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ciò avrei dovuto avvertire un risveglio nella mia volontà. In me c’era già stato qualche mutamento notevole. Non seguirebbe questi mutamenti, sebbene lievi, una riscossa dell’anima? Come in un barlume riflettei su le mie impressioni e le mie azioni dei giorni innanzi.

Già Mino era riuscito a farmi guardar il mondo attraverso un vetro color rosa e a farmi dire con lui che così il mondo era più bello; mi aveva costretto a inventare e a narrargli una favola, che ora ricambiava con: «Castelli in aria» e con le ova della pecorina. Già la timida Marcella mi aveva veduto salir più spesso a trovar la madre e a sorprender lei nell’ansietà delle faccende domestiche, la cui importanza ironicamente esageravo. Ortensia poi aveva ripresa con me tutta la confidenza d’un tempo, di quando era la mia «piccola amica». Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò! Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino; volli vedere che facevano gli altri.... Mi affacciai alla porta della sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un waltzer sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d’intorno. Quand’ecco tonò una voce gioconda.

Era l’ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.

— Arrivo! Pazienza! — egli rispose alle voci che lo chiamavano.

Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a prender ordini. Di sulla porta io l’osservavo.

L’ingegner Roveni quando parlava d’affari era