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Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l’impenetrabile vôlta d’aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.

Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un’anima fluiva per tutto e tutto era un’anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n’ero privo: il mio cuore n’era privo! Pativo in me la condanna di un’esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.

— Il piacere della convalescenza! — dissi a un tratto. — Ecco un piacere che non proverò più!

Eugenia fissò ne’ miei occhi il suo sguardo appena percettibile.

Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l’ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:

— Io ho da chiedervi perdono, Sivori.

— Perchè?

— Dubito che le ragazze e Mino v’importunino.... Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia....; e io commisi l’errore....

L’interruppi.

— Credete forse che io resterei quassù, da, voi,