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Ribattè Roveni, col tono di prima:

— Eh! per la malignità lei non ha niente da temere! — Al colpo io sorrisi; Anna mi vide; si morse le labbra, e mentre fissava l’ingegnere con quei suoi occhi di vipera, non nascose lo sforzo a trovare una risposta adeguata. La trovò e colpì anche me.

— C’è sempre da temere quando si hanno amici e nemici in una posizione equivoca.

Il nemico ero io!

— Da una posizione equivoca — dissi — si può sempre uscire per la via diritta, ma non si sa dove si possa finire con una condotta equivoca.

— Uhm! Una distinzione molto sottile — ribattè Anna astutamente. — Non la capisco. E tu, Ortensia?

Ortensia rispose:

— Io non me ne intendo di queste cose.

E vedendo che io approvavo e sembravo incitarla aggiunse:

— Se non capisci tu, ho da capir io?

— Brava! — fece Roveni, non poggiando troppo sulla lode e andandosene.

— Andiamo! Andiamo. È ora! Al campo di tiro, signore e signori! Al Poligono, per la gara! — ripeteva il segretario a destra e a sinistra.

Esclamò Anna:

— Dottor Minguzzi, noi sapplamo dove andiamo a finire: al Poligono!; e senza equivoci, noi!

L’altro tergiversava, ma Anna se lo prese a braccetto e s’avviò, dopo avermi avvolto in Cina occhiata di sprezzo.

Roveni intanto mi attendeva, a capo della scala. Lasciò che Le Moser ci precedessero, per dirmi: