ad abbandonarla: sperava, di superar la volontà di lei e di meritar affetto e gratitudine per tanta costanza. Le nature volontarie amano le nature volontarie. Forse Roveni vincerebbe.
Se poi tornasse vero quel che pensava Eugenia: «Quando Ortensia ha detto no, è no»...., oh allora!... Allora ogni ritegno cederebbe alla volontà di Ortensia e il nostro amore basterebbe alla sua e alla mia vita!
Vedete se speravo anch’io! Era una speranza che mi pareva or ragionevole, or folle; un’ansietà che durerebbe mesi e mesi, sino alla fine dell’anno.
A un nuovo invito di Claudio, nel giugno, risposi che non potevo allontanarmi da Berlino, perchè mi ero messo a esercitar la medicina. Ed era vero; e faticavo non senza fortuna. Ma chi osservando con quale intensità e alacrità partecipavo ora alla vita, avrebbe mai immaginato quanto io ero, stato infermo un tempo e quanto affanno avevo nel cuore?
Amavo la vita, ora; ne compiangievo le sofferenze; in esse mi ritempravo. Speravo.
Venne finalmente il termine imposto alla lunga perplessità e alla liberazionie — quale si fosse — della schiavitù di me a me stesso.
Ma alla fine dell’anno non ebbi alcuna notizia; solo un biglietto di Eugenia col solo nome: imuto. Perchè mai? Scrissi a Guido; nessuna risposta. Che era successo? Pazientai per tutto il gennaio.
Quando un giorno, gettando a caso lo sguardo su la rubrica finanziaria di un giornale italiano — un giornale di parecchi dì innanzi....
Che freddo mi corsie per tutti i nervi!: come a un colpo mortale! Rimasi un istante stordito, con lo smarrimento in cui la mente cade alla rivelazione di un fatto terribile che si sarebbe dovuto prevedere. Poi rilessi:
C. Moser, fabbrica di laterizi, Valdigorgo. — Ha chiesto la moratoria.
Ma era una grande sventura! Claudio era rovinato! Un presentimento certo rispondeva adesso in me al presentimento oscuro di due anni e mezzo avanti, quando avevo detto a Ortensia: «Se mai la sventura passerà sul tuo capo....» Claudio, i suoi, pativan già tutte le angosce di un rovescio di fortuna!
Che potevo, dovevo fare? Quel che Claudio avrebbe fatto per me se mi avesse saputo in disgrazia. Oh! forse già Ortensia aveva pensato: — Sivori ci abbandonerà anche lui! — ; forse aveva già detto alla, madre: — Sivori vi abbandonerà anche voi!
Partire, subito!
Partii, infatti, quella sera stessa, perchè a casa trovai una lettera di Guido che accresceva i miei timori: Moser invano aveva chiesto la moratoria; era stato inevitabile il fallimento.
Ma perchè solo allora, mentre rileggevo la lettera di Guido, sembrò squarciarsi il velo che mi aveva ottenebrata la conoscenza? Perchè Roveni ricorse al mio pensiero e la figura di lui vi balzò, da un repentino sospetto, in una realtà che lo trasformava?
Lo vidi innanzi a me saldo nella persona: ma era saldezza ostentata; con gli occhi bianchi e freddi intenti a uno scopo: ma eran pieni di simulazione e falso ne era lo scopo; serio: ma non rideva, essendo tristi coloro che non ridono o ridon male.
Lo rividi, allora soltanto, nell’attitudine sospettosa del dì che andammo alle Grotte; nella franchezza equivoca dell’ultimo giorno che gli parlai alla fabbrica....
Perchè solo a legger quella lettera di Guido, e solo allora dubitai di essermi ingannato intorno a quell’uomo? M’ero ingannato davvero?
Mi parve di veder anche Ortensia. Chinava il capo sul petto della madre e ne confortava il dolore con un male in sè, nel suo cuore, più grande del male che confortava: il male che le avevo fatto io.
VI.
Quel triste giorno di febbraio era sull’imbrunire quando io sonavo all’uscio del dottor Guido Learchi in via Manzoni, a Milano. Una voce di donna e una voce infantile dicevano forte: — Il babbo! — Ba-bo! — e la cameriera, aprendo, rimase stupita come il bambino che aveva in braccio a veder me invece del padrone.
— Il signor dottore?
— Tarderà poco....
— La signora...?
La signora mi corse incontro, sorpresa e commossa.
— Sivori! che miracolo! che fortuna!
— Marcella.... — Anch’io non trovavo parole.
— .. .. E Guido?
— Tarderà poco. Come resterà a vederla!
Eravamo appena nella linda cameretta da desinare (ove già dalla tavola fumava la zuppiera) che Guido arrivava tutto rubicondo, con tale confusione di, piacere che si dimenticò di darmi del tu.
— Lei!... Sivori! — Ci gettammo l’uno nelle braccia dell’altro.
— Hai fatto benissimo, Sivori, a arrivarci addosso così all’improvviso! — proseguì Guido rimettendosi. — Io l’ho sempre pensato che se non cascava il mondo tu, un giorno o l’altro, ci avresti sorpresi, me e Marcella, con un rampollo degno di noi, proprio a quest’ora: all’ora di desinare! — Egli rideva di gran gusto; e mi obbligò a sedere a tavola. — Ci raccontierai poi della tua vita a Berlino.... Prima mangia, mangia come me.... Io non ho nessuna vittima su la coscienza, oggi! — E aggiunse facendo boccaccia: — Purtroppo!
Si sarebbe detto l’uomo più contento del mondo se tra l’una e l’altra delle primie cucchiaiate non mi avesse fatto un furtivo cenno d’occhio e di bocca che significava: «brutta storia!» Io, per non lasciar scorgere a Marcella tutta, la mia ansietà, accarezzavo il bambinone, che mi guardava torvo dalle braccia della madre.
— Su! da bravo! — l’esortava Marcella. — Non guardarlo in questo modo.... È l’amico dello zio Mino!
— Un amico ormai vecchio — dissi.
— Ma stai bene — Guido osservava.
— E tu che omone! I baffi però non sono troppo folti! (non erano più visibili d’una volta nella faccia canonicale) E voi, Marcella, che bella mamma!
Dalla maternità aveva acquistato una più bella pienezza di forme. Ma i suoi occhi miti non celavano l’intima cura.
— Ah sì! — ella mormorò.
— Saremmo felici, se.... Lei sa, è vero?
Assentii senza dir nulla. Guido interloquì di corsa:
— Abbiamo la nostra croce, ora; ma ce la leveremo presto d’addosso! Diavolo! Mio suocero non è uomo da avvilirsi se la macchina gli è uscita all’improvviso di rotaia! Riparerà; rimedierà.... — E vòlto alla moglie: — Le notizie sono buone, sta tranquilla! Vogliamo desinare in pace e quiete.
— Ma il babbo oggi non è venuto da noi, come aveva detto.
— Eh! Se non è venuto oggi, verrà dimani! Benedette donne! Sempre pensare al peggio.... Per fortuna. Bebe somiglia a me! Guarda, Sivori, come ride.... Bòoo! — gli faceva il padre; e il bimbo si mise a ridere d’un riso istantaneo, quasi d’un tratto gli cadesse ogni diffidenza e la mia immagine gli divenisse gioconda a udire il mio nome.
— Ti....vovi — si provò a dire.
— Bevi, Tivovi, e raccontaci qualche cosa di Berlino — disse Guido. Ma anch’egli mangiando e bevendo in fretta e tirandosi i baffi, che non aveva, non dissimulava abbastanza il desiderio di trovarsi solo con me.
Poichè io ebbi date mie notizie e trovato un pretesto alla mia partenza da Berlino, Guido cominciò a scimiottare il cavalier Fulgosi e a inventar su di lui aneddoti scandalosetti.
— Ma Guido! ma Guido! — Invano Marcella cercava trattenere il narratore! per la lubrica china.
A un certo punto, chiesi:
— Che fa Anna Melvi?
— Anna studia il canto e impara dal cavaliere le regole dell’alta coquetterie, perchè il cavaliere vuol lanciarla lui, tra le quinte. Le irregolarità Anna le sa da un pezzo: gliele insegnarono Roveni e Minguzzi.
Fu la sola volta che, presente la moglie, a Guido scappò di bocca il nome di Roveni; a udir il quale apparve una fugace impressione avversa nel soave volto di Marcella.
Essa intanto ripeteva: — Non gli dia retta! non è vero niente!
— E verissimo! Il cavaliere dava lezioni a Anna in casa, sua, in casa della sua signora. Ma l’altro giorno egli osò.... permettere: ad Anna di stirargli un baffo, e apriti Cielo! La signora Fulgosi (Guido ne imitava le smorfie) giurò che se Anna tornava in casa sua, d’una gentildonna come lei, la lancerebbe anche lei: ma dalla; finestra!
— E Pieruccio?
— Tra pochi mesi Milano lo vedrà ufficiale. Sarà uno spavento in Galleria! Guido s’alzò per contraffare il tenente Fulgosi a passeggio in Galleria.
E il marmocchio faceva risatine e si provava di nuovo a dire: — Tivovi. — Finché egli cominciò a nicchiare; eppoi, a pena in braccio alla cameriera, a piangere.
Marcella si alzò per portarlo a dormire.
— Dunque Moser?... — chiesi subito a Guido.
— Non c’è che direi Moser è in cattive acque!
— Ma scorgendomi addolorato. Guidò cercò attenuare — Io però domando e dico: c’è proprio da disperarsi? da avvilirsi? da sospirare come fa Marcella? piangere? Benedetta donna! Non capisce che i lagni e i sospiri a me mi vanno alla testa, e che se debbo pensare sempre a lei non posso, di coscienza, esercitare la professione!
Una risata; indi riprese:
— Siamo giusti! Quanti non sono gl’industriali che falliscono? Invece son pochi quelli che, come Moser, offrono il 60 per cento ai creditori. Mio suocero sarà stato un pasticcione....
Volli protestare.
— Galantuomo sì; ma pasticcione! Galantuomo sì; ma minchione! Un altro avrebbe intestato i beni nella moglie per mettersi al sicuro.... Lui, no. Così tutto andrà venduto....
— Tutto? — esclamai a questo, ch’era il colpo più forte.
Guido, indovinando il mio pensiero recondito, confermò:
— Anche la villa....; per dare il 60 per cento ai creditori.
Anche la villa! Impossibile! Perdere il luogo di dove egli, Claudio, attingeva l’energia della sua vita? dove soltanto egli trovava conforto e riposo? E Ortensia? Staccarla di là, Ortensia!...
— Il guaio più grande non è questo — proseguì l’amico, che nel suo egoismo e ottimismo pensava prima di tutto a sè stesso. — Il guaio più grande sai qual è? Mio piadre è rimasto scottato più di tutti ed è feroce anche contro di me e Marcella. Ne abbiamo una bella colpa noi se Moser l’ha ingannato!
— Moser — protestai di nuovo — ingannare? Eh via! La buona fede di Claudio è al di sopra d’ogni sospetto.
— Concedo — rispose Guido. — Ma con l’affare di Novara, l’anno scorso, mio suocero lusingò troppo mio padre; e mio padre ha fatto la figura d’imbecille a credergli. L’affare invece era magro; e crac!... Dicono che si sarebbe potuto aggiustare ogni cosa con la società....
A questo punto l’amico ristette d’improvviso, come chi s’accorge di correre a un inciampo.
— Perchè non si è fatto la società?
— Eh! i creditori ne son stati dissuasi da Roveni, sembra.... Dico sembra perchè è tutto un pasticcio! Roveni sarebbe creditore anche lui di Moser, ma, viceversa, avrebbe cercato lui il suo proprio danno.... Perchè? Ci capisci niente, tu?
— Forse.... per vendicarsi di Ortensia?
Allora Guido non si sforzò più a dissimulare.
— Uhim!; forse il no di Ortensia gli brucia più del danno. Punf! paf! Ortensia ha fatto male a urtarlo, il padrone del mondo!
Io tacevo. Pensavo se mi fossi ingannato interamente giudicar bene Roveni, o se piuttosto un uomo di tal tempra si fosse mutato di bene in male per l’ostacolo che aveva incontrato, più forte della sua volontà e della sua forza.
Guido continuò:
— Basta! Speriamo ancora che i creditori si accomodino; che Roveni non s’opponga....; ma per me, io vorrei prima di tutto che Marcella rassomigliasse un po’ meno a.... sua madre; prendesse un po’ il mondo come viene.... Bevi, Sivori!
— E Ortensia?
Avevo compreso nel pensiero di Leearchi che il termine di confronto a Marcella era stato Ortensia, non la madre.
Ortensia, venuta pochi dì innanzi a Milano con Claudio, aveva rimproverato Marcella di non saper piegare il suocero al concordato dei creditori....
(Anche Learchi padre, dunque, ci si opponeva!)
— Una scena, mio caro! Marcella ha pianto tanto! Ma, francamente, quella ragazza è così apprensiva, così.... fantastica! Esagera tutto.... Uf! Non nego, io, che debban essere in angustie, lassù! Ma.... Siam sempre lì; che ci si guadagna ad angustiarsi?... Bevi, Sivori!
Invece di bere io chiedevo altre spiegazioni. — Se andassi tu a Valdigorgo? — disse Guido. — Ti chiariresti di tutto; faresti bene; li consoleresti.
Marcella rientrava; e il marito, a voce alta, perchè ella non si adombrasse, die’ una svolta al discorso.
— Anche in commercio ci vuol fortuna! Ecco tutto! Come in medicina. Vedi? io non conosco medico più sfortunato di me! I miei clienti si spiccian tutti in pochi giorni: o di là o di qua; a gran velocità guariscono o muoiono. Merito mio?
Ma che! Io anzi avrei bisogno di quie bei casi che durano mesi e mesi; non tanto per imparare, s’intende, quanto per diminuire i sospiri e i vaglia di mia madre. Eppure, sfortunato come sono, non mi dispero io!
....Esortai Marcella ad ascoltare la sana filosofia di suo marito e le promisi che l’indomani sarei andato a Valdigorgo. Marcella mi ringraziò più con gli occhi che con le parole.
VII.
Mentre la carrozzella mi trasportava dalla stazione di Valdigorgo a Villa Moser, poco dopo il meriggio, io cercavo prepararmi al penoso incontro con Claudio e all’incontro desiderato e temuto con Ortensia.
Dagl’ingarbugliati discorsi di Gruido non avevo chiaramente compreso quel che potessi fare a pro di Moser; tuttavia avevo inteso abbastanza da rammaricarmi di non esser ricco e di non poter rendere il mio intervento ben più profittevole. Se io avessi consumati gli anni migliori della mia giovinezza a guadagnare, Claudio ora non sarebbe stato alla mercè di amici venali! Invece ero vissuto quasi soltanto con il reddito del podere de’ miei vecchi, affittato al Biondo; uomo onesto ma non abile forse a trar dalla terra tutto il frutto che poteva dare. Vendendo quel po’ di roba, che mi resterebbe? La professione che avevo non curata sempre; ripresa da poco per disperazione o per necessità! Immaginare se Claudio permetterebbe simile rinuncia!
Ma al pensiero di Ortensia cedeva ogni difficoltà:
per risparmiarle dolore affronterei anche la miseria, con o senza il permesso di Claudio!
La strada dilungava cinerea sotto il cielo caliginoso; non incontravamo che qualche birocciaio intabarrato fino al mento.
Nei campi non c’era neve; appariva scoperto il tenero e pallido verde del grano tra gli alberi scheletriti. Lembi di neve restavano qua e là sul dosso dei monti, svelati solo di tratto in tratto; e la nebbia fumava contro le oscure moli con pigre volute. Le case dei contadini, chiuse, deserte, parevano avvolte nel freddo. D’improvviso, in quella solitudine di morte, proruppero da un’aia e corsero alla strada, alcune grida di gioia e risate. Eran poveri ragazzi mascherati con maschere di carta e cenciose sottane di donna. E rammentai che eravamo agli ultimi giorni di carnevale, e mi si riempiron gli occhi di lagrime. Quella gaiezza puerile, quasi insorgente a dispetto dello squallore e della tristezza che desolavan la campagna tutt’intorno, mi rattristò più che se avessi intravvisto un fastoso spettacolo di gioia, perchè riebbi nella memoria il contrasto d’altre grida gioiose e d’altre risate: di giorni pieni di sole e lieti di verde e di fiori, quando Ortensia era ragazzetta felice...., lassù.
Come la rivedrei ora?
Con che palpiti scorsi, da lungi, la villa! Un raggio di sole finalmente aveva rotto la nebbia proprio là perchè io la vedessi da lungi!
Ma quando arrivai mi sorprese che nessuno si facesse vivo. Mi era Immaginato di vedermi subito accolto da Claudio, da Ortensia: invece un nuovo e umile servo tardò a venire al cancello.
Ecco un primo contrattempo: Moser non c’era; era partito la mattina per Milano.
— La signora? La signorina?
A stento il servo acconsentì a introdurmi nella bella sala a terreno; ora gelida. Ma tra la cima degli abeti il sole riapparve, dalle vetriate, nel giardino.... E d’improvviso una delle porte laterali s’aperse: Eugenia.
— Lo sapevo che Sivori non ci avrebbe abbandonati! — Furono queste le sue prime parole. Io, per prima cosa, mi avvidi che quella donna così patita e debole nell’aspetto, con molti capelli bianchi, con le guance scarne, conservava e manifestava negli occhi una meravigliosa forza; la fede le diceva: «Devi sopportare e soffrire; e ne avrai bene per te e per i tuoi!»
— Voi non ci avete abbandonati nella sventura — ripetè; e mentre io stringevo e tenevo stretta nella mia la sua mano, aggiunse, chinando gli occhi:
— Una sventura forse irreparabile....
— Non lo credo. Si riparerà; supereremo questa prova!
Tal sicurezza di parola e d’intenzione in me fece rialzare lo sguardo d’Eugenia; schiarì il suo volto, quasi s’accendesse di una nuova speranza non solo ma si compiacesse dell’energia nuova che io dimostravo. Proseguii lamentando di non aver trovato Claudio.
— Vi siete incontrati per viaggio.
— Mino?... Ortensia?
— Mino è a scuola in paese; Ortensia è già avvertita: ora scende.
Per vincere e dissimulare l’impazienza narrai della mia visita a Marcella e a Guido, e affrettai dimande su quanto era accaduto.
La signora mi riferì che il più ostinato avversario al concordato dei creditori era il vecchio Learchi. Conoscendo bene costui, ormai Claudio non sperava più che nessuna, cosa o ragione riuscisse a smuoverlo: era irremovibile, più che per altro, per il rancore del danno patito.
Lei, la povera Eugenia appunto perchè persuasa essa stessa che nulla valevano su Learchi le buone ragioni, era afflitta del non trovare nessuno, non un amico, non un congiunto, il quale piegasse quell’uomo toccandogli il cuore.
— Il male è che tanta cocciutaggine gl’impedisce, a Learchi, di vedere qual è veramente il suo interesse. Se non si fa il concordato, perderà tutto; se si fa, non perderà che una parte del suo credito.
Io chiesi:
— Siete ’certa di questo?
— Claudio e il curatore ne sono convinti.
Dunque all’ostinazione di un uomo così esoso doveva esserci un incitamento segreto; qualche ocosa o qualcuno l’acciecava! Dimandai anche:
— Ed è vero che la disgrazia si sarebbe evitata se Learchi avesse consentito a comporre la società?
— E vero.
— Chi l’ha acciecato, dunque? — esclamai. Eugenia intese a chi alludevo, ma scosse il capo.
Io insistetti apertamente:
— Roveni?
— No, non credo che arrivi a questo punto. Learchi è acciecato dalla rabbia; non ha più fiducia in nessuno....
Forse la buona donna difendendo Roveni difendeva Ortensia?
E Ortensia tardava. Perchè tardava così? Non avrebbe dovuto accorrere come per un’attesa improvvisamente interrotta e non delusa? Non le avevo io detto che sarei tornato a lei il giorno della sventura?
— Però al dire di Guido — io ripresi — anche Roveni è stato od è ingrato con chi gli ha fatto del bene.
— Purtroppo anche lui ci è diventato nemico, per interesse; non per altro. Sarebbe una cattiveria troppo grande! Sapete che colpa fa a Claudio? Claudio si teneva certo che si farebbe la società, e un giorno che aveva un pagamento urgente, non potè rifiutare una somma che Roveni stesso gli propose. Ma il progetto della società andò a monte; e Roveni adesso dice che Claudio l’ingannò.
— Di quanto è creditore, Roveni?
— Duemila lire.
Povera Eugenia! Non altra ragione per lei aveva l’odio dell’ingegnere! Ma io, che tanta stima avevo avuta di lui un tempo, io ora pensai che per un meditato fine di vendetta egli doveva aver proposta la piccola somma. a Claudio.
In quel punto la porta laterale fu riapierta d’impeto. Ortensia s’arrestò su la soglia quasi pentita di un errore, quasi cessassie d’un tratto lo sforzo che l’aveva spinta di corsa fin là. Un istante; poi s’avanzò risoluta verso di me, che le andavo incontro.
— Come sta?
Non risposi. Ogni mia dissimulazione cadde; non potei nasconderle la violenza del mio cuore. E le sue labbra tremavano e il color roseo che le era corso alle guance disparve. Imbarazzata al mio imbarazzo. Ortensia attendeva ansiosamente che io togliessi lei pure di pena. Il pensiero che Eugenia ci guardava, mi sospinse; mormorai:
— Cara Ortensia!
— Questa bambina è forte — Eugenia disse mentre ci riaccostavamo a lei; e la trasse a sè e ne raccolse il capo sul petto a mo’ di una volta. Ma quando rialzò il viso, Ortensia mi apparve spaventosamente pallida; la vidi mordersi le labbra prima di parlare, per contenere la commozione; e parlando fissò su di me uno sguardò profondo. Io non mi sentii mai così debole come in quegli istanti, sotto quello sguardo prepotente. Non era un’accusa; era una condanna!
— Glielo dica anche; lei, Sivori, alla mamma, che non bisogna affliggersi tanto. Piangere perchè non siamo più ricchi! Non è una sciocchezza? — Anche nel tono della voce c’era un’acerbità, un’asprezza, quasi ostile. E un velo oscurò quel fervido sguardo. Non era in lei la semplice concitazione del parlare; non era più la commozione protratta dal rivedermi: l’agitava un’eccitazione nervosa; si premeva con una mano al cuore.
Risposi ricuperando del tutto me stesso e rivolgendomi a Eugenia:
— Le cose non sono certo al punto che il timore vi fa vedere e che io non vedo. Moser è tal uomo che in ogni caso saprà riparare. Intanto la stima dei buoni sarà cresciuta per lui.
— I buoni? — Ortensia esclamò stupita di udir questo da me. Con sguardo di nuovo ardente, iroso, aggiunse: — Oh dove sono i buoni? — Poi sorrise di un sorriso che io ben conosceva, che avevo sol visto fugacemente sulle sue labbra, e che ora v’insisteva: il mio sorriso d’una volta!
— Un amico buono è qui — disse la madre.
A che la figliola, sforzandosi a non ripetere quel sorriso:
— Un’eccezione! La sola. Ma gli altri! Cattivi; tutti cattivi, perfidi, vili! — Aumentava ad ogni frase, ad ogni parola la concitazione violenta. — Si divertono a tormentar mio padre coi rimproveri, con le accuse, coi consigli! Ci compiangono! Oh la compassione di certa gente che male fa! ipocriti!: godono del nostro male; ne sono felici; e ci compiangono!
— No Ortensia.... — mormorava Eugenia invano.
— E le promesse? «Vedremo; cercheremo; chi sa?; bisogna sperare!»; eppoi nulla. Non è un’agonia questa? Non sono atroci questi alti e bassi? Ora tutto piano, tutto liscio, tutto accomodato; ora tutto a monte, tutto perduto! L’ostacolo che pareva piccolo diventa enorme; una difficoltà da nulla diventa, un disastro! E tutti dicono, l’uno dell’altro: — Io vorrei aiutarlo quel disgraziato, ma non posso, e chi può non vuole. — Non è un martirio? C’è da impazzire! Lo dica lei, Sivori, alla mamma ch’è meglio finirla, uscirne una volta, a qualunque costo!
Indovinavo che Ortensia, senza più speranza, cercava il mio aiuto per preparare la madre all’ultimo crollo. Io riflettevo. Ma nello stesso tempo, e pur così turbata, come Ortensia mi pareva bella! I capelli, sfuggenti al grosso pettine e diffusi, eran sollevati sulla fronte e la fronte bianca aveva un lume che non aveva avuto mai; il pallido viso dall’ovale perfetto aveva un lume che non aveva avuto mai! Bella di dolore, bella d’orgoglio!...
La madre taceva, a capo chino. Le chiesi:
— Se andassi io, ora, a tentar qualche cosa con Learchi?
Eugenia annuì; Ortensia, al contrario, scosse il capo come per un tentativo inutile; e la madre mi guardò quasi a dire: — Vedete?
Finchè ella trovò un pretesto perchè la figlia uscisse; e allora mi susurrò:
— Ortensia è forte, ma anche questa forza mi dà una pena! Ce in lei una sfiducia, un vuoto, una disperazione!... Sembra disprezzare anche la sventura; ma come soffre!
Vinta, Eugenia, proseguì piangendo:
— La rimproveravo una volta perchè stava oziosa; adesso ricama, cuce tutto il giorno per imparar a guadagnare: mangia pane asciutto per prepararsi alla povertà!
La signora, Learchi m’accolse quale un messo del Cielo. A esprimere la sua gioia, quasi non le bastasse il viso roseo e lucido d’inverno come d’estate e la bocca ridente quant’era larga, s’aiutò con complimenti strepitosi:
— Che miracolo! che improvvisata! che degnazione! che bella visita! — E trafelate scuse: la casa in disordine, lei vestita male, col raffreddore! Il raffreddore infatti l’obbligava a farmi festa sternutando.
— Innocenzo! Innocenzo! — invocava.
Il signor Learchi, nuovo sindaco di Valdigorgo (mi ero dimenticato di dirlo), se ne stava davanti al camino nella camera da desinare, pipando pensoso più di sè stesso che de’ suoi amministrati ed economizzando con le molle le brace che rimanevano del ceppo ormai del tutto consunto. Alle esclamazoni e alle apostrofi della moglie si mosse, mentre io entravo, e senza far parola depose le molle; si levò di testa con una mano il cappellaccio (un cappello fuor d’uso, estivo ma buono a riparare dall’umidità invernale, tant’era unto); emise un lungo oh! levandosi di bocca la pipa con l’altra mano, e m’attese seduto, non restandogli più mani libere da reggere le brache che si era sbottonate per far largo alla digestione.
— Vedete chi è qua, Innocenzo! — ripeteva la moglie. — Che onore! Chi se lo sarebbe aspettato, con questo freddo?
Il marito era così lontano dall’aspettarsi una mia visita che tardava a dissipar dal volto di beone l’ombra della improvvisa seccatura; e mi fu visibile lo sforzo che fece di ricoprirsi con la maschera di uomo cordiale.
— Il signor Sivori! — ruppe a dire finalmente. — Il signor dottore! Oh oh oh! Proprio vero che le montagne.... Bravo! Sta bene?... Un piacerone!... Qui vicino a me, a scaldarsi! Senza complimenti!
— Si scaldi! — diceva, la moglie. — Si metta a sedere.... Su, della legna, Innocenzo!
E il signor Innocenzo, ancora imperfettamente mascherato ma di nuovo col cappello in testa:
— Perchè non è venuto un po’ prima? Avrebbe desinato con noi; alla buona...., si sa, da montanari.... come siamo.
— Redegonda! Presto!... qualche cosa al signor Sivori, al signor dottore!
— Che cosa? — Ella correva intorno alla tavola, avanzava, retrocedeva domandandomi:
— Caffé? cioccolata? latte? cognac? un zabaglione? Le faccio un zabaglione? un vino brulè? un punch?
— Moscato bianco! — urlò il sindaco. — Il mio moscato bianco, che riscalda le budella: riservato per gli amici!
Quindi, dopo avermi lasciato un po’ schermire:
— Lei non era a Vienna? Che c’è di bello a Vienna?
— A Berlino, vorrete dire! Era a Berlino! — correggeva la signora Redegonda, mentre usciva per la bottiglia e qualche altra cosa.
Sì, venivo da Berlino; ma già m’ero fermato a Milano....
A queste parole la Learchi ristette sulla soglia, con la bocca ridente e gli occhi sbigottiti, e tornò indietro quasi per soccorrermi.
— L’ha visto? Li ha visti? — Sopprimendo i nomi sperò di attutir lo sdegno che prevedeva.
Infatti il signor Innocenzo le volse due occhi rabidi:
— Eh! Aveva obbligo di vederli?
Forte e senza titubanza io rispondevo:
— Ho visto Guido, Marcella, il bimbo; una famiglia che consola a vederla....
Povero me! Sempre ridendo in silenzio la donna spalancò le braccia in segno di disperazione. Ma il sindaco riaccendeva la pipa per ingoiar l’ira.
— Bah! bah! — fece aspirando. — Altro è il parlar di morte, altro è il morire! A lei sembran consolazioni...., perchè ha avuto giudizio, lei! Non ha voluto provarle, queste consolazioni.... che costano! Mio figlio...., povero imbecille...., le ha pagate care.... carissime!... Ma lasciamo andare!; parliamo d’altro! Dunque, a Berlino bella vita, eh?
Per assecondarlo un po’ dissi qualche cosa di Berlino nel frattempo che la sindachessa usciva e rientrava recando in braccio un vaso di ciliege nello spirito e la serva sturava la bottiglia e mesceva.
— Alla sua salute!
— Alla sua!
Lodai il moscato e subito aggiunsi (per cogliere quel momento di dolcezza) che tanta cortesia mi dava a sperar bene dalla mia visita. Entrando in argomento dissi che quale amico comune, di Moser e del signor sindaco, io ero venuto a sentire quel che si potrebbe fare....
— Caro amico: niente! niente da fare! — E allontanando la pipa il signor sindaco sputò. — Meglio non parlarne per non sputar veleno! M’han guastato il sangue. (Bevve). È amaro, per me, adesso, anche il mio moscato!
La signora Redegonda da dietro le spalle maritali traeva lentamente, ascoltando, le ciliege dal vaso con un cucchiaio e le deponeva in un piattello; e poichè non poteva impedire alla sua bocca di sorridere ancora, scuoteva il capo per significare come disapprovasse quel che il marito diceva e direbbe, e con languide occhiate chiamava il soffitto in testimonio del suo dispiacere; delle sue buone intenzioni; delle sue rinnovellate speranze nel mio intervento.
Io ripigliai: — Dal Eugenia e Ortensia non ho avuto che notizie confuse; ma ho potuto comprendere il loro dolore perchè lei, che ha fatto tanto per Moser, debba essere o voglia essere sacrificato....
— Dolore? Ah ah! Ci vuol altro! Dolore! parole! Altro è il parlar di morte altro è il morire!
— Io credo si possa almeno attenuare le conseguenze....
— Parole, caro il mio amico! Parole! niente da fare! Meglio non parlarne....
— È vero o no — esclamai — che chi non vuole l’accordo dei creditori è lei?
— Io? — Parve cascar dalle nuvole brandendo la pipa. — Vede?; vedete chi è che inganna? Ci prendon tutti per imbecilli...., come mio figlio!
— Le senta....; — intervenne allora la Redegonda porgendomi il piattello delle ciliege.
— Lei dunque è disposto — proseguii rivolto al marito — a trattar dell’accordo?
— Io.... Io dico ripeto, torno a dire per l’ultima volta che non voglio più pasticci, non voglio avvocati e liti, non voglio curatori, non voglio crepare! Vogliono, quegli altri signori, il concordato? Mi diano una garanzia che tutto andrà liscio....; la garanzia che piace a me....; e son qual Se no, vada il resto, vada tutto!... Ci rimetto tutto.... Che cosa pretendono di più? che ci rimetta anche il sangue? la pelle? l’anima?
— E la garanzia che lei desidera sarebbe....?
— La garanzia dell’ingegner Roveni.
— Ma che garanzia può essere quella di uno che non possiede niente?
— Garanzia che non nasceranno altri imbrogli. Mi basta! Ma se non ci fosse questo pericolo, degl’imbrogli, Roveni la farebbe la garanzia! E non la fa! non la fa! non la fa!
Me la cantava in musica battendo il tempo con la pipa: — Non la fa!
Il mistero mi pareva chiarito del tutto; sicchè la Redegonda sorrise fino alle orecchie per la luce che mi vide in faccia; scosse, sorridendo, il capo, per assicurarmi che adesso ero su la buona strada; sternutò e si soffiò il naso; accennò coll’indice al piattello delle ciliege, e uscì piano piano, lasciandomi libero il campo alla vittoria Procedetti:
— Il perchè Roveni non fa la garanzia è un altro! Non ha inteso dire anche lei, signor Innocenzo, che costui aveva pretensioni su Ortensia e che Ortensia l’ha rifiutato? È una vendetta! Si vendica della ragazza con la rovina del suo benefattore! Ecco che uomo è costui! E ha ingannato anche un uomo sagace come Innocenzo Learchi!
Due, tre copiose e formidabili boccate di fumo uscirono dalla bocca del mio interlocutore, in cui le ultime mie parole fecero un effetto del tutto contrario a quello desiderato. La lode di sagacia parve offenderlo più che l’accusa di essersi lasciato ingannare e, livido, stentando a frenar la rabbia con un ultimo sforzo di ipocrisia:
— Signor dottore.... stimatissimo! — esclamò. — Lei è lei; ma, se non fosse lei....!; con tutto il rispetto.... Che storia mi tira fuori? Dica la verità: per chi m’ha preso? Per un imbecille come....
Rise sgangheratamente.
— Ah povero signor dottore! Come l’hanno imbottito bene! E lei ci ha creduto? Ha creduto che Roveni avesse intenzione di sposar una ragazza senza dote? Ah! Ah! E pensare che la ragazza non l’ha voluto lei! lei non l’ha voluto, Roveni! non lo vuole! Spera in un partito migliore, la ragazzina!... Ah povero signor dottore!
Strappargli la pipa di mano e sbattergliela sul muso!
— Anche la signora Redegonda deve saperne qualche cosa — riuscii a dire.
— E io dovrei credere quel che han dato a intendere a mia moglie? Ah! Ah! Ma non lo sa che mia moglie è la madre di mio figlio?
Non ne potendo più, mi alzai.
— La verità è questa che le ho detta io! Lei non la crede? Ebbene: lei da tutti gli onesti sarà giudicato quale un complice di Roveni e avrà il rimorso d’aver messo in miseria i suoi parenti.
— Parenti, serpenti! — Ricaricava con mano tremante la pipa. — E i rimorsi.... non li proverò io, caro amico; no no: stia pur sicuro! Io sono tranquillo! Non ho falsificato niente, io....; sono un galantuomo, io! un uomo onesto....
In piedi con la pipa in bocca il sindaco di Valdigorgo abbottonava i calzoni per congedarmi.
Allora l’investii domandando:
— Falsificato.... che cosa? chi?
Ma egli retrocesse.
— Zitto! C’è mia moglie.... Se vuol spiegazioni, si rivolga a Roveni.... Io non so niente! Non voglio dir più niente! Non voglio saper più niente!... Un altro bicchiere, e amici più di prima....
— Altre due ciliege — pregava, la signora Redegonda sorridendo, ma con voce di pianto a vedere che avevo perduta la battaglia.
Non tutto era scoperto. Un’infamia mi restava da scoprire!
Ritornavo inveendo entro di me contro gli onesti che insultano impunemente all’innocenza e alla sventura, perchè fatti ricchi e potenti dalla fortuna e dall’abilità di commettere il male all’ombra della legge.
Ortensia mi venne incontro. Tacque a lungo poichè io le ebbi detto: — Non ho ottenuto niente per ora, ma....
D’improvviso si accese in volto.
— Com’è vile quell’uomo! Non capisce quell’uomo senza, cuore, nessuno capisce che non è la miseria che ci spaventa? che ci son patimenti più grandi che la fame? Vili! Non conoscono mio padre! L’ammazzano! È un assassinio!
Io mi provavo a quietarla, turbato da quella sua alterazione; da quella violenza di passione manifesta per gli occhi più che per le parole.
— Quietati — le dicevo — ; riparto subito per Milano e qualche cosa so di poter fare! Il tuo dolore è santo — aggiunsi — ma non bisogna esagerare.
Ella sollevò in me lo sguardo affievolito da una infinita tristezza.
— Ah Sivori! anche per lei (si corresse), anche per voi esagero! Conoscete mio padre; sapete che dovrà abbandonare la sua casa (accennava alla villa), che era il premio di una vita di lavoro, che era il luogo dove voleva morire, dove nacquero i suoi figlioli; e io esagero! Mio padre non vuole abbandonarla la sua casa; non può credere di dover abbandonarla! Ieri mattina, con un operaio, nel giardino, disegnava nuove aiuole; diceva: — Quest’altr’anno leveremo i ligustri; pianteremo altri abeti nel prato. — Quest’altr’anno, diceva. Invece quest’altr’anno nuovi padroni raccoglieranno i fiori del nostro giardino; dormiranno nelle nostre camere. E io esagero! Quassù mio padre è stato un benefattore, ma gli operai, per cui faticava, non lo salutano più, lo incolpano della loro rovina.... E io esagero! E questo è nulla! La colpa dì tutto quello che è avvenuto e che avverrà, è mia! E io esagero!...
Come io cercavo parole di protesta, essa con mano convulsa m’afferrò a un braccio, mi fece ristare, e disse più piano, severa, in quell’agitazione contenuta con la fatica che esprimeva il suo sguardo fiso nei miei occhi:
— Sentite, Sivori! Voi siete sempre per noi l’amico di un tempo; siete per me quello di un tempo: un fratello. Non voleste così allora? Così doveva essere! Un fratello: non altro dovevate essere per me in passato; non sarete altro in avvenire.... È vero?; così! Dunque, sentite! Se domani io potessi trar d’agonia mio padre, tutti noi, con una sola parola, e questa parola mi ripugnasse come una viltà, un’abiezione; se con una sola parola io domani potessi salvar la vita di mio padre, dovrei vincere la ripugnanza del mio animo, della mia coscienza, di tutto il mio essere, e pronunciarla, questa parola? Dite! dite!
— No! Mai!
— E se con questa sola parola io potessi salvare.... potessi salvare l’onore di mio padre?
Risposi, freddo e sicuro:
— L’onore di Claudio Moser è al disopra d’ogni sventura e d’ogni vendetta!
Ma Ortensia sorrise con quella ironia quasi spasmodica.
— L’avete conosciuto bene, voi, Roveni! Credete che sia uomo da minacciare invano!
— Quando, come ti ha minacciata?
— Me l’ha detto.... e scritto, che ha tanto in pugno da far condannare mio padre.... per ladro! È lui, lui che non vuole che Learchi ceda perchè ceda io! Se io cedo, mio padre è salvo!
Ristette; congiunse, per scongiurarmi, le mani:
— Sivori...., Carlo...., dite, Carlo....: sono ancora in tempo! Debbo cedere?... salvar mio padre?
— Tu non gli avrai risposto.... — Questo dubbio mi affliggeva più che non mi afflisse quella affannosa preghiera. — Non devi cedergli. Mente! È un’insidia!
— No..., non gli ho risposto....; ma se arresteranno mio padre...., come un ladro...; se lo condanneranno.... per colpa mia...., io morirò....
Si compresse con la sinistra al cuore; e aggiunse:
— Non è meglio finirla? Tutte le speranze in Learchi non sono perdute? Bisogna preparar la mamma, a tutto....
Riafferrandole la mano io, con un’attitudine che esprimeva, di me, la sincera e profonda commozione e la preoccupazione di un monito solenne: — Ortensia! — dissi — Per tutto quello che hai sofferto, che ti ho fatto soffrir io; per il bene che voglio a te e a tutti voi altri; per tuo padre e tua madre, ti scongiuro: non t’abbandonare alla disperazione, così; abbi in me, ora, la fiducia che non meritai in passato. È impossibile che io non riesca a sventar le trame di un birbante, perchè è impossibile che tuo padre non sia stato sempre un galantuomo! Resisti; tu sei forte!
E dando alla mia voce, alle mie parole tutta la tenerezza e la dolcezza che potei attingere dal mio amore:
— Solo, tu hai il cuore di tuo padre. Bisogna frenarlo, questo cuore, che la bontà fa pulsare troppo in fretta.... Mi prometti, sorellina, di confidare in me....; almeno un. giorno o due...? Via! Riceverai la buona novella.... Trionferà la giustizia; supereremo l’infamia di quell’uomo....
Non pianse; mi guardava stupita come non potesse credere alle mie parole e alla speranza che io dimostravo di esser creduto.
Poscia mormorò percuotendosi il cuore:
— Carlo! Carlo! non c’è più bontà qua dentro! C’è solo del male!
Io le accennai sua madre, che veniva verso di noi.
Le dissi, a Eugenia, che benchè Learchi mi fosse sembrato ostinato più di un mulo, il colloquio con lui mi aveva confermato nel proposito di recarmi subito dal curatore del fallimento.
Credevo d’aver trovata, una via....; e altre bugie pietose dissi, per confortarla.
Ella esclamò rivolta a Ortensia:
— Vedi se bisogna sperane?
....Io ripartii senza avere in me la fede di Eugenia!. E mi seguiva lo sguardo di Ortensia: lo sguardo di una vittima.
VIII.
Il mio colloquio con il curatore del fallimento fu breve. Il ragioniere *, a udirmi amico di Moser e a udir il mio nome, ebbe uno scatto che non tentò di reprimere, e un’impressione di piacere che tentò di celare, ma indarno.
In sostanza ecco quel che mi disse:
Il fallimento Moser gli si era presentato in una situazione più che discreta. Strano quindi per lui il fatto che non avesse avuto buon esito la moratoria. Convocati i creditori, si era loro proposto un dividendo del 60 per cento. Ma uno di essi, il signor Learchi, aveva richiesta, come la legge concede, una garanzia, insistendo perchè fosse garante l’ingegner Roveni. Forse lo rendeva dubbioso il troppo lauto dividendo! Poteva, a prima vista, recar meraviglia la pretesa d’aver garante uno dei creditori minori, quale il Roveni; ma questi più d’ogni altro aveva pratica dell’azienda fallita e meritava perciò, più d’ogni altro, la fiducia, del Learchi. Se non che il Roveni non aveva accettato subito questa prova di fiducia; aveva voluto tempo a riflettere; ed era stata rimessa a un’altra convocazione dei creditori la sua risposta. Perchè mai?
Il curatore a questo punto sembrò attendere da me la spiegazione. Io, infatti, cominciavo:
— Evidentemente Roveni stesso consigliò Learchi a chiedere la garanzia, e Roveni seppe persuaderlo che egli solo....
Ma il ragioniere, quasi mal pago dell’«evidentemente» con cui era incominciata la mia risposta, m’interruppe:
— Prego! Mi lasci dire.... So di dire una cosa grave.... A lei non chiedo che la sua parola....
In fede del segreto io portai una mano al petto. Egli proseguì risoluto:
— Il contegno dei signori Learchi e Roveni mi insospettì. Avrò torto...., badi; posso aver torto; ma il sospetto si è confermato in me, da ieri. Insomma: io dubito che nella gestione Moser ci siano irregolarità mascherate così bene; da esser sfuggite alle mie indagini.
(Era la falsificazione a cui aveva alluso Learchi!) Nè il curatore esitò ad aggiungere che il giorno innanzi Moser era stato da lui e a certe dimande aveva risposto, confuso, che gli schiarimenti desiderati poteva darli solo il Roveni. A questo, negli ultimi tempi, aveva affidato anche parte dell’amiministrazione.
— È la verità, senza dubbio — dissi io.
L’altro non attese al mio asserto; come non m’avesse udito.
— Ho pregato quindi l’ingegner Roveni di venir da me per schiarimenti sui libri dell’azienda. Non è venuto; m’ha, scritto che egli nell’amministrazione Moser non ha nulla a vedere, tranne il suo piccolo credito; e riferisce una clausola dei contratto da lui conchiuso col Moser quando assunse la direzione della fabbrica. Per quella clausola va esclusa, ogni sua responsabilità amministrativa.
Volendo io di nuovo interloquire, il curatore mi trattenne con un moto d’impazienza.
— Non m’interrompa!... Si dirà che Roveni ha messo le mani avanti per precauzione, per prudenza. Io però voglio le spiegazioni che ho richieste invano! Attendo documenti che dimostreranno meglio i rapporti della ditta Moser con due case commerciali; e se mi convincerò di quel che dubito, non esiterò un istante a compiere il mio dovere.
Io m’alzai d’impeto, esclamando:
— Ma io proverò che una vendetta indegna spinse il Roveni a tradire il suo benefattore! Un’infamia! scoprirò un’infamia!
11 curatore si strinse nelle spalle, quasi ciò importasse poco e punto.
Insistetti:
— Moser è un galantuomo! Ha avuto un solo torto: quello di addossarsi imprese superiori alle forze di un uomo e di aver fiducia illimitata in un birbante! Sopraffatto dal lavoro, lasciò tutto in mano a Roveni, senza pensare che costui si varrebbe di quella tal clausola per tradirlo!
Sdegnato, il curatone oppose:
— E perciò? Se io non m’inganno nei miei sospetti non sarà tutto questo che salverà Moser da un processo per bancarotta!
Finalmente avevo scorto il punto a cui il ragioniere aveva voluto condurmi: dovevo prevenire in lui la certezza che gli darebbero i documenti; se no, Claudio era perduto! Anzi il ragioniere era già certo; m|a fingeva dubitare, perchè credeva anche lui nella buona fede di Claudio. Che cosa dovevo dunque fare io? Che cosa potevo fare?
Rispose:
— Prima, che io abbia le spiegazioni che voglio, si potrebbe, per evitarne le conseguenze.... probabili, pareggiare il passivo all’attivo. Non è poi necessaria una gran somma! Calcolando che dalla vendita dei fondi e della villa si ricavino ottomila lire più del prezzo di stima — e ho già una proposta — , basteranno ventimila lire per accomodare ogni cosa.
— Quanto tempo mi concede a trovarle?
— Quarantotto ore.
Misurai nella mente il tempo che bisognava per andar a Molinella, restarvi un po’ e tornare; e dissi:
— Amico di Moser, io tenterò di trovare questa somma. Ma...., e se le irregolarità che lei teme non ci fossero?
Il curatore mi tese la mano e disse senza rispondermi:
— L’ingegner Moser, nella sua sventura, ha una grande fortuna: quella di avere un amico come lei....
....Quando, giovani, io e Claudio andavamo a caccia in risaia ci accompagnava talvolta il Biondo falegname, divenuto poscia mio fittavolo. Come Claudio faceva ridere quell’omiciattolo, a proposito della mia filosofia! Ma chi avrebbe mai detto allora che un giorno io avrei dovuto ricorrere al Biondo, perchè Claudio scampasse dal Tribunale?
IX.
E nello stesso giorno, partenza per Molinella!
Non era più per mie, allora, un destino assurdo che in pochi giorni mi sbalzava da Berlino a Milano, da Milano a Valdigorgo, da Valdigorgo al mio piccolo paese nella pianura emiliana. Mi trasportavano volontà e coscienza: più forti anche del dolore, più forti anche dell’amore!
L’amore?... Quale speranza poteva restarmene, ormai? La mia passione era stata una colpa e doveva avere il suo castigo. Ogni illusione doveva cedere alla realtà, che mi rinchiudeva, mi stringeva come in un cerchio di ferro. Il mio soccorso cancellerebbe nel cuore di Ortensia fin le ultime tracce d’amore, se vi rimanevano; ed io con l’azione che stavo per compiere confermavo irremovibilmente, per sempre, l’antico proposito di essere per Ortensia un fratello: non altro.
Ma è pur vero che il dolore aggiunge lume alla bellezza! Ancora ancora, avidamente, mi richiamavo l’immagine d’Ortensia alla memoria: più alta della persona; con quegli occhi che un tempo avevan solo un riso di gioia e adesso ardevan di sdegno o si velavano d’angoscia; con il viso un tempo pieno e roseo ed ora pallido e magro, ma come illuminato da una luce ideale: con le belle mani, che un tempo ella recava a sollevare dalla fronte l’onda dei capelli copiosi ed ora stringeva in uno spasimo di preghiera; con quelle attitudini decise, quei moti improvvisi, non più indizio come un tempo di un fervore di giovinezza sana e lieta ma reazione al tumulto di un’anima inferma, una eccitazione di un’energia abusata fino alla violenza. In lei il patema d’animo aveva trovato una predisposizione nella delusione d’amore e nel male che io le avevo fatto col mio pessimismo, col mio tristo esempio, con la negazione d’ogni bene e d’ogni fede.
Le parole d’Eugenia mi si ripercotevano nel cuore e nella mente: «C’è una disperazione in lei...!» Ortensia non vedeva più intorno a sè che il male, a cui resisteva per naturale impulso ma col vuoto dell’anima....
Tali i pensieri che mi accompagnarono più assidui nel viaggio da Milano a Bologna. Però il fine a cui tendevo sopravanzava di tratto in tratto. Riuscirei? Ero sicuro che il Biondo teneva in casa grosse somme; mi ricordavo di quante volte egli aveva manifestato diffidenza delle banche e dei cassieri, e chiedendomi consigli intorno al miglior modo d’investir capitali, aveva espresso avversione a ipoteche o a prestiti d’altro genere.
Ma con il timore di mettere in pericolo i suoi risparmi e perder la tranquillità, c’era in lui, per di più, la preoccupazione di nascondere al prossimo il vero stato delle sue finanze. Confesserebbe il Biondo di posseder in casa quanto andavo a chiedergli? Non gli parrebbe di confessarmi che dall’affittanza aveva ricavato ciò che negava con le lamentanze annuali? E se egli non voleva darmi, o se veramente non aveva disponibile l’intera somma, che mi bisognava fare? Basterebbe per il resto una cambiale con le firme di me e del Biondo? A chi rivolgermi altrimenti?
Dubitavo; eppure anche questi dubbi non mi abbattevano; la speranza mi inanimiva, e m’immaginavo di veder salvo Moser e Roveni sconfitto.
....Quando finalmente, a Bologna, ebbi lasciato il treno più rapido per quello che mi trasporterebbe a Molinella, e quando nel freddo e tetro pomeriggio m’approssimai al luogo ove nacqui, invece della mestizia dell’esule che ritorna dove sa di non trovare più nessuno del suo sangue, provai, questa volta, un senso di conforto ineffabile.
Con occhio tranquillo guardai, giungendo, a quel po’ di terra che fra poco non sarebbe più mia; e con sguardo affettuoso cercai la mia casa, la vecchia casa appartata dal paese e dalla via maestra e indicata da pioppi fedeli. Il Biondo, me la lascerebbe, la mia vecchia casa paterna; io serberei in lessa l’ultimo asilo.
Lo sorpresi, il Biondo, mentre nell’ampia cucina stava piallando un’assicella; e la moglie, seduta al focolare, filava in cospetto del gatto. Bisogna sapere che da quindici anni, da quando era divenuto mio fittavolo, il Biondo non esercitava più il mestiere del falegname ma aveva conservato affezione alla sega e alla pialla per un alto ideale: la carità dell’infanzia morta. Nelle ore, cioè, nelle quali non doveva, andare al mercato e per i campi con l’invidiata carrozzella, riprendeva il mestiere di San Giuseppe e se la passava a fabbricar piccole casse da spedir angioli in Paradiso! Il Signore domandava un’anima d’infante? E il Biondo regalava la cassa. Egli si coansolava in tal modo d’essere invecchiato senza figliuoli.
Al mio entrare in casa, all’improvviso richiamo, gli occhiali dal naso del Biondo caddero sul banco; e la rócca non si lasciava svincolare dal fianco della Rita (soprannominata Pulicreta per lode di pulizia). La Rita gemeva: — Gesù, chi si vede! — Io vedevo loro due sempre più invecchiati, ma sani e contenti; il marito con la berretta verde divenuta gialla e spelato il fiocco; con le anelline alle orecchie, la faccia paffuta, le palpebre cadenti, pesanti come foderate di prosciutto, e, sul pomello destro, i due bottoncini vermigli come coralli; la donna grinzosa, con le vene grosse quali corde alla gola e alle mani e 1 bianchi capelli ben pettinati. Sempre rispettoso, il Biondo intonò il solito: — Laus Deo! Ben tornato, padroncino! — E la moglie ripetendo: — Com’è bello! com’è arioso! — , si asciugava col dorso della mano un gocciolone all’occhio destro.
Furono spalancate le finestre della mia camera dal letto immenso; della camera di mia madre, sempre fredda da poi che rimase priva di quella voce; della camera da desinare, dipinta a righe bianche e azzurre che il tempo non discolora....
— Chissà che freddo là, nei paesi di dove viene! — mi diceva la Pulicreta facendo fuoco al caminetto.
— Il signor Claudio è da quelle parti anche lui? — domandava il Biondo; perchè essi non sapevano dimenticarsi di Moser, il quale non avevano più visto da quasi vent’anni e del quale mi richiedevano ogni volta tornavo a casa. Era uno dei loro ricordi più cari.
— il sempre quiel bel matto allegro?
La domanda del vecchio suggerì a me stesso un’altra dimanda: dove fosse in quell’ora e che cosa facesse il povero Claudio. Al Biondo risposi:
— Adesso Moser è in guai.
Ma ai me che cosa potevo rispondere? Ah! ogni risposta che mi diedi quant’era lontana dalla crudele verità!
Ecco che cosa faceva Moser a Valdigorgo quello stesso giorno, nella stessa ora.
Convinto che Eugenia s’illudeva sperando nella mia visita al curatore; convinto che il curatore non m’avesse rivelato il pericolo che lo minacciava; vinto dalla certezza che Roveni l’aveva tradito e che egli doveva pagare il fio della frode commessa da Roveni, egli, Claudio, meditava di fuggire! Commettendo i brogli Roveni aveva ben provveduto al suo scampo: allo scampo di lui chi poteva provvedere? La legge, in nome della Giustizia, sovrastava su di lui responsabile; e dinanzi all’accusa che varrebbero le attestazioni di buona fede? Sperare in Sivori? Ma dove avrebbe trovate ventimila lire, Sivori, dalla sera alla mattina? Sivori apprenderebbe, impotente, che Claudio Moser era accusato di frode e che si leverebbe contro di lui mandato di cattura! Moser in carcere: Moser in Tribunale, a esser condannato per ladro!
E Claudio in quel giorno raccoglieva tutta l’energia della sua fibra per resistere alla disperazione. Disonorato in Italia, lavorerebbe altrove, sconosciuto, per risparmiar la fame alla sua famiglia. Ma in Tribunale no: morire piuttosto!
E in quell’ora Claudio con uno sforzo che non valeva a nascondere la disperazione, cercava persuadere Eugenia che gli era necessario partire. Fuggire! Intanto Ortensia udiva la voce di lui, udiva il terribile silenzio della madre!...
No: io non potevo immaginare ciò che accadeva a Valdigorgo mentre il Biondo e sua moglie chiacchieravano, mi colmavano di notizie paesane, e io stentavo a non abbandonarmi alla stanchezza del viaggio e provavo la tentazione di un riposo dolce quale non mai, quale di una tregua a una dura battaglia.
Poi il discorso del Biondo si rifece alla solita antifona: la popolazione che cresceva e la miseria che cresceva.
E il socialismo con gli scioperi? E le malattie? Tifo e pellagra; tanto che in paese c’era gran malcontento perchè non prendevano un altro medico; e ci voleva proprio un medico di più....
Finche mi riscossi, Ordinando alla donna di prepararmi subito un po’ di cena, attesi ch’essa trottarellasse via per dire al vecchio:
— Biondo! Prima di partire....; parto stasera stessa....; ho bisogno.... di vendere il podere!
Credo che egli fosse stato sempre dell’opinione di Claudio: che la filosofia una volta o l’altra m’avrebbe rovesciato del tutto il cervello; e a ripensarlo quale rimase alle mie parole, ora credo s’accertasse, di colpo, che questa volta era la buona. I grossi coralli che gli abbellivano la faccia divennero paonazzi, simili ai bargigli di un tacchino in amore; le palpebre, così grevi che pareva impossibile uno sforzo bastevole a sollevarle al di là della mieta degli occhi, si alzarono in modo da scoprire due occhi enormi, quali nessuno avrebbe mai supposti; e per lo sforzo di sollevare quelle cateratte, e per il terrore del colpo ricevuto, la bocca gli rimase aperta ma senza voce. Parlai io.
— Debbo partire con i quattrini in tasca, questa sera. Capisci?
Allora il buon uomo mi scorse in volto una risoluzione e, nello stesso tempo, un’attesa penosa più di qualsiasi indizio di demenza. Impaurito più per me che per sè, calò le ribalte e chiuse la bocca dicendo:
— Cos’è successo?
— Debbo versare domattina, a Milano, ventimila franchi; e vendo il fondo.
Fosse la risposta che non del tutto a tono potè significargli poca confidenza, o fosse il dubbio che per quella misteriosa disgrazia io vendessi il podere lì per lì a un altro, il vecchio cadde a sedere, smorto anche nei bargigli e guatò intorno, quasi il compratore potesse nascondersi in qualche parte là dentro, o stesse per entrane dall’uscio, o dalla finestra —
Vende....; a chi?
— Ate!
— A me?!
Respirò, sollevò le palpebre a due terzi dell’altezza normale, e si cavò la berretta per ringraziarmi dell’onore. Mia disse piano:
— E il cumquibus?
— L’hai! O mi darai, per adesso, tutto quello che hai in casa. Ma bada! È un affare. Se non ti conviene, il fondo resta tuo, per questa obbligazione (e gli porsi la scrittura in carta bollata),... resta tuo; solo fino a quando avremo trovato un altro compratore.
Avevo parlato quasi duramente; ma aggiunsi abbastanza commosso:
— Son ricorso a te perchè son certo che non mi strozzerai; e poi perchè non vorrai portarmi via la casa dove è morta mia madre.
Speravo fosse questa, la via che affrettasse il fine della mia impresa.
Ma a quell’attestazione di stima e a quel ricordo il Biondo temè di commuoversi troppo e senza più muovere difficoltà sul cumquibus tolse dalla busta gli occhiali; li mise; li levò per tabaccare, prima, liberamente; li ripose all’estremità del naso; e lesse o mostrò di leggere l’obbligazione mentre, a, pausa a pausa e con le cateratte giù, diceva:
— Quel che posso fare lo farò volentieri per lei! Non me la scordo io quella buon’anima di sua madre.... E io, morta la mia donna, chi ci ho al mondo? Chi mi resta? (Non dubitava affatto che la Rita morirebbe prima di lui). Nessuno del mio sangue, mi resta; solo un nipote della donna, che farebbe patto col diavolo perchè morissimo d’accidente — salvo il rispetto — tutt’e due in una volta.
Ma a ridargli l’intero dominio di sè e la debita ponderazione ossia lentezza a trattar l’affare, occorse l’intervento della Pulicreta; la quale annunciava che la cena era pronta.
— Lasciateci stare quando si discorre d’interessi! — rimbrottò il marito, dimentico che l’affamato ero io e non lui. E s’addentrò in un lungo ragionamento, protestando anzitutto che — salvo il rispetto — i quattrini sono sempre quattrini, e proseguendo a contare le tornature del campo, e a stimar il prezzo delle tornature, e a sommar il prezzo totale, e a rifare e correggere quel benedetto totale.
— Nel valore del fondo c’è o non c’è la capienza per la somma che ti chiedo? — feci io, impaziente.
C’era e non c’era. I socialisti per un verso, le stagioni, che non Son più quelle, per l’altro, deprezzavan la terra, laggiù.... Poi, a dir la verità, chi avrebbe comprato il campo senza la casa padronale, con la casa del contadino che non stava più, dritta? Finalmente, dopo più prese dì tabacco e vani tentativi di rialzar le palpebre:
— Per me.... ecco.... sissignore!... il fondo li vale ventimila franchi.... Ma come l’intenderà la donna?
Non avevo pensato che ci fosse da persuadere anche lei.... la Rita, perchè anche lei aveva parte nel cumquibus. Il Biondo s’alzò tabaccando; andò fino all’uscio; tornò:
— Alla donna io non ci penserei nemmeno! Fa quel che voglio io! Ma...., e il nipote?... quel brigante di suo nipote?
Anche questa! Era necessario anche il consenso del brigante?
— Altro che consenso! Se impara che abbiam comprato il fondo, ci dà il veleno, com’è è vero Dio in croce, per far l’eredità! È il nostro tormento, vagabondo, giocatore....
Tranquillai il vecchio assicurandolo che la vendita resterebbe segreta e giurai, per di più, che morivo di fame e che morirei di fame piuttosto che cenare prima che l’affare fosse concluso. Egli uscì.
Intanto, in quell’ora, che cosa accadeva a Valdigorgo?...
L’appresi mesi dopo....; e come sarebbe stato meglio non l’apprendessi mai!
Mentre Ortensia, dietro la porta, ascoltava suo padre, che tentava persuadere Eugenia a lasciarlo partire — fuggire! — , Eugenia pensò che la ferrea fibra di Claudio fosse anch’essa piegata, infranta; anche la mente di lui fosse travolta in una disperazione che ne velasse la percezione della realtà. Essa ebbe come il presentimento che quella fuga sarebbe un doloroso e vano errore, e si provava a dissuadere il marito.
Questi, al nuovo ostacolo, abbandonò, per superarlo, il freno a cui si era tenuto pietosamente, e, affranto, rispose rivelando tutto: che non si lascerebbe nè arrestare nè processare nè condannare. I singhiozzi gl’impedirono di compiere la minaccia: che piuttosto morirebbe.
Allora Ortensia precipitò nelle braccia del padre. Lo pregava, lo scongiurava ad attendere facesse lei un ultimo tentativo.
Quale? con chi?
Con Learchi! Ancora lui, solo lui avrebbe potuto risparmiar l’onta, la morte?
Oh c’era un altro! Ma Eugenia sollecitò la figliuola:
— Sì! Va tu, con Mino!
Da prima Claudio si oppose; quindi, o perchè in quegli istanti fosse come il naufrago che s’appiglia a un fuscello, o perchè non gli reggesse il cuore di dire addio alla figlia e al figliuolo, parve accondiscendere.
Con tutto l’impeto, l’eccitazione del suo dolore. Ortensia condusse seco per mano il fratellino e si presentò con lui a Learchi.
Avrebbero impietosito un sasso; ma neanche l’innocenza di Mino, che piangeva, tra le braccia della signora Redegonda intenerì quell’uomo.
Rispose:
— Nulla da fare; lasciamo andare!
E allora.... (quel che io provo scrivendo questo!), allora Ortensia,... Ortensia s’inginocchiò dinanzi a quell’uomo! Ortensia a mani giunte, in terra, come dinanzi a un dio!... Egli ripeteva, con la pipa, in bocca: — Nulla da fare!
E dava consigli: — Lasciate correr l’acqua per il suo verso.... Quando la matassa è tutto un imbroglio, il meglio è tagliare. — Tagliare! Meglio era per lui, il processo, il disonore, la condanna!
Ma Ortensia, esasperata dall’umiliazione, si rialzò, fuggì per rivedere, forse per l’ultima volta!, suo padre.... Il padre non c’era più! E un pensiero atroce attraversò la mente della figlia, intanto che la madre diceva a Mino: — Preghiamo Dio, se gli uomini non ci ascolano....
....Nello scrittoio del suo studio Moser da anni e anni teneva un revolver, che Ortensia aveva veduto più volte. Ella corse nello studio.... Il revolver non c’era più!
Fuori di sè, la misera tornò da sua madre; allontanò Mino; poi confessò tutto, a voce rotta: confessò che mi aveva amato, che per me aveva respinto Roveni, che odiava Roveni e che per salvare il padre doveva, cedere a Roveni! Disordinatamente ripeteva quel che Roveni le aveva detto, le aveva scritto; dimandava alla madre in che modo dovesse telegrafare.... — Sarebbe sua — purchè egli le salvasse il padre!
Eugenia, la debole Eugenia, per un istante si sentì attanagliata dal dilemma: o il disonore del marito, o il sacrificio della figliuola....
Ma la fede sorresse ancora quella debole donna. Accarezzava, baciava la figliuola per quietarla; le ravviava i capelli su la fronte e le diceva, sublime: — Tuo padre è onesto e la sua onestà trionferà presto o tardi! Tu non devi essere di chi usò questi mezzi per possederti!
Ah! Ortensia non cedeva; gemeva: suo padre era partito con un’arma!... Eugenia sollevò gli occhi al Cielo, ad attingere il supremo coraggio, e rispose sicura:
— Dio tratterrà la sua mano!
Contemporaneamente io, laggiù, sentivo il tempo volare attendendo il Biondo; e me l’aspettavo con un pacco di biglietti di banca, e mi chiedevo, sempre più ansioso, quanto mi mancherebbe a compier la somma necessaria.
Con un sorriso tra i peli delle palpebre semichiuse e a fior delle labbra rase il Biondo venne alla fine, seguito dalla Pulicreta.
Ella brandiva la rócca quasi ad attestare che non vi rinuncerebbe sebbene fosse divenuta proprietaria, e stordita dall’avvenimento non sapeva se dovesse rallegrarsi della compera o affliggersi perchè era già fredda la minestra.
— Mi scuserà — disse il Biondo — se le ho fatto perdere la pazienza. Cosa vuole? Sono avvezzo a far tutto adagio!
Esclamai, allegro:
— Il tuo difetto! Se non ci avessi pensato su tanto, adesso avresti una dozzina di figliuoli. È vero, Rita? — Essa rise; ridevano ambedue.... Ma, e i quattrini?
— Zitto! — fece il Biondo. — Venga di qua con noi.
Mi condussero nella loro camera; e dopo essersi battuta entrambi la punta del naso coll’indice, tesero la mano sotto il talamo.... Misericordia! Che vista! C’eran due casse da morto; non di quelle piccole, per angioli; ma grandi, per due grosse creature com’erano proprio la Pulicreta e il Biondo! Eran due belle casse di noce: senza dubbio i capolavori del Biondo. Ne trassero una in mezzo alla stanza.... Ivi stavia il morto provvisorio.
— Zitto! — ripetè il vecchio — : che nessuno lo sappia! Ci fidiamo di lei; se no, ci ammazzano!...
— Per l’amor di Dio! — aggiunse la vecchia.
Aprendo, la cassa appariva vuota; ma il Biondo l’aveva costrutta a doppio fondo e nel fondo segreto era il morto: pacchettini di biglietti di banca nuovi nuovi; oro, argento, e anche cedole al portatore.... Uno spettacolo tutt’altro che funebre! Basti dire che tolto quel che mi abbisognava vi rimase abbastanza da non rendere inutile il doppio fondo della cassa.
— Zitto, per carità! — Ridevano sommessamente.
Ridevamo tutti e tre, proprio come se io fossi stato un loro figliolo a cui avessero fatto sì bella improvvisata.
Solo alla terza volta che rifece il conto della somma il Biondo spalancò le cateratte per veder bene il passaggio repentino di quella parte di sè stesso dalle sue alle mie mani; nè potè trattenere un sospiro.
Ma la cena fu gaia. Forse da un pezzo i vecchi coniugi non avevano cenato con cuore così pieno. Si comprendeva a veder in che modo mi guardavano, l’una di sottecchi e l’altro di sotto le ribalte, che il merito di quella gioia era mio.
Quando fui per partire il Biondo mi trasse in disparte:
— I quattrini.... sono per il signor Claudio, è vero!
X.
Lieto che io avessi mantenuta la parola, il curatore mi accertò che nessuno potrebbe più mettere in dubbio l’onestà di Moser e che con l’arma a doppio taglio, preparata a strumento della sua perfidia, Roveni non potrebbe più ferire che sè stesso.
— Mi dispiace di non poterlo denunciare! — disse, — Le ha saputo far così bene, quel birbante! Ma se non avesse un documento che lo salva!...
«Sfuggirà anche a me?», io pensavo uscendo, verso il mezzodì, dallo studio del curatore. Prima di tutto però volevo veder Guido; dargli e ricever notizie. Quand’ecco, fatti pochi passi, m’incontrai.... Immaginate in chi! Nel cavalier Fulgosi!
Era stupendo nel ricco e lungo paletot; con un colletto così alto che pareva averlo ereditato da suo figlio, e la cravattina a tinte scozzesi, e i guanti gris-perle; con i baffetti e la barbetta d’un biondo pallido pallido: l’uomo di spirito, avverso ad ogni tintura, aveva ceduto allo spirito della conservazione apparente. E l’uomo di mondo in una città cosmopolita non si confuse a vedermi: mi fe’ un inchino alla francese, mi diede una stretta di mano all’inglese e improvvisò un complimento da italiano e patriotta:
— Il dottor Sivori è come Romagnosi: quando si direbbe che è morto è più vivo di prima!
Quale; insigne opera meditavo? Quale nobile impresa mi aveva ricondotto in patria? Le risposte che gli diedi non l’impedirono dall’accompagnarsi meco e dal cadere, dopo pochi passi, in discorso di Moser. Sapeva qualche cosa, non tutto, della disgrazia; quel tanto che aveva appreso da Guido, con cui egli, sempre uomo superiore, era rimasto in buona amicizia nonostante l’inimicizia ch’era divenuta sempre più grave tra lui e il Learchi padre, ora sindaco di Valdigorgo. Soavemente compianse la «gentile» Eugenia, la «amabile» Ortensia, la; «dolce» Marcella, e rievocò i bei giorni di Valdigorgo.
— Che bei giorni, eh, dottore?...; quando non pioveva....
Già: quel giorno che gli avevo dato dello sciocco, pioveva!
Ma il culto di così care memorie l’induceva a chiedermi un favore giande, memorabile anch’esso.
— Non mi dica di no.... La mia signora: sarà felice di rivederla! Mi faccia grazia.... di venire a pranzo da; noi, oggi.
Impossibile! avevo tante faccende!
— Lo credo, illustre amico; lo credo. Però dovrà pur rubarlo un po’ di tempo alle faccende, per desinare: lo rubi, e me ne faccia dono.
— Impossibile! — ripetei duro come un tedesco.
— Non vuol oggi? Ebbene: domani!
Dàlli e dàlli; gutta cavat lapidem; e, come si usa in ogni palese per levarsi un peso d’addosso, finii per preferire l’oggi al dimani. Che peccato non fosse a Milano anche Pieruccio! Era partito, il dì innanzi, per Modena; di dove tornerebbe, fra pochi mesi, con le spalline.
— Ah le spalline e vent’anni — sospirò il cavaliere allargando le braccia e invidiando suo figlio. Di suo figlio le donne andavan fanatiche anche al solo vederlo in divisa da collegiale.
— Si figuri che l’altra sera, all’ultima festa in casa De Mol...
Mentre narrava le figliali prodezze il cavaliere s’arrestava di tre in tre passi, compiacendosi che i suoi gesti oratori attirassero l’attenzione dei passanti. Tutti parevan chiedersi chi fosse quel signore elegante e nello stesso tempo austero. Un senatore, così giovane? O piuttosto un deputato? un presidente di Corte d’Appello, o un ex-ministro: un’eccellenza insomma? Ed egli diceva:
— ....La giovine signora del colonnello.... — Pieruccio era stato sul punto di sedur la moglie di un colonnello!
— Vede già la via per diventar generale — dissi io, indulgente.
— A proposito! — il cavaliere riprese. — C’era anche Anna Melvi in casa De Mol. Cantò deliziosamente.... Si fa; si fa! è una ragazza che si fa! La lanceremo!... E lei sa, dottore, che anche Roveni è a Milano? L’ho visto più volte, il bravo ingegnere.
Io m’affrettai a mettler da parte il «bravo ingegnere » preferendo il minor male. Meglio discorrer della Melvi.
— Badi, cavaliere, che la Melvi e una ragazza pericolosa.
Un altro sospiro venne su dal cuore e dal colletto di quell’apparente Eccellenza. Quindi:
— On ne badine pas avec l’amour. Ma io mi occupo di Anna solo per l’amore dell’arte e per amore del mio paese. Ho la fortuna di alte relazioni, e la lanceremo: vedrà! — Aggiunse che non poteva invitarla a pranzo con noi perchè la sua signora — a torto, ve’! — ne era un tantino gelosa. Ma a questo punto un’idea attraversò la mente di Sua Eccellenza, che si fermò mormorando:
— A quest’ora ci dovrebbe essere....
— Chi? — esclamai io — Anna? Non voglio vederla! Intendianioci!
— No, no — rispose egli. — M è venuto in mente che debbo vedere un’altra persona prima di déjeuner e mi rincresce lasciarla, caro dottore: a meno che ella non si compiaccia d’accompagnarmi sin qui all’Orologio. Due minuti....; due passi.... Ci viene? Bravo! Quanto è gentile!
— È la mia strada — dissi, senza alcun sospetto.
Giunti ai Ristorante dell’Orologio, Fulgosi mi lasciò sulla soglia. Ma appena, dentro, si rivolse accennandomi d’entrare: — Scusi, dottor Sivori! — Quando gli fui presso, m’indicò, fra la, gente, una persona seduta; a una tavola e chiamò forte:
— Ingegnere!
Roveni si volge: mi vede e resta immoto a guardarmi, mentre io resto a guardarlo; e il cavaliere ride, felice della bella improvvisata che mi ha fatta; solo non comprende il perchè io e Roveni non ci salutiamo, non accorriamo l’uno incontro all’altro; e precipita lui alla conclusione.
— Senza complimenti, ingegnere! Oggi lei è invitato a desinare da me, con l’illustre....
Avanzando, io interrompo l’uno per dire all’altro:
— Ingegner Roveni! avrei bisogno di parlarle entro oggi, in libertà; senza testimoni. I testimoni, se mai, li troveremo poi!
Egli risponde, pallido più di me, corrugando un po’ le ciglia:
— Sta bene! Fra un’ora, allo studio dell’ingegner Salghi, viale Monforte, 5. Saremo soli.
— Sta bene — io ripeto; e col capo fo segno al cavaliere che mi segua.
Fulgosi era sconvolto in modo indefinibile; dava l’impressione di un uomo, e un uomo superiore, denudato all’improvviso là in mezzo a tutta quella gente che faceva colazione.
Come quando una repentina bufera agita, piega, rovescia un arbusto fiorito, sì che ne vedi il fusto brullo e le branche spinose, e i fiori e le fronde esterne sembrano vanità in balìa del vento, io vidi allora tutta l’intima povertà del cavaliere in quel fallace rivestimento d’eleganza e di rettorica. Mi seguiva tacito, a capo chino nonostante il puntello del colletto, e pareva attendersi l’ultimo sconquasso. Non gli diedi dell’imbecille: gli imposi di non riferire ad anima viva il mio incontro con Roveni e rimisi a miglior occasione l’invito idei pranzo. Dopo tutto gli dovevo gratitudine, perchè, mercè sua, affrettavo la risoluzione che mi premeva.
E mi recai da Guido come avevo divisato. Ma se nella bufera il cavalier Fulgosi scopriva miseramiente sè stesso Guido Learchi vi smarriva interamente sè stesso. Gli affanni in Guido erano fuori di posto; lo svisavano, e la sua faccia gioconda cedeva a impronte quasi di un dolore fisico acuto, straziante; per esempio di un atroce dolor di ventre. Finchè aveva potuto ripetere a sè stesso: speriamo!, e immaginar prossimo il ritorno a una beata pace famigliare, egli era riuscito a illudere anche la sua Marcella e a mantener aperta la vena del buon umore: sopravvenuto l’evento a cui non trovava rimedio nel suo ottimismo e nella sua immaginazione, mi si presentò nell’aspetto tragico, alla sua maniera.
— Che è successo di nuovo? — esclamai io, davvero atterrito.
— Zitto! per carità!...
Marcella indovinava una nuova disgrazia e lui, con quella faccia, non sapeva più che cosa darle a credere.
— ....che Marcella non ci senta!
Poi con un fil di voce e le braccia penzoloni mi annunciò: — Moser.... è scappato!
Il mio telegramma da Molinella era giunto a Valdigorgo troppo tardi. Invano Eugenia aveva sperato che avvertendo Guido, Guido giungesse in tempo di veder Claudio al suo possibile arrivo a Milano, prima che prendesse altro treno;.... Nè si sapeva che via avesse presa.
XI.
Successione così precipitosa di avvenimenti e di fatti comprendeva fors’anche, per me, la corsa alla morte? «Altro il parlar di morte, altro il morire», diceva a dritto e a rovescio il signor Learchi sindaco di Valdigorgo; eppure io, attendendo l’ora del colloquio con Roveni, paelavo a me stesso della morte ben diversamente da quando l’apprensione di essa annientava in me la vita, e mi pareva di esserci preparato con animo sicuro e freddo. La notizia della fuga di Claudio mi accresceva il fastidio di un destino avverso; accresceva l’odio che mi sospingeva contro Roveni. E Ortensia non mi amerebbe mai più come io l’amavo; e all’amicizia avevo già pagato il mio debito. Dunque?... In un duello a pistola non m’era difficile immaginare che Roveni colpisse me come alla fabbrica aveva colpito nella carretta. Era stato, quello, un ammonimento molto preciso....
Morire! «Quali dolci sorprese ci prepara la morte?» Credetemi: queste parole di Pascal mi suonavano ora all’orecchio con invito più dolce che quello d’andar a pranzo dal cavalier Fulgosi. Anzi! Un’impressione strana provavo, quasi di lungo soffrire che riceverà lenimento, o quasi di un amante che sarà appagato dopo lunga attesa.... Certo, poteva anche accadere che io ammazzassi l’avversario; poteva accadere quel che accade più spesso, che restassimo incolumi entrambi; ma, ad ogni modo, bisognava far sul serio!
A Milano non ci avevo molti amici. Deliberai, alla fine, che ricorrerei a due antichi compagni di scuola miei concittadini; l’uno ufficiale, che mi avevan detto di stanza a Milano; l’altro che sapevo esservi giornalista.
E risoluto, m recai ove mi aspettava Roveni.
M’aspettava, allo studio dell’ingegner Salghi, ritto in piedi tra la finestra e l’ampia tavola da disegno, fumando un sigaro virginia, con l’aria di chi s’adatta a stento a ricevere un importuno o un inferiore.
Non aveva pronunziata che una parola: «avanti!», quando io, di fronte a lui, fermo, fissandolo, dissi senza preamboli:
— Moser è scappato...
Alla notizia, mi accorsi che egli non rimase padrone di sè quale voleva parere, e lo sforzo che sosteneva per sembrar tranquillo fu manifesto a un istantaneo abbassar dello sguardo.
Pensò senza dubbio che se Moser era fuggito, Ortensia, non avendo più da temere denuncia o processo per il padre, gli sfuggiva.
Io gli Chiesi:
— La notizia vi meraviglia?
Allora i suoi tocchi bianchi tornarono su di me; con la sinistra s’affilò l’uno dei baffi e disse a mezza voce, laffettando incuranza.
— Peggio per lui se è scappato!
— No! peggio per voi! — Mi sentivo superiore io poichè la sua voce era stata malferma; e volevo tagliar corto. — Peggio per voi!
E aggiunsi nello stesso tono: — Io so perchè Moser è fuggito come un ladro! so che la colpa è vostra!
Roveni rise sguaiataniente deponendo lo sigaro su la tavola e incrociando le braccia; ma la risata cessò d’un tratto, del tutto; anche nell’ironia non serbava sorriso. Poi disse:
— Benone! Se Moser è fuggito come un ladro la colpa è mia! E se domani s’imparerà che si è ammazzato, sarò io l’assassino che l’avrà ammazzato!
— A questo punto? — io gridai. — Così, con tutta la brutalità che non avete più coraggio di nascondermi, voi potete pensare a questa sciagura estrema, a questa conseguenza ultima del vostro tradimento? È l’incoscienza! E io che son venuto qua per accusarvi dinanzi alla vostra coscienza! Non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Volevo dirvi che non avete saputo ordire così bene i vostri inganni da scampare alla condanna, degli onesti. Ma mi accorgo che non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Come dovete esser tristo!
Per lui furono parole che gli diedero tempo di rimettersi e delle quali non sospettò tutta la gravità. Credè, forse, che io parlassi vagamente d’inganni, nè supponeva che Moser fosse salvo e che mi fosse nota la frode perpetrata nei libri della ditta. Sempre pallido, ma sicuro adesso nello sguardo freddo e nella voce, e privo di sorriso, ribattè:
— Adagio, signor dottore; calma! Corre troppo, lei! Lei mi ha già detto, tutto in una volta, che io sono un ingannatore, un traditore, un tristo, un incosciente. Lei mi sembra un rappresentante del Pubblico Ministero che fa la requisitoria a un povero diavolo d’accusato e gli scaglia contumelie in nome della legge. Ma prima di far la parte di accusato io voglio domandarle in nome di chi e con che diritto si assume, lei, la parte di Pubblico Ministero!
— In nome della vostra vittima; col diritto che mi dà l’amicizia di Moser; col diritto di chi ebbe il torto di credervi diverso da quel che siete e di favorire senza volere i vostri inganni.
Tacque; ripigliò il virginia. Il suo sguardo mi sfuggì mentre lo riaccendeva riflettendo. Allo stesso modo che Learchi dalla pipa, egli attingeva forza e prudenza dallo sigaro.
— Benone! — fece poi. — Ora le concederò di giudicarmi. Solo la prego di lasciar da parte le parole grosse, che su di me non hanno presa. Amo i fatti, io. Dunque: sono accusato d’inganni. Con molta calma, come vede, rispondo che l’ingannato sono io, e glielo provo. Non ho nulla da nascondere, io!
Il suo sguardo, divenuto tagliente, compiva il significato dell’ultima frase: accusava egli me di simulazione. Ma troppio lontano dall’immaginare che cosa comprendeva quella frase «non ho nulla da nascondere, io!», non la raccolsi e attesi.
Egli proseguì:
— Per dirle tutto, le dirò anche cose che lei conosce; ma è necessario togliere ogni dubbio, ogni equivoco fra noi due.... Quando l’ingegnere Mooser ebbe bisogno di un direttore che gli raddrizzasse la baracca, mi chiamò a Valdigorgo e mi promise mari e monti. Fin d’allora aveva in vista il fallimento. Io usai tutta la mia energia per riparare; introdussi economie e riuscii a ordinare e migliorare il personale, a migliorare la produzione. Per contratto non avevo obbligo di far la metà di quel che feci: per compenso del di più non ebbi un soldo di più del meschino stipendio, e le promesse sfumarono. Ma l’ingannatone sono io! Avrei potuto trovar di meglio e andarmene subito dopo il primo anno, e lo dissi. Mi scongiurarono di restare. M’ero affezionato alla famiglia....
— Affezionato alla famiglia! — interruppi ironico.
— Sì: affezionato alla famiglia! Lo ripeto. Aggiungo che a Valdigorgo rimasi anche perchè una delle ragazze Moser cominciava a piacermi. Per essere sicuro del terreno dove mettevo i piedi, come vuole il mio temperamento, un giorno discorsi di quella mia simpatia alla madre. La signora o previde che io non piacerei alla capricciosa figliuola o per la bella figliuola sperava un miglior matrimonio; ma, d’altra parte, temeva che io piantassi in asso il marito, e mi pregò di lasciar passar qualche tempo prima di dichiararmi.... E l’ingannatore sono io!
— Eugenia Moser accusata di sotterfugi, di simulazione, da. voi?...
— Non da me; dai fatti — oppose egli. — Sono fatti, questi! Se li può smentire, aspetti che io abbia finito: ci sbrigheremo più presto.
Lo lasciai dire.
— Un bel giorno arrivò l’amico di casa....
Ma a vedermi urtato dalla espressione, si corresse subito: — ....un vecchio amico della famiglia; non così vecchio però di non innamorare a poco a poco la signorina che piaceva a me. Io non sospettavo; pensavo a un’affezione quasi paterna; non badavo alle chiacchiere. Il dottor Sivori sapeva le mie intenzioni, le sapevan tutti: perchè sarebbe stato sleale? Invece egli amava e innamorava la signorina.... E l’ingannatore sono io!...
Questa volta aveva colpito meglio. Io tacqui ancora. Fatto più sicuro dal mio silenzio, Roveni continuò:
— Ma dovetti pur persuadermi che la signorina era incapricciata di lei, dottor Sivori. Perciò le domandai quel colloquio prima della sua partenza; e volli dimostrarle la serietà dei miei propositi. Sivori ha molto potere su Ortensia — mi dicevo — ; la convincerà a non far sciocchezze a non trattarmi indegnamente. Invece lei, signor dottore, fingeva. Dopo aver innamorata la raigazza, scappava; per una misteriosa. ragione, senza il minimo tentativo di riparare al mal fatto, scappava.... E l’ingannatore sono io!
Domandai: — Avete finito?
— Non ancora! Quando fui stanco di fare il collegiale e di aspettare la manna celeste, ed ebbi una nuova proposta d’impiego lontano, volli uscir d’incertezza; interrogai Ortensia. Mi rispose: «Non ci penso, per adesso, a maritarmi». Non era un no: potevo sperare, e rimasi. Ma la signorina non disse no allora per riguardo al babbo, che aveva bisogno di me. Il no venne dopo quando la società progettata da Moser pareva sicura e non si danneggiava il babbo disgustandomi. E sono io l’ingannatore!
— Avete finito? — ripetei più forte.
E Roveni, più forte ma pur come chi si padroneggia anche nella vittoria:
— Non ce n’è abbastanza? Vuol dell’altro? Ecco! L’affare della società andò a rovescio. Moser stava per fare il capitombolo; gli operai, senza paga, minacciavano di prenderlo a sassate. All’ultimo momento mi domanda una somma per restituirmela, s’intende, il giorno dopo. Io gli do tutto quello che ho: i miei poveri risparmi; e il giorno dopo Moser fallisce.... Chi è l’ingannatore? Adesso ho finito!
Buttò in terra il resto del sigaro; incrociò le braccia e con un moto del capo più insolente che accondiscendente:
— A lei!
— Avete finito male, come avete cominciato! feci io, a mia volta. — Per accusar di falsità Moser, Ortensia, Eugenia, me, non vi siete accorto che svelavate voi stesso del tutto: falso in tutto, falso sempre! Consapevole del vostro basso egoismo, voi assumeste la figura di un uomo risoluto e diritto nel pensare e nell’operare, ma foste sempre un calcolatore; non prudente: astuto, doppio. Finchè, per disgrazia, vi siete smarrito in una passione e l’arma vi si è scambiata in mano: dopo essere stato astuto siete stato audace; e siete caduto.
— Caduto, io? — Rise in quel suo tristo modo.
— Voi! Oh credete che io sarei venuto a questo diverbio se non fossi certo di superarvi e di smascherarvi? Giù la maschera! I vostri benefici per Moser che scopo ebbero? Aiutare Moser valeva assicurarvi la dote della ragazza che vi piaceva. Ma non eravate uomo, voi, da compromettervi per un capriccio: tastar terreno, metter le mani innanzi, predisporre la madre prima della ragazza senza compromettervi nè con l’una nè con l’altra, era la tattica nascosta sotto l’apparenza di franchezza e di lealtà. Corteggiare Ortensia era pericoloso; correvate il rischio di non poter più liberarvene se le faccende di Moser si volgessero al peggio. Il vostro riserbo intanto....
— Ortensia era così giovane! — vi meritava la stima della madre; il padre non poteva stimarvi di più, e Ortensia adora i suoi; al momento opportuno avrebbe ascoltato il loro consiglio....
Con una smorfia di riso, che parve ora una stigmata di cattiveria, Roveni venne di qua dalla tavola, si arrestò spavaldo di fronte a me, e m’interruppe:
— In quel mentre però avrei potuto spassarmela anch’io con la ragazza di nascosto, come faceva chi portava la maschera dell’amico di casa!
— Tacete! — urlai sul punto di scagliarmegli addosso. — Non osate malignare, voi, sul mio affetto e su la mia condotta! Per spassarvela voi avevate Anna Melvi! Ortensia non le rassomigliava: a diciassette anni avrebbe già saputo frenare la vostra volgarità. Oh quando penso che dopo gli eccitamenti di un’Anna voi, chissà quante volte, avrete contaminato nel vostro pensiero.... — (mi arrestai con ribrezzo) — Ma appunto ciò fu quello che vi vinse! Ortensia era tanto diversa dall’altra!, dalle altre! Ve ne innamoraste troppo; come non avreste mai creduto, come non riusciste a celare nemmeno ai miei occhi; ed’ero cieco per voi, allora! Chi l’avrebbe mai detto? Venne il giorno che l’avreste sposata anche senza dote, Ortensia! Gli affari di Moser andavano male, ma non avevate più la forza di lasciar Valdigorgo. E non potevate immaginarvi che Ortensia vi rifiutasse; così buon partito! Finchè venne un altro giorno che Ortensia vi disse no, a dirittura. No, a voi! no a Roveni! Insisteste: fu peggio. Là volontà di una ragazza di diciassette anni era più forte della vostra voglia! L’amore diventò in voi una passione delittuosa; e dinanzi all’ostacolo ricorreste alle minacce.
— Verissimo! L’avvertii, la signorina, che potevo far molto bene e molto male a suo padre. Colpa sua se volle il male!
— E il primo passo fu quello di dissuadere i creditori dal compor la società: è vero?
— Sì! — Mi sfidava apertamente a proseguire sperando d’arrestarmi tosto, e rifarsi.
Proseguii:
— Ortensia non si piegò! Allora prestaste duemila lire a Moser per interporvi ai creditori e dominarli; per impossessarvi di Learchi e aver in mano la rovina di Moser. Ortensia non cedè neppur allora. E voi affrettaste il fallimento, dopo aver falsato i libri della ditta....
A udir questo, Roveni divenne livido fin nelle labbra e fece come un serpe che si raccoglie in sè stesso, incerto se di celarsi ancora o d’avventarsi. Tentò di sorridere; ma fu un sorriso viscido e velenoso; gli occhi bianchi mandarono fiamme. Poscia ricuperò idee e voce:
— È un’insinuazione ridicola!
Io procedevo:
— Impossessandovi anche dell’onore di Moser pensavate: se Ortensia vuol salvare suo padre dal disonore, cederà; se non cede, mi vendico! Ah avere amato, desiderato, aspettato per degli anni, voi, e senza riuscirci! Aver speso duemila lire! Si ha diritto di possedere una bella ragazza per duemila lire!... La vostra vendetta doveva esser degna del vostro amore; della vostra passione!
Roveni rifletteva, senza più sforzo di dissimulare. Adagio, contro la mia irruenza disse:
— E così io avrei dato di cozzo nel codice?
— Non so che pezzo di carta basta a difendervi!
Anche questo mi aveva detto il curatore! Colpo non aspettava colpo. Bisognava fingere di nuovo.
— Benone! — egli riprese. — Ma che tutto ciò è assurdo, che è roba da romanzo, lo prova un’ipotesi molto semplice, molto probabile, che lei si è dimenticato di fare. Le parole grosse mandano a rotoli la logica! È logico supporre che nello stesso tempo che Ortensia avrebbe dovuto arrendersi a discrezione il curatore avrebbe potuto scoprir la frode. Come avrei fatto io, in tal caso, a salvar il padre per amor della figlia?
— Persuadendo Learchi ad accomodar tutto, o trovando altrove ventimila lire. L’avrete ben prevista la via di uscita!
— E lei è proprio convinto di tutto questo?
— Convinto? Ma non vi ho già detto che Moser è fuggito come un ladro? La frode è scoperta!
A questo punto, in un istante, vacillò e s’avventò:
— Benone! Oggi stesso informerò io il Procuratore del Re che si è scoperta una frode nel fallimento Moser e che Moser l’ha fatto fuggire lei d’accordo col curatore!
Credeva d’avermi abbattuto, finalmente!
Ma a udire:
— Troppo tardi! Moser è già salvo! — ; udir tali parole Roveni rimase come a ricevere una mazzata sul capo. Il sangue gli affluì tutto al volto. Fuori di sè, mi assalì, mi afferrò al petto, inferocito — una tigre — urlando:
— Chi l’ha salvato?
— Io!
Allora il braccio gli ricadde pesantemente; chinò il capo; sghignazzò, livido di nuovo; disse:
— Anna Melvi aveva dunque ragione!... L’amico di casa ha salvato l’onore del marito.... Adesso potrà sposarla, la figliola...., senza più dispiacere alla madre....
Che cosa? Una cosa orribile! Mi parve di comprendere; compresi.... E afferrandogli un braccio con violenza pari alla sua:
— Spiegatevi! — Aveva gettato fango e veleno su Eugenia! Eugenia! — Spiegatevi!
Egli mi guardava fisso: — Voglio dire che il codice non contempla il caso dell’amante della madre che sposa la figliola.
La mia destra sfiorò la guancia del miserabile. D’un balzo egli si era sottratto da un lato. Si ritrasse verso la porta laterale e toccò il bottone d’un campanello. Fu un attimo. Contro di lui urlavo:
— Vigliacco! Calunniatore infame! — Ma già un servo o un portiere che fosse, evidentemente in attesa mi tratteneva. — Vigliacco! — urlavo. — I sicari! Hai sicari in agguato! — e tentavo divincolarmi, rivolto a lui.
Immoto, su la soglia, Roveni mi guardava; pareva attendere che mi quietassi per parlare. Stretto da quell’altro io gridavo sempre più forte:
— Vile! vile! Calunniatore di donne! falsario!
E mi dibattevo.
— Insultatemi impunemente! — Roveni potè dire alla fine. — Non mi batterò; non voglio mandarvi una palla nello stomaco! Dovete vivere! Devi vivere! — Mi par di sentirlo ripetere «devi vivere!»
E agitando la destra, quasi a farmi grazia, e volgendomi le spalle, nel rinchiudere la porta dietro di sè, mormorò non so che di «vendetta».
— Fuori! fuori! — ripeteva intanto quell’altro, che mi spingeva verso l’altra porta. Io gridavo ancora: — Vigliacco!
XII.
Non si batterebbe. Anche se insultato, oltraggiato in pubblico, si comporterebbe da quel facchino che era e non si batterebbe, per un lontano e oscuro scopo di vendetta. Ah no?... Ma non aveva previsto, l’uomo sagace, che per indurlo a operare da gentiluomo e per evitarne le bassezze c’era un modo più persuasivo di quel degli schiaffi: c’era la stampa. Egli comporterebbe la vergogna di ogni offesa in un pubblico ristretto e in luogo limitato, ma alla minaccia d’esser trattato da vigliacco su pei giornali non potrebbe resistere. Doveva premergli la stima dei molti a quell’ipocrita della lealtà, a quell’ambizioso!
Così, ardendo d’ira com’è facile immaginare, andai subito in cerca degli amici che già avevo prescelti ad assistermi nel duello: il giornalista e l’ufficiale.
Di buon grado essi accettarono l’incarico.
....Non pochi che si sian trovati in attesa d’andar sul terreno avranno avuto, oso credere, un timore più grande che quello d’arrischiar la pelle: il timore di fare una magra figura. Un passo di più o di meno; un colpo di sciabola tirato un po’ più in basso o un po’ più in alto; un colpo di pistola sparato un secondo prima o un secondo dopo, basta a «squalificare» un gentiluomo; cosa orribile fin nel vocabolo. E c’è di peggio: perchè è anche possibile far ridere con qualche errore di inesperienza; e il danno del ridicolo è in proporzjone alla solennità della funzione che si compie. Ghe cosa c’è che eguagli la solennità di un duello? Nessuna. Tutte le altre funzioni, dal matrimonio al funerale, accomunano ogni sorta di gente; ma i gentiluomini che si battono con tante regole son gente fuori del comune e più in alto; se no, non si batterebbero così. Ne viene che uno che faccia ridere in un duello è disprezzato pur dalla gente comune, la quale non si batte con tanta solennità. Ebbene, io ero disposto a morire, ed ebbi questo timore! Attendendo che i padrini tornassero cercai prepararmi con la fantasia ad evitare così gran disgrazia; nè mi domandavo se per l’addietro ci avrei pensato su tanto; nè mi meravigliavo d’essere così tenuto a modalità della vita proprio sul punto di rinunciarvi. Contraddizione ridicola, insomma, ma prova anche questa del mutamento avvenuto in me.
Mi immaginavo sul terreno; avanzavo numerando i passi; sparavo mentre vedevo Roveni procedere nella stessa guisa. Con uno sforzo resistevo alla tentazione istintiva di chiuder gli occhi e li spalancavo al momento del colpo. Guai se chiudessi gli occhi!: farei credere d’aver paura!; farei ridere i testimoni dell’una e dell’altra parte! Studiavo anche la miglior maniera di comportami durante le disposizioni preliminari; e non esitavo a figurarmi la catastrofe, cadessi io o cadesse Roveni....
Però insieme con questo ricordo di vaga e insulsa comicità mi è rimasto il ricordo serio di un sentimento che allora mi sembrò un presentimento assai triste. Mentre fantasticavo in tal modo, mi si affacciarono alla mente, d’improvviso, le immagini di mio padre e di mia madre; con perspicue sembianze di dolore. Mia madre ancora giovine, pallida, sorridendo di quel sorriso che nessun volto mai ebbe per me, e quale mi guardava allorchè io, ragazzo, ero malato; mio padre con quei suoi occhi pieni di bontà e il capo un po’ chino, come sotto un peso di sventura. L’impressione che n’ebbi mi fece dubitare di rimanerne troppo a lungo commosso. Forse...., di là...., mio padre e mia madre attendevano, così, il mio destino incerto anche per essi?
«Chi sa quali sorprese ci prepara la morte?»
Ma, di ritorno, gli amici apparvero visibilmente malcontenti nello stesso modo e nella stessa misura, non so se più di me o di Roveni. Mentre il giornalista mi sogguardava ripulendo gli occhiali col fazzoletto, il rigido ufficiale parlò:
— L’ingegner Roveni s’è trincerato dietro l’articolo 151.
— Che articolo?
— «Si respinge la sfida dell’offensore che ha provocato ed offeso senza giusto motivo».
— Senza giusto motivo?
Era il colmo della sfrontatezza!
— Lo sfidato — riferì il capitano con l’attitudine di chi cita un nobile esempio — ha ascoltato le nostre comunicazioni senza commento; solo, ha preso il codice Gelli e ha indicato l’articolo 151 dicendo: «Ecco la mia risposta».
— Io però — disse il giornalista — son uscito dalla prammatica che obbliga i padrini a non discutere e ho avvisato quel signore che si pubblicherebbe il verbale. E lui: «Risponderò pubblicamente, se il dottor Sivori vorrà lo scandalo!» E io: C’è poco da rispondere! E lui: «Mi basterà dire ciò che potrò provare: che l’ingiuriato fui io; che credetti mio dovere non raccogliere le offese, e credo mio dovere non dar seguito alla vertenza per non compromettere due signore: (quella che il dottor Sivori si sente in obbligo di difendere e quella che io non ho l’obbligo di difendere, ma che mi fornì la notizia sgradita al dottor Sivori».
(Eugenia Moser e.... Anna Melvi!)
— Allora io ho detto — proseguì il giornalista — : Badi, signor ingegnere, che nessun articolo di nessun codice o nessuna signora di questo mondo tratterrà Sivori dall’assalirla pubblicamente, e la stampa riferirà l’accaduto. E lui: «In tal caso, trascinerò il dottor Sivori in Tribunale, e lo scandalo sarà più grande e più doloroso per una terza persona: il dottor Sivori sa quale».
Ortensia! Ortensia apprenderebbe ciò che si diceva dime e di sua madre!
— Dopo ciò, che si fa? — il giornalista mi chiese.
Ero annichilito! Ad ogni costo, dovevo evitar il pericolo di quella propalazione infame! Dovevo cedere alla minaccia.
— Dopo ciò — io dissi — voi vi sarete convinti che io ho a che fare con un mascalzonie furbo e pericoloso.
Ma il giornalista: — Io sono convinto che tu hai a che fare con uno che ha paura!
— Roveni — osservai sorridendo, per celare l’intima angoscia — è un formidabile tiratore a pistola.
Osservò l’ufficiale:
— Eh! credi non si possa essere tiratore formidabile e nello stesso tempo aver paura?
XIII.
«Si ricorda?» Con compiacenza patetica Anna Melvi, quel dì che andamimo alle Grotte, m’aveva chiesto: — «Si ricorda di quando io e Marcella, piccolinie, correvamo innanzi, mentre lei e la signora Eugenia andavano incontro a Moser, e la signora Eugenia portava in braccio Ortensia? Una Madonna! E a chi ci domandava chi era lei, noi non sapevamo che cosa rispondere....»
Io sarei stato, allora, l’amante di Eugenia!
Anna quel giorno lontano pensaa: «Verrà forse l’ora che te ne farò ricordare amaramente». Così pensava per punirmi del mio disprezzo. Io la ferivo; io avevo scoperta e manifestata la sua intenzione di accalappiare Roveni. Guai se l’ingegnere le sfuggisse!
Finchè aveva sperato di sedurlo, la Melvi aveva taciuto: perduta ogni speranza, essa si era proposto di vendicarsi, a un tempo e a un modo, di me, di Ortensia — la rivale preferita — , e di Eugenia, colpevole d’esser la madre di Ortensia. E non era un bel colpo far appunto Roveni strumento della sua vendetta?
Ortensia infatti amava me; dell’ingegnere non voleva saperne. Ma Roveni apprendendo che io ero stato l’amante della madre, troverebbe ben lui la via a impedirle il mio matrimonio con la figliola!
Quante volte Anna Melvi, mentre osservava Ortensia con l’invidia e l’odio di cui è capace una rivale abbattuta, dovevia aver pensato: «Per colpa tua e del tuo Sivori io non avrò Roveni, ma tu non avrai Sivori!»
Nè c’era da meravigliarsi che Roveni avesse creduto a una donna spregevole anche per lui! Le anime triste hanno legami di reciproca fiducia pur quando sembrano avverse. Poi, nessuno meglio della Melvi, la quale fin da bambina capitava alla villa Moser, poteva malignare con apparenza di verità intorno all’antica amicizia di Sivori e di Eugenia. Poi, venne il giorno che Sivori abbandonò Ortensia, e ciò confermava la calunnia; persuadeva magari Anna stessa d’aver cólto nel segno! Ah verrebbe forse un altro giorno: quello che Ortensia imparerebbe il perchè io l’avevo abbandonata: perchè ero stato l’amante di sua madre! Tal giorno dovette parer prossimo ad Anna quando Ortensia respinse definitivamente Roveni.
Se non che costui non era solito a precipitare: aveva creduto alla calunnia, ma se ne varrebbe solo a tempo opportuno....
(Sfinito dai lunghi viaggi, dalle notti insonni, dalle battaglie di pensieri e parole, io m’ero gettato sul letto.
Ma mi contorcevo e dibattevo in questa rete in cui i miei nemici mi avevano preso).
....E mi ero dimenticato affatto, per lungo tempo, di Anna Melvi...! M’era uscito affatto dalla memoria quel suo: «Me ne infischio.... per ora!» Intanto l’altro sghignazzando mi ammoniva alla prudenza: «Giudizio! Non provocatemi in nessun modo; se no, rivelerò tutto a Ortensia». Questa la, minaccia che Roveni aveva sospesa sul mio capo, di una terribile vendetta avvenire.
Ma insomma: chi conoscendo Eugenia Moser e me potrebbe credere alla calunnia, a un’infamia? Nessuno, tranne quelle due anime triste. Potrebbe dunque credervi Ortensia se Roveni arrivasse alla vigliaccheria estrema? Era un sospetto assurdo, il mio! più ripugnava fin concepirlo più chiaramente. ....Infatti, a poco a poco, la mente mi si ottenebrava. M’assopii. Mi riscosse il pensiero di Claudio. Allora mi sfogai contro di lui.
Avevamo pattuito io le Guido che il primo a ricever nuove di Moser le recherebbe all’altro. Guido non era venuto a cercarmi all’albergo nè mi aveva mandata alcuna notizia. Nessuna notizia! Claudio però avrebbe dovuto aver più fiducia in me e ritardare quant’era possibile così dolorose angustie alla sua famiglia. Sapeva Ortensia della fuga del padre? L’avevo vista in preda a un orgasmo di follia allorchè mi aveva detto, a Valdigorgo, che l’onore del padre era in pericolo. Che aveva fatto, quanto aveva sofferto se Eugenia non era riuscita a celarle la verità della fuga? Ah! che pena mio Dio!
Ma anche una tal pena, a poco a poco, cedette alla stanchezza; e mi addormentai.
....Dopo non forse più di mezzora mi risvegliò la voce del camieriere, il quale mi annunziava la visita di un ignoto.
Benchè desto di soprassalto, io mi sentivo nel sangue il breve ristoro e nello spirito quella leggerezza che si ha dopo il riposo e prima di riacquistare la piena coscienza dei propri mali. Accolsi quasi lietamente il visitatore. Egli, il signore ignoto al cameriere, era il cavalier Fulgosi; e io pensai, lì per lì, che venisse per riparare con i complimenti e le scuse al caso topico della mattina. Ma tutta la sua persona, cedendo a strane mosse, rivelò un turbamento nuovo e più grande. Volgeva il capo a destra e a sinistra, come una galana, per accertarsi che potevo udirlo io solo; quindi avanzando come le gambe lo reggessero a fatica esclamò con quanta efficacia d’espressione può attingere un afono: — Ha scritto!...
Moser — compresi subito — aveva scritto a lui; a lui che così pallido dava immagine di un morto con la barbetta e i baffetti tinti. Cadde a sedere e:
— Ha scritto.... Son compromesso!
Quel terrore senza ragione e, più, l’amarezza che egli manifestava d’essere sacrificato senza voglia, indegnamente, mi fecero gustare un po’ d’indugio a dimostrargli che avevo compreso.
— Ha scritto... Chi?
— Lui! — E si guardò attorno balbettando:
— Ci Emme.
— Claudio Moser? — feci io a voce alta.
Il gentleman tenne per strombazzato a tutto l’albergo il suo pericoloso segreto; s’immaginò l’albergo circondato dalla polizia; e alzati gli occhi al Cielo e aperte le braccia al fato, significò che tutto egli aveva perduto benchè avesse fatto il possibile per non perder nulla.
— Moser ha scritto a lei?
Annuì col capo in silenzio; trasse dal portafoglio e mi porse una lettera. Scriveva da Genova. Al cavaliere, quale fidato amico, Moser accennava che dolorose circostanze l’avevano indotto ad allontanarsi da Milano e lo pregava di cercare di me. Mi troverebbe dove gli direbbe Guido: io, con falso indirizzo, l’informerei nel caso gli convenisse imbarcarsi....
— Perchè scrivere proprio a me, che ho famiglia? — susurrava, nel mentre che io leggevo, il cavaliere. — Compatisco...., compiango....; ma per riguardo alla mia posizione, nella mia qualità di ex-ufficiale dello Stato...., non avrebbe dovuto.... mettermi a rischio.... di comparire suo.... complice! Che accadrà...? se si scopre che io?...
«Scappi anche lei in America», ebbi voglia di rispondere. Senonchè l’ometto poteva essermi utile; e gli tolsi la paura di corpo.
— Stia tranquillo! Moser ha perduto la, testa. Non ha mai avuto e non avrà mai conti da pareggiare con la Giustizia.
— Davvero? Proprio? Oh come ne godo!
Avevo ridato la vita al morto!
— Se lo dice lei, dottore, non ci può esser dubbio!
E il più bell’indizio del miracolo da me compiuto fu che il cavaliere estrasse il fazzoletti e si spolverò le scarpe; quindi ricorse al noto taschino che teneva in serbo il famoso astuccio con lo specchietto! e il pettinino dei baffi.
— Ne godo, da amico! Non dubitavo neppur io, in fondo.... Mi pareva impossibile che quel bravo ingegnere!... Solo, lei comprende, era legittimo, umano il timore che io, così impreparato al servizio, piccolo servizio impostomi dall’amicizia, io, dico, potessi rimettere del mio decoro....: l’onore.... l’onore avant tout
— Via! — feci, non concedendogli per buone quelle scuse — : da un uomo di cuore quale è lei, un uomo d’onore e in disgrazia quale è Moser deve sperare qualche cosa dì più che parole!...
Con lo specchietto a mezz’aria Fulgosi non dissimulò di sentir il rimprovero e disse sinceramente e umilmente;
— Giacchè lei m’assicura...., dica tutto quello che posso fare e lo farò volentieri.
Così dicendo pareva un altro uomo; diveniva simpatico.
— Ad avvertire Moser che non corre alcun pericolo e che deve ritornare, penso io. Lei e Guido pensino a Eugenia. Anzi: perchè non lei solo, subito?
— Io? Ma certo! Vuol telegrafare? Corro subito! — esclamò l’ometto scattando in piedi. — Ho la carrozza!
— A telegrafare penso io. Lei.... va a Valdigorgo! Meglio di ogni altro lei può tranquillare la povera Eugenia, e Ortensia. La visita di un amico cordiale in questi casi è un gran benefizio. Lei dirà che mi ha visto tranquillo e contento; che io stesso l’ho pregato di recar lassù la buona novella: gli affari del nostro amico sono accomodati.
— Ci vado! — Riposto al suo luogo l’astuccio dello specchietto e del pettinino, Fulgosi portò la mano al cuore quasi per un giuramento o per un voto. — Ci vado davvero! Coute que coute.
Tosto però l’entusiasmo sembrò cadergli nella dimanda:
— Ma arriverò in tempo per il treno delle diciotto e venti?
Arriverebbe in tempo, affrettando il fiacre, anche ad avvisare la sua signora, che non dubitasse di un dramma o non soffrisse di gelosia se non lo vedeva casa all’ora del desinare.
— Vado! — ripetè; non senza aggiungere:
— E la ringrazio, dottore, d’avermi dato occasione a dimostrare la mia sensibilità per quelle gentili signore, a torto provate dalla sventura!
Mosse rapido fino alla porta. Ma ivi s’arrestò; si voltò indietro, come trattenuto da un ostacolo impensato, insormontabile.
— E desinare? Dove desino?
— Nel vagone restaurant!
— Parbleu! — L idea gli irradiò il voltò. Desinare in un vagone restaurant nobilitava vieppiù il suo sacrificio.... E partì.
XIV.
Per parte sua, Guido Learchi nell’apprendere da me che era imminente l’arrivo di Moser si mise a ballare con poca dottorale dignità. Tutte le bugie inventate faticosamente, per quietare Marcella intorno l’assenza del padre, gli disparvero dalla faccia come le nubi, che restano di un temporale, al soffiare d’una brezza rasserenante; e la timorosa Marcella, a quel ritorno di letizia, si accertò che un gran malanno era accaduto e rimediato. Con insistenza non tediosa m’interrogava, mentre dalle sue braccia il bambino mi guardava con la stessa dolcezza degli occhi materni. Non mi schermii abbastanza bene; ella si persuase che suo padre mi doveva molto; e forse fin d’allora concepì la prima idea del tiro che mi giocò poi.
Quello stesso giorno, tornato all’albergo per attendervi Claudio, pensavo che dovrei riprendere subito la via dell’esilio, ove cercar maggior guadagno che per il passato, e partirei forse senza rivedere Ortensia, quand’ecco mi sovvenne di certe parole udite dal Biondo, laggiù, allorchè mi preparavo a dargli il gran colpo. A quel ricordo s’accompagnò un’idea curiosa, ridicola dapprima, quindi sempre meno strana sempre più opportuna e lusinghiera. M’aveva detto il Biondo che a Molinella era richiesto un altro medico.... Perchè no? Io ero certo che sarei bene accetto al paese e a quell’amministrazione comunale. Il dottor Sivori ridursi medico in risaia! — rimbrottava in me l’orgoglio. — Per guadagnar più che per il passato! — ghignava l’interesse. — Fine degna di un filosofo! — notava la coscienza a cui non sfuggiva la nuova contraddizione.
