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Durante il fastidio dell’enfatico sproloquio, Ortensia cercava con insistenza il mio sguardo. Mi sorrideva, e quel lieve sorriso senza circospezione, senza sospetto, nell’innocente abbandono di un bene che nulla più può contenere, mi angustiava di consolazione e di pena. Ritraevo gli occhi da lei provando l’impressione che quello sguardo mi rinnovasse l’anima; e pur conservando nella vista mentale l’amorosa immagine, non resistevo alla tentazione di tornar a guardarla e tremavo all’istantaneo riscontro dei nostri occhi. Là fra le altre essa era sovrana non solo per la bellezza, ma perchè il suo aspetto aveva perduto ai miei occhi ogni apparenza d’adolescente ignara, e io la vedevo in tutto lo splendore della giovine innamorata e orgogliosa dell’amore che le fioriva in petto. Ora temevo che gli altri ci sorprendessero; ora, in un impeto di insania, avrei voluto che tutti scorgessero come essa mi amava.

Sola cosa buona che facesse il cavaliere era quella che con la sua personcina elevata sul palco impediva a Roveni di scorger Ortensia.

E rivedo Roveni che, impassibile, seduto accanto a Moser, s’estendeva i folti e arditi baffi, o incrociava le braccia puntando lo sguardo al soffitto. Anna Melvi sorrideva, all’oratore; avventava occhiate a me; guatava Ortensia.

Eppoi, dopo lung’ora, la catastrofe. A vendetta di Learchi e degli altri capoccia clericali, ch’eran rimasti assenti, il cavaliere improvvisava un inno al lavoro, e col «sacrosanto grido di: pane e lavoro!» gettava l’offa ai socialisti. Più di una volta i suoi pugni eloquenti non avevan per poco rovesciato il tavolino; ma quando egli volle mitigare l’audacia di quel suo favore al socialismo