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D’improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l’Angelus vibrò nell’aria.
Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall’immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva, veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all’immagine dell’operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva! e fresca.... Infelici i poveri!
Ma forse la felicità era in quelle ville di contro a noi?
— Qual è la villa De Mol? — chiesi. Me l’accennarono.
— Perchè? — mi domandò Ortensia, quasi indovinasse il mio pensiero.
Non risposi. Sapevo che là era morta anni addietro una giovinetta.... Come dovè esser bello a vederlo, di là dove eravamo, il corteo funebre!
Morì etica. Bella, dicevano, anche morta. Ricchissima, la portarono giù di giorno, in una carrozza nera; e una fila lunga lunga di bambine e ragazze vestite di bianco l’accompagnava; e gli alberi del viale, per cui ella aveva corso fanciulletta, tagliavano a tratti la vista del corteo. O la felicità era d’intorno a me?
Che cosa dicevano i miei compagni? perchè ridevano?