Infatti la mia vecchia casa, che adesso mi pareva di amare più di quel che l’avessi amata mai, poteva scusarmi del ricercare un magro stipendio là dove non possedevo più quasi nulla e di dove ero partito coll’indefinibile proposito di rifarmi, lontano, una fortuna; poteva scusarmi sin la filosofia, che consiglia di abbandonare ogni ambizione e d’essere contento del poco; ma io non speravo più nulla del mio amore. A che restare in Italia? Non solo: la minaccia di Roveni non mi intimoriva a patto che io andassi lontano da Ortensia.
Tuttavia accolsi con fretta quell’idea stramba. Scrissi subito al sindaco di Molinella proponendogli l’opera mia.... Sì, una contraddizione! Ma pensate: i miei affetti più forti eran qui, nella terra delle memorie e dei rimorsi; qui in patria avevo ripreso a vivere col proposito di umiliarmi in una attività non più inutile; qui avevo conosciuto la gioia, prima ignota, del sacrificio; qui mi tornerebbe cara la solitudine per amare e soffrire; qui un giorno Ortensia mi rivedrebbe lieto del suo perdono.
Ecco tutto ciò che desideravo. Non troppo, è vero? E bastava perchè all’antico pessimista sorridesse, ora, la vita!
La speranza però non mi rifioriva in cuore senza spine. Di quella più acuta mi fece sentire le punture l’amico Fulgosi; il cui ritorno precedette di poco quello di Moser.
Più di una volta a guardarlo bene nella faccetta sbiadita e nella personcina arida, io, dentro di me, avevo paragonato il cavaliere a un limone spremuto; ma nessuno, che si sforzasse a spremere qualche goccia da una buccia di limone, faticò mai più di quanto faticassi io a spremere dal cavaliere ricordi che non fossero alla sola superficie della sua memoria quando giunse da Valdigorgo. Cominciò la relazione dicendo:
— Sempre loro, sempre uguali, quelle care signore; così gentili! così buone! Si figuri che accoglienza mi hanno fatta! Quanti, complimenti! Troppi in confronto al mio merito. Ma ho avuto il piacere di vederle sorridere, per qualche barzelletta. Son proprio felice di aver fatta questa visitina! In viaggio poi me la son passata benissimo. Buon menu al restaurant.... A Novara è salita nel mio vagone una signora.... ehm!...
L’interruppi: — Mi parli di Eugenia; mi dica come l’ha trovata....
— Abbastanza bene, poverina! Davvero, credevo di trovarla peggio! È inutile dire che i ringraziamenti per lei, per il suo telegramma, per tutte le sue premure, sono stati infiniti, come infiniti gli elogi, ben giusti!, a tutte le qualità di mente e di animo dell’amico Sivori....
Ripetei impaziente: — Mi parli delle signore, non d’altro! Che impressione ha ricevuto di Ortensia?
A questa domanda il cavaliere lentamente spalancò le braccia ed elevò gli occhi con mossa così tragica che mi spaventò.
— Che cos’è stato? Mi dica!; mi dica tutto!...
— Vuol che le dica tutto, tutto in due parole?
— Sì!
— Ortensia.... è troppo bella!
L’avrei accoppato! Egli continuò scioccamente: — Ah se io fossi mio figlio.... quando sarà capitano!
— Ma perchè «troppo bella?»
— Perchè una creatura simile non dovrebbe soffrire! È un’ingiustizia esporre tanto charme alle traversie della vita! Questa almeno è la mia opinione.
— Dunque Ortensia le è parsa molto deperita? È eccitata?
— Infatti.... si è adirata anche con me!... Per colpa mia, però; ne ho fatta una grossa e me ne confesso umilmente.
Era il suo destino.
— Racconti tutto! andiamo!
Sospirò:
— Io ignoravo che tra Ortensia e Anna Melvi ci fossero state divergenze....
— Ma eran momenti quelli da rammentar la Melvi?
— Non mi mortifichi, illustre amico!
Il pover’uomo aveva tanta paura di pericolare!
— .... Che dovevo dire per distrar le signore? I progressi di Anna nel canto potevano, in qualche modo, prestare argomento a discorrere....
— Ebbene?
— Questa è la premessa; la pregiudiziale. Io non sapevo....
— Ho capito. Eppoi?
— Quando sono stato per partire, Ortensia mi ha ringraziato con effusione; mi ha commosso.... Quasi che alla famiglia Moser non resti altro amico che me! Come era mio dovere, ho protestato: «La famiglia Moser, signorina, ha un amico al cui confrontò io debbo scomparire: il dottor Sivori». E la signorina....
— Avanti!
— ....È sembrata quasi offesa. S’è adirata e mi ha detto: «Lei dovrebbe sapere che Sivori non è un amico; è come uno della nostra famiglia! Lo dica, lo dica alla Melvi che per me Sivori è un fratello. Ha capito? Un fratello! Glielo dica!»
Meno male! borbottai. Ma al compiacimento in me sottentrò timore subito dopo.
— Faccia la mio modo, cavaliere. Con Anna, con Roveni, non parli mai più nè di me nè dei Moser. Sarà meglio per tutti. Le vipere sono sempre pericolose.
Egli si ritrasse e mi guardò sbigottito, quasi a sentirsi mordere; poi inchinandosi:
— Mi rimetto al suo consiglio!
.. ..L’ambasciata che Ortensia mandava ad Anna non pareva una risposta a qualche malignità?
Era possibile che Ortensia non fosse del tutto ignara della calunnia. A Valdigorgo, nella mia visita recente, non avevo scorto in lei qualche segno come di avversione per me; quale uno sforzo a vincere un sentimento ostile? Si era rialzata così pallida dal seno della madre! E quella sua eccitazione non seguiva forse a un’intima lotta, più fiera di quante aveva sostenute e sosteneva per la sventura del padre? Aveva chiesto il mio consiglio forse per trovare nuove ragioni di confidare nella purità della mia amicizia; per accertarsi che se non l’esortavo a cedere a Roveni io, per me, non avevo da temere Roveni in nulla....
Ancora la fantasia mi tormentava. Era un sospetto assurdo! Ma se questo era assurdo, non mi pareva più tale il sospetto del dì innanzi.
A Roveni, per togliermi l’affetto di Ortensia, bisognava e bastava gettare nell’animo di lei un’ombra sinistra di sua madre e di me. Avevo creduto inverosimile che Ortensia potesse mai dubitare di sua madre. Ma la serena anima di un tempo, caduta per colpa mia in una tristezza d’amore, era stata sconvolta da una subitanea e turbinosa esperienza di male. Sua madre stessa me l’aveva detto: — Ortensia non aveva più fiducia in nessuno, in nulla. — Ed io avevo visto Ortensia in preda all’ossessione di questo pensiero: che la vita è urna lotta contro il male.
In tal condizione ella era predisposta ad accogliere per vera qualsiasi interpretazione più obliqua di due fatti che male si spiegavano altrimenti. Perchè amandola io l’avevo abbandonata?
E perchè io sacrificavo quanto possedevo a pro dell’amico, allorchè tutti gli altri amici e sin i congiunti disertavano o tradivano? Per pura amicizia?
Se a queste dimande arrivasse in risposta la calunnia di Roveni e di Anna Melvi, la colpa attribuita ad Eugenia e a me non poteva essere assurda neanche per Ortensia....
Così mi tormentavo!
XV.
E seguì il ritorno di Moser, l’incontro atteso da me e da lui con desiderio protratto ma con aspettazione timida. In lui, insieme col pudore dei suoi errori è della sua disgrazia, era il torto di non avermi confessato in quali condizioni si trovava da tempo: troppe cose io gli avevo celate e dovrei celargli ancora!; nè egli saprebbe mai quanto male io avevo fatto a lui, che aveva il cuore pieno di gratitudine per me.
«Cuor dei cuori» posso giustamente ripetere per Claudio Moser. A rammentare quel periodo angoscioso della sua vita provo un sentimento profondo e misto di tenerezza, di pietà, di ammirazione.
A che prezzo aveva scontato i suoi difetti!, primi la soverchia fiducia in sè stesso e l’ostinazione. Era ostinato. Ma nel periodo di fortuna favorevole questo difetto era pur stato la virtù per cui Moser aveva potuto dare incremento a una industria, ed egli era potuto divenire uno degli ingegneri più noti dell’Italia superiore. Al contrario e più gli aveva nociuto una virtù vera: la generosità. Valdigorgo, prima che egli aprisse la fabbrica, aveva la miseria, dei piccoli paesi che le ferrovie correnti tra città e città lasciarono in disparte; e la fabbrica Moser ridiede la vita a Valdigorgo. Se non che quei primi entusiasmi di pubblica riconoscenza appagarono il benefattore, e quanti ne approfittarono! Quanti si rimpannucciarono a sue spese!
E mentre s’appagava d’essere benvoluto, egli veniva trascinato nella lotta della concorrenza. Che vita la sua in quegli anni! Audacie non impedite da affannose riflessioni; coraggio lungamente meditato ad uscir dalle incertezze; tentativi ora prudenti ora arditi, eppur vani; sconfitte saviamiente dissimulate con rare vittorie. Poi le angustie dei pagamenti; le ripulse di aiuti esosi; la resistenza inconcussa a ogni slealtà; il disdegno dei birbanti fortunati; gli sforzi inani; le lusinghe delle speranze i ritegni dell’esperienza; la lenta struggente apprensione di un’inevitabile rovina. Ma nessuno avrebbe immaginato tutto ciò quando, nelle ore di tregua, Claudio attingeva da sè stesso tanta giocondità e serbava tanta serenità nell’animo; nessuno, neppur di noi che lo conoscevamo intimamente, avrebbe indovinato così intensa fatica del suo cervello e dei suoi nervi quando lo vedevamo gioire alle semplici cune del giardino, all’umile distrazione di un giuoco alle bocce. E quel suo sorriso? Era il sorriso di un gran cuore, ma consapevole; d’uomo che guarda alle cose e agli uomini con bontà intelligente.
Avvenuta la catastrofe di tutte le speranze e le illusioni, la rovina di una fortuna composta; con tanti sudori, egli patì strazi di martire.
Aveva voluto il bene dei suoi cari e anche negli occhi de’ suoi cari temeva scorgere il rimprovero; aveva creduto meritarsi la gratitudine e la stima degli amici e gli amici (ben lo sapeva Ortensia!) lo compassionavano chiamandolo «tre volte buono», o lo cauzionavano: «che bravomo!»; aveva accarezzato il segreto orgoglio di trarre dalla miseria gran numero di operai, e gli operai lo maledicevano o dicevano: «gli sta bene!». Egli conobbe gli affronti indegni e gli scherni mal celati da conforti ambigui; provò l’amarezza d’impensati inganni; le punture velenose della mala fede; le umiliazioni dinanzi agli umili di ieri e dinanzi alla possente viltà dell’oggi; le insidie e la certezza del tradimento. Tutto questo Moser conobbe e provò, ma non perdè il suo nobile sorriso. Avvilito, affranto, fu visto sorridere e ristorarsi a una parola buona di un buono, riconfortarsi come ricuperasse se stesso alla stretta di mano d’un galantuomo. Io lo vidi sorridere così, quando egli aveva lo strazio nel cuore, la voce tremula e il tremito nelle labbra per la passione e per lo sforzo di trattenere le lagrime....
Sorrise staccandosi dalle mie braccia e mormorando con espressione d’immenso affetto per me: — Vecchio mio! — Ma egli, egli era tanto invecchiato!: incanutito; quasi del tutto aveva bianchi anche i baffi; la barba, non rasa da più giorni, rendeva più smorte le guance flosce.
Dubitosi a vicenda, di non contenere abbastanza la nostra commozione, cercavamo una frase per cui attaccar discorso, e tacevamo. Alla fine io dissi con aria di chi perdonando un torto ricevuto vuol passare ad altro:
— Ebbene?
E allora lui con l’aria di chi domanda schiarimento di una colpa, benché già perdonata:
— Come hai fatto, tu, a trovar quella somma?
La bugia era pronta da un pezzo:
— Un prestito....; un mutuo col Biondo.
Claudio si mise a sedere, abbassò gli occhi. Quanto più grande sarebbe stato il suo dolore se gli avessi detta la verità: che avevo preferito vendere il podere!
— Hai ipotecato il fondo? a che frutto?
— Al cinque.
— E hai pensato che io non avrò più di quindici anni di lavoro utile davanti a me? I frutti ti saranno pagati puntualmente ogni anno; ma il capitale? Farò in tempo a renderlo?
— Sì — risposi scuotendo le spalle.
— Non mi sembra una gran somma!
A poco a poco, per i miei modi bruschi, egli si rianimava; nè tacqui il rimprovero:
— Però debbo dirti che ci saremmo risparmiate molte pene, tutti, se mi avessi avvertito a tempo....
— Hai ragione — mormorò ancora a capo basso. Ma d’un tratto balzò in piedi (io avevo ottenuto l’intento!): — No, hai torto! Che gli altri mi giudicassero, male, mi dessero dell’imbecille, pazienza! Ma tu, no! Non volevo!
Ribattei: — Sapendo che io ero qua, potevi almeno avvertirmi che non ti credevi sicuro.
— Perchè tu mi persuadessi a rimanere, a lasciarmi arrestare? Ti giuro, perdio! che non mi sarei lasciato prendere vivo, mai! La mia vita era legata a un filo; intendi? La mia difesa, la difesa della mia innocenza non mi avrebbe salvato. Dunque? Sono un galantuomo! — aggiunse con un grido di rabbia.
La commozione lo stringeva alla gola; e si mise a percorrere la camera su e giù: il suo sguardo pareva misurare un abisso.
Io non trovavo più alcun rimprovero che potesse impedire la crisi. Finchè egli ridendo come non l’avevo mai sentito ridere, esclamò:
— Il costruttore Moser dovrà assistere alla sua completa distruzione!
— Sì — dissi io freddamente — : ma per ricostruire dopo. È necessario, mi pare!
Altro silenzio; altri passi concitati. Eppoi affrontandomi:
— Voglio sapere una cosa che tu devi sapere!
— Quale?
— Il perchè del voltafaccia di quell’assassino!
Continuò violento:
— Roveni, Roveni arrivar a questo punto? Perchè? Che cosa gli ho fatto io di male? Era appena uscito dal Politecnico; me lo raccomandarono....; aveva patita la fame; trovargli subito un buon impiego non era facile. Lo presi con me, lo trattai come un figliolo. No? E perchè dunque questa parte di Giuda? C’è un mistero! Non ha tradito, lui, per trenta denari: ci ha rimesso duemila lire, a tradirmi! Perchè? Tu ne sai qualche cosa! Parla una volta!
Mentire ancora e del tutto era inutile, oramai.
Risposi: — La spiegazione è facile. Immagina che Ortensia da qualche anno non sia più una bambina; immagina che Roveni ne fosse innamorato....
Claudio spalancò gli occhi come alla cosa più inverosimile di questo mondo; ne parve atterrito.
— Immagina- — proseguii — che Ortensia abbia risposto un bel no, uno dei tuoi no, a tutte le speranze, a tutte le richieste, a tutte le insistenze di Roveni, e che Roveni, dopo aver tentata invano la via buona, abbia mutato strada.... per piegarla....
Claudio intravide in confuso un eroismo nella fierezza e nella fermezza della figliola....
— Ortensia! — fece a voce strozzata, e coprendosi il volto con le mani scoppiò in singhiozzi.
Fu uno sfogo non breve. Ma si riscosse con l’impeto dell’antica energia, sorrise, mi prese e strinse forte la mano. Riapparve il Moser di una volta mentre diceva:
— Hai ragione, Carlo! Per Ortensia; per la mia famiglia; per te ho ancora molto da fare! Lavoreremo